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Scuola di golpe: è nato in Serbia l’oscuro progetto Guaidò
Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».Al contempo il Canada, numerose nazioni europee, Israele e il blocco dei governi latinoamericani di destra, conosciuti come il Gruppo di Lima, hanno riconosciuto Guaidó come il leader legittimo del Venezuela. Mentre Guaidó sembra essersi materializzato dal nulla, è in realtà il prodotto di oltre un decennio di coltivazione attenta da parte delle “fabbriche di cambio di regime” del governo degli Stati Uniti. Accanto a un gruppo di attivisti studenteschi di destra, Guaidó è stato coltivato per minare il governo socialista, destabilizzare il paese e un giorno prendere il potere. Sebbene sia stato una figura minore nella politica venezuelana, ha passato anni a dimostrare la sua “dignità” nelle sale del potere di Washington. «Juan Guaidó è un personaggio creato per questa circostanza», ha detto a “Grayzone” Marco Teruggi, sociologo argentino e tra i principali cronisti della politica venezuelana. «È la logica di laboratorio: Guaidó è come una miscela di diversi elementi che creano un personaggio che, in tutta onestà, oscilla tra il risibile e il preoccupante».Diego Sequera, giornalista e scrittore venezuelano per l’agenzia investigativa “Mision Verdad”, concorda: «Guaidó è più popolare fuori dal Venezuela che dentro, specialmente nelle élite Ivy League e nei circoli di Washington. È un personaggio conosciuto lì, è prevedibilmente di destra ed è considerato fedele al programma». Mentre Guaidó è oggi venduto come il volto della restaurazione democratica, ha trascorso la sua carriera nella fazione più violenta del partito di opposizione più radicale del Venezuela, posizionandosi in prima linea in una campagna di destabilizzazione dopo l’altra. Il suo partito è stato ampiamente screditato in Venezuela, ed è ritenuto in parte responsabile della frammentazione di un’opposizione fortemente indebolita. «Questi leader radicali non hanno più del 20% nei sondaggi d’opinione», scrive Luis Vicente León, il principale sondaggista del Venezuela. Secondo Leon, il partito di Guaidó rimane isolato perché la maggioranza della popolazione non vuole la guerra: «Quello che vogliono è una soluzione».Ma questo è precisamente il motivo per cui Guaidó è stato scelto da Washington: non è previsto che guidi il Venezuela verso la democrazia, ma che faccia collassare un paese che negli ultimi due decenni è stato un baluardo di resistenza all’egemonia degli Stati Uniti. La sua improbabile ascesa segna il culmine di un progetto durato due decenni per distruggere un solido esperimento socialista. Dall’elezione del 1998 di Hugo Chavez, gli Stati Uniti hanno combattuto per ripristinare il controllo sul Venezuela e le sue vaste riserve petrolifere. I programmi socialisti di Chavez hanno in parte ridistribuito la ricchezza del paese e aiutato a sollevare milioni dalla povertà, ma gli hanno anche dipinto un bersaglio sulle spalle. Nel 2002, l’opposizione di destra venezuelana lo depose con un colpo di Stato che aveva il sostegno e il riconoscimento degli Stati Uniti, ma l’esercito ripristinò la sua presidenza dopo una mobilitazione popolare di massa. Durante le amministrazioni dei presidenti degli Stati Uniti George W. Bush e Barack Obama, Chavez è sopravvissuto a numerosi tentativi di omicidio, prima di soccombere al cancro nel 2013. Il suo successore, Nicolás Maduro, è sopravvissuto a tre attentati.L’amministrazione Trump ha immediatamente elevato il Venezuela al vertice della lista dei cambi di regime di Washington, dandogli il marchio di leader di una “troika della tirannia”. L’anno scorso, la squadra di sicurezza nazionale di Trump ha cercato di reclutare membri dell’esercito venezuelano per istaurare una giunta militare, ma questo sforzo è fallito. Secondo il governo venezuelano, gli Stati Uniti erano anche coinvolti in una trama chiamata “Operazione Costituzione” per catturare Maduro nel palazzo presidenziale di Miraflores, e un’altra chiamata “Operazione Armageddon” per assassinarlo a una parata militare nel luglio 2017. Poco più di un anno dopo, i leader dell’opposizione esiliata hanno cercato di uccidere Maduro, usando droni-bomba durante una parata militare a Caracas. Più di un decennio prima di questi intrighi, un gruppo di studenti dell’opposizione di destra fu selezionato e curato da un’accademia di formazione d’élite per il cambio di regimi, finanziata dagli Stati Uniti per rovesciare il governo venezuelano e ripristinare l’ordine neoliberista.Il 5 ottobre 2005, con la popolarità di Chavez al suo apice e il suo governo che pianifica vasti programmi socialisti, cinque “leader studenteschi” venezuelani arrivarono a Belgrado, in Serbia, per iniziare l’addestramento per un’insurrezione. Gli studenti erano arrivati dal Venezuela per gentile concessione del Centro per le azioni e strategie nonviolente applicate, o Canvas. Questo gruppo è finanziato in gran parte attraverso il National Endowment for Democracy, un cut-out della Cia che funziona come il braccio principale del governo degli Stati Uniti per promuovere i cambi di regime, e propaggini come l’International Republican Institute e il National Democratic Institute for International Affairs. Secondo le e-mail interne trapelate da Stratfor, una società di intelligence nota come “la Cia-ombra”, «Canvas potrebbe aver ricevuto finanziamenti e addestramento dalla Cia durante la lotta anti-Milosevic del 1999-2000».Canvas è uno spin-off di Otpor, un gruppo di protesta serbo fondato da Srdja Popovic nel 1998 all’Università di Belgrado. Otpor, che significa “resistenza” in serbo, è stato il gruppo studentesco che ha guadagnato fama internazionale – e la pubblicità di Hollywood – mobilitando le proteste che alla fine hanno fatto cadere Slobodan Milosevic. Questa piccola cellula di specialisti del cambio di regime operava secondo le teorie del defunto Gene Sharp, “il Von Clausewitz della lotta non violenta”. Sharp aveva lavorato con un ex analista della Defense Intelligence Agency, il colonnello Robert Helvey, per ideare le linee guida per l’utilizzo della protesta come una forma di guerra ibrida, mirata agli Stati che resistevano alla dominazione unipolare di Washington. Otpor è stato sostenuto dal National Endowment for Democracy, dall’Usaid e dall’Istituto Albert Einstein di Sharp. Sinisa Sikman, uno dei creatori di Otpor, una volta ha detto che il gruppo ha persino ricevuto finanziamenti diretti della Cia.Secondo un’e-mail trapelata dallo staff di Stratfor, dopo aver eliminato Milosevic dal potere, «i ragazzi che gestivano Otpor sono cresciuti, si sono vestiti bene e hanno progettato Canvas, o in altre parole un gruppo “export-a-revolution” che ha gettato i semi delle varie altre “rivoluzioni colorate”. Sono ancora legati ai finanziamenti degli Stati Uniti e fondamentalmente vanno in giro per il mondo cercando di rovesciare dittatori e governi autocratici (quelli che agli Usa non piacciono)». Stratfor ha rivelato che Canvas «ha rivolto la sua attenzione al Venezuela» nel 2005, dopo aver addestrato i movimenti di opposizione che hanno portato le operazioni di cambio di regime pro-Nato in tutta l’Europa orientale. Mentre monitorava il programma di formazione Canvas, Stratfor ha delineato il suo programma insurrezionalista in un linguaggio straordinariamente chiaro: «Il successo non è affatto garantito, e i movimenti studenteschi sono solo l’inizio di quello che potrebbe essere uno sforzo di anni per innescare una rivoluzione in Venezuela, ma i formatori sono le persone che si sono fatte le ossa col “Macellaio dei Balcani”. Hanno delle abilità pazzesche. Quando vedrete studenti in cinque università venezuelane tenere dimostrazioni simultanee, saprete che la formazione è finita e il vero lavoro è iniziato».Il “vero lavoro” è iniziato due anni dopo, nel 2007, quando Guaidó si è laureato presso l’Università Cattolica Andrés Bello di Caracas. Si è trasferito a Washington per iscriversi al corso di governance e gestione politica presso la George Washington University sotto la guida dell’economista venezuelano Luis Enrique Berrizbeitia, uno dei principali economisti neoliberali latinoamericani. Berrizbeitia è un ex direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, che ha trascorso oltre un decennio lavorando nel settore energetico venezuelano sotto il vecchio regime oligarchico poi estromesso da Chavez. Quell’anno, Guaidó contribuì a guidare i raduni anti-governativi dopo che il governo venezuelano rifiutò di rinnovare la licenza di “Radio Caracas Televisión” (Rctv). Questa stazione privata svolse un ruolo di primo piano nel colpo di Stato del 2002 contro Hugo Chavez. “Rctv” aiutò a mobilitare i manifestanti anti-governativi, diffondendo informazioni false che incolpavano i sostenitori del governo di atti di violenza, compiuti in realtà dai membri dell’opposizione, e censurò tutte le dichiarazioni pro-governative in occasione del colpo di Stato.Il ruolo di “Rctv” e di altre stazioni di proprietà degli oligarchi nel guidare il fallito tentativo di colpo di Stato è stato ben descritto nell’acclamato documentario “La rivoluzione non sarà trasmessa”. Nello stesso anno, gli studenti rivendicarono il merito di aver soffocato il referendum costituzionale di Chavez per “un socialismo del XXI secolo” che prometteva di «impostare il quadro legale per la riorganizzazione politica e sociale del paese, dando un potere diretto alle comunità organizzate come prerequisito per lo sviluppo di un nuovo sistema economico». Dalle proteste su “Rctv” e referendum, nacque un gruppo specializzato di attivisti del cambio di regime sostenuto dagli Stati Uniti. Si sono definiti “Generation 2007”. I formatori di Stratfor e Canvas di questa cellula hanno identificato un organizzatore chiamato Yon Goicoechea, alleato di Guaidó – quale “fattore chiave” nel soffocamento del referendum costituzionale. L’anno seguente, Goicochea fu ricompensato per i suoi sforzi con il Milton Friedman Prize for Advancing Liberty del Cato Institute, insieme a un premio di 500.000 dollari, che investì prontamente nella costruzione della sua rete politica “Prima la Libertà” (Primero Justicia).Friedman, naturalmente, era il padrino del famigerato think-tank neoliberista dei Chicago Boys che fu importato in Cile dal leader della giunta dittatoriale Augusto Pinochet per attuare politiche di radicale austerità fiscale in stile “shock-doctrine”. E il Cato Institute è il think-tank neoliberista di Washington, fondato dai fratelli Koch, due grandi donatori del partito repubblicano che sono diventati aggressivi sostenitori della destra in tutta l’America Latina. WikiLeaks ha pubblicato un’e-mail del 2007 che l’ambasciatore americano in Venezuela William Brownfield ha inviato al Dipartimento di Stato, al Consiglio di sicurezza nazionale e al Comando meridionale del Dipartimento della difesa elogiando «la Generazione del ‘07» per aver «costretto il presidente venezuelano, abituato a fissare l’agenda politica, a reagire spropositatamente». Tra i «leader emergenti» identificati da Brownfield c’erano Freddy Guevara e Yon Goicoechea. Ha applaudito quest’ultima figura come «uno dei difensori più articolati delle libertà civili». Riempiti di denaro dagli oligarchi neoliberali, i quadri radicali venezuelani hanno portato le loro tattiche Otpor nelle strade, insieme a una loro particolare versione del logo del gruppo.Nel 2009, gli attivisti giovanili di “Generation 2007” hanno messo in scena la loro dimostrazione più provocatoria, calandosi i pantaloni nelle strade e scimmiottando le “scandalose” tattiche di “guerrilla” delineate da Gene Sharp nei suoi manuali sul cambio di regime. I manifestanti si erano mobilitati contro l’arresto di un alleato di un altro gruppo giovanile, chiamato Javu. Questo gruppo di estrema destra «raccolse fondi da una varietà di fonti governative degli Stati Uniti, che gli permisero di acquisire rapida notorietà come l’ala più dura dei movimenti di opposizione», secondo il libro dell’accademico George Ciccariello-Maher, “Building the Commune”. Mentre i video della protesta non sono disponibili, molti venezuelani hanno identificato Guaidó come uno dei suoi partecipanti chiave. Sebbene l’accusa non sia confermata, è certamente plausibile; i manifestanti con le natiche nude erano membri del nucleo interno di “Generazione 2007” a cui apparteneva Guaidó e indossavano le T-shirt col loro marchio di fabbrica “Resistencia!”.Quell’anno, Guaidó si espose al pubblico in un altro modo, fondando un partito politico per catturare l’energia anti-Chavez che la sua “Generazione 2007” aveva coltivato. Il partito, chiamato “Volontà popolare”, fu guidato da Leopoldo López, un purosangue di destra educato a Princeton, pesantemente coinvolto nei programmi del National Endowment for Democracy ed eletto sindaco di un distretto di Caracas tra i più ricchi del paese. Lopez era un ritratto dell’aristocrazia venezuelana, direttamente discendente dal primo presidente del suo paese. È anche cugino di Thor Halvorssen, fondatore della Human Rights Foundation, con sede negli Stati Uniti, che funge da facciata pubblicitaria per gli attivisti anti-governativi sostenuti dagli Stati Uniti in paesi presi di mira da Washington. Sebbene gli interessi di Lopez fossero allineati perfettamente con quelli di Washington, i documenti diplomatici statunitensi pubblicati da WikiLeaks mettevano in luce le tendenze fanatiche che avrebbero portato alla marginalizzazione dal consenso popolare.Un comunicato identificava Lopez come «una figura di divisione all’interno dell’opposizione, spesso descritta come arrogante, vendicativa e assetata di potere». Altri hanno evidenziato la sua ossessione per gli scontri e il suo «approccio intransigente» come fonte di tensione con altri leader dell’opposizione, che davano priorità all’unità e alla partecipazione alle istituzioni democratiche del paese. Nel 2010 “Volontà Popolare” e i suoi sostenitori stranieri si sono mossi per sfruttare la peggiore siccità che avesse colpito il Venezuela, da decenni. La grande carenza di energia elettrica aveva colpito il paese a causa della scarsità d’acqua, necessaria per alimentare le centrali idroelettriche. La recessione economica globale e un calo dei prezzi del petrolio aggravarono la crisi, provocando il malcontento pubblico. Stratfor e Canvas – i principali consiglieri di Guaidó e dei suoi quadri anti-governativi – escogitarono un piano scandalosamente cinico per pugnalare al cuore la rivoluzione bolivariana. Il piano prevedeva un crollo del 70% del sistema elettrico del paese già nell’aprile 2010.«Questo potrebbe essere l’evento spartiacque, poiché c’è poco che Chavez possa fare per proteggere i poveri dal fallimento di quel sistema», dichiara il memorandum interno di Stratfor. «Questo avrà probabilmente l’effetto di galvanizzare i disordini pubblici in un modo che nessun gruppo di opposizione potrebbe mai sperare di generare. A quel punto, un gruppo di opposizione potrebbe servirsene per approfittare della situazione e scagliare l’opinione pubblica contro Chavez». In quel momento l’opposizione venezuelana riceveva 40-50 milioni di dollari l’anno da organizzazioni governative statunitensi come Usaid e National Endowment for Democracy, secondo un rapporto di un think-tank spagnolo, l’Istituto Frude. Aveva anche una grande ricchezza da attingere dai suoi conti, che erano per lo più al di fuori del paese. Ma lo scenario immaginato da Statfor non si realizzò, gli attivisti del partito “Volontà Popolare” e i loro alleati misero quindi da parte ogni pretesa di non violenza e si unirono in un piano radicale di destabilizzazione del paese.Nel novembre 2010, secondo le e-mail ottenute dai servizi di sicurezza venezuelani e presentate dall’ex ministro della giustizia Miguel Rodríguez Torres, Guaidó, Goicoechea e diversi altri attivisti studenteschi hanno partecipato ad un corso di formazione segreto di cinque giorni presso l’hotel Fiesta Mexicana di Città del Messico. Le sessioni sono state condotte da Otpor, i formatori del cambio regime a Belgrado appoggiati dal governo degli Stati Uniti. Secondo quanto riferito, l’incontro aveva ricevuto la benedizione di Otto Reich, un esiliato cubano fanaticamente anticastrista che lavorava nel Dipartimento di Stato di George W. Bush, e dall’ex presidente colombiano di destra Alvaro Uribe. All’hotel Fiesta Mexicana, Guaidó e i suoi compagni attivisti hanno ordito un piano per rovesciare Hugo Chavez generando il caos attraverso spasmi prolungati di violenza di strada.Tre personaggi dell’industria petrolifera – Gustavo Tovar, Eligio Cedeño e Pedro Burelli – hanno a quanto pare pagato il conto di 52.000 dollari dell’albergo. Torrar è un autoproclamato “attivista per i diritti umani” e “intellettuale”, il cui fratello minore Reynaldo Tovar Arroyo è il rappresentante in Venezuela della società petrolifera messicana privata Petroquimica del Golfo, che ha un contratto con lo Stato venezuelano. Cedeño, da parte sua, è un fuggitivo uomo d’affari venezuelano che ha chiesto asilo negli Stati Uniti, e Pedro Burelli un ex dirigente della Jp Morgan ed ex direttore della compagnia petrolifera nazionale venezuelana Petroleum of Venezuela (Pdvsa). Lasciò la Pdvsa nel 1998 mentre Hugo Chavez prendeva il potere, e faceva parte del comitato consultivo del programma di leadership in America Latina della Georgetown University. Burelli ha insistito sul fatto che le e-mail che dettagliavano la sua partecipazione erano state inventate, e ha persino assunto un investigatore privato per dimostrarlo. L’investigatore dichiarò che i registri di Google mostravano che le e-mail che si presumeva fossero sue non vennero mai trasmesse.Eppure oggi Burelli non fa mistero del suo desiderio di vedere deposto l’attuale presidente venezuelano, Nicolás Maduro, e anche di volerlo «trascinato per le strade e sodomizzato con una baionetta», come accaduto al capo libico Muhammar Gheddafi, così trattato dai miliziani sostenuti dalla Nato. La presunta trama di Fiesta Mexicana è confluita in un altro piano di destabilizzazione, rivelato in una serie di documenti mostrati dal governo venezuelano. Nel maggio 2014, Caracas ha rilasciato documenti che descrivono un complotto di omicidio contro il presidente Nicolás Maduro. Le fughe di notizie hanno identificato Maria Corina Machado, con sede a Miami, come leader del piano. Estremista con un debole per la retorica estrema, Machado ha funto da collegamento internazionale per l’opposizione, incontrando addirittura il presidente George W. Bush nel 2005. «Penso che sia tempo di raccogliere gli sforzi; fai le chiamate necessarie e ottieni finanziamenti per annientare Maduro e il resto andrà in pezzi», ha scritto Maria Corina Machado in una e-mail all’ex diplomatico venezuelano Diego Arria nel 2014.In un’altra email, la Machado sosteneva che la trama violenta aveva la benedizione dell’ambasciatore statunitense in Colombia, Kevin Whitaker. «Ho già deciso, e questa lotta continuerà fino a quando questo regime non sarà rovesciato e consegneremo il risultato ai nostri amici nel mondo. Se sono andata a San Cristobal e mi sono esposta all’Oas, non ho paura di nulla. Kevin Whitaker ha già riconfermato il suo sostegno e ha sottolineato i nuovi passaggi. Abbiamo un libretto degli assegni più forte di quello del regime per rompere l’anello di sicurezza internazionale». Nel febbraio 2014, i manifestanti studenteschi che agivano come truppe d’assalto per l’oligarchia in esilio eressero barricate in tutto il paese, trasformando quartieri controllati dall’opposizione in fortezze violente, note come “guarimbas”. Mentre i media internazionali ritraevano lo sconvolgimento come una protesta spontanea contro la regola del pugno di ferro di Maduro, ci sono molte prove che fosse “Volontà Popolare” ad orchestrare lo spettacolo.«I manifestanti delle università non indossavano le loro magliette, tutti indossavano magliette di “Volontà Popolare” o “Justice First”», ha detto un partecipante alla “guarimba”, all’epoca. «Potrebbero essere stati gruppi di studenti, ma i consigli studenteschi sono affiliati ai partiti politici di opposizione e sono responsabili nei loro confronti». Alla domanda su chi fossero i capobanda, il partecipante alla “guarimba” ha dichiarato: «Beh, ad essere onesti, quei ragazzi ora sono in Parlamento». Circa 43 sono stati i morti durante le “guarimbas” del 2014. Le stesse violenze eruttarono di nuovo tre anni dopo, causando grandi distruzioni di infrastrutture pubbliche, l’assassinio di sostenitori del governo e la morte di 126 persone, molte delle quali erano chaviste. In diversi casi, i sostenitori del governo sono stati bruciati vivi da bande armate. Guaidó è stato direttamente coinvolto nelle “guarimbas” del 2014. Infatti, ha twittato un video in cui si mostrava vestito con un elmetto e una maschera antigas, circondato da elementi mascherati e armati che avevano bloccato un’autostrada e che si stavano impegnando in uno scontro violento con la polizia. Alludendo alla sua partecipazione alla “Generazione 2007”, proclamava: «Ricordo che nel 2007, abbiamo proclamato, “Studenti!”. Ora gridiamo: “Resistenza! Resistenza”». Guaidó ha poi cancellato il tweet, dimostrando un’apparente preoccupazione per la sua immagine di paladino della democrazia.Il 12 febbraio 2014, durante il culmine delle “guarimbas” di quell’anno, Guaidó si è unito a Lopez sul palco di una manifestazione di “Volontà Popolare” e “Prima la Giustizia”. Con un lungo discorso contro il governo, Lopez esortò la folla a marciare verso l’ufficio del procuratore generale Luisa Ortega Diaz. Poco dopo, l’ufficio di Diaz venne attaccato da bande armate che tentarono di bruciarlo. La Diaz ha definito l’episodio come «violenza programmata e premeditata». In un’apparizione televisiva del 2016, Guaidó ha liquidato come “mito” le morti risultanti da “guayas” – una tattica di “guarimba” che consiste nel piazzare filo spinato su una strada ad altezza della testa per ferire o uccidere motociclisti. I suoi commenti hanno minimizzato una tattica micidiale che aveva ucciso civili disarmati come Santiago Pedroza e decapitato un uomo di nome Elvis Durán, tra molti altri. Questo insensibile disprezzo per la vita umana definisce “Volontà Popolare” agli occhi di gran parte del pubblico, compresi molti avversari di Maduro.Con l’intensificarsi della violenza e della polarizzazione politica in tutto il paese, il governo ha iniziato ad agire contro i leader di “Volontà Popolare”. Freddy Guevara, vicepresidente dell’Assemblea Nazionale e secondo in comando di “Volontà Popolare”, è stato il principale leader delle rivolte di strada del 2017. Di fronte a un processo per il suo ruolo nelle violenze, Guevara si è rifugiato nell’ambasciata cilena, dove rimane. Lester Toledo, un legislatore di “Volontà Popolare” dello Stato di Zulia, è stato ricercato dal governo venezuelano nel settembre 2016 con l’accusa di finanziamento del terrorismo e di complotto a fini di omicidio. Si dice che i piani siano stati preparati insieme all’ex presidente colombiano Álavaro Uribe. Toledo è fuggito dal Venezuela e ha fatto diverse tournée con Human Rights Watch, la Freedom House, il Congresso spagnolo e il Parlamento Europeo, sostenuto dal governo degli Stati Uniti.Carlos Graffe è un altro membro della “Generazione 2007” addestrata da Otpor, che ha guidato Volontà Popolare. E’ stato arrestato nel luglio 2017. Secondo la polizia, era in possesso di una borsa piena di chiodi, esplosivo C4 e un detonatore. È stato rilasciato il 27 dicembre 2017. Leopoldo Lopez, il leader di lunga data di “Volontà Popolare”, è oggi agli arresti domiciliari, accusato di aver avuto un ruolo chiave nella morte di 13 persone durante le “guarimbas” nel 2014. Amnesty International ha elogiato Lopez come «prigioniero di coscienza». Nel frattempo, i familiari delle vittime di “guarimba” hanno presentato una petizione per ulteriori accuse contro Lopez. Goicoechea, il poster-boy dei fratelli Koch e fondatore di “Prima la Giustizia”, sostenuto dagli Stati Uniti, è stato arrestato nel 2016 dalle forze di sicurezza, che hanno affermato di aver trovato un chilo di esplosivo nel suo veicolo. In un editoriale del “New York Times”, Goicoechea ha protestato contro le accuse (che definisce false) e ha affermato di essere stato imprigionato semplicemente per il suo «sogno di una società democratica, libera dal comunismo». È stato liberato nel novembre 2017.David Smolansky, anche lui membro dell’originale “Generation 2007” di Otpor, è diventato il più giovane sindaco venezuelano quando è stato eletto nel 2013 nel ricco sobborgo di El Hatillo. Ma è stato spogliato della sua posizione e condannato a 15 mesi di prigione dalla Corte Suprema dopo essere stato trovato colpevole di aver fomentato le violenze delle “guarimbas”. Prima dell’arresto, Smolansky si rasò la barba, indossò occhiali da sole e scivolò in Brasile travestito da prete con una Bibbia in mano e il rosario al collo. Ora vive a Washington, dove è stato scelto dal segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani Luis Almagro per guidare il gruppo di lavoro sulla crisi dei migranti e dei rifugiati venezuelani. Lo scorso 26 luglio, Smolansky ha tenuto quella che ha definito una «riunione cordiale» con Elliot Abrams, il criminale condannato nel processo Iran-Contra, ora mandato da Trump come inviato speciale degli Stati Uniti in Venezuela. Abrams è noto per aver supervisionato la politica segreta degli Stati Uniti di armare gli squadroni della morte di destra durante gli anni ‘80 in Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Il suo ruolo principale nel colpo di Stato venezuelano ha alimentato i timori che un’altra guerra per procura potrebbe essere in arrivo. Quattro giorni prima, Machado aveva urlato un’altra violenta minaccia contro Maduro, dichiarando che «se vuole salvarsi la vita, dovrebbe capire che il suo tempo è scaduto».Il collasso di “Volontà Popolare”, sotto il peso della violenta campagna di destabilizzazione che aveva avviato, ha alienato il consenso di ampi settori dell’opinione pubblica e ha costretto gran parte della sua leadership in esilio o in carcere. Guaidó è sempre rimasto una figura relativamente minore, ha infatti trascorso gran parte della sua carriera di nove anni all’Assemblea Nazionale come sostituto. Originario di uno degli Stati meno popolati del Venezuela, Guaidó arrivò secondo alle elezioni parlamentari del 2015, assicurandosi il posto in Assemblea con appena il 26% dei voti. In effetti, si può dire che il suo sedere fosse più conosciuto della sua faccia. Guaidó è noto come il presidente dell’Assemblea Nazionale, dominata dall’opposizione, ma non è mai stato eletto. I quattro partiti di opposizione che comprendevano il Tavolo di Unità Democratica dell’Assemblea avevano deciso di istituire una presidenza a rotazione. La svolta di “Volontà Popolare” era in arrivo, ma il suo fondatore, Lopez, era agli arresti domiciliari. Nel frattempo, il suo secondo incaricato, Guevara, si era rifugiato nell’ambasciata cilena. Juan Andrés Mejía avrebbe dovuto occupare la presidenza dell’Assemblea, ma per ragioni che ora sono maggiormente chiare, gli fu preferito Juan Guaidò.«C’è un ragionamento di classe che spiega l’ascesa di Guaidó», osserva Sequera, l’analista venezuelano. «Mejía è di classe alta, ha studiato in una delle università private più costose del Venezuela e non poteva essere facilmente venduto al pubblico come Guaidó. Guaidó ha caratteristiche meticce comuni alla maggior parte dei venezuelani, e sembra più un uomo della gente. Inoltre, non era stato sovraesposto nei media, quindi poteva essere presentato in praticamente qualsiasi salsa». Nel dicembre 2018, Guaidó si è recato a Washington, in Colombia e in Brasile per coordinare la preparazione di manifestazioni di massa durante l’inaugurazione della presidenza Maduro. La notte prima della cerimonia di giuramento di Maduro, sia il vicepresidente Mike Pence che il ministro degli esteri canadese Chrystia Freeland hanno chiamato Guaidó per confermare il loro sostegno. Una settimana dopo, il senatore Marco Rubio, il senatore Rick Scott e il rappresentante Mario Diaz-Balart – tutti i legislatori della base della destra della lobby di esilio cubano di destra – si sono uniti al presidente Trump e al vicepresidente Pence alla Casa Bianca. Su loro richiesta, Trump dichiarò che se Guaidó si fosse dichiarato presidente, lo avrebbe sostenuto.Il segretario di Stato Mike Pompeo ha incontrato personalmente Guaidó il 10 gennaio, secondo il “Wall Street Journal”. Tuttavia, Pompeo non riusci a pronunciare correttamente il nome di Guaidó quando lo menzionò in una conferenza stampa il 25 gennaio, riferendosi a lui come a “Juan Guido”. L’11 gennaio, la pagina di Wikipedia di Guaidó è stata modificata per 37 volte, mettendo in evidenza la lotta per modellare l’immagine di una figura precedentemente anonima che ora era un tableau per le ambizioni del cambio di regime di Washington. Alla fine, la supervisione editoriale della sua pagina è stata consegnata al consiglio d’élite dei “bibliotecari” di Wikipedia, che lo ha definito presidente «conteso» del Venezuela. Guaidó sarà anche una mezza figura, ma la sua combinazione di radicalismo e opportunismo soddisfa i bisogni di Washington. «Quel pezzo interno era mancante», ha detto di Guaidó un funzionario dell’amministrazione Trump. «Era il pezzo di cui avevamo bisogno perché la nostra strategia fosse coerente e completa». Brownfield, l’ex ambasciatore americano in Venezuela, ha dichiarato al “New York Times”: «Per la prima volta abbiamo un leader dell’opposizione che sta chiaramente segnalando alle forze armate e alle forze dell’ordine che vuole tenerle dalla parte degli angeli e dei bravi ragazzi».Ma è stata “Volontà Popolare” di Guaidó a formare le truppe d’assalto delle “guarimbas” che hanno causato la morte di agenti di polizia e comuni cittadini. Si era persino vantato della propria partecipazione alle rivolte di strada. E ora, per conquistare i cuori e le menti dei militari e della polizia, Guaidò ha dovuto cancellare questa storia intrisa di sangue. Il 21 gennaio, un giorno prima che il colpo di Stato iniziasse sul serio, la moglie di Guaidó ha presentato un video che invitava i militari a insorgere contro Maduro. La sua esibizione è stata legnosa e poco accattivante, e sottolinea le limitate prospettive politiche del marito. In una conferenza stampa di fronte ai suoi sostenitori, quattro giorni dopo, Guaidó ha annunciato la sua soluzione alla crisi: «Autorizzare un intervento umanitario!». Mentre attende l’assistenza diretta, Guaidó rimane quello che è sempre stato – una marionetta, frutto del progetto di ciniche forze esterne. «Non importa se si brucerà dopo tutte queste disavventure», dice Sequera del fantoccio del colpo di Stato. «Per gli americani, è sacrificabile».(Dan Cohen e Max Blumenthal, “The making of Juan Guaidó – Il fantoccio creato in laboratorio per il colpo di Stato in Venezuela”, da “Consortium News” del 29 gennaio 2019: reportage tradotto da Enrico Carotenuto per “Coscienze in Rete”. Max Blumenthal è un giornalista pluripremiato e autore di numerosi libri, tra cui “Gomorra Repubblicana”, “Golia”, “La guerra dei cinquanta giorni” e “La gestione della ferocia”. Ha prodotto articoli per numerose pubblicazioni, molti video report e diversi documentari, tra cui “Killing Gaza”. Blumenthal ha fondato “The Grayzone” nel 2015 per puntare un faro giornalistico sullo stato di guerra perpetua dell’America e le sue pericolose ripercussioni domestiche. Dan Cohen è un giornalista e regista. Ha prodotto reportage video ampiamente distribuiti e materiale cartaceo da tutta Israele-Palestina. E’ un corrispondente di “Rt America”).Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».
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Carotenuto: amici o nemici, i politici li fabbrica tutti il potere
E se fosse soltanto l’ennesima, colossale presa in giro? Tutto finto: Grillo e i 5 Stelle, il sovranista Salvini, persino i Gilet Gialli che stanno scuotendo la Francia di Macron. Ragionamento ipotetico: dato che il potere è ben consapevole del malcontento montante, ormai in vastissimi strati della società, non è forse logico concludere che sia interessato a cavalcarlo, il dissenso, magari scegliendo accuratamente “ribelli” rumorosi ma in fondo innocui? Pensateci: e se fosse stato davvero il potere supremo, massonico e religioso, a mettere in campo l’attuale populismo, prima che la protesta potesse sfociare in una vera rottura del sistema? L’autore di questa suggestione è Fausto Carotenuto, a lungo analista strategico dell’intelligence Nato. Per molti anni, si è occupato proprio di questo: consigliare i governi su come gestire le crisi e fabbricare il consenso. La sa lunga, Carotenuto, in fatto di manipolazione: “fake news”, terrorismo “false flag”, tecniche collaudate di condizionamento. Sa come si pilotano i sentimenti delle masse, grazie al vecchio trucco che funziona sempre: l’Uomo Nero. Il nemico è perfetto, per indurre il popolo a sbagliare mira: ci si divide, ci si odia. E si spara contro bersagli di cartone. Finita la bagarre, tutto torna come prima. Il Gattopardo: cambiare tutto, per non cambiare niente. E il sistema, il potere vero, resta al riparo della sua torre.Elucubrazione virtuale, teorica. Nel saggio “Il mistero della situazione internazionale”, pubblicato anni fa da UnoEditori, Carotenuto ripropone il medesimo schematismo a livello generale, geopolitico, introducendo la categoria della metafisica: tutto quello che appare assurdo e incomprensibile (un “mistero”, appunto), avrebbe in realtà una precisa spiegazione sul terreno – sfuggente – della spiritualità. Carotenuto ridisegna il mondo secondo lo schema binario delle piramidi di potere, nere e bianche. E sostiene che le cosiddette “forze oscure”, in realtà, lavorano anch’esse – ruvidamente – per un risultato che poi non è negativo: proprio la manifestazione del male, reso visibile attraverso le atrocità della storia e dell’attualità, finisce in un ultima analisi per risvegliare l’umanità dal letargo. Non è pessimista, Carotenuto: è convinto che almeno il 30% della popolazione mondiale si stia finalmente accorgendo del grande inganno cui sarebbe sottoposta, dai “poteri oscuri”. Tradurre questa visione nella cronaca politica di oggi comporta un bel salto. Ma Carotenuto, animatore del network “Coscienze in Rete”, lo affronta senza imbarazzi ai microfoni di “Border Nights”: niente di nuovo sotto il sole, dice. Anche l’Italia gialloverde fa parte di un gioco antichissimo, destinato purtroppo a funzionare. Scontato l’esito: il cambiamento sarà solo un’illusione.A innescare questa conclusione è il desolante spettacolo del governo italiano, che (come volevasi dimostrare) non riesce a mantenere nessuna delle sue grandi promesse elettorali. Lega e 5 Stelle hanno già sgonfiato la roboante “rivoluzione” che avevano evocato: obbediscono a Big Pharma sui vaccini, cedono all’Ue su tutta la linea, lasciano impallidire il reddito di cittadinanza. Ancora: la Lega si dimentica di abolire la legge Fornero sulle pensioni, e in più si allinea all’antica cordata affaristica dell’inutile Tav Torino-Lione. Ve ne stupite? Non dovreste, dice Carotenuto: tutto va esattamente nel modo previsto fin dall’inizio. Previsto da chi? Elementare: dal potere, lo stesso che ha messo in piedi questo sovranismo populista tutto chiacchiere e distintivo, fatto di fumo senza arrosto. Il che, peraltro – ammette Carotenuto – non esclude affatto che gli attuali governanti siano meno peggiori dei precedenti: qua e là lo si vede, il loro sforzo sincero per migliorare la situazione. Ma sono soltanto briciole: quelle che il potere stesso è disposto a concedere, per rendere credibile l’operazione agli occhi degli italiani. L’importante è che gli elettori non scarichino Salvini e Di Maio – non ancora, per lo meno, perché in questo momento “servono” a tener buono un paese come il nostro, il cui vero risveglio politico sarebbe comunque temuto.Da un lato, gli impeccabili attori Merkel e Macron – burattini perfetti, in questo teatro – mettono in scena l’odioso copione centralista del Sacro Romano Impero. Dall’altro, in modo opposto ma simmetrico, speculare – l’opposizione è incarnata a livello di piazza dai Gilet Gialli, e a livello istituzionale dai nuovi politici italiani: il piccolo sceriffo Salvini e un movimento d’opinione nato dal nulla, sul web, per iniziativa dell’ex comico Beppe Grillo. Ve lo ricordate, il vecchio Beppe, prima che venisse cacciato dalla Rai per quella battutaccia sui socialisti ladri? Era un artista onesto, affabile, di medio profilo. Poi, risentitosi per l’ingiustizia subita, si è trasformato di colpo. All’improvviso, è diventato un pensatore politico acuminato e stranamente informatissimo, un vero fuoriclasse della controinformazione. Passo seguente: la creazione del partito (pardon, movimento). Infine: l’ascesa fulminea dei pentastellati, ora al governo. Ha fatto tutto da solo, il vecchio Beppe? Suvvia. Basta vedere il sequel: il suo pupillo Di Maio è in ritirata su tutta la linea, ogni fronte veramente pericoloso per il potere è stato smantellato. E l’ideologo ormai si limita a fare il filosofo, dal suo buen retiro genovese, in apparenza lontano da tutto. In quanti ci sono cascati? In tantissimi: un elettore su tre, stando alle ultime consultazioni.Molto rumore per nulla? Praticamente, sì. O quasi: perché, comunque – secondo Carotenuto – il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Ovvero: anche la più amara disillusione può dare frutti, insegnando ai cittadini a diffidare di chi promette regali favolosi. Meglio delegare il meno possibile, non scommettere sulle dinamiche verticali su cui si fonda la rappresentanza, nel gioco democratico. E imparare a investire in modo orizzontale nella partecipazione diretta e concreta, che poi è quella che qualsiasi potente teme di più. Chiusa la parentesi politica, Carotenuto torna spiritualista: se ci supportassimo a vicenda in modo solidale, dice, la piramide perderebbe. Se il sistema è basato sullo sfruttamento delle persone, ha bisogno che gli individui siano soli, divisi e spaventati, pieni di rancore. Volemose bene? Non è una battuta, insiste Carotenuto: è un metodo. L’attuale potere, configurato in forma di dominio (“per stare meglio, ho bisogno che gli altri stiano peggio”) sa benissimo come funziona, lo schema: se l’Uomo Nero sparisce, è finita. Se smettessimo di odiare il nemico di turno, non potremmo più essere manipolati così facilmente. Non ce ne rendiamo conto? Vero. I “poteri oscuri”, invece, lo sanno fin troppo bene. Per questo ci fabbricano incessantemente sia i “nemici”, come Merkel e Macron, che gli “amici” come Grillo e Salvini.Troppo manicheo, l’ineffabile Carotenuto? Troppo semplicistico, nel suo riduzionismo estremo? L’alternativa che propone – costruire reti territoriali di persone leali tra loro – non prevede esiti immediati, a livello di macrocosmo. Però, sostiene, sortisce effetti vistosi e molto solidi, nel raggio d’azione alla portata dei singoli. Prendiamo la bistrattata valle di Susa: proprio grazie alla grande paura del Tav ha sviluppato un modello sociale diverso, più attento all’umanità quotidiana. Le persone hanno riscoperto valori essenziali, che erano stati trascurati. In questo senso, l’ipotetica “piramide nera” lavora per noi, a sua insaputa: si impegna a fare disastri, ma poi finisce per farci del bene, suo malgrado. Le tesi di Carotenuto’ Pensieri lunghi, da prendere per quello che sono: un invito a riflettere, a non agire sotto l’impulso di pressioni emotive sapientemente costruite secondo modalità invariabili, sempre uguali. Il risultato potrebbe essere la raffinazione della capacità di analisi. Un nuovo modo di guardare alle cose, cercando di capire – prima e meglio – di che pasta è fatto chi abbiamo di fronte, sul palcoscenico non esattamente entusiasmante della politica italiana. Se non altro, fornisce una possibile risposta alla domanda che resta sempre in sospeso: com’è possibile che tutti i politici, una volta al governo (in Italia e altrove) finiscano sempre per deludere, tradendo la fiducia ottenuta dagli elettori?E se fosse soltanto l’ennesima, colossale presa in giro? Tutto finto: Grillo e i 5 Stelle, il sovranista Salvini, persino i Gilet Gialli che stanno scuotendo la Francia di Macron. Ragionamento ipotetico: dato che il potere è ben consapevole del malcontento montante, ormai in vastissimi strati della società, non è forse logico concludere che sia interessato a cavalcarlo, il dissenso, magari scegliendo accuratamente “ribelli” rumorosi ma in fondo innocui? Pensateci: e se fosse stato davvero il potere supremo, massonico e religioso, a mettere in campo l’attuale populismo, prima che la protesta potesse sfociare in una vera rottura del sistema? L’autore di questa suggestione è Fausto Carotenuto, a lungo analista strategico dell’intelligence Nato. Per molti anni, si è occupato proprio di questo: consigliare i governi su come gestire le crisi e fabbricare il consenso. La sa lunga, Carotenuto, in fatto di manipolazione: “fake news”, terrorismo “false flag”, tecniche collaudate di condizionamento. Sa come si pilotano i sentimenti delle masse, grazie al vecchio trucco che funziona sempre: l’Uomo Nero. Il nemico è perfetto, per indurre il popolo a sbagliare mira: ci si divide, ci si odia. E si spara contro bersagli di cartone. Finita la bagarre, tutto torna come prima. Il Gattopardo: cambiare tutto, per non cambiare niente. E il sistema, il potere vero, resta al riparo della sua torre.
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Magaldi: noi massoni coi Gilet Gialli, mentre Roma dorme
La rivolta dei Gilet Gialli? Un clamoroso “assist” destinato proprio al governo italiano, l’unico che abbia finora contestato il rigore europeo da un’aula istituzionale. Chi si è opposto frontalmente ai gialloverdi, fin da subito? Lui, Emmanuel Macron. E proprio ora che il presidente francese barcolla, travolto dalla marea della protesta, l’Italia che fa? «Abbassa le orecchie, e accetta di farsi amputare il deficit che aveva orgogliosamente rivendicato, illudendo mezza Europa che proprio da Roma fosse cominciato il grande disgelo, la fine dello strapotere della tecnocrazia Ue». Ma se qualcuno pensa che i Gilet Gialli siano un fenomeno esclusivamente spontaneo, non sorretto da una precisa regia, si illude come chi pensa che l’attentato di Strasburgo non sia stato cinicamente pianificato, per aiutare Macron, da settori deviati dei servizi segreti francesi. «Secondo i loro piani doveva finire 1-1, con l’attentato destinato a sedare la protesta, pareggiando i conti. E invece è finita 2-0, la partita, perché tutti – tranne i media mainstream – hanno mangiato la foglia: una strage smaccatamente tempestiva, attuata all’indomani della “resa” di Macron ai Gilet Gialli e condotta nel solito modo, con il misterioso attentatore sbucato dal nulla e poi immancabilmente ucciso, prima che potesse essere interrogato».Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del circuito massonico progressista internazionale, rilancia le accuse anticipate da Gianfranco Carpeoro in web-streaming su YouTube” con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Vero, la strage dell’11 dicembre a Strasburgo è stata condotta da manovalanza pseudo-jihadista. Ma Cherif Chekatt, collegato alle brigate Al-Nusra asserragliate a Idlib in Siria sotto protezione francese, era solo l’ennesima, sciagurata pedina della famigerata “sovragestione” del peggior potere: quella che ha insanguinato l’Europa negli ultimi anni, con attentati “a orologeria” affidati a killer dell’Isis, filiazione diretta del network terroristico prima noto come Al-Qaeda ma sempre controllato da settori dell’intelligence Nato. Si tratta di servizi infiltrati dalla stessa supermassoneria neo-oligarchica che ha sfigurato il mondo, a partire dall’11 Settembre. Una guerra sporca, sotto falsa bandiera e nutrita di “fake news” governative: gli attentati “false flag” (che attaccano la folla inerme, mai i centri di potere) sono perfettamente simmetrici rispetto al marmoreo autoritarismo neo-feudale di Bruxelles, che ha confiscato democrazia e sovranità in Europa sulla base di dogmi ideologici come il rigore di bilancio imposto agli Stati.Contro questo diktat si era levato il governo gialloverde. E proprio per sostenere l’esecutivo italiano contro il suo maggiore nemico – afferma Magaldi – in Francia “qualcuno” ha promosso la sollevazione dei Gilet Gialli. Ma a Roma, anziché approfittarne, si sono lasciati spaventare dalla Commissione Europea. Sono esplosive, le dichiarazioni che Magaldi rilascia a Frabetti, nel colloquio online trasmesso su YouTube il 17 dicembre: ebbene sì, il circuito massonico progressista agisce dietro le quinte della protesta francese dei Gilet Gialli. «E’ vero», ammette Magaldi, «dovrei fare nomi e cognomi: sigle, associazioni». Ma, assicura, «non mancherò di metterli per iscritto, i nomi dei massoni sostenitori della rivolta francese». Per ora, il presidente del Movimento Roosevelt fa appello «alla sottigliezza di tutti». Come dire: aprite gli occhi, signori. Pensare che un paese come la Francia possa esser messo ko da una protesta di massa esclusivamente spontanea è davvero ingenuo, almeno quanto il credere che un giovane malavitoso, pluri-pregiudicato e sospettato di radicalismo islamista, possa davvero andarsene a spasso (armato) per il centro ultra-presidiato di Strasburgo, a due passi dal Parlamento Europeo, per poi fare comodamente una strage – 4 morti e 16 feriti – e quindi tornarsene a casa indisturbato, in taxi, senza che nessuno abbia vigilato sulla sua ignobile impresa.«Stavolta – dice Magaldi – il teatro mostra quello che c’è dietro il palcoscenico, nei camerini: il Re è sempre più nudo». Peccato che l’ultimo ad accorgersene sembra sia il governo italiano: non toccava proprio ai gialloverdi salire per primi sulle barricate francesi per rilanciare in Europa la sfida della democrazia contro l’oligarchia? E se qualcuno pensa che Magaldi vaneggi, quando intesta alla massoneria progressista un ruolo determinante, dietro le quinte dello scenario europeo in rivolta, si sbaglia di grosso. Magaldi non è solo l’autore del bestseller “Massoni”, che svela il ruolo occulto delle superlogge neo-oligarchiche nella globalizzazione neoliberista, fino alle estreme conseguenze del terrorismo “false flag”. Il presidente del Movimento Roosevelt è organico al circuito massonico progressista che a livello internazionale si oppone al dominio neo-feudale dell’élite finanziaria. E il primo a saperlo è proprio il governo italiano. Non a caso, racconta sempre Magaldi nello streaming su YouTube con Frabetti, alcuni esponenti della Lega lo hanno avvicinato, nei giorni scorsi, per chiedergli una sorta di intercessione: intervenire, a livello europeo, per aiutare l’Italia nella drammatica trattativa con Bruxelles. La risposta: ma non vedete quello che sta succedendo in Francia? Di cos’altro avete bisogno, per mandare a stendere gli spaventapasseri della Commissione Europea?Magaldi cita il rammarico di un amico come Aldo Storti, «uno degli animatori della scuola politica della Lega, che è forse lo strumento migliore grazie a cui la Lega è maturata negli ultimi anni». Scontenti, i leghisti, delle pesanti critiche mosse da Magaldi all’eccessiva timidezza della manovra gialloverde: «Nonostante i proclami altisonanti e le dichiarazioni virili, muscolari e sprezzanti – ribadisce il presidente del Movimento Roosevelt – alla fine il governo italiano ha abbassato le orecchie e adesso sta col fiato sospeso per paura che la manovra non venga approvata dall’Ue, cui ha purtroppo riconosciuto l’ultima parola». Di fatto quella del governo Conte «è una manovrina, nonostante tutti ripetano che contiene le misure innovative e rivoluzionarie annunciate: in realtà contiene poche cose, alcune anche interessanti, ma non la sfida ai paradigmi europei che gli elettori si aspettavano». Esponenti della maggioranza gialloverde chiedono più impegno, da parte della massoneria progressista, nel sostenere il governo Conte in sede politica europea e magari anche sul piano finanziario, contribuendo a spuntare l’arma di ricatto dello spread? Un po’ di franchezza a questo punto non guasterebbe: perché non essere trasparenti?Sarebbe stato meglio, sottolinea Magaldi, se questa richiesta di aiuto fosse stata formulata in modo esplicito. Invece il governo, in modo ipocrita, ha messo addirittura nel suo “contratto” l’incompatibilità tra massoneria e cariche istituzionali, senza neppure distinguere tra massoni neoaristocratici e massoni progressisti, salvo poi reclutare alcuni grembiulini (non dichiarati) in vari ministeri, come quello di Giovanni Tria. In realtà, ribadisce Magaldi, quell’aiuto c’è stato, eccome, anche se «di segno diverso, più intonato a questo modo di comportarsi alquanto sibillino, da parte di tutti – anche di quelli che chiedono aiuti ma non sono disposti a offrire una narrazione sincera, sul rapporto con la massoneria». Un soccorso pesantissimo, dunque, proprio dalla Francia: «Un aiuto tanto importante, ancorché raffinato, sottile e benignamente machiavellico, al punto da creare qualche difficoltà ai negoziatori europei». E l’Italia? Se c’era, dormiva. Lega e 5 Stelle non bastano? Anche per questo, probabilmente, Magaldi pensa – tra le altre cose – al progetto del “partito che serve all’Italia”, i cui promotori si incontreranno il 22 dicembre a Roma per mettere insieme un’agenda che, dal 2019, possa ispirare la costruzione di un progetto politico non disponibile a cedere alle mediazioni con l’Ue alle quali si è rassegnato il governo Conte.Se non altro, dal fronte francese arrivano soltanto ottime notizie: la “sovragestione” è in affanno, Macron alza bandiera bianca di fronte ai Gilet Gialli (annunciando che sforerà il 3% del deficit per alzare i salari) e le solite “manine” specializzate nella strategia della tensione non vanno oltre il sanguinoso autogoal di Strasburgo, dove tutti hanno capito che chi vigilava sulla sicurezza non poteva non sapere cosa stesse accadendo. «Non nascondiamoci dietro ai veli», insiste Magaldi: «Abbiamo rivisto il solito copione dell’attentatore misteriosamente sfuggito alle maglie della polizia e dei servizi, per poi allontanarsi in taxi e venire immancabilmente ucciso, ad evitare la possibilità di interrogatori». Aggiunge: «Questo bisogna dirlo, perché ormai il teatro è tragicamente farsesco». Ovvero: «Si immagina che si cerchi di prenderlo vivo, un killer dai contorni come al solito irrisolti. E infatti ci sono molti modi in cui le forze di sicurezza (polizia, antiterrorismo, servizi) possono braccare un uomo solo, metterlo in condizioni di non nuocere, arrestarlo e interrogarlo». Invece la sceneggiatura è ancora una volta la seguente: compare dal nulla «un lupo solitario, che poi naturalmente viene rivendicato come “soldato” dell’Isis, ma poi viene fatto fuori. E così la questione viene chiusa».Certo, magari «i complottisti le sparano grosse, perché non sanno bene di cosa parlano: vedono il complotto, ma non capiscono di che complotto si tratti». Però, aggiunge Magaldi, l’evento di Strasburgo «è riuscito male, stavolta è stato davvero grossolano – così come la tempistica, troppo smaccata – e quindi non avrà affetti su quello che sta accadendo in Francia e nel resto d’Europa». I servizi francesi? Pagine ingloriose: gli organi di sicurezza transalpini «hanno dato dimostrazione della loro efficienza anche sotto Hollande, con gli attentati di Parigi a due passi dal presidente stesso». Magaldi allude a «segmenti deviati, asserviti a interessi non istituzionali». Uno spettacolo increscioso: «Nessuno, sano di mente (se non il coro mediatico mainstream) avrebbe potuto ritenere “normale”, a suo tempo, quello che è stato fatto dai terroristi. E nessuno, sano di mente, penserebbe che un tizio come l’attentatore di Strasburgo possa davvero agire indisturbato, senza aiuti da parte di precisi settori delle forze di sicurezza». Ma stavolta, insiste ancora Magaldi, ai gestori dell’auto-terrorismo è andata male: otto francesi su dieci continuano a sostenere i Gilet Gialli, e non credono affatto che Cherif Chekat, a Strasburgo, abbia fatto tutto da solo. Meglio ancora: non credono neppure alle ultime promesse di Macron, e infatti continuano a protestare.Credevano che la rivolta finisse, in Europa, rimettendo in riga il ribelle governo gialloverde? Errore: il focolaio della protesta anti-establishment si è trasferito proprio nel paese il cui governo si era maggiormente distinto nel bacchettare l’Italia. E non è che l’inizio, dice Magaldi. A maggior ragione, c’è da mangiarsi le mani per la pavidità dell’esecutivo Conte: ha sbagliato un goal a porta vuota, sempre per restare nella metafora calcistica. Proprio così: il “governo del cambiamento” «si è messo nella condizione di non poter sfruttare (come andava sfruttato) quello che sta accadendo in Francia», accontentandosi di ricevere pacche sulle spalle dagli oligarchi Ue. «I signori dell’Europa ora dicono: va bene, vi concediamo questo 2,04% di deficit; fatevi pure le vostre cosine, tanto avete abbassato le penne e vi siete rimessi in riga, e questo è più importante di qualunque numero decimale, al di là delle dichiarazioni fokloristiche di Salvini». Il leader leghista giura che i numeri non gli interessano? Strano: «Proprio di numeri, invece, è andato a parlare il premier a Bruxelles. Si preoccupano tutti, dei numeri: tant’è che adesso l’Italia – da nazione che sembrava in procinto di sfidare il vigente paradigma tecnocratico dell’austerity – è una nazione che non osa nemmeno fare le cose che Macron è ora costretto a fare, sull’onda della protesta».Per Magaldi, la rivolta dei Gilet Gialli è «molto proficua, anche sul piano dell’immaginario collettivo – più ancora che su quello dei risultati che potrà ottenere, e più della confusione che regna tra chi mette in atto la protesta stessa». Quello che conta, riassume il presidente del Movimento Roosevelt, è che la contestazione francese «è animata anche da un’intenzione più profonda: ed è a questa che mi riferisco – precisa – quando parlo dei massoni democratici e progressisti». Circuiti che, sempre secondo Magaldi, «stanno dimostrando – in Europa – di agire nel back-office nella giusta direzione, che è quella che deve mettere in discussione il paradigma esistente e far tremare le poltrone di quelli che pensavano di poter guidare impunemente il carretto nella direzione da loro auspicata». Loro, i sovragestori dell’Unione: «Da parte di alcuni c’è una incapacità di gestire lo “strumento Macron”, e c’è anche l’incapacità di gestire questi attentati, nel tentativo di arginare il valore anzitutto simbolico, evocativo e ideologico della protesta dei Gilet Gialli». Come dire: governo gialloverde o meno, quelli che Magaldi chiama “fratelli progressisti” starebbero di fatto «riguadagnando terreno». Una previsione: «Giocheranno questa grande partita a scacchi con sapienza e lungimiranza». L’altra buona notizia? «Sul fronte opposto vedo molta confusione, molta ansia, molti errori». Qualcosa sta cambiando, insomma, in modo radicale. Ne prendano nota, i mancati “rivoluzionari” gialloverdi.La rivolta dei Gilet Gialli? Un clamoroso “assist” destinato proprio al governo italiano, l’unico che abbia finora contestato il rigore europeo da un’aula istituzionale. Chi si è opposto frontalmente ai gialloverdi, fin da subito? Lui, Emmanuel Macron. E proprio ora che il presidente francese barcolla, travolto dalla marea della protesta, l’Italia che fa? «Abbassa le orecchie, e accetta di farsi amputare il deficit che aveva orgogliosamente rivendicato, illudendo mezza Europa che proprio da Roma fosse cominciato il grande disgelo, la fine dello strapotere della tecnocrazia Ue». Ma se qualcuno pensa che i Gilet Gialli siano un fenomeno esclusivamente spontaneo, non sorretto da una precisa regia, si illude come chi pensa che l’attentato di Strasburgo non sia stato cinicamente pianificato, per aiutare Macron, da settori deviati dei servizi segreti francesi. «Secondo i loro piani doveva finire 1-1, con l’attentato destinato a sedare la protesta, pareggiando i conti. E invece è finita 2-0, la partita, perché tutti – tranne i media mainstream – hanno mangiato la foglia: una strage smaccatamente tempestiva, attuata all’indomani della “resa” di Macron ai Gilet Gialli e condotta nel solito modo, con il misterioso attentatore sbucato dal nulla e poi immancabilmente ucciso, prima che potesse essere interrogato».
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Giulietto Chiesa in Rai con Messora, Dijsselbloem al Corsera
«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.Ovvio per tutti, salvo che per il “Corriere”, secondo cui Giulietto Chiesa ha travisato le parole dell’apollineo, impeccabile, meraviglioso Dijsselbloem. Niente di strano, peraltro: secondo Trocino, Chiesa non sarebbe altro che una specie di mentecatto. Allo storico corrispondente da Mosca (prima per “l’Unità”, poi per la “Stampa” e per il Tg5), il “Corriere” dedica un affondo che merita di essere letto come capolavoro comico, sia pure del genere neo-orwelliano inaugurato dalla popstar Colin Powell, irresistibile nel famoso numero con la fialetta all’antrace. Il grande Powell poté esbirsi all’Onu solo grazie all’altra vicenda spettacolare del secolo, altrettanto cristallina: il crollo delle Torri Gemelle, notoriamente collassate su se stesse in pochi secondi per colpa di aerei dirottati da oscuri energumeni arabi, armati di taglierini e capaci di schiantare a velocità folle, con manovre da top-gun, velivoli che non sapevano pilotare e che la stessa azienda costruttrice, la Boeing, dichiara che – semplicemente – non potrebbero volare a 900 chilometri orari, a quote così basse, senza sbriciolarsi in aria prima ancora dell’impatto.Certo si tratta di trascurabili amenità, sulle quali è impensabile si soffermi il “Corriere della Sera”, impegnato com’è a formulare vaticinii e profezie sui governi italiani, specie l’inguardabile esecutivo gialloverde, i cui azionisti politici osano mancare di rispetto ai sacerdoti della santa eurocrazia, i bramini dai nomi impossibili – Dijsselbloem, Oettinger, Dombrovskis – che gli italiani hanno tuttavia imparato ad amare, in questi anni di benessere, prosperità e serenità per tutto il continente. Come sarebbe bello, cinguetta Massimo Mazzucco – altro incorreggibile mascalzone, del calibro di Giulietto Chiesa – se finalmente, grazie alla presidenza della Rai affidata a Marcello Foa, lo stesso Chiesa potesse lasciare per un attimo la redazione di “Pandora Tv” e partecipare ogni tanto, magari in terza serata, a programmi come quelli che un tempo persino la televisione di Stato produceva, all’epoca in cui faceva anche vera informazione, con signori come Biagi, Minà, Zavoli.Pensate, dice Mazzucco, se – magari all’una di notte – ci fosse la possibilità di assistere a un confronto tra Chiesa e, per dire, il fondatore di “ByoBlu”, Claudio Messora, capace di realizzare servizi su YouTube visionati ogni volta anche da 200.000 utenti. Numeri enormi, sottolinea Mazzucco, se paragonati agli standard televisivi (per esempio, i 600.000 spettatori che faceva registrare “Matrix”, ai bei tempi). Non c’è paragone, conferma Fabio Frabetti di “Border Nights”, in web-streaming con Mazzucco, anche perché la potentissima e ricchissima Tv basta accenderla, mentre un video-blog devi andartelo a cercare: quei click valgono mille volte tanto. E lo sanno, i signori dei “giornaloni”, al punto – oggi – da attaccare Giulietto Chiesa, anche a costo di fare involontariamente pubblicità alla sua web-tv. Lo sanno così bene, che il vento è cambiato, da applaudire a scena aperta l’eroico bavaglio imposto al web da Bruxelles, su iniziativa dei soliti noti – su tutti Oettinger, l’uomo che sussurra ai mercati, proprio come il suo socio Dijsselbloem.Poi, si sa, è noto che le minacce mafiose le fanno appunto i capimafia, non certo i cardinali e ciambellani del superclan euro-finanziario che ha coordinato, sul campo, il più vasto trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, che la storia moderna ricordi. Un’operazione ammantata di misticismo e ispirata dal Bene, cioè il rigore di bilancio che vieta i deficit e quindi obbliga ad aumentare le tasse, producendo le meraviglie che fanno dell’Unione Europea e in particolare dell’Eurozona il paradiso terrestre a cui il mondo intero guarda con invidia, non potendo fare a meno di ammirare il commovente spirito di cooperazione e solidarietà che oggi affratella i popoli europei, pronti a correre in soccorso del più debole e a risolvere insieme, da buoni amici, ogni controversia, a cominciare dal problema dei migranti. Un’Europa così sublime non può che primeggiare anche nell’arte del bel canto, visti i soavi gorgheggi giornalistici che si levano da giornali e talkshow. Troppo bello, lo spettacolo del Bene che celebra se stesso, per rischiare di offuscarlo con sgraziate stonature, profeti di sventura e blogger, così impudenti da insolentire il divo Dijsselbloem, l’affabile Juncker, il garbato Moscovici.A chi si fosse curiosamente convinto che lo show quotidiano sia soltanto una tragica farsa piuttosto scadente, affidata a interpreti la cui mediocrità è pari solo all’immenso potere di cui dispongono, protetto dall’anonimato finanziario che ha sequestrato la democrazia nel vecchio continente, Mazzucco va ripetendo un consiglio pratico: insistere, nel raccontare quello che si è scoperto, perché soltanto l’impegno di migliaia di neo-sudditi potrebbe un giorno restituire agli europei lo status di cittadini, a buon diritto membri di una comunità civile vera e propria, con le sue sue regole fondamentali – una su tutte: governa chi è stato designato dai cittadini, mediante regolari elezioni. Il giorno che la maggioranza si accorgesse dell’insostenibile anomalia europea, costituita da mezzo miliardo di persone governate da un consiglio di amministrazione, probabilmente i solisti come Oettinger e Dijsselbloem si troverebbero senza uno spartito e senza più nemmeno il coro, cartaceo e radiotelevisivo, al quale sono abituati: una clacque preziosa e imprescindibile, per evitare fischi e pomodori. E’ come se una lunga marcia fosse cominciata, dice Mazzucco, fino a giungere di fronte alle mura del palazzo, seminando allarme: non si spiega altrimenti tanta permura nel prendere a sberle, in pubblico, gli storici tribuni della trasparenza. Ma in caso di rivoluzione, niente paura: il grande Dijsselbloem potrebbe sempre cantare ancora, nel coro degli autorevolissimi editorialisti del “Corriere”.«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.
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Scie chimiche, Gianini: se smontate un aereo scoprite tutto
«Mi portino pure in tribunale», dice. «Gli dirò di fare una cosa semplicissima: basta prendere un aereo e smontarlo, per capire subito da dove vengono quelle scie». Enrico Gianini, per anni operatore aeroportuale a Milano Malpensa, ha le idee chiarissime sulle strane tracce, bianche e persistenti, che da circa 15 anni intasano letteralmente i nostri cieli. «Tutti sanno tutto, in aeroporto, ma nessuno dice niente», dichiara Gianini ai microfoni di “Border Nights”, denunciando l’omertà generale che coprirebbe la cosiddetta irrorazione quotidiana dell’atmosfera. «Sanno tutto anche i piloti, la cui mortalità sembra sia in aumento: tumori e infarti». Da quando le normative antiterrorismo li obbligano a volare in cabine sigillate, aggiunge, proprio i piloti sono i primi a respirare l’aria inquinata dai composti destinati a essere rilasciati dall’aereo sotto forma di aerosol. Gianini è convinto di aver scoperto il dispositivo clandestino: serbatoi supplementari inseriti in coda, nelle stive dei velivoli. Per trent’anni addetto al carico e scarico dei bagagli, se n’è accorto stazionando sotto gli aerei, da cui sgocciola liquido anomalo, pieno di metalli pesanti. Ne ha parlato tempo fa in un video su YouTube, che ha fatto notizia. E oggi conferma: l’operazione “cieli a strisce” continua, nell’indifferenza generale, senza che nessuna autorità di vigilanza protesti per il costante inquinamento indotto dagli aerei di linea trasformati abusivamente in “tanker”.Alluminio e cadmio, bario, manganese. E poi ferro, torio e stronzio: sono gli elementi chimici riscontrati nel liquido che gli aerei perdono, una volta a terra. L’atmosfera è cambiata, da quando è diventato massiccio il ricorso alla geoingegneria. Sul sito “Tanker Enemy”, Rosario Marcianò spiega che i primi esperimenti risalgono agli anni ‘80, ma il “trattamento dei cieli” è diventato intensivo, anche in Italia, dal 1° gennaio 2001, quando l’allora primo ministro Berlusconi firmò con gli Usa l’accordo “Open Skies Treaty”, divenuto operativo il 23 giugno 2003. Motivazione: il contrasto del surriscaldamento climatico. Di fatto, secondo lo stesso Gianini, era un pretesto per manipolare le condizioni atmosferiche con esiti anche catastrofici, come si è visto anche nella recentissima alluvione che ha devastato il Sud, in particolare la Calabria. Ma in fenomeno è vistoso anche in Sicilia e Sardegna. «Da allora – dice Gianini – è aumentata la concentrazione anomala di piogge, capaci di trasformare ruscelli asciutti in impetuosi torrenti». Gianini crede alla manipolazione sistematica usata come arma: cita i vigneti della Loira e della Borgogna, qualche anno fa distrutti dalle intemperie (caldo africano, seguito da gelate) allo scopo di “convincere” François Hollande a rinunciare alla sua iniziale politica anti-austerity.Nel dossier “Owning the weather”, il generale Fabio Mini, già a capo delle forze Nato in Kosovo, conferma che la “guerra climatica” è ormai una realtà: si possono creare nubi artificiali per “accecare” le difese avversarie, ma quelle stesse nubi possono essere “fabbricate” per provocare siccità o eventi alluvionali, danneggiando l’agricoltura e le infrastrutture. Gianini parla di voli-fantasma, militari, che una volta in Italia vengono classificati civili. Ma cita soprattutto le compagnie low-cost, Ryanair e EasyJet, come i maggiori vettori dell’aerosol atmosferico: sospetta che alcune compagnie campino, letteralmente, con questo “lavoro” clandestino, non essendo sostenibile il bilancio economico del solo trasporto dei passeggeri a bassissimo costo. Inoltre, aggiunge, la recentissima liberalizzazione delle quote da seguire, all’interno delle rotte, rende ancora più efficace l’azione di “disseminazione chimica” del cielo, consentendo sorvoli a minore altitudine. Visivamente, lo strano spettacolo a cui tutti possono assistere è ormai familiare: mentre le ormai rarissime “contrails” (scie di condensazione) svaniscono quasi subito, le “chemtrails” rilasciate dagli aerei restano nell’aria per ore, fino ad espandersi e abbassarsi, creando un velo capace di appannare il sole e cancellare l’azzurro del cielo.Fate un esperimento semplicissimo, dice Gianini: se al mattino trovate la vostra auto cosparsa di una leggera polverina, vedrete che quella polvere – stranamente – si attaccherà alla calamita che avrete cura di far scorrere sul parabrezza. E’ vero che la “sabbia del deserto” può essere anche ferrosa, ammette Gianini, ma ben di rado la sabbia del Sahara “piove” fino alle nostre latitudini, dove invece la “polverina” è pressoché quotidiana. «Oppure – scherza – fate la prova del nove con il comandante di un aereo: quando vi imbarcate, provate a domandargli “scusi, oggi spruzziamo o voliamo puliti?”, e state a vedere che faccia fa». Non teme ritorsioni sul lavoro, Gianini: «Ho di fatto già abbandonato Malpensa, ma per altri motivi. Mai mi avrebbero licenziato per la mia denuncia pubblica: avrebbe fatto troppo rumore e avrebbe costretto i media a parlare del caso, cioè delle scie». Movente e regia? I massimi poteri, secondo Gianini: «I mafiosi, in confronto, sono dei dilettanti». Ma perché nessuno parla, a parte lui? E soprattutto – gli domanda il conduttore di “Border Nights”, Fabio Frabetti – come si fa a custodire un segreto così ingombrante? Non è improbabile che tutte quelle persone – piloti, assistenti, controllori di volo – tengano sempre la bocca chiusa, per anni, senza che a nessuno scappi mai una parola?Enrico Gianini ha una spiegazione anche per questo: il programma di irrorazione dei cieli, dice, è stato avviato in modo graduale, dopo una partenza in sordina affidata a pochissimi voli. Poi l’operazione è cresciuta progressivamente, poco alla volta, ma in modo inesorabile. Quello che ieri poteva sembrare un’anomalia, oggi è la normalità – di cui tutti, sostiene, sono al corrente. «E se lavori in aeroporto a chi la racconti, questa cosa, sapendo che i tuoi colleghi la sanno già?». E la polizia aeroportuale? «Mi rivolsi anche a loro», racconta sempre Gianini, «e ho visto che non erano molto contenti delle mie curiosità». Ma, aggiunge, non è stato mai ostacolato nelle sue ricerche, quando si aggirava sotto la pancia degli aerei armato della bottiglietta con cui raccogliere il liquido, inquinatissimo, che colava sull’asfalto. «In fondo, a nessuno – nemmeno ai poliziotti – fa piacere scoprire che qualcuno può avvelenare impunemente l’aria che poi respiriamo tutti». Che fare? «Semplice: continuare a denunciare il fenomeno, sperando che prima o poi qualcuno si svegli, controlli e intervenga. Ripeto: basta prendere un aereo a caso e smontarlo, per vedere che la coda è ingombra di cisterne piene di liquido».Il caso è clamoroso: di scie chimiche, semplicemente, è vietato parlare. Chi lo fa viene deriso, preso per un cretino visionario e complottista. Le tante interrogazioni parlamentari, sul tema (presentate anche da esponenti del Pd) sono rimaste senza risposta. Ogni tanto, anche sui media mainstream filtra qualche notizia, perlomeno riguardo all’impalpabile mondo dei voli civili, sempre protetto dalla massima discrezione: la “Stampa” ricorda che, se un pilota muore d’infarto mentre è ai comandi, viene sostituito dal suo vice fino all’atterraggio, senza che i passeggeri abbiano il minimo sentore dell’accaduto. Su “Smartweek”, Federico Ciapparoni scrive: «Non è raro che fumi tossici facciano breccia nella cabina di pilotaggio». E aggiunge che molti piloti hanno condotto aerei affollati «mentre respiravano dalle mascherine attraverso cui fluisce l’ossigeno, mentre tutti i passeggeri erano ignari di ciò che accadeva nella cabina». Sulle “chemtrails”, però, la rimozione più eclatante sembra quella della gente comune: ormai ci si è abituati a vedere il cielo “a strisce”, quasi fosse un fatto naturale. Il fenomeno è invece palesemente artificiale: tutti vedono che sono gli aerei a depositare quelle strisce, che poi diventano “nuvole”, ma quasi nessuno si chiede perché. Già: perché, oggi, i cieli sono diventati “sporchi”? Nessuno sente il bisogno di scoprire come mai, oggi – da una quindicina d’anni – i normalissimi aerei di linea “sporcano” il cielo, fino a cancellare l’azzurro?«Mi portino pure in tribunale», dice. «Gli dirò di fare una cosa semplicissima: basta prendere un aereo e smontarlo, per capire subito da dove vengono quelle scie». Enrico Gianini, per anni operatore aeroportuale a Milano Malpensa, ha le idee chiarissime sulle strane tracce, bianche e persistenti, che da circa 15 anni intasano letteralmente i nostri cieli. «Tutti sanno tutto, in aeroporto, ma nessuno dice niente», dichiara Gianini ai microfoni di “Border Nights”, denunciando l’omertà generale che coprirebbe la cosiddetta irrorazione quotidiana dell’atmosfera. «Sanno tutto anche i piloti, la cui mortalità sembra sia in aumento: tumori e infarti». Da quando le normative antiterrorismo li obbligano a volare in cabine sigillate, aggiunge, proprio i piloti sono i primi a respirare l’aria inquinata dai composti destinati a essere rilasciati dall’aereo sotto forma di aerosol. Gianini è convinto di aver scoperto il dispositivo clandestino: serbatoi supplementari inseriti in coda, nelle stive dei velivoli. Per trent’anni addetto al carico e scarico dei bagagli, se n’è accorto stazionando sotto gli aerei, da cui sgocciola liquido anomalo, pieno di metalli pesanti. Ne ha parlato tempo fa in un video su YouTube, che ha fatto notizia. E oggi conferma: l’operazione “cieli a strisce” continua, nell’indifferenza generale, senza che nessuna autorità di vigilanza protesti per il costante inquinamento indotto dai jet di linea trasformati abusivamente in “tanker”, aerei-cisterna.
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Magaldi: Draghi e Mattarella, il padrone e il maggiordomo
Come va letta, la visita di Draghi a Mattarella? «Be’, come dire: il padrone è venuto a visitare il maggiordomo». Indovinato: è Gioele Magaldi a esprimersi in questi termini, per commentare l’insolita “capatina” al Quirinale, da parte del presidente della Bce, proprio mentre l’establihment finanziario, politico e mediatico spara sul governo Conte, che si è permesso di alzare il deficit al 2,4% del Pil – nella previsione 2019 del Def – sperando di cominciare a finanziare reddito di cittadinanza, taglio delle tasse e pensioni più decorose. La novità è che, dall’8 ottobre, Magaldi “esterna” – sempre di lunedì, alle 12 – sul canale YouTube di “Border Nights”, dopo l’improvvisa chiusura di “Massoneria On Air” da parte di “Colors Radio”, che ha licenziato il conduttore, David Gramiccioli. «L’editore, che in tre anni mi aveva lasciato la massima libertà – spiega lo stesso Gramiccioli, durante il collegamento con Fabio Frabetti – mi ha contestato il crollo del fatturato pubblicitario, legato anche a strutture sanitarie». Facile che a turbare gli sponsor sia stata l’offensiva giornalistica di Gramiccioli, che contro l’obbligo vaccinale introdotto dalla legge Lorenzin ha anche scritto e interpretato il fortunatissimo spettacolo teatrale “Il decreto”.Gramiccioli ha anche ospitato stabilmente Massimo Mazzucco, che smonta la versione ufficiale sull’11 Settembre. Ha dato spazio a Enrica Perucchietti, autrice di saggi su “fake news” e terrorismo “domestico” gestito da servizi segreti occidentali sotto falsa bandiera. E “Colors Radio” ha fatto audience ogni lunedì con Magaldi, che non ha esitato a svelare la cifra massonica (occulta) di tanti uomini di potere. Gianfranco Carpeoro, ospite con Gramiccioli della prima puntata di “Gioele Magaldi Racconta”, cita i “Promessi sposi”: elegante, Gramiccioli, nel non infierire sulla proprietà di “Colors Radio” che l’ha lasciato a piedi senza preavviso, e senza alcun rispetto per i tantissimi, affezionati ascoltatori. Ma certo, dice Carpeoro, il comportamento dell’editore ricorda quello di Don Abbondio. “Il coraggio, uno non se lo può dare”, scrive Manzoni. Specie se magari, come in questo caso, ha incontrato i “bravi”, che gli hanno fatto il loro discorsetto: via Gramiccioli, o niente più contratti pubblicitari. Onore al conduttore, in ogni caso, «ottimo giornalista e uomo dalla schiena diritta», lo saluta Magaldi. Che promette: la storia non finisce qui, naturalmente. Tanto per cominciare, la voce di Magaldi il lunedì mattina trasloca su “Border Nights”, grazie al tandem Carpeoro-Frabetti. E comunque, il progetto “Massoneria On Air” «riprenderà vita presto, vedremo come e dove».Anche perché il Movimento Roosevelt, di cui Magaldi è presidente, annuncia un impegno a tutto campo, anche sulla comunicazione. La missione è chiara: intanto, difendere il governo Conte e aiutarlo di fare di più e meglio. E’ vergognoso – dice Magaldi – che l’esecutivo gialloverde venga attaccato a reti unificate: per la prima volta, dopo l’orrenda stagione della Seconda Repubblica, un governo osa contestare la “teologia” del rigore, avanzando le prime proposte (ancora timide) per risollevare l’economia espandendo il deficit. «Le idee sono buone», riconosce lo stesso Carpeoro, nella speranza che poi «vengano effettivamente recepite nella finanziaria», vista la pericolosità dei super-poteri in azione, decisi a impedirlo con ogni mezzo. A fine novembre, annuncia Magaldi, lo stesso Movimento Roosevelt scenderà in campo – con un’assemblea generale a Roma – per presentare idee-forza da sottoporre poi al governo. In altre parole: siamo solo all’inizio della “primavera italiana”. Superati i primi scogli, poi i gialloverdi dovranno osare di più. E i circuiti massonici progressisti, di cui lo stesso Magaldi è portavoce, «si impegneranno a livello europeo per far sì che l’operato del governo italiano sia percepito in modo corretto», nonostante il fuoco d’interdizione cui è sottoposto ogni giorno dai grandi media, asserviti ai poteri oligarchici.Bei tempi, quando l’informazione italiana era affidata a professionisti come Stefano Andreani, prematuramente scomparso, cui Magaldi dedica un commosso ricordo. Stranissimo giornalista, Andreani, cattolico militante ma formatosi alla scuola di “Radio Radicale”: un uomo onesto, capace sempre di impedire alle proprie idee di intorbidire la verità destinata ai lettori. Esattamente il contrario dell’attuale deriva del post-giornalismo italico (gridato, fazioso, omertoso e bugiardo) che “bombarda” ogni giorno Di Maio e Salvini, in ossequio a poteri che poi, magari, impongono il licenziamento di un reporter coraggioso come Gramiccioli. Poteri forti, si capisce, che – ai piani alti – hanno il volto di Mario Draghi, supermassone «ascrivibile alla peggiore contro-iniziazione, che non manca certo di spessore e capacità strategica». Non come Mattarella, che politicamente «è un “maggiordomo” paramassone, come Enrico Letta», sintetizza Magaldi. Letta e Mattarella? «Figure ancillari e servizievoli, con poca autonomia e spessore di pensiero». Draghi in visita al capo dello Stato? Ovvio: «Fu Draghi a proporre Mattarella a Renzi, per il Quirinale, e quindi oggi Mattarella “prende ordini” da Draghi, talvolta per mezzo di Ignazio Visco», il governatore di Bankitalia. Ecco dunque, chiosa Magaldi, a cosa è servito l’incontro fra Draghi è Mattarella: ha permesso «che il padrone il suo maggiordomo concertassero qualche azione comune contro le pur labili, flebili innovazioni che questo governo sta cercando di introdurre».Come va letta, la visita di Draghi a Mattarella? «Be’, come dire: il padrone è venuto a visitare il maggiordomo». Indovinato: è Gioele Magaldi a esprimersi in questi termini, per commentare l’insolita “capatina” al Quirinale, da parte del presidente della Bce, proprio mentre l’establishment finanziario, politico e mediatico spara sul governo Conte, che si è permesso di alzare il deficit al 2,4% del Pil – nella previsione 2019 del Def – sperando di cominciare a finanziare reddito di cittadinanza, taglio delle tasse e pensioni più decorose. La novità è che, dall’8 ottobre, Magaldi “esterna” – sempre di lunedì, alle 12 – sul canale YouTube di “Border Nights”, dopo l’improvvisa chiusura di “Massoneria On Air” da parte di “Colors Radio”, che ha licenziato il conduttore, David Gramiccioli. «L’editore, che in tre anni mi aveva lasciato la massima libertà – spiega lo stesso Gramiccioli, durante il collegamento con Fabio Frabetti – mi ha contestato il crollo del fatturato pubblicitario, legato anche a strutture sanitarie». Facile che a turbare gli sponsor sia stata l’offensiva giornalistica di Gramiccioli, che contro l’obbligo vaccinale introdotto dalla legge Lorenzin ha anche scritto e interpretato il fortunatissimo spettacolo teatrale “Il decreto”.
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Vaccini, massoni e tabù: Colors Radio licenzia Gramiccioli
Perdi il posto, se insisti nel cercare la verità? Le forti pressioni subite avrebbero costretto l’editore di “Colors Radio” a licenziare il conduttore David Gramiccioli, direttore artistico dell’emittente. Sempre in prima linea sui temi più scomodi, Gramiccioli, a partire dalla battaglia civile contro l’obbligo vaccinale introdotto dal governo Gentiloni attraverso Beatrice Lorenzin – da cui lo spettacolo “Il decreto”, scritto e interpretato dallo stesso Gramiccioli, “sold out” nei teatri di tutta Italia. Ma non solo: vero e proprio mattatore di “Colors Radio”, Gramiccioli ha dato grande visibilità ai temi più difficili da trattare, come la polemica su “fake news” e terrorismo “false flag” sollevata dalla giornalista torinese Enrica Perucchietti, o le grandi falsificazioni del mainstream – a partire da quella sull’11 Settembre – denunciata dal documentarista Massimo Mazzucco, cui Gramiccioli aveva riservato una rubrica settimanale. Il licenziamento del conduttore “spegne” anche la voce radiofonica di Gioele Magaldi, che attraverso la rubrica “Massoneria On Air” ha potuto svelare la cifra massonica (occulta, e spesso oligarchica) dei maggiori protagonisti della politica, quella da cui giornali e televisioni stanno sempre a distanza di sicurezza, grazie al noto fenomeno dell’autocensura preventiva – mai disturbare il manovratore.«Permetteteci di esprimere subito la nostra solidarietà nei confronti del collega David Gramiccioli, che ha diffuso la notizia del suo licenziamento», afferma Fabio Frabetti di “Colors Radio” nella video-chat settimanale con Massimo Mazzucco, su YouTube. Una realtà radiofonica, quella di “Colors Radio”, che si stava affermando: grazie a Gramiccioli, «era diventata un vettore molto importante, per quanto riguarda il discorso vaccini e non solo». Purtroppo, gli fa eco lo stesso Mazzucco, «la storia di David è costellata da situazioni del genere: credo che questa sia la quarta o quinta volta che gli succede di essere licenziato per questi motivi». Mazzucco ricorda la sua prima intervista con Gramiccioli, a poca distanza dall’attentato alle Torri Gemelle, per quella che allora si chiamava “Radio Spazio Aperto”: si cominciava appena, a parlare di “verità non ufficiale” sull’11 Settembre, e Gramiccioli era già “sul pezzo”. «Poi le pressioni sono cresciute, la trasmissione è stata chiusa e il conduttore è stato costretto a licenziarsi». Il problema? Gramiccioli «tratta temi veramente scomodi: non solo l’11 Settembre ma anche la pedofilia, specie quella nella Chiesa», spiega Mazzucco. All’inizio le radio libere gli danno carta bianca, «ma appena lui guadagna ascolti – come stava succededo ora, con “Colors Radio” – qualcuno comincia a fare pressioni perché smetta di parlare di argomenti tanto delicati».A quel punto, continua Mazzucco, «l’editore si trova tra l’incudine e il martello, e comunica a Gramiccioli: “Guarda che mi stanno facendo pressioni: o la smetti o devo licenziarti”. Ma David è una persona con la schiena dritta, e risponde: io vado avanti. Così finisce regolarmente senza lavoro». Purtroppo, sottolinea Mazzucco, questo dimostra che, tanto per cominciare, «il discorso sui vaccini è veramente insidioso: oltre una certa soglia di attenzione non si può andare». Facile anche dedurre che Gramiccioli «abbia pagato il grande successo del suo spettacolo, “Il decreto”, che ha portato in tutta Italia: racconta la vera storia del decreto Lorenzin, di come è nato e di cosa c’è dietro. Io l’ho visto – conferma Mazzucco – ed è uno spettacolo veramente devastante, per quelli che sostengono la versione ufficiale sui vaccini, perché c’è dietro una storia di conflitto d’interessi che è veramente enorme». Gramiccioli, evidentemente, «si è creato dei nemici ad alto livello». Il che è un titolo di merito, se uno fa davvero il giornalista: permette al pubblico di scoprire verità che gli altri non raccontano mai.Informazione libera? Una rosa piena di spine: «Se c’è di mezzo la pubblicità, cominciano i condizionamenti», osserva Mazzucco: «Se devi pagare stipendi finisci per dipendere dalla pubblicità, e può succedere che ti si chieda di “sacrificare” certe trasmissioni che danno fastidio a chi comanda». Come si finisce nel mirino dei censori? Basta uscire dal “frame” citato da Marcello Foa, ora presidente Rai, nella sua coraggiosa polemica sulle viltà quotidiane dei media mainstream. Nelle notizie c’è sempre un “frame” (una cornice, un telaio ben preciso) all’interno del quale si deve restare, con qualunque argomentazione, sui grandi media. «Ma appena esci fuori da quel “frame”, da quella cornice – sottolinea Mazzucco – la notizia diventa tabù: certi argomenti non si possono più trattare, se affrontati in modo autonomo». Brutta storia: «Ci sembra sempre di avere una grande libertà di stampa solo perché viviamo – ci dicono – in un paese libero, in democrazia. Ma se appena esci fuori da quelle rotaie ti segano le caviglie», conclude Mazzucco, sicuro – comunque – che lo «spirito libero» di David Gramiccioli (già sommerso di attestazioni di solidarietà) gli ispirerà nuove avventure, come sempre dalla parte di quella verità che i grandi media temono, e di cui il pubblico ha sempre più bisogno.Perdi il posto, se insisti nel cercare la verità? Le forti pressioni subite avrebbero costretto l’editore di “Colors Radio” a licenziare il conduttore David Gramiccioli, direttore artistico dell’emittente. Sempre in prima linea sui temi più scomodi, Gramiccioli, a partire dalla battaglia civile contro l’obbligo vaccinale introdotto dal governo Gentiloni attraverso Beatrice Lorenzin – da cui lo spettacolo “Il decreto”, scritto e interpretato dallo stesso Gramiccioli, “sold out” nei teatri di tutta Italia. Ma non solo: vero e proprio mattatore di “Colors Radio”, Gramiccioli ha dato grande visibilità ai temi più difficili da trattare, come la polemica su “fake news” e terrorismo “false flag” sollevata dalla giornalista torinese Enrica Perucchietti, o le grandi falsificazioni del mainstream – a partire da quella sull’11 Settembre – denunciata dal documentarista Massimo Mazzucco, cui Gramiccioli aveva riservato una rubrica settimanale. Il licenziamento del conduttore “spegne” anche la voce radiofonica di Gioele Magaldi, che attraverso la rubrica “Massoneria On Air” ha potuto svelare la cifra massonica (occulta, e spesso oligarchica) dei maggiori protagonisti della politica, quella da cui giornali e televisioni stanno sempre a distanza di sicurezza, grazie al noto fenomeno dell’autocensura preventiva – mai disturbare il manovratore.
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
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Feltri l’antiromano, delizioso antropofago proto-gialloverde
Se Vittorio Feltri è diventato Vittorio Feltri, lo deve a tante qualità e a qualche suo difetto, ma lo deve sotto sotto a una cosa: non si è mai fatto sedurre, conquistare, tentare dalla Gloriosa Baldracca di nome Roma. È rimasto refrattario al fascino lascivo di lei, incorruttibile, non è mai sceso nella Capitale per dirigere giornali, per trafficare indulgenze e complicità, è sempre stato al di là del Rubicone, anzi nel regno dei Lombardi. Ha considerato i romani perfino peggio dei meridionali, il che per lui è tutto dire. Il viaggio della sua vita è stato da Bergamo a Milano, e lì è il suo sapore e la sua salvezza. Se pensi a tutti i giornali che ha diretto, ha fondato, ha ribattezzato, te li trovi tutti a Milano e paraggi. Non solo i giornali da cui è partito, come è inevitabile per chi viene dalla provincia. Ma anche quelli in cui è cresciuto e si è affermato: dall’“Eco di Bergamo” alla “Notte”, dal “Corriere della Sera” all’“Europeo”, dall’“Indipendente” al “Giornale”, da “Libero” alle altre avventure di passaggio. Perfino l’unico settimanale che ha diretto di passaggio, e che era diventato romano, “Il Borghese”, lui lo fece a nord e poi lo usò come un utero in affitto per partorire “Libero”.A proposito di “Borghese”, è uscito un suo bel libro, autobiografico, nell’inconfondibile stile feltriano, intitolato “Il Borghese” (ed. Mondadori), ma non allude al settimanale di Longanesi e dei Tedeschi (pater et filius), ma a se stesso. E Feltri in effetti può dirsi almeno per metà borghese. Ma a differenza dei borghesi italioti, Feltri ama sì, i costumi borghesi, i perfetti abiti borghesi, lo stile gentleman e alcuni modi di vivere straborghesi, ma è ispido, un po’ selvatico, paleoleghista, capace di fregarsene dei bei modi borghesi. Ama la borghesia del nord, non quella romana, il generone parastatale, vaticanesco e alla vaccinara. Ma quel suo modo di essere, quel suo modo di preferire cavalli e gatti a romani e migranti, lo ha reso quel che è. È forse l’unico personaggio di cui Crozza fa una caricatura perfino più moderata rispetto all’originale. Ma quell’indole, quel bossismo interiore ma con giacche firmate e non in canottiera, lo ha vaccinato dai compromessi col potere romano, col sottobosco della capitale e gli ossequi alla curia. Insomma il contrario di Gianni Letta, che è stato il miglior cerimoniere, il miglior diplomatico, l’unico cardinale prestato dalla curia al giornalismo e alla politica.Nelle sue pagine, Feltri parla dei suoi incontri con alcuni potenti, Fanfani, Andreotti, che collaborò col suo Europeo, Craxi, che egli attaccò come Cinghialone ma poi difese quando finì in esilio e rivalutò da morto. Si capisce che non ha mai trescato con loro. Non è mai sceso a patti col potere, ma non per chissà quale Visione etica e trascendentale, ma per una ragione più semplice e più schietta: il carattere. Allergico ai salamelecchi, ai minuetti, ai cedimenti, pratico, mai contorto. Fu burbero e scontroso anche coi suoi editori, incluso Berlusconi. Non a caso si diceva “Il Giornale di Feltri” e non, come poi si è detto, “il Giornale di Berlusconi”. Posso testimoniare che con lui ho avuto il massimo di libertà di scrivere e pure di criticare il berlusconismo, il centro-destra e paraggi. Se un’opinione non gli piaceva, pensava ai lettori che l’avrebbero condivisa e magari vi opponeva un’opinione in senso contrario. Ma la sua forza è sempre stata il mercato, aveva i numeri dalla parte sua, aveva le copie, e se all’editore non andava giù qualcosa, lui poteva andarsene a fondare un altro giornale.Epica fu la stagione de “L’Indipendente”, gloriosa quella del “Giornale”, nientemeno dopo Montanelli, il suo dio fondatore, che lui raddoppiò nelle vendite. E poi “Libero”. Andò di successo in successo, dando voce a quella metà d’Italia che i potentati giornalistici ignoravano. Posso dire d’aver partecipato a tutte le sue imprese di successo, meno a un paio che successo ne ebbero un po’ meno. Feltri è stato il precursore del berlusconismo in politica, del bossismo, del centro-destra e un po’ anche del Vaffa grillino; ha rappresentato l’altra metà del mondo, ora in maggioranza, i cani sciolti e gli arrabbiati, la borghesia delusa e spaventata. E dev’essere un gran cruccio ora vedere che più di mezza Italia la pensa come lui in molte cose ma i giornali più vicini a quell’area di umori e malumori non sfondano, perché la gente non legge più. Esprime umori, non cerca opinioni. Con Feltri c’incontrammo perché lo invitai a scrivere per “L’Italia Settimanale” nel ’92 e insieme sostenemmo l’alleanza ibrida che poi prese corpo. Ricordo che gli chiesi un commento sul tema “Se cani e gatti si alleassero”, che precorse il Polo delle Libertà. Poi lasciai il “Giornale” di Montanelli per seguirlo all’“Indipendente”, tornai con lui al “Giornale” lasciando la redazione Rai; poi a “Libero”, e ancora al “Giornale”.L’unica parentesi critica fu col “Borghese” – lui direttore e io direttore editoriale – accorpato con un settimanale che dirigevo io, “Lo Stato”. Lui chiuse l’inserto culturale, lo “Stato delle Idee”, gli editori infilarono cassette semi-porno nella rivista, e io nel nome di Longanesi e della dignità me ne andai. Lo reincontrai una volta a Roma al Matriciano ma fingemmo di non vederci. L’incontro fatale fu su un treno Roma-Milano. Stavo andando in bagno, era occupato, si liberò in quel momento e uscì Feltri. Eravamo faccia a faccia. Avevo tutto da perdere nello stringergli la mano perché il 50% degli italiani, bergamaschi inclusi, non si lava le mani dopo la pipì. Ma fu giocoforza. Riuniti per la prostata. Poi riprendemmo il nostro strano sodalizio senza frequentazione, adozione a distanza, ammirazione e forse affetto, ma senza darlo a vedere. Lui nordista io sudista, lui lombardocentrico io romanocentrico, io nazionalista lui padano-individualista, lui liberista io destra-sociale, io per la cultura lui per il giornalismo duro e puro. Ma la divergenza fu il sale della nostra unione, non dirò che fummo precursori della coppia Di Maio-Salvini, ma ci siamo capiti…Feltri ha dato sapore e brio al giornalismo nostrano, ha dato carattere, anche brutto, ha dato inventiva e titoli esagerati ma efficaci. Nel momento in cui cadevano gli dei del giornalismo, Bocca, Biagi, Montanelli, Fallaci – a cui Feltri dedica in queste pagine succosi ritratti- lui è rimasto solo. El Diretur. Se Vittorino da Feltre fu un grande umanista, Vittorione Feltri è un delizioso antropofago che se ne impipa dell’umanità. Il peggior affronto che gli feci, lo riconosco, fu quella volta, vent’anni fa, che lo portai a pranzo dopo una riunione a Roma del “Borghese”. Lo portai ar Pallaro, romanesco che più romano non si può, e lui guardava inorridito il luogo e gli indigeni, come se l’avessi portato in un campo rom o in una baraccopoli africana. Se famo du spaghi dottò? So di avergli fatto passare una brutta ora. Ma non volevo fargli un torto, e neanche la mitica sora Paola der Pallaro lo voleva. È lo spirito sornione della Vecchia Roma che appena sente odore di antiromani li prende in ostaggio, dà il peggio di sé, e se mette a‘ cojonà il suo nemico. Che spettacolo indimenticabile fu Feltri cacio e pepe.(Marcello Veneziani, “Feltri l’antiromano”, da “Il Tempo” del 21 settembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani. Il libro: Vittorio Feltri, “Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato”, Mondadori, 108 pagine, 17 euro).Se Vittorio Feltri è diventato Vittorio Feltri, lo deve a tante qualità e a qualche suo difetto, ma lo deve sotto sotto a una cosa: non si è mai fatto sedurre, conquistare, tentare dalla Gloriosa Baldracca di nome Roma. È rimasto refrattario al fascino lascivo di lei, incorruttibile, non è mai sceso nella Capitale per dirigere giornali, per trafficare indulgenze e complicità, è sempre stato al di là del Rubicone, anzi nel regno dei Lombardi. Ha considerato i romani perfino peggio dei meridionali, il che per lui è tutto dire. Il viaggio della sua vita è stato da Bergamo a Milano, e lì è il suo sapore e la sua salvezza. Se pensi a tutti i giornali che ha diretto, ha fondato, ha ribattezzato, te li trovi tutti a Milano e paraggi. Non solo i giornali da cui è partito, come è inevitabile per chi viene dalla provincia. Ma anche quelli in cui è cresciuto e si è affermato: dall’“Eco di Bergamo” alla “Notte”, dal “Corriere della Sera” all’“Europeo”, dall’“Indipendente” al “Giornale”, da “Libero” alle altre avventure di passaggio. Perfino l’unico settimanale che ha diretto di passaggio, e che era diventato romano, “Il Borghese”, lui lo fece a nord e poi lo usò come un utero in affitto per partorire “Libero”.
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Sdoganare la pedofilia: vogliono far cadere l’ultimo tabù
La pedofilia è l’ultimo grande tabù della civiltà occidentale: orientamento sessuale innato per alcuni, perversione immorale e criminale da punire duramente con il carcere per altri, o ancora una malattia mentale da curare. È necessario discutere oggi di pedofilia, perché il suo sdoganamento – con conseguente legalizzazione e decriminalizzazione sociale – con molta probabilità avverrà nel prossimo futuro; e non si tratta di complottismo spicciolo, ma di una presa di coscienza basata sulla lettura degli eventi attuali. Prima di parlare di cosa stia succedendo a livello propagandistico e pubblico in tema di pedofilia, occorre ripercorrere le origini di un movimento ben definito, organizzato e diffuso capillarmente in tutto l’Occidente, che ambisce a normalizzare le relazioni sessuali tra adulti e minori, nel nome della libertà di scelta e di un presunto diritto dei bambini ad amare. I movimenti per la legalizzazione della pedofilia sorgono nel contesto della rivoluzione controculturale sessantottina che dilagò nei paesi occidentali fra gli anni ’60 e ’70, simultaneamente e nell’alveo delle lotte di liberazione femministe e omosessuali.I più grandi ideologi e pensatori della rivoluzione sessuale scoppiata nell’epoca della grande contestazione sono stati anche degli strenui sostenitori della caduta degli ultimi tabù sessuali, come incesto e pedofilia, ritenuti dei lasciti dell’eteronormatività fallocentrica e patriarcale: Jacques Derrida, il coniatore del termine fallocentrismo, Michael Warner, colui che ha popolarizzato il concetto di eteronormatività, Jack Halberstam, autore prolifico sulle identità di genere e sulla mascolinità tossica, e in generale i maggiori esponenti del postmodernismo francese come Michel Foucault, Guy Hocquenghem, Jean Danet, Françoise Dolto, e la controversa coppia Simone de Beauvior-Jean Paul Sartre. Nel 1977 i capofila della critica esistenzialista e del postmodernismo francesi, tra i quali Foucault, Derrida, de Beauvior, Sartre, Gilles Deleuze e Louis Althusser, inviarono una petizione al Parlamento per chiedere l’abolizione dell’età del consenso e la depenalizzazione di ogni rapporto sessuale consenziente tra adulti e minori di 15 anni. Foucault, inoltre, infervorò il dibattito pubblico intervenendo insieme a Hocquenghem nel programma “Dialogue” dell’emittente radiofonica “France Culture”, spiegando le ragioni del suo sostegno alla causa pedofila.Contemporaneamente a Londra fu fondato il Paedophile Information Exchange da Michael Manson, un piccolo gruppo pro-pedofilia dipendente dall’Outright Scotland, una delle più grandi e longeve sigle presenti nella galassia lgbt britannica. Sebbene numericamente esiguo e ufficialmente isolato dalle maggiori organizzazioni omosessuali, il Pie riuscì a trasformare in un dibattito nazionale l’abolizione dell’età del consenso e curò la pubblicazione di un proprio periodico, “Understanding Paedophilia”, riuscendo ad ottenere finanziamenti pubblici per circa 70 mila sterline dall’Home Office (secondo una recente inchiesta del “Daily Mirror”) e ad ottenere l’affiliazione al National Council for Civil Liberties, oggi noto semplicemente come Liberty, una delle più importanti organizzazioni per i diritti civili e umani presenti in Inghilterra. Nello stesso periodo, negli Stati Uniti, David Thorstad, ex troskista poi divenuto il più importante attivista pro-pedofilia della storia occidentale recente, fonda la North American Man/Boy Love Association (Nambla), il più grande ed influente gruppo di pressione attivo nell’abolizione dell’età del consenso e nella promozione delle relazioni sessuali tra adulti e minori.Le posizioni estremiste della Nambla hanno causato la sua scomunica dall’International Lesbian and Gay Association nel 1994, a seguito di una controversia giunta in sede di Nazioni Unite, e nonostante le numerose inchieste federali e gli scandali sessuali che hanno coinvolto diversi membri, non è mai stata sciolta dalla giustizia statunitense. La Nambla ha avuto il merito di realizzare contatti con le principali sigle della galassia pro-pedofilia, riuscendo nell’obiettivo di trasformare l’International Pedophile and Child Emancipation in una vera e propria internazionale della pedofilia, composta da più di 80 fra organizzazioni e partiti politici di Canada, Stati Uniti ed Europa occidentale. La situazione organizzativa e associativa dei movimenti pro-pedofilia in Europa occidentale è comparabile a quella statunitense, sebbene il dibattito sia meno acceso per via del minore spazio garantito dai grandi media a questa ala estrema della più vasta galassia Lgbt. La Germania è il paese europeo con più organizzazioni pro-pedofilia del Vecchio Continente, oltre 15, e ha ospitato fra gli anni ’70 e ’90 un dibattito politico molto serio inerente l’abolizione dell’età del consenso, la depenalizzazione dei rapporti tra adulti e minori e la decriminalizzazione sociale della pedofilia, che ha coinvolto anche attori politici di spessore come il partito dei Verdi, e vanta una triste, quanto sconosciuta, storia di esperimenti sociali miranti a capire gli effetti dei rapporti pedofili sulla psiche degli adolescenti.Negli anni ’70 il dipartimento di sociologia dell’università di Hannover guidò una serie di ricerche sotto l’egida del professore Helmut Kentler, luminare noto nell’ambiente accademico nazionale per le sue innovative idee di ingegneria sociale. Il programma di Kentler prevedeva l’affidamento di adolescenti senzatetto o senza famiglia con problemi comportamentali, di tossicodipendenza o di alcolismo, presso pedofili noti, ossia con precedenti penali per abusi su minori o segnalati alle autorità, con il duplice obiettivo di fornire alle cavie una figura genitoriale e ai pedofili una possibilità di trasformarsi in modelli comportamentali positivi. Il programma fu finanziato con fondi pubblici e fu scoperto soltanto alla morte di Kentler avvenuta nel 2008. La giustizia tedesca non è stata capace di appurare il numero di giovani tedeschi, soprattutto berlinesi, affidati a pedofili come parte del cosiddetto esperimento Kentler, sebbene le indagini abbiano concluso possano essere stati più di mille.I Paesi Bassi hanno ospitato le attività dell’organizzazione Vereniging Martijn e del partito politico Carità, Libertà e Diversità, impegnati nella revisione dell’età del consenso, nell’inserimento della pedofilia tra i temi affrontati dall’educazione sessuale nelle scuole, e nella depenalizzazione della pedopornografia. Sebbene questi due movimenti siano stati dissolti dalla giustizia olandese, anche per via dei crimini sessuali che hanno visti coinvolti i loro membri, il contesto intellettuale nel quale sono sorti, ossia la Società Olandese per la Riforma Sessuale, è ancora in fermento e continua a propagandare la normalizzazione di ogni perversione sessuale, dalla pedofilia alla zoofilia. Il dibattito pubblico e accademico sulla pedofilia nei Paesi Bassi inizia nell’immediato secondo dopoguerra con la fondazione dell’Enclave Kring, il primo movimento pro-pedofilia del mondo, da parte dell’eminente psicologo e attivista omosessuale Frits Bernard.Bernard sfruttò la sua notorietà per tentare di sdoganare questo tabù, portando la sua battaglia anche nel vicino mondo omosessuale, in quanto collaboratore del Coc, la più longeva organizzazione per i diritti omosessuali del mondo. Il movimento pro-pedofilia nazionale riuscì a riscuotere ulteriore visibilità tra gli anni ’50 e ’80 per via dell’intenso attivismo di Edward Brongersma, senatore appartenente al Partito del Lavoro poi convertitosi in un prolifico autore di opere sulla sessualità infantile e sui rapporti adulto-bambino. Brongersma lottò durante la sua intera carriera politica per revisionare l’età del consenso e sdoganare la pedofilia, dando vita ad una fondazione avente il suo nome con l’obiettivo di realizzare i suoi progetti politici in tema di sessualità. Coerentemente con il suo credo anticattolico e progressista, nel 1998 decise di porre fine alla sua esistenza tramite eutanasia volontaria.La pedofilia, intesa come rapporto sessuale consenziente tra adulti e bambini, gode quindi di un supporto ideologico e di una rete organizzativa molto più vaste di quanto si creda comunamente e la lotta per il suo sdoganamento sarà un importantissimo terreno di scontro della guerra culturale tra le forze tradizionaliste-conservatrici e progressiste-liberali d’Occidente. Attingendo dalle principali teorie sulla costruzione del consenso e sul condizionamento delle opinioni e del comportamento è facile capire in che modo i tabù vengono normalizzati e i loro detrattori accusati di oscurantismo e retrogradezza: il sociologo Joseph Overton, il teorico della Finestra di Overton, ha illustrato quanto sia semplice trasformare un’idea impensabile o radicale in una diffusa e legalizzata attraverso un processo di accettazione e razionalizzazione, la Scuola di Francoforte ha illustrato il potere persuasivo dei grandi media sugli spettatori attraverso le teorie della spirale del silenzio, dell’agenda setting o del falso consenso.I grandi media anglofoni, come il “The Telegraph”, il “The Independent”, la “Bbc”, la “Cnn” o il “New York Times”, producono periodicamente degli approfondimenti pro-pedofilia, da titoli accattivanti come “We Have Met the Pedophiles and They Are Us”, “Pedophilia: A Disorder, Not a Crime”, “Paedophilia is natural and normal”, “Paedophilia a sexual orientation – like being straight or gay”, dando voce ad accademici, politici, opinionisti ed intellettuali che attraverso discutibili presentazioni basate sul disconoscimento delle conseguenze, sul ridimensionamento, sul giustificazionismo morale, o sull’idea del progresso, tentano di aprire un dibattito pubblico su questo tabù. Negli ultimi anni Ted, l’internazionale delle conferenze sulle società del futuro, finanziata tra gli altri dalla famiglia Clinton, da Bill Gates, da Jimmy Wales e da Google, ha organizzato diversi eventi sul tema della pedofilia, della sessualità contemporanea e delle questioni di genere. Il 5 maggio 2018 nell’ambito di un convegno all’università di Würzburg, l’intervento di Mirjam Heine intitolato “Why our perception on pedophilia must change: pedophilia is a natural sexual orientation”, registrato e pubblicato su YouTube, ha avuto una eco mediatica globale e attirato forti critiche verso gli organizzatori.Negli Stati Uniti il dibattito sulla pedofilia è tornato in auge con l’affermazione della cosiddetta “alt-right”, alimentato da personaggi pubblici come Milo Yiannopoulos e Nathan Larson, mentre nel resto del mondo occidentale proliferano le partecipazioni delle sigle pro-pedofilia ai gay pride, dopo un ventennio di damnatio memoriae, assume sempre più importanza il 25 aprile, la data scelta annualmente per celebrare l’Alice Day, ossia la giornata dell’orgoglio pedofilo, e dei bambini come Desmond Napoles o Nemis Quinn, sono diventati dei giovanissimi drag queen ed icone culturali idolatrate dalla comunità gay occidentale, dai media e dall’establishment dello spettacolo. L’insieme di questi accadimenti lascia supporre che la guerra culturale per l’accettazione della pedofilia sia molto viva ed intensa e ben lontana dal finire. La costruzione dell’Occidente del futuro passerà anche da questo: dal rendere socialmente accettabile la perversa convinzione che anche i bambini abbiano il diritto a sperimentare la sessualità, meglio se con adulto, e che in un mondo ruotante attorno al sesso, alla concupiscenza edonistica e al soddisfacimento di ogni desiderio secondo una visione distopica huxleyana non ci sia nulla di sbagliato nell’educare i fanciulli alla normalità della pedofilia.(Emanuel Pietrobon, “Guerra all’ultimo tabù”, da “L’intellettuale dissidente” del 19 agosto 2018).La pedofilia è l’ultimo grande tabù della civiltà occidentale: orientamento sessuale innato per alcuni, perversione immorale e criminale da punire duramente con il carcere per altri, o ancora una malattia mentale da curare. È necessario discutere oggi di pedofilia, perché il suo sdoganamento – con conseguente legalizzazione e decriminalizzazione sociale – con molta probabilità avverrà nel prossimo futuro; e non si tratta di complottismo spicciolo, ma di una presa di coscienza basata sulla lettura degli eventi attuali. Prima di parlare di cosa stia succedendo a livello propagandistico e pubblico in tema di pedofilia, occorre ripercorrere le origini di un movimento ben definito, organizzato e diffuso capillarmente in tutto l’Occidente, che ambisce a normalizzare le relazioni sessuali tra adulti e minori, nel nome della libertà di scelta e di un presunto diritto dei bambini ad amare. I movimenti per la legalizzazione della pedofilia sorgono nel contesto della rivoluzione controculturale sessantottina che dilagò nei paesi occidentali fra gli anni ’60 e ’70, simultaneamente e nell’alveo delle lotte di liberazione femministe e omosessuali.
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Pedofili a Hollywood: il vero scandalo, che non esplode mai
Ho l’impressione, dice, che gli scandali Weinstein, Spacey e Hoffman siano serviti per silenziare una bomba ben peggiore, che stava per scoppiare: l’esistenza di una rete di pedofili seriali a Hollywood. Lei è Enrica Perucchietti, coraggiosa reporter e autrice di saggi su “fake news” (in collaborazione con Marcello Foa) e terrorismo “false flag”, cioè attuato – sotto falsa bandiera – dagli stessi governi, tramite settori dell’intelligence. Una radiografia del potere, quella fornita dalla Perucchietti, che include anche le pagine meno illuminate dei padroni del mondo: la loro vita privata, spesso inquinata da devianze inconfessabili. Ne ha parlato anche con Gianluca Marletta nel libro “Unisex”, che si interroga sull’ambigua manipolazione sociale che affiora, in controluce, dagli sponsor “politicamente corretti” dell’ideologia gender. Ora, dopo l’ennesimo scandalo – la grande accusatrice Asia Argento a sua volta accusata di abuso su un minorenne – Enrica Perucchietti esprime un terribile sospetto: e se lo tsunami inaugurato con il caso Weinstein fosse servito, essenzialmente, a depistare il pubblico e nascondere un orrore ancora più grande, cioè la pedofilia diffusa a Hollywood oltre che tra i palazzi del massimo potere?«Sono stati offerti dettagli morbosi delle violenze di produttori e attori per distrarre l’opinione pubblica da uno scandalo ben peggiore», scrive Enrica Perucchietti in un post su Facebook, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Uno scandalo “silenziato” attraverso la tempesta scatenatasi sui presunti abusi del mondo del cinema, attori e produttori accusati di ricatto sessuale su giovani attrici esordienti. L’altro scandalo, quello rimasto tabù, avrebbe potuto «travolgere e distruggere definitivamente Hollywood: e lì non sarebbe bastato un colpo di spugna per cancellare la violenza». Perché in quel caso «le vittime erano una sorta di agnello sacrificiale dato in pasto al Moloch di turno in cambio di denaro e successo: bambini». Per Enrica Perucchietti, si tratta del «peggior crimine che si possa immaginare», ovvero «la violenza su un bambino». Numerosi fatti di cronaca − come l’accusa di stupro dell’ex attore-bambino Michael Egan al regista Bryan Singer − hanno spinto la regista Amy Berg, già premio Oscar nel 2006 al miglior documentario, “Deliver Us from Evil”, a realizzare un documentario (“An Open Secret”), che analizza alcuni casi di abusi sessuali su minori all’interno dell’industria cinematografica hollywoodiana.Dai pettegolezzi, continua Perucchietti, si è passati alle testimonianze, con i nomi degli accusati, «ricostruendo un vero e proprio “cerchio magico” composto da un’élite blindata e deviata». Ne parla anche il “Giornale”: “Ecco i pedofili al potere: Hollywood, il documentario sull’ombra della pedofilia”. Di fatto, “An Open Secret” mostra come potenti e intoccabili personalità di Hollywood convincano bambini e le loro famiglie a fidarsi di loro. «Si assiste cioè a un primo richiamo suadente delle sirene hollywoodiane (i provini, le feste, i primi film) che ti promettono una carriera sfavillante, poi le spire del serpente si stringono sempre di più attorno alla preda, strappando i bambini alla loro infanzia e consegnandoli nelle mani di ricchi pervertiti». Molti, aggiunge Perucchietti, hanno ovviamente gridato allo scandalo, «facendo quadrato attorno ai presunti pedofili e impedendo la distribuzione del film: è però lunga la lista di attrici e attori che hanno raccontato di aver subito (persino da bambini o adolescenti) molestie sul set o ancora prima, durante i provini».Elijah Wood, per esempio, ha denunciato che a Hollywood «la pedofilia è un problema diffuso». L’attore, che ha cominciato a recitare da bambino, ha spiegato che la madre lo ha protetto da quell’ambiente malsano, tenendolo lontano dalle feste del mondo dello spettacolo. Molti altri attori-bambini non sono stati però così fortunati, aggiunge Enrica Perucchietti: «Corey Feldman, star dei “Goonies” e di “Stand by Me”, ha affermato di essere stato molestato nel 1980 e ha portato la testimonianza di altri bambini-attori vittime di abusi. Da anni denuncia pubblicamente l’esistenza della pedofilia ad Hollywood». Nel marzo 2018, pochi giorni dopo aver annunciato di voler rivelare in un documentario tutto quello che sa, Feldman è stato aggredito e pugnalato. «Ecco, temo che questo sia il segreto sotto gli occhi di tutti», chiosa Perucchietti. Un segreto terribile, che però «non verrà mai alla luce». E’ più che un timore: non avrà lo spazio che merita «sui media di massa e nelle aule di tribunale». Troppo imbarazzante lo scandalo, troppo potenti i protagonisti.Il pubblico dovrà accontentarsi della caduta – mediatica – di Asia Argento, trasformata da vittima a carnefice: da grande accusatrice di Harvey Weinstein a peresunta “predatrice” del diciassettenne Jimmy Bennett, al quale – secondo il “New York Times” – la Argento avrebbe proprosto un risarcimento da 380.000 dollari. Per Enrica Perucchietti, il caso dimostrerebbe «la doppia morale di certi personaggi che si ergono a paladini dei diritti, che si fanno bandiera di campagne di linciaggio mediatiche, che fanno i finti buonisti, che hanno (però) ingombranti scheletri negli armadi». Si tratta di personaggi che «fungono da armi di distrazione di massa». Per coprire il vero scandalo, quello indicibile? Cioè gli abusi, inconfessabili, sui bambini? «Chiariamo: un abuso è un abuso – che avvenga su una donna, un uomo o su un ragazzino». Il problema, scrive ancora Enrica Perucchietti, è che a certi livelli «il marcio colpisce uomini e donne in modo indistinto». Anche perché «il potere ti offusca, ti corrompe: il male ti sfiora e ti contamina come un morbo, facendoti perdere qualunque bussola morale e probabilmente ti sconnette dalla realtà». Un altro problema – non certo trascurabile – è che proprio questi personaggi «hanno in mano le chiavi della “fabbrica dei sogni”», e quindi «manipolano l’immaginario di milioni di persone».Ho l’impressione, dice, che gli scandali Weinstein, Spacey e Hoffman siano serviti per silenziare una bomba ben peggiore, che stava per scoppiare: l’esistenza di una rete di pedofili seriali a Hollywood. Lei è Enrica Perucchietti, coraggiosa reporter e autrice di saggi su “fake news” (in collaborazione con Marcello Foa) e terrorismo “false flag”, cioè attuato – sotto falsa bandiera – dagli stessi governi, tramite settori dell’intelligence. Una radiografia del potere, quella fornita dalla Perucchietti, che include anche le pagine meno illuminate dei padroni del mondo: la loro vita privata, spesso inquinata da devianze inconfessabili. Ne ha parlato con Gianluca Marletta nel libro “Unisex”, che si interroga sull’ambigua manipolazione sociale che affiora, in controluce, dagli sponsor “politicamente corretti” dell’ideologia gender. Ora, dopo l’ennesimo scandalo – la grande accusatrice Asia Argento a sua volta accusata di abuso su un minorenne – Enrica Perucchietti esprime un terribile sospetto: e se lo tsunami inaugurato con il caso Weinstein fosse servito, essenzialmente, a depistare il pubblico e nascondere un orrore ancora più grande, cioè la pedofilia diffusa a Hollywood oltre che tra i palazzi del massimo potere?
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Bifarini: dove sono finiti i miliardi di dollari di aiuti all’Africa?
Ingenti prestiti da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali, consistenti sgravi del debito statale, fondi raccolti da iniziative private, che hanno mobilitato tutti, dai singoli cittadini occidentali attraverso forme organizzate di beneficenza alle star dello spettacolo, che si sono spese per i diritti dei più deboli attraverso concerti ed esibizioni. Fiumi di miliardi di dollari che non sembrano aver intaccato per nulla il problema del sottosviluppo e della povertà endemica del Terzo Mondo. Anzi. E’ stato riscontrato che, dalla metà degli anni Novanta, circa 60 paesi in via di sviluppo siano diventati più poveri in termini di reddito pro-capite rispetto a 15 anni prima. Entro il 2030 i due terzi dei poveri di tutto il mondo proveranno dall’Africa. L’Africa dunque è sempre più povera, ma di una povertà nuova rispetto a quella del passato coloniale. Il continente africano annovera infatti i paesi con i più alti livelli di disuguaglianza al mondo, in cui il divario tra una ristretta élite dedita al lusso e il resto della popolazione che vive in uno stato di miseria è abissale. Dunque, cosa non ha funzionato? Dove sono finiti i fiumi di miliardi di dollari?La risposta in realtà è alquanto intuitiva: hanno seguito la stessa corrente che trascina la ricchezza collettiva su scala mondiale. Sono finiti in conti offshore, hanno arricchito a dismisura élite locali consenzienti e complici dei grandi speculatori internazionali e soprattutto hanno arricchito loro, i Signori del debito. Dopo essere finita nella spirale micidiale dei prestiti per il pagamento del debito e degli interessi maturati su di esso a seguito della crisi del debito del 1982 che ha coinvolto i paesi del Terzo Mondo, l’Africa post coloniale ha definitivamente perso ogni possibilità di sviluppo. Si stima che per ogni dollaro preso a prestito da banche e organizzazioni finanziarie internazionali ne abbia restituiti 13! Un Piano Marshall al contrario, che ha dirottato i soldi stanziati per il Terzo Mondo verso i finanziatori del debito del Primo Mondo. La stessa depredazione da parte della finanza attraverso l’arma del debito che sta oggi asfissiando il nostro paese (in 20 anni abbiamo pagato ben 1700 miliardi di euro di soli interessi!).Il passaggio dal colonialismo imperialista al post-colonialismo del debito è stato brutale per il Continente Nero e ha soffocato quei timidi tentativi di sviluppo economico nazionale avviati attraverso la politica di sostituzione delle importazioni. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono intervenuti attraverso i cosiddetti “programmi di aggiustamento strutturale” (Pas): in cambio di prestiti e assistenza hanno imposto il controllo economico, monetario e politico dell’Africa. Contravvenendo a ogni logica e a ogni esempio di percorso di sviluppo economico nazionale, hanno imposto l’apertura incondizionata alle liberalizzazioni e al libero scambio a paesi che non avevano ancora avviato la creazione di un tessuto industriale e produttivo su base locale. Il modello coercitivamente introdotto ha previsto l’utilizzo dei prestiti per incentivare le esportazioni, senza nessun investimento nello sviluppo tecnologico e del capitale umano, al fine di ottemperare gli oneri del debito.Sono state abolite tutte le forme di protezionismo necessarie a tutelare l’economia locale e sfruttare le potenzialità di sviluppo industriale nazionale. Così in Ghana nel 2002 sono state abolite le tariffe sull’importazione di prodotti alimentari, con una conseguente impennata di importazioni di prodotti alimentari dall’Unione Europea, come i famosi scarti di pollo congelati che costano un terzo di quelli prodotti localmente. Nello Zambia l’abolizione dei dazi sulle importazioni dei capi di abbigliamento ha soffocato una piccola rete di ditte locali a favore delle importazioni dei capi di abbigliamento usati dall’Occidente. I programmi del Fondo Monetario hanno inoltre imposto tagli alla spesa sanitaria e all’istruzione, i cui livelli erano già molto carenti, e la privatizzazione di servizi pubblici essenziali – come la fornitura idrica- in gran parte dei paesi. Sebbene le due istituzioni di Bretton Woods (Fmi e Bm) abbiano spesso imputato la causa dell’evidente fallimento dei propri “piani di aggiustamento strutturale” al fenomeno radicato della corruzione dei governanti africani, il loro coinvolgimento è ineludibile.Così, nonostante fosse risaputa l’indole cleptomane di Mobutu nello Zaire, che rubò oltre la metà degli aiuti economici ricevuti dal paese, essi continuarono a concedergli prestiti. Non a caso i programmi di privatizzazione del Fondo Monetario sono altresì conosciuti come “programmi di tangentizzazione”. Gran parte di questi fondi sono finiti nelle offshore, dove gran parte dei trilioni di denaro sporco che ogni anno vengono versati provengano dal Terzo Mondo. In questo immenso flusso di denaro «è stato stimato che almeno metà dei fondi presi in prestito dai principali debitori siano tornati indietro dalla porta di servizio, di solito nello stesso anno – se non nello stesso mese – in cui arrivano prestiti» (James S. Henry, “Where the money went”). Non dobbiamo dunque stupirci se la povertà e sottosviluppo dell’Africa sono peggiorati e se al flusso di denaro fanno seguito gli attuali flussi migratori di esseri umani. Il colonialismo mondiale del debito prevede anche questo.(Ilaria Bifarini, “Dove sono finiti i miliardi di dollari degli aiuti all’Africa?”, dal blog della Bifarini del 13 luglio 2018. L’economista Bifarini, che si autodefinisce “bocconiana redenta”, è autrice di saggi sulla catastrofe del neoliberismo e del recentissimo lavoro “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”).Ingenti prestiti da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali, consistenti sgravi del debito statale, fondi raccolti da iniziative private, che hanno mobilitato tutti, dai singoli cittadini occidentali attraverso forme organizzate di beneficenza alle star dello spettacolo, che si sono spese per i diritti dei più deboli attraverso concerti ed esibizioni. Fiumi di miliardi di dollari che non sembrano aver intaccato per nulla il problema del sottosviluppo e della povertà endemica del Terzo Mondo. Anzi. E’ stato riscontrato che, dalla metà degli anni Novanta, circa 60 paesi in via di sviluppo siano diventati più poveri in termini di reddito pro-capite rispetto a 15 anni prima. Entro il 2030 i due terzi dei poveri di tutto il mondo proveranno dall’Africa. L’Africa dunque è sempre più povera, ma di una povertà nuova rispetto a quella del passato coloniale. Il continente africano annovera infatti i paesi con i più alti livelli di disuguaglianza al mondo, in cui il divario tra una ristretta élite dedita al lusso e il resto della popolazione che vive in uno stato di miseria è abissale. Dunque, cosa non ha funzionato? Dove sono finiti i fiumi di miliardi di dollari?