Archivio del Tag ‘spesa pubblica’
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Di Maio: votare Pd o Berlusconi è uguale, finiranno insieme
Non sono d’accordo su niente, tranne che sulle poltrone: per questo si preparano a “sgovernare” insieme ancora una volta, come ai tempi di Mario Monti, dopo aver raccontato solo frottole ai loro elettori. Pd e Forza Italia «si propongono sotto mentite spoglie», solo per tentare di fare il pieno di seggi facendo credere di essere l’un contro l’altro armati. «In questa storia c’è una alleanza alla luce del sole, che però è finta, e una alleanza all’oscuro di tutti, che però è vera», scrive Luigi Di Maio sul “Blog delle Stelle”. «La finta alleanza è quella del centrodestra. Salvini e Berlusconi non hanno nulla in comune nel programma. Berlusconi dice di voler rispettare tutti i vincoli europei a partire da quello del 3%. Salvini invece dice di volerlo sforare e ha candidato il professore no-euro Bagnai. Berlusconi dice di non voler abolire la Fornero e possiamo credergli perché lui, assieme alla Meloni, l’ha votata. Salvini dice di volerla abolire». E l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito, perché «non sono d’accordo su nulla». La loro, sostiene il candidato grillino, «non è un’alleanza programmatica, ma poltronistica», cioè tattica, per interpretare a loro vantaggio l’ennesima legge elettorale inguardabile, il Rosatellum, appositamente “fabbricata” per impedire che qualcuno vinca davvero, creando così le condizioni per “l’inciucio” che nessuno ammette.Con questa legge elettorale, scrive Di Maio, «l’unica possibilità che hanno questi partiti di raccattare qualche poltrona in più di quella che gli darebbe la vera percentuale che hanno (ben al di sotto del 20%) è puntare ai collegi uninominali dove si ottiene un parlamentare prendendo anche un solo voto in più rispetto agli altri, soprattutto in Lombardia, in Veneto e da qualche parte al Sud». Visto che, sondaggi alla mano, in molte zone d’Italia il Movimento 5 Stelle da solo è al di sopra delle coalizioni di centrodestra e centrosinistra, «se tutti i partiti si presentassero da soli, nessuno avrebbe possibilità di vincere neppure un collegio uninominale: li prenderebbe tutti il Movimento 5 Stelle». Per questo, «si mettono insieme con decine di partiti dallo zerovirgola, pur non avendo nulla in comune, per fregarsi la poltrona e poi, passata la festa (il voto), gabbato lo santo (l’elettore). Sia Berlusconi sia Salvini hanno tutto l’interesse a portare avanti questo metodo – aggiunge Di Maio – perché in questo momento si stanno spartendo i collegi uninominali che potrebbero vincere con questo metodo fraudolento: uno a te, uno a me. Poi, quando andranno in Parlamento, ognuno di loro si farà i fatti propri come hanno sempre fatto: nessun governo sarà possibile perché non sono d’accordo su nulla e ci rimetterà solo l’elettore».La vera alleanza, insiste Di Maio, è quella di Forza Italia con il Pd. Se ci fate caso, scrive il leader grillino, ogni giorno Berlusconi tesse le lodi di Gentiloni e ogni giorno Gentiloni fa altrettanto con lui. «Non chiamerei Berlusconi un populista», ha detto Gentiloni. Ma allora perché non si alleano fin da subito? Semplice: «Farlo ora non conviene a nessuno. Se il Pd si alleasse con Forza Italia arriverebbe in un attimo al 2%. Se Forza Italia si presentasse al voto con il Pd dovrebbe rinunciare a tutti i collegi uninominali che riuscirebbe a conquistare con la finta alleanza con la Lega. Sarebbe quindi un danno per entrambi: meno soldi e meno poltrone per tutti». Quello che propongono ufficialmente «è falso, è una vera e propria truffa». Gentiloni e Berlusconi? «Sperano di fare “bingo” in questo modo». L’obiettivo «quasi impossibile» del Pd renziano «sarà quello di non sprofondare sotto il 20%», mentre Forza Italia cercherà voti «fregando gli elettori», cioè vendendosi come alternativa a Renzi. E quale sarebbe il programma di Pd e Forza italia uniti? «Quello degli ultimi 20 anni», che li hanno visti governare «alternati o assieme», come nel governo Monti, «la più grande sciagura che ci potesse capitare». L’eventuale Gentiloni-bis sostenuto dal Cavaliere «sarà un nuovo governo Monti, per di più senza una maggioranza stabile». Morale: «Votare centrodestra o centrosinistra è esattamente la stessa cosa».Non sono d’accordo su niente, tranne che sulle poltrone: per questo si preparano a “sgovernare” insieme ancora una volta, come ai tempi di Mario Monti, dopo aver raccontato solo frottole ai loro elettori. Pd e Forza Italia «si propongono sotto mentite spoglie», solo per tentare di fare il pieno di seggi facendo credere di essere l’un contro l’altro armati. «In questa storia c’è una alleanza alla luce del sole, che però è finta, e una alleanza all’oscuro di tutti, che però è vera», scrive Luigi Di Maio sul “Blog delle Stelle”. «La finta alleanza è quella del centrodestra. Salvini e Berlusconi non hanno nulla in comune nel programma. Berlusconi dice di voler rispettare tutti i vincoli europei a partire da quello del 3%. Salvini invece dice di volerlo sforare e ha candidato il professore no-euro Bagnai. Berlusconi dice di non voler abolire la Fornero e possiamo credergli perché lui, assieme alla Meloni, l’ha votata. Salvini dice di volerla abolire». E l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito, perché «non sono d’accordo su nulla». La loro, sostiene il candidato grillino, «non è un’alleanza programmatica, ma poltronistica», cioè tattica, per interpretare a loro vantaggio l’ennesima legge elettorale inguardabile, il Rosatellum, appositamente “fabbricata” per impedire che qualcuno vinca davvero, creando così le condizioni per “l’inciucio” che nessuno ammette.
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Bagnai: Moscovici mente sul deficit, Parigi spende più di noi
C’è ancora qualche pazzo che può credere alle farneticazioni di Pierre Moscovici, secondo cui tagliare la spesa e contenere il debito significa favorire la crescita? La barzelletta dell’austerità “espansiva” è stata coniata da pseudo-guru neoliberisti come Kenneth Rogoff e poi rottamata persino dal Fmi. Eppure tiene ancora banco: perlomeno, i governanti fingono di crederci. Lo stesso Gentiloni avverte: una follia tagliare le tasse e fare investimenti a deficit, meglio continuare a tirare la cinghia. Dunque funziona ancora, la super-menzogna del rigore spacciata per legge economica. A rilanciarla, pensando alla campagna elettorale italiana è lo stesso commissario Ue all’economia. Moscovici non è un malato di mente: sa benissimo che i tagli producono solo crisi. Oltre a mentire sapendo di mentire, il super-tecnocrate di Bruxelles sta anche barando in modo spudorato: mentre chiede all’Italia di contenere la spesa pubblica entro il 3% del Pil, finge di non sapere che Roma è da anni in regola con Maastrich, mentre il suo paese – la Francia – quella linea rossa l’ha oltrepassata alla grande, spendendo ben più dell’Italia. «E’ il bue che dà del cornuto all’asino», sintetizza l’econimista Alberto Bagnai.Portare il deficit oltre il 3% del Pil «sarebbe un controsenso», questo perché il tetto del 3% avrebbe un significato preciso, quello di evitare che il debito slitti ulteriormente, e quindi le elezioni italiane provocherebbero un «rischio politico» dato che da noi alcuni partiti si stanno interrogando sulla fondatezza di queste regole? Le dichiarazioni di Moscovici «sono non solo inopportune politicamente (come perfino Tajani è stato costretto ad ammettere, dando prova di buon senso e di un minimo di orgoglio nazionale), ma del tutto infondate sotto il profilo economico e anche storico», scrive Bagnai su “Goofynomics”. Tanto per cominciare, «prima di fare lezioncine, bisognerebbe verificare di essere stati coerenti con i principi che si sbandierano a beneficio degli altri paesi (ma che in patria ci si è guardati bene dall’applicare)». Bagnai esibisce un grafico eloquente, che mostra numeri impietosi: «Numeri che la nostra stampa, molto sensibile e accondiscendente verso interessi esterni al nostro paese, naturalmente non vi dà». Nel 2009 la spesa pubblica italiana rappresentava il 5% del Pil nazionale, mentre quella francese superava il 7%.Parigi è stabilmente sopra Roma, nel volume di spesa: anche in regime di austerity, a partire dal 2012, il deficit pubblico francese è sopra il 4%, mentre quello italiano è inchiodato al 3%. Di più: grazie alla “cura” dei governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, l’Italia della disoccupazione-record (milioni di persone senza più un lavoro) dal 2015 è scesa al di sotto del 3% (dati ufficiali Fmi), mentre la Francia resterà al di sopra di quella soglia anche nel 2019. Un grafico esauriente, quello mostrato da Bagnai: «Potrete inciderlo su una lastra di piombo, da arrotolare e sbattere sul musetto dei botoli ringhiosi dell’austerità». I francesi «sono sempre stati sopra a noi, e sempre oltre il parametro di Maastricht, con in più il fatto che il divario fra loro e noi è destinato ad aumentare». Secondo il Fondo Monetario Internazionale «saremo sempre più “virtuosi” di loro, oltre che in regola con Maastricht già da sei anni». Attenzione: «Sei anni di sacrifici che l’Europa ci riconosce così, sberteggiandoci». L’Italia, conclude Bagnai, «sarà un paese libero quando un giornalista vi darà i numeri che trovate qui».C’è ancora qualche pazzo che può credere alle farneticazioni di Pierre Moscovici, secondo cui tagliare la spesa e contenere il debito significa favorire la crescita? La barzelletta dell’austerità “espansiva” è stata coniata da pseudo-guru neoliberisti come Kenneth Rogoff e poi rottamata persino dal Fmi. Eppure tiene ancora banco: perlomeno, i governanti fingono di crederci. Lo stesso Gentiloni avverte: una follia tagliare le tasse e fare investimenti a deficit, meglio continuare a tirare la cinghia. Dunque funziona ancora, la super-menzogna del rigore spacciata per legge economica. A rilanciarla, pensando alla campagna elettorale italiana è lo stesso commissario Ue all’economia. Moscovici non è un malato di mente: sa benissimo che i tagli producono solo crisi. Oltre a mentire sapendo di mentire, il super-tecnocrate di Bruxelles sta anche barando in modo spudorato: mentre chiede all’Italia di contenere la spesa pubblica entro il 3% del Pil, finge di non sapere che Roma è da anni in regola con Maastrich, mentre il suo paese – la Francia – quella linea rossa l’ha oltrepassata alla grande, spendendo ben più dell’Italia. «E’ il bue che dà del cornuto all’asino», sintetizza l’econimista Alberto Bagnai.
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Macron: ho paura, i francesi voterebbero per uscire dall’Ue
In un’intervista shock, Macron ammette che la Francia voterebbe per l’uscita dalla Ue, se si tenesse un referendum. In un’intervista alla “Bbc”, il capo dell’Eliseo afferma a sorpresa che un equivalente francese della Brexit avrebbe «probabilmente» condotto allo stesso esito: l’uscita dall’Unione Europea. «La dichiarazione del leader francese suona particolarmente insolita in un momento in cui gli alfieri dell’establishment cercano di rassicurare che c’è “ripresa” e che i “populisti” sono in ritirata», scrive Henry Tougha su “Voci dall’Estero”. «Ma suona insolita anche per la spiegazione esatta e puntuale del problema: l’ipotetico voto per l’uscita dalla Ue sarebbe l’espressione delle classi medie e delle classi lavoratrici che si oppongono a una globalizzazione fatta contro di loro». Quando lo scorso anno Marine Le Pen perse le elezioni presidenziali francesi, ed Emmanuel Macron vinse con ciò che sembrò una valanga di voti, l’establishment tirò un sospiro di sollievo, «non solo perché la celebre euroscettica populista era stata battuta, ma anche perché sembrò che il vento fosse cambiato», scrive “Zero Hedge”. Perciò, dopo un 2016 tumultuoso, il 2017 iniziò con un bel colpo a favore degli eurocrati non-eletti di Bruxelles. «Dopotutto la gente si era espressa e aveva detto di volere più Europa (e più euro), non meno». E invece non è vero, dice oggi Macron: i problemi restano, e anche i francesi “scapperebbero” da Bruxelles.Il presidente francese, scrive “Zero Hedge” in un post ripreso da “Voci dall’Estero”, ha scioccato tutti in Europa quando ha ammesso che gli elettori francesi voterebbero per uscire dalla Ue se in Francia si tenesse un referendum del tipo “dentro o fuori” sull’appartenenza al blocco di paesi guidati da Bruxelles. «Non sorprende che nessun altro paese Ue abbia messo a rischio la propria appartenenza al blocco tramite un voto pubblico, dopo che la Gran Bretagna ha sorpreso gli altri paesi membri con un voto per l’uscita nel 2016, a dispetto di tutti i sondaggi che mostravano come un esito del genere fosse praticamente impossibile». Durante un’intervista con il giornalista Andrew Marr della “Bbc”, Emmanuel Macron ha ammesso che potrebbe perdere un eventuale referendum francese sull’appartenenza alla Ue. Interpellato sul voto della Brexit, il presidente ha candidamente detto a Marr: «Non sono io a dover giudicare o commentare le decisioni del vostro popolo». Ma, ha aggiunto, «la mia interpretazione è che ci siano molti sconfitti della globalizzazione che hanno improvvisamente deciso che quest’ultima non fa più per loro». Quindi, se la Francia avesse indetto lo stesso referendum, avrebbe avuto lo stesso risultato? «Sì, probabilmente», ha ammesso Macron. «Sì, in un contesto simile».Certo, ha precisato Macron, «abbiamo un contesto molto diverso, in Francia». Ma attenzione: Londra ha divorziato dall’Ue pur non avendo il capestro finanziario dell’euro, né gli stessi vincoli di bilancio della Francia. Quindi, confessa Macron, «avrei dovuto combattere molto duramente per averla vinta», la battaglia per mantenere la Francia nel perimetro di Bruxelles. Spiegazione: «La mia idea è che le classi medie, le classi lavoratrici e i più anziani hanno deciso che ciò che è successo negli ultimi decenni non è andato a loro favore, e che gli aggiustamenti fatti all’interno della Ue non erano a loro favore». Ancora: «Penso che l’organizzazione della Ue sia andata troppo oltre con la libertà ma senza coesione, con la libertà dei mercati ma senza regole». Frasi pesantissime, pronunciate da un ex banchiere del gruppo Rothschild nonché pupillo della supermassoneria eurocratica più reazionaria, incarnata da Jacques Attali. Libertà d’azione illimitata solo per i capitali finanziari, e “carcere duro” per la finanza pubblica, costretta al suicidio dei tagli che hanno messo in ginocchio l’economia reale, le aziende, le società. Macron, l’uomo dell’élite, avverte che il pericolo – per loro, gli oligarchi – è tutt’altro che sparito dai radar: i boss che contano (da Parigi a Berlino, da Francoforte a Bruxelles) hanno paura che ai cittadini venga permesso di votare, per scegliere se restare ancora in questa Europa o se scappare verso la perduta sovranità.In un’intervista shock, Macron ammette che la Francia voterebbe per l’uscita dalla Ue, se si tenesse un referendum. In un’intervista alla “Bbc”, il capo dell’Eliseo afferma a sorpresa che un equivalente francese della Brexit avrebbe «probabilmente» condotto allo stesso esito: l’uscita dall’Unione Europea. «La dichiarazione del leader francese suona particolarmente insolita in un momento in cui gli alfieri dell’establishment cercano di rassicurare che c’è “ripresa” e che i “populisti” sono in ritirata», scrive Henry Tougha su “Voci dall’Estero”. «Ma suona insolita anche per la spiegazione esatta e puntuale del problema: l’ipotetico voto per l’uscita dalla Ue sarebbe l’espressione delle classi medie e delle classi lavoratrici che si oppongono a una globalizzazione fatta contro di loro». Quando lo scorso anno Marine Le Pen perse le elezioni presidenziali francesi, ed Emmanuel Macron vinse con ciò che sembrò una valanga di voti, l’establishment tirò un sospiro di sollievo, «non solo perché la celebre euroscettica populista era stata battuta, ma anche perché sembrò che il vento fosse cambiato», scrive “Zero Hedge”. Perciò, dopo un 2016 tumultuoso, il 2017 iniziò con un bel colpo a favore degli eurocrati non-eletti di Bruxelles. «Dopotutto la gente si era espressa e aveva detto di volere più Europa (e più euro), non meno». E invece non è vero, dice oggi Macron: i problemi restano, e anche i francesi “scapperebbero” da Bruxelles.
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Magaldi: cara Bonino, più Europa? Non questa, degli zombie
Cosa c’è sotto il turbante di Emma Bonino? Possibile che, nel 2018, ci sia ancora qualcuno – radicale, per giunta – che crede alle favole del più decrepito neoliberismo thatcheriano? «Pensate ad una famiglia già super-indebitata, che continua a indebitarsi sempre più, pagando interessi sempre più onerosi alle banche: arriverà un giorno la bancarotta, che si lascerà ai figli», recita la campagna elettorale di “+Europa”. Parole che sembrano arrivare dall’oltretomba della politica, dalla notte dei morti viventi ravvivata dal fantasma di Mario Monti. «Il vero problema italiano è il debito pubblico al suo massimo storico», nientemeno. E certo: il debito, la famiglia. «Come se la famiglia fosse dotata di sovranità monetaria: per lei, come per l’azienda, il debito è certamente un problema», dice Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt, in chat su YouTube con Gioele Magaldi. Incredulo, di fronte all’uscita della Bonino: com’è possibile, dopo il disastro dell’austerity europea, “bersi” ancora il dogma del neoliberismo che finge di non sapere che lo Stato, dotato di sovranità monetaria, ha una capacità di spesa (e di indebitamento) virtualemente illimitata? «Non è da radicali, appiattirsi su un dogmatismo così desolante, allineato all’ignoranza economica e all’insipienza generale del mainstream, politico e mediatico, affollato di presunti esperti del calibro di Alberto Alesina, in realtà un comico, che insieme a Francesco Giavazzi non ne ha azzeccata una, in tutti questi anni».
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Promesse elettorali per mascherare la loro servitù alla Ue
Promesse elettorali favolose, con un unico vero obiettivo: mascherare la servitù al regime finanziario neoliberista che domina l’Unione Europea. Lo sostiene Dante Barontini su “Contropiano”, esaminando l’imbarazzante scenario della campagna elettorale in corso. A cosa servono queste elezioni? «Per tutti quelli che concorrono con qualche ambizione a conquistare una poltrona ministeriale il problema è uno solo: ottenere il benestare delle “istanze superiori”». Lo si capisce perfettamente leggendo i maggiori giornali, come “Repubblica” e il “Corriere”. Entrambe le ex “corazzate” della stampa italiana, ormai molto ridimensionate nei loro numeri, «convergono nel bastonate spietatamente la massa di promesse irrealizzabili dei vari protagonisti della campagna elettorale». La mette giù dura l’editoriale di Mario Calabresi, “Incapaci di immaginare il futuro”: «Ascoltiamo soltanto una grottesca cantilena di abolizioni», scrive il direttore di “Repubblica”. «Via l’obbligo di vaccini, via il canone Rai, via il bollo auto, via lo spesometro, via le tasse universitarie, via il redditometro, via la legge Fornero, via il Jobs Act, fino alla mirabolante promessa finale di cancellare migrazioni e migranti».Sullo stesso tono gli immarcescibili neoliberisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, «duo di economisti che non ne ha mai imbroccata una ma che si ripropone ogni volta come se fosse la prima volta», scrive Barontioni, citando il loro “Le favole da evitare sul debito pubblico”. Ma il bersaglio sono i 5 Stelle, a cominciare da Di Maio, «che sfarfalleggia da settimane per accreditarsi presso le “autorità superiori” (pellegrinaggi a Cernobbio e negli Usa, niente più uscita dall’euro, pronti a fare governi anche con altri partiti purché non lo si dica prima, ecc)». Il piano grillino per ridurre il debito è effettivamente un castello di carte, ammette Barontioni, rilevando però che i due teorici della fiaba dell’austerità espansiva, per i quali «se tagli la spesa pubblica il paese riprende a crescere», lo usano come pretesto per ripetere sempre la stessa giaculatoria: o si riducono le spese o si aumentano le tasse, tertium non datur. Sul fronte politico, continua “Contropiano”, il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari «spinge in campo Veltroni e Prodi per “l’unità a sinistra” (Pd e bersaniani) nell’antichissimo schema del “fermare le destre”». Ma guardando più da vicino, sempre grazie a “Repubblica”, «emerge che ci sono solo due movimenti considerati inaffidabili nelle “alte sfere”: grillini e Lega. Tutti gli altri vanno naturalmente benissimo».Chi e perché? Ad essere approvati dal vero potere, l’establishment che conta (soprattutto fuori dall’Italia, al quale obbediscono i terminali nazionali) sono «tutti quelli che hanno da sempre accettato l’Unione Europea come amministratore unico delle faccende economico-finanziarie anche italiane, da cui dipende qualsiasi programma di gestione del paese», scrive Barontini. «Banalmente, se non puoi disporre liberamente delle risorse che vai producendo, non puoi fare nessun’altra politica se non quella prevista dai trattati europei e dalle indicazioni in tempo reale della Commissione Europea (tramite il Six Pack e il Two Pack)».A questo ampio club, continua Barontini, «si è iscritto da tempo anche Berlusconi», e lo ha dimostrato «promettendo (la mattina) di abolire il Jobs Act e garantendo (la sera) di mantenerlo così com’è». E dire che il Jobs Act è un peso per la spesa pubblica (la decontribuzione garantita alle imprese riduce le entrate statali), ma «la centralità degli interessi delle aziende è un dogma intoccabile per la Ue: dunque, su questo fronte si può continuare a spendere».Restano ai margini leghisti e pentastellati, peraltro pesantemente “lavorati ai fianchi”. La rinuncia di Roberto Maroni a un altro mandato da presidente della Lombardia? A prima vista incomprensibile, motivata da vaghe «ragioni personali», secondo Barontini comincia a rivelarsi un legnata a Salvini e «una candidatura per una poltrona di rilevo nell’unico governo a questo punto possibile». Quale? «Se si escludono M5S e (parte della) Lega, non restano molte alternative: un bel “governo del presidente” con dentro Pd, Forza Italia, “Liberi e Uguali” e frattagline varie (Lorenzin, democristiani di varia osservanza, singoli parlamentari che cambiano casacca)». Cosa li terrà insieme? «Il bastone dell’Unione Europea, che quest’anno trasformerà il Fiscal Compact da semplice “trattato intergovernativo” a “legge comunitaria”», ossia «da oggetto di flessibilità contrattata volta per volta a dispositivo automatico affidato a organismi tecnici». Conclude Barontini: «Come si fa a non augurarsi che il potere ritorni al popolo?».Promesse elettorali favolose, con un unico vero obiettivo: mascherare la servitù al regime finanziario neoliberista che domina l’Unione Europea. Lo sostiene Dante Barontini su “Contropiano”, esaminando l’imbarazzante scenario della campagna elettorale in corso. A cosa servono queste elezioni? «Per tutti quelli che concorrono con qualche ambizione a conquistare una poltrona ministeriale il problema è uno solo: ottenere il benestare delle “istanze superiori”». Lo si capisce perfettamente leggendo i maggiori giornali, come “Repubblica” e il “Corriere”. Entrambe le ex “corazzate” della stampa italiana, ormai molto ridimensionate nei loro numeri, «convergono nel bastonate spietatamente la massa di promesse irrealizzabili dei vari protagonisti della campagna elettorale». La mette giù dura l’editoriale di Mario Calabresi, “Incapaci di immaginare il futuro”: «Ascoltiamo soltanto una grottesca cantilena di abolizioni», scrive il direttore di “Repubblica”. «Via l’obbligo di vaccini, via il canone Rai, via il bollo auto, via lo spesometro, via le tasse universitarie, via il redditometro, via la legge Fornero, via il Jobs Act, fino alla mirabolante promessa finale di cancellare migrazioni e migranti».
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Formica: l’Ue chiede a Silvio l’inciucio col Pd ma senza Renzi
«Renzi finirà asfaltato dai No, poi il successore lo designerà il Vaticano». Una “profezia” firmata Rino Formica, puntualmente esatta: il Rottamatore a casa, sostituito dal nipote dell’uomo di fiducia della Santa Sede, che firmò il Patto Gentiloni per riportare i cattolici in politica dopo l’Unità d’Italia. Oltre un anno dopo, alla vigilia delle politiche, l’ex ministro craxiano rilancia: le “dritte” dell’Ue a Berlusconi prevedono una “grande coalizione”, ma senza Renzi. Lo racconta Formica a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Premessa: l’uscita del commissario Ue agli affari economici, Pierre Moscovici, secondo cui «un rischio politico» incombe sull’Europa, visto che «l’Italia si prepara ad elezioni il cui esito è quanto mai indeciso». Quale maggioranza uscirà dal voto? Moscovici critica la proposta di Luigi Di Maio di sfondare il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil e ribadisce il dogma (bugiardo) dell’austerity: «Ridurre il deficit significa combattere il debito, e combattere il debito significa rilanciare la crescita». Secondo Formica, classe 1927, ex ministro delle finanze socialista e attentissimo osservatore della situazione, l’Unione Europea è scesa in campo, e il messaggio di Moscovici risponde a una strategia precisa: imporre a Berlusconi un governo di larghe intese col Pd, che però escluda Renzi.«Lo sfondamento del 3% lo aveva già richiesto Renzi: perché Moscovici a suo tempo non ha sollevato la questione?», si domanda Formica. Nel mirino, evidentemente, ci sono i 5 Stelle. L’establishment europeo ha nuovamente sdoganato Berlusconi per un motivo preciso: nonostante il Jobs Act, l’oligarchia di Bruxelles ritiene che Renzi abbia fallito, sul terreno delle drastiche controriforme neoliberiste sollecitate dall’élite finanziaria. «L’operazione è più sottile», sostiene Formica: «A Bruxelles vogliono ridimensionare il M5S e favorire l’ipotesi di una grande coalizione post-voto». Soprattutto, l’ex ministro immagina che «le coalizioni che entrano in campagna elettorale non saranno le stesse che ne usciranno dopo il 4 marzo». Del resto, se il Movimento 5 Stelle (nonostante il profilo ormai ultra-moderato) è ancora ritenuto un fattore di instabilità, lo è anche nel centrodestra la Lega di Salvini. «Attaccando Di Maio, Moscovici chiude le porte a Renzi, che aveva chiesto pure lui flessibilità, e introduce un fattore di rottura nella coalizione di centrodestra».In questi giorni, da Berlusconi a Grasso passando per i 5 Stelle, si sono sentite tutte le promesse acchiappavoti possibili. Traduzioni pratiche? «Fino a quando non saranno presentate le liste sentiremo solo parole in libertà», assicura Formica. «Dopo, invece, insieme ai candidati dovremmo intravedere qualcosa di più». Ma l’ex ministro non è fiducioso: «Tutti i partiti fanno promesse mirabolanti perché sanno bene che nessuno avrà la maggioranza per governare. E’ come se dicessero: tanto nessuno ci potrà chiedere di onorarle, quelle promesse, perché manca la condizione principale per poterlo fare: i numeri». E se una delle tre forze si ritrovasse con i numeri bastanti per prendere il largo? «Anche se dovesse esserci una maggioranza – dice Formica – questa sarà così contraddittoria al suo interno da avere le mani legate e da giustificare l’inadempienza del progetto. Vale anche per il M5S, che corre da solo. E l’informazione ci mette del suo». Eppure, obietta Ferraù, giornali e tv denunciano all’unisono l’inconsistenza delle promesse. «I media accusano – replica Formica – ma si guardano bene dal chiedere la cosa più semplice: qualora voi, da destra a sinistra, doveste governare in una maggioranza che non è quella dei singoli blocchi, che cosa riterreste qualificante e irrinunciabile? Quale sarebbe la vostra linea del Piave?».Nessuno l’ha ancora fatto, insiste Formica, «e non so se lo faranno». Informazione complice del gioco? «Più che complice, è succube. Tanto, gli elettori non sono in condizione di poter interloquire. Se non con il voto, a suo tempo». Per ora ci sono solo i sondaggi: il centrodestra è davvero favorito, come sembra? «Ha un vantaggio che, dopo il voto, può diventare uno svantaggio», risponde Formica. «Il vantaggio è di essere la coalizione costituita da entità politiche dotate di una propria consistenza». E lo svantaggio? «Quello di essere una sorta di fronte popolare». Grosso limite: «Tutti i fronti popolari stanno in piedi finché c’è un nemico da battere, ma dopo le elezioni tutto diventa più complicato». Fantapolitica e simili: “Liberi e uguali” può fare un accordo post-voto col M5S? Secondo Formica, quella messa insieme da Bersani e D’Alema «è l’unica lista dotata di spessore politico vero, perché ha il radicamento delle vecchie forze di sinistra» e la rappresentanza di Grasso e Boldrini, che l’ex ministro considera «simbolicamente forte». Ma il suo ruolo, aggiunge, «non mi pare tanto quello di allearsi, quanto di fare da detonatore: se avrà successo, potrà risultare esplosiva per i partiti che non vinceranno, scompaginandone le fila: a sinistra il Pd, e in mezzo il M5S». In ogni caso, secondo Formica «molto dipenderà da ciò che succede in Europa». Ovvero: «Se a Berlino la Grosse Koalition riprende in mano la guida dell’unificazione europea, l’Italia o si adegua o sarà penalizzata. E la Germania non lascerà alla Francia la guida dell’opinione pubblica politica europea».«Renzi finirà asfaltato dai No, poi il successore lo designerà il Vaticano». Una “profezia” firmata Rino Formica, puntualmente esatta: il Rottamatore a casa, sostituito dal nipote dell’uomo di fiducia della Santa Sede, che firmò il Patto Gentiloni per riportare i cattolici in politica dopo l’Unità d’Italia. Oltre un anno dopo, alla vigilia delle politiche, l’ex ministro craxiano rilancia: le “dritte” dell’Ue a Berlusconi prevedono una “grande coalizione”, ma senza Renzi. Lo racconta Formica a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Premessa: l’uscita del commissario Ue agli affari economici, Pierre Moscovici, secondo cui «un rischio politico» incombe sull’Europa, visto che «l’Italia si prepara ad elezioni il cui esito è quanto mai indeciso». Quale maggioranza uscirà dal voto? Moscovici critica la proposta di Luigi Di Maio di sfondare il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil e ribadisce il dogma (bugiardo) dell’austerity: «Ridurre il deficit significa combattere il debito, e combattere il debito significa rilanciare la crescita». Secondo Formica, classe 1927, ex ministro delle finanze socialista e attentissimo osservatore della situazione, l’Unione Europea è scesa in campo, e il messaggio di Moscovici risponde a una strategia precisa: imporre a Berlusconi un governo di larghe intese col Pd, che però escluda Renzi.
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Sudditi: la verità che nessuno vuole. E buone elezioni a tutti
Gli slogan elettorali nell’Italia del 2018? Piccoli corvi, che banchettano sui resti di un cadavere. «Voi ora vivete in uno Stato che non esiste più, avete delle leggi che non contano più niente: la vostra sovranità economica non esiste più». La voce sembra quella del vecchio marinaio di Coleridge, che insiste nel raccontare una storia atroce, che nessuno vuole ascoltare: la storia di un naufragio che si trasforma in catastrofe, dove ciascuno tenta disperatamente di sopravvivere a spese degli altri. E’ inaccettabile, il racconto del superstite. Troppo duro da digerire: «Nell’arco di pochi decenni, sono riusciti ad ammazzare la cittadinanza occidentale: eravamo persone capaci di cambiare la propria storia. L’Italia, con un solo partito e una sola televisione, ha fatto divorzio e aborto: eravamo figli del Vaticano ma siamo riusciti a ribaltare il paese». Dov’è finita quell’Italia? Davanti al televisore, ad ascoltare le amenità di Renzi e Grasso, Berlusconi e Di Maio. Di loro si occupano i giornalisti, gli stessi che ignorano l’altro giornalista, quello vero. Il vecchio marinaio. Il folle, l’eretico. L’ostinato reduce che insiste nel raccontare la verità che nessuno vuole sentire. Verità semplice e drammatica: c’è solo una politica in campo, quella del vero potere. E’ il potere antico, quello dei Re. E si è ripreso tutto. Distruggendo cittadini, leggi e Stati.
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Bankitalia può fabbricare miliardi, voi politici non lo sapete?
«Alla fine Salvini, quando parla di economia, passerà il suo tempo a spiegare perché sarebbe per uscire dall’euro anche se non lo mette nel programma e anche se si allea con chi è contrario», afferma Giovanni Zibordi. Berlusconi è inaffidabile, ma qui c’è un problema vero. Scrive il Cavaliere, su Twitter: «Salvini ha da tempo cambiato posizione e non ha più l’idea di uscire dall’euro, sa che è tecnicamente impossibile e comunnque insostenibile per l’economia italiana». E sia Salvini che Berlusconi e Di Maio, aggiunge Zibordi, passeranno il loro tempo a spiegare «come possano trovare circa 100 miliardi per le loro proposte di aumenti di pensioni e sussidi a milioni di persone». La campagna elettorale è partita e chi vuole sostituire Renzi propone: reddito di cittadinanza per 4,5 o 10 milioni di persone, a seconda della versione, oppure reddito “di dignità” (simile, ma non ancora bene specificato) più abolizione della legge Fornero. Le stime per queste due cose vanno dai 50 ai 100 miliardi. Inoltre il centrodestra propone la “flat tax” che è stimata intorno ai 30 miliardi. «Il pubblico italiano è stufo di austerità, ma anche senza aver studiato intuisce che si parla di cifre complessive grosse e non capisce come vengano fuori con i “vincoli di bilancio” dell’Eurozona che i giornali e telegiornali ripetono come i muezzin il Ramadan».Sul cosa fare, scrive Zibordi sul forum “Cobraf” ripreso da “Come Don Chisciotte”, il grillino Di Maio ha dichiarato: «Niente uscita dall’euro». E, nel caso ci fossero dubbi sulla logica, ha detto che il debito pubblico deve scendere di un 40% (rispetto al Pil). I soldi mancanti? Devono venire da 50 miliardi di taglio della spesa pubblica. Berlusconi? Anche lui si dichiara pro-euro, però «non parla di tagli come Di Maio e quindi è più “a sinistra”». Peccato però che, in questo modo, «i 70 o più miliardi per cancellare la Fornero, il “reddito di dignità” e la “flat tax” esistano solo nei suoi discorsi». Quanto a Salvini, «continua a lanciare frecciate contro l’euro, ma finora nelle proposte non parla più di EurExit e si è alleato con chi non ne vuole proprio uscire (e dice che lui, Salvini, ha cambiato idea)». In sostanza: i candidati alle politiche 2018 promettono spese per 100 miliardi, senza però dire come uscire dal sistema degli euro-vincoli. «Dire che li trovate tagliando le spese o reprimendo l’evasione come fa Di Maio – scrive Zibordi – è come dire che quei soldi li porterà la Befana, specie dopo l’esperienza di Monti».Ora che la Bce ha creato 2.400 miliardi dal 2012 e assieme alle altre banche centrali ha creato dal nulla 19.000 miliardi dal 2009, «forse la nozione che si possa creare denaro potrebbe essere spiegata agli elettori italiani». A differenza di altre elezioni, continua Zibordi, stavolte l’italiano medio sta ad ascoltare, se si parla di economia. «All’austerità, l’idea che c’è una quantità fissa di soldi e se ne occorrono da una parte ne devi tagliare dall’altra, sono rimasti a credere solo quelli che sentono Oscar Giannino». I candidati dovrebbero quindi spiegare che, invece, «non ci sono ostacoli pratici a creare 100 miliardi per lo Stato, sia in generale che nello specifico, visto che la Bce e le varie banche centrali nazionali hanno ricomprato 900 miliardi di debito sui mercati mentre i deficit pubblici erano di 200 miliardi». Cioè: negli ultimi anni il debito pubblico sui mercati si riduceva nell’Eurozona di 900 miliardi, e la quota dell’Italia era intorno ai 200 miliardi. Ovunque nel mondo, prosegue Zibordi, «le banche centrali hanno comprato una grossa fetta di debito pubblico facendolo sparire dai mercati». In certi casi anche il 40% del debito è stato ritirato dai mercati, «con il risultato che poi gli interessi non pesano più sullo Stato». Per cui, attenzione: «I miliardi per fare redditi di cittadinanza o pensioni o riduzioni di tasse vengono da qui, da quelli che le banche centrali hanno creato e poi usato per ridurre il debito pubblico». E’ un discorso così difficile da fare, per un politico?«Se prometti 100 miliardi di pensioni, redditi garantiti e tagli di tasse dicendo però che resti dentro i vincoli dell’Eurozona allora sì che vedi facce perplesse e incredule», scrive Zibordi. E perchè il discorso del ritorno alla lira non funziona? «Perchè la gente pensa che i soldi si riducano di valore, che svaluti, e alla fine poi in realtà ci sia meno denaro perchè vale di meno». Non è necessariamente vero: «Bankitalia in questo stesso momento sta stampando euro con cui compra Btp e lo ha fatto ormai per 300 miliardi di Btp senza conseguenze negative. Di questi 300 miliardi ne servono 100 miliardi per ridurre tasse e altre cose. Bankitalia e la Bce “stampano” miliardi e questo va bene, ma li usano solo per togliere il debito dai mercati, renderlo inoffensivo. E’ un ottima cosa, andrebbe fatto sempre nei prossimi anni fino a quando il debito pubblico sparisce quasi tutto dai mercati. Ma una frazione di questi soldi va anche girata alle famiglie e imprese. Nell’insieme, Bce e Bankitalia hanno ora 400 miliardi circa di titoli di Stato italiani, per cui ci si può permettere di darne 100 miliardi indietro al pubblico italiano». Bisogna però che i leader politici lo dichiarino, cioè dicano che la posizione dell’Italia, del prossimo governo italiano, è che il debito pubblico comprato da Bankitalia stampando centinaia di miliardi di euro vada sottratto dal totale.«Dato quindi che si sta già stampando denaro da parte della banca centrale, che opera per conto dello Stato, bisogna riconoscerlo e dire che non possono essere solo investitori e speculatori finanziari a beneficiarne». Il prossimo governo italiano, continua Zibordi, deve dire che ora tocca a lui creare anche solo una frazione di questi miliardi a beneficio di imprese e lavoratori italiani. Come? Ci sono diverse soluzioni: emissione di crediti fiscali, Btp fiscali, criptovalute. «Sono mezzi di pagamento per le tasse, cioè i crediti fiscali o Btp Fiscali o gli ItCoin: lo Stato li accetta per le tasse, ma non li impone per legge come moneta, altrimenti violerebbe i trattati per i quali solo l’euro è moneta legale». Bankitalia non è d’accordo? Ovvio: «E’ costretta dal suo ruolo istituzionale a mentire, o comunque a dire qualcosa di fuorviante, perché deve difendere il suo potere di creare miliardi dal nulla e impedire allo Stato di fare altrettanto». Ma la verità è che proprio la Banca d’Italia «può creare 300 o anche 600 miliardi senza vincoli, e lo Stato deve chiedere il permesso di spenderne 3 per delle emergenze». Tutto merito dell’euro. «Lo Stato italiano deve tornare a fare quello che per 30 anni ha delegato alla banca centrale, con i risultati di depressione economica, crollo demografico e milioni di sottoccupati e disoccupati», conclude Zibordi. Per farlo non c’è bisogno di tornare prima alla lira: basta denunciare «il bluff delle banche centrali, che creano migliaia di miliardi e predicano agli Stati l’austerità perchè “non ci sono i soldi”».«Alla fine Salvini, quando parla di economia, passerà il suo tempo a spiegare perché sarebbe per uscire dall’euro anche se non lo mette nel programma e anche se si allea con chi è contrario», afferma Giovanni Zibordi. Berlusconi è inaffidabile, ma qui c’è un problema vero. Scrive il Cavaliere, su Twitter: «Salvini ha da tempo cambiato posizione e non ha più l’idea di uscire dall’euro, sa che è tecnicamente impossibile e comunnque insostenibile per l’economia italiana». E sia Salvini che Berlusconi e Di Maio, aggiunge Zibordi, passeranno il loro tempo a spiegare «come possano trovare circa 100 miliardi per le loro proposte di aumenti di pensioni e sussidi a milioni di persone». La campagna elettorale è partita e chi vuole sostituire Renzi propone: reddito di cittadinanza per 4,5 o 10 milioni di persone, a seconda della versione, oppure reddito “di dignità” (simile, ma non ancora bene specificato) più abolizione della legge Fornero. Le stime per queste due cose vanno dai 50 ai 100 miliardi. Inoltre il centrodestra propone la “flat tax” che è stimata intorno ai 30 miliardi. «Il pubblico italiano è stufo di austerità, ma anche senza aver studiato intuisce che si parla di cifre complessive grosse e non capisce come vengano fuori con i “vincoli di bilancio” dell’Eurozona che i giornali e telegiornali ripetono come i muezzin il Ramadan».
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Della Luna: tengono in vita l’Italia solo per finire di svuotarla
Il re è nudo ma niente succede. I numerosi scandali e, ultimamente, la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, hanno messo a nudo la realtà della politica e della burocrazia, le sistematiche e trasversali ruberie del regime, la sua strutturale illegalità di funzionamento – e niente succede, la società accetta tutto passivamente. Così come fa la “giustizia”, il popolo non reagisce, accetta ingiustizia e illegalità. Sempre più subisce e non agisce. L’esperienza gli ha insegnato che votare e manifestare è improduttivo. Una ribellione popolare contro il marcio regime è impossibile: il popolo italiano è vecchio e sfiduciato, anche in se stesso, e senza fiducia in se stesso un popolo non organizza una ribellione. E il voto non consente di cambiare, come si dirà. I banksters saccheggiano impuniti il risparmio, mentre autorità di controllo giudiziarie e amministrative chiudono un occhio o due e non agiscono nemmeno dopo il fatto. Il governo, con dentro parenti e amici dei banchieri, li copre e scarica sulla società civile i danni dei loro abusi. Grillo ruggiva dichiarando che il suo movimento avrebbe aperto i palazzi del potere come scatolette di sardine per mettere alla luce del giorno tutte le illegalità, come se ciò potesse suscitare reazioni tali da riformare il sistema. Ma non è così: il sistema continua come prima, e la gente subisce passivamente.E perché stupirsi? La legalità è l’interesse più diffuso, dunque il più disperso, il più debole, quindi il più perdente. E’ un interesse impotente a difendere se stesso. Il popolo è bue perché è popolo, non per altra ragione. Per contro, gli interessi concentrati, dei pochi contro i molti, soprattutto se illeciti e nascosti, sono anche poteri forti, e hanno buon gioco a comprare chi gli serve e a mettere nei posti giusti i loro fiduciari. Gli esponenti del regime italiano vantano oggi una ripresa economica, sia pur da fanalino di coda, ma non dicono che le previsioni per i prossimi 25 anni mostrano il sistema-paese Italia in costante perdita di produttività-competitività rispetto agli altri paesi comunitari e Ocse. Il che comporta che, per competere sui costi di produzione, si dovrà continuare a tagliare i salari reali, i diritti dei lavoratori, le pensioni, gli investimenti, e che in prospettiva l’Italia è spacciata, perché già da 25 anni sta perdendo in produttività comparata, e 50 anni così implicano che il paese non è più vitale. Spacciata, anche perché il governo deve perseguire una politica di saldi primari attivi (cioè togliere con le tasse dalla società più denaro di quanto riversa in essa, nonostante che la società sia in grave carenza di denaro).Altro che virtuosità, risanamento, ripresa: tutto deve andare ai banchieri che prestano i soldi, compresa la proprietà delle aziende. Senza investimenti strategici non vi è recupero di produttività, non vi è fine del declino. Ciò accelererà la fuga di capitali, imprenditori, lavoratori qualificati e cervelli. Questo destino fallimentare è connaturato all’Italia unitaria, a questo Stato voluto e creato dall’estero per servire ed essere sfruttato da potenze straniere, come spiegato in precedenti articoli. Uno Stato sbagliato per composizione, che è stata fatta accozzando nazioni preunitarie troppo diverse tra loro e che perciò non hanno mai legato ma hanno generato una governance parassitaria e incompetente, che sa solo arricchirsi rubando sui trasferimenti dalle aree efficienti a quelle inefficienti, e in generale sulle risorse pubbliche e private. Uno Stato vassallo, in cui la politica è decisa dall’estero e alla classe politica interna, come unico spazio di azione, rimane la competizione-lottizzazione nel saccheggio del cittadino e della spesa pubblica. Non potendo procurarsi consensi con le buone politiche nell’interesse nazionale, i nostri politicanti se li procurano distribuendo privilegi clientelari. Questo è il modo di produzione della legittimazione elettorale in Italia.I potentati stranieri dominanti sostengono e legittimano quelle forze politiche e burocratiche italiane che meglio servono i loro interessi a spese degli italiani (fino a mandare eserciti italiani a combattere servilmente guerre americane e francesi contro gli interessi italiani), consentendo loro in cambio di continuare i loro traffici con piccole banche, appalti truccati. E’ grazie a siffatti rapporti con la partitocrazia e la burocrazia italiane che potentati stranieri hanno acquisito il controllo di (quasi) tutte le imprese di punta e strategiche italiane, nonché della Banca d’Italia e del sistema creditizio. E’ così che il governo ha regolarmente sottoscritto, sotto ricatto di rating, contratti finanziari scientemente rovinosi a vantaggio delle controparti dominanti come Morgan Stanley, con perdite per decine di miliardi – vedasi il commento dell’onorevolele Brunetta all’audizione della dottoressa Cannata in commissione banche, audizione che si è cercato di mettere in ombra col polverone sulle dichiarazioni del presidente di Consob Giuseppe Vegas alla medesima commissione sul caso Etruria-Boschi, tacendo sul ministro e sugli alti dirigenti del Tesoro che sono poi passati a Morgan Stanley.Un simile Stato, come apparato, non può vivere se non attraverso una corruzione sistemica, quindi intessuta nelle istituzioni anche di controllo (le campagne di lotta contro la corruzione, ovviamente, sono una presa per i fondelli). I suoi partiti politici sono galassie di comitati di affari dediti ad operazioni illecite o quantomeno scorrette. Le rispettive segreterie fanno da organo di coordinamento tra tali comitati, e di ricezione delle richieste di interessi stranieri (talvolta anche nazionali) dominanti. Che forza avrebbero i partiti di potere se non gestissero (clientelarmente) appalti, crediti, assunzioni, licenze? Nessuna. I partiti che si staccano da quelli di potere per perseguire ideali sociali e di giustizia, sistematicamente, si spengono; non sono vitali, sebbene abbiano talora ottime idee e grande onestà, proprio perché non si portano dietro alcuna fetta di spesa pubblica, alcuna risorsa clientelare. Laddove vi sono seri interessi in gioco, le leggi, anche dagli organi di controllo e giustizia, sono osservate solo marginalmente, soprattutto per mantenere una minima facciata di legittimità agli occhi della gente comune.In realtà, vi è una netta divisione tra chi è soggetto alla legge e chi sta sopra di essa e la usa sugli altri per schiacciarli e spremerli. Il potere pubblico è inteso come proprietà privata, come diritto di passare sopra le regole e di togliere diritti agli altri, cioè di derogare alla legalità. Adesso, in campagna elettorale, è inevitabile che i partiti millantino, ciascuno, di avere la capacità e la volontà di salvare il paese e di combattere la corruzione. Lo afferma quella (pseudo) sinistra che è stata l’esecutore più attivo e fedele degli interessi stranieri, che più ha collaborato nel sottomettere ad essi tutto il paese, nello spremerlo per arricchire gli squali della finanza predona, nel sabotare l’economia e l’ordine pubblico, nell’imporre un pensiero e un linguaggio unico che impedissero persino di descrivere ciò che essa stava e sta perpetrando. Poi abbiamo un Berlusconi, proprietario del principale partito del centrodestra, che ha sempre usato i voti di chi gli dava fiducia per sostenere la linea della (pseudo) sinistra e della Germania, persino il rovinoso governo Monti, al fine di difendere i propri interessi aziendali e processuali – un Berlusconi da sempre condizionabile mediante attacchi giudiziari che scattano quando serve.Abbiamo una Lega con analisi e propositi condivisibili, la quale un tempo era indipendentista e ora non lo è più, almeno nelle dichiarazioni, e si propone come tutrice degli interessi nazionali pan-italiani entro un’Ue e un euro in cui vuole rimanere. Purtroppo, sino ad ora, su scala nazionale, la Lega ha realizzato niente o quasi dei suoi programmi, pur essendo stata a lungo al governo. Abbiamo infine una M5S che conta numerosi esponenti validi, coraggiosi e liberamente agenti, ma i cui titolari – quelli che enunciano che “uno vale uno” – non si sa che mete abbiano e che interessi incarnino, anche se appaiono significativi legami con gli Usa. Abbiamo infine una nuova, furbesca legge elettorale, che lascia nelle mani delle segreterie (negandole agli elettori) non solo la scelta dei parlamentari, ma anche la decisione sul nuovo governo: una legge tipicamente partitocratica. No, signori miei, non illudetevi: il processo di disfacimento e la parassitosi maligna interna ed esterna continueranno più saldamente che mai, con la Bce che sosterrà il debito pubblico, differendo il collasso, per consentire di portare a compimento il piano di trasferimento delle risorse del paese. Niente cambierà con le prossime elezioni. L’unico cambiamento possibile e concreto lo realizza chi emigra.(Marco Della Luna, Il Re è nudo ma niente succede, dal blog di Della Luna del 17 dicembre 2017).Il re è nudo ma niente succede. I numerosi scandali e, ultimamente, la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, hanno messo a nudo la realtà della politica e della burocrazia, le sistematiche e trasversali ruberie del regime, la sua strutturale illegalità di funzionamento – e niente succede, la società accetta tutto passivamente. Così come fa la “giustizia”, il popolo non reagisce, accetta ingiustizia e illegalità. Sempre più subisce e non agisce. L’esperienza gli ha insegnato che votare e manifestare è improduttivo. Una ribellione popolare contro il marcio regime è impossibile: il popolo italiano è vecchio e sfiduciato, anche in se stesso, e senza fiducia in se stesso un popolo non organizza una ribellione. E il voto non consente di cambiare, come si dirà. I banksters saccheggiano impuniti il risparmio, mentre autorità di controllo giudiziarie e amministrative chiudono un occhio o due e non agiscono nemmeno dopo il fatto. Il governo, con dentro parenti e amici dei banchieri, li copre e scarica sulla società civile i danni dei loro abusi. Grillo ruggiva dichiarando che il suo movimento avrebbe aperto i palazzi del potere come scatolette di sardine per mettere alla luce del giorno tutte le illegalità, come se ciò potesse suscitare reazioni tali da riformare il sistema. Ma non è così: il sistema continua come prima, e la gente subisce passivamente.
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Bagnai: cretini di sinistra, l’immigrazionismo è colonialismo
«Il nostro paese è stato distrutto da quelli che ci propongono come panacea i lavoratori altrui, dopo averci proposto come panacea la moneta altrui. E un paese distrutto, semplicemente, non ha risorse per aiutare nessuno». Parola di Alberto Bagnai, che sul blog “Goofynonics” rilancia un intervento già abbozzato anni fa, destinato ai suoi studenti della Sapienza, corso di laurea in “economia della cooperazione internazionale e dello sviluppo”. La tesi: “L’immigrazionismo è la fase suprema del colonialismo”. «Per motivi scellerati – premette l’economista – abbiamo mandato al potere gli immigrazionisti: quelli che, ideologicamente, vedono nella libera immigrazione in Italia la soluzione dei problemi del mondo, senza se e senza ma». I nostri aiuti allo sviluppo? Cronicamente insufficienti: «Lo sono sempre stati, proprio perché l’egemonia culturale e politica è stata esercitata dai neoliberisti (cioè dagli idoli degli iussolisti scemi – e anche di quelli furbi), i quali, come sappiamo, vogliono reprimere la spesa pubblica – qualsiasi spesa – sotto la fulgida egida del “non ci sono risorse”». E oggi il problema si è aggravato: parte delle risorse che potremmo dedicare all’emancipazione di quei popoli «viene dedicata al loro traghettamento», via Lampedusa. «Le risorse ci sarebbero sia per traghettare, che per emancipare», ma «la scelta di fare solo una di queste cose è una scelta politica».Una scelta, avverte Bagnai, nella quale «la sovranità popolare non è stata coinvolta, venendo completamente sovrastata da quella di organizzazioni ormai chiaramente individuabili come braccio operativo di un progetto esogeno al nostro paese». Naturalmente, aggiunge l’economista, «gli iussolisti scemi erano praticamente tutti europeisti». Eppure, aggiunge, «non ce n’era nemmeno uno che notasse come da questo dibattito l’Europa fosse totalmente assente». Di fatto, «per lo iussolista scemo l’Italia è merda», e comunque è “normale” che l’Europa sia inesistente, nella gestione del problema migranti. «C’è questa strana caratteristica dell’immigrazionismo, che più di essere un’ideologia è una religione (con tanto di pensiero magico)», scrive Bagnai. «In quanto religione, ha una sua terra promessa, che però è una e una sola: l’Italia – che fra l’altro è esattamente quella dove molti di quelli che arrivano non vorrebero restare». E chi se ne importa: «Ogni religione vuole sacrifici, e le vittime dell’immigrazionismo sono, naturalmente: gli immigrati». Del resto, «un processo così complesso non dovrebbe essere affidato alla carità pelosa di organizzazioni arroganti e non trasparenti, che tanta parte hanno avuto nel generare il traffico (e quindi le vittime)».Poi c’è un problema di fondo, strutturale: «L’immigrazionismo, con buona pace dei tanti razzisti che pure circolano e che non hanno la mia simpatia, altro non è, da parte delle ex potenze coloniali, che una fase ulteriore di appropriazione delle risorse delle ex colonie». Sostiene Bagnai: «Dopo averle depredate delle loro risorse naturali, le deprediamo delle loro risorse umane». C’è chi disprezza la qualità umana dei migranti? «Se pure quelle che vediamo per strada fossero solo braccia rubate all’agricoltura», secondo Bagnai «sarebbero, appunto, braccia rubate all’agricoltura di paesi nei quali l’autosufficienza alimentare non è un dato banale». La forza lavoro è una risorsa, è un fattore produttivo. «E la libera mobilità dei fattori produttivi è benefica e equilibrante solo nei modelli neoclassici, cioè nell’ossatura ideologica del liberismo oltranzista». Qui in Europa, abbiamo visto che «la mobilità del lavoro è particolarmente destabilizzante, perché tende ad amplificare il divario fra paese di provenienza e di destinazione». Nel modello neoclassico, aggiunge Bagnai, «ogni bracciante che parte dal Niger contribuisce a far aumentare il salario di quelli che restano. Nel mondo reale, contribuisce a impoverire il paese».Questa situazione, continua Bagnai, è la stessa che «i vescovi africani vedono e stigmatizzano, perché vale, su scala minore, quello che vale per noi». E cioè: «Anni e risorse spesi per istruire persone che poi vanno altrove, creando un danno al paese di origine. Ma questo, agli immigrazionisti non interessa». Cosa gliene importa, davvero, della vita in Burkina Faso o in Sierra Leone? «Ben contenti e soddisfatti di essere nati dalla parte giusta del mondo», in un preciso spettro ideologico, «a loro interessa solo che qualcuno venga qui a “pakarglilapensione”, perché così gli hanno detto che succederà i giornali dei padroni, cui loro, da buoni imbecilli di sinistra, credono, perché Gramsci per loro se va bene è un liceo, se va male una strada, e nella maggior parte dei casi non è niente». Infierisce, Bagnai: «Questa è la feccia con la quale dovremo ricostruire questo cazzo di paese, non so se è chiaro: una torma di imbecilli sottoproletarizzati da decenni di propaganda a reti unificate, pronti a sollevarsi (sotto l’egida di ogni e qualsiasi organizzazione imperialistica i loro caporioni gli propongano in base alle loro logiche elettoralistiche) per difendere progetti la cui matrice ultraliberista (quindi fallimentare e fascista) dovrebbe essere immediatamente leggibile da chiunque avesse delle minime basi di storia del pensiero, ma anche di mero buon senso».«Il nostro paese è stato distrutto da quelli che ci propongono come panacea i lavoratori altrui, dopo averci proposto come panacea la moneta altrui. E un paese distrutto, semplicemente, non ha risorse per aiutare nessuno». Parola di Alberto Bagnai, che sul blog “Goofynonics” rilancia un intervento già abbozzato anni fa, destinato ai suoi studenti della Sapienza, corso di laurea in “economia della cooperazione internazionale e dello sviluppo”. La tesi: “L’immigrazionismo è la fase suprema del colonialismo”. «Per motivi scellerati – premette l’economista – abbiamo mandato al potere gli immigrazionisti: quelli che, ideologicamente, vedono nella libera immigrazione in Italia la soluzione dei problemi del mondo, senza se e senza ma». I nostri aiuti allo sviluppo? Cronicamente insufficienti: «Lo sono sempre stati, proprio perché l’egemonia culturale e politica è stata esercitata dai neoliberisti (cioè dagli idoli degli iussolisti scemi – e anche di quelli furbi), i quali, come sappiamo, vogliono reprimere la spesa pubblica – qualsiasi spesa – sotto la fulgida egida del “non ci sono risorse”». E oggi il problema si è aggravato: parte delle risorse che potremmo dedicare all’emancipazione di quei popoli «viene dedicata al loro traghettamento», via Lampedusa. «Le risorse ci sarebbero sia per traghettare, che per emancipare», ma «la scelta di fare solo una di queste cose è una scelta politica».
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Fiscal Horror, Cremaschi: tagliola sull’Italia, la politica tace
Nella complice e colpevole disattenzione dei palazzi della politica, in questi giorni a Bruxelles si decide del futuro del nostro paese. L’Italia è il paese Ue con il più alto numero assoluto di poveri, quasi 11 milioni. Proprio mentre emerge questo nostro record mostruoso, il governo Gentiloni decide di aderire al nuovo accordo europeo sul Fiscal Compact. C’è un rapporto tra i due fatti? Certamente, il secondo aggraverà il primo, il record di poveri non ce lo toglierà più nessuno. In questi dieci anni di crisi i poveri sono triplicati, e questo perché il lavoro e la vita stesse delle persone sono stati sacrificati al rigore di bilancio. Rigore feroce, nonostante che le fake news del regime propagandino l’idea di una spesa pubblica troppo generosa verso i cittadini. In realtà il bilancio pubblico è in attivo da più di venti anni, cioè ogni anno i cittadini versano in tasse allo Stato più di quanto ricevano in servizi e prestazioni. Il deficit della spesa pubblica deriva da una sola voce: gli interessi sul debito che si pagano alle banche. Essi ammontano a quasi 80 miliardi all’anno. Lo Stato ne copre circa 50 con i soldi dei cittadini, in particolare lavoratori, pensionati, ceti medi. Il resto sono deficit e manovre, che portano via altre risorse ai servizi pubblici.Se proiettiamo questo conto su un ventennio, alla spesa pubblica necessaria per fare dell’Italia un paese un poco più civile sono mancati circa 1000 miliardi. Mentre il debito è comunque aumentato di diverse centinaia di miliardi. Per la precisione dal giugno 2011, da quando il presidente Giorgio Napolitano reclamò lacrime e sangue per ridurre il debito pubblico, quest’ultimo è aumentato di circa 300 miliardi. I cittadini pagano sempre di più per avere sempre meno, ma il debito cresce. E non per colpa dei furbetti del cartellino o dei pensionati, come invece fa credere la propaganda di regime. Tutto questo avviene a causa dell’usura bancaria sullo Stato, divenuta legge con la fine del controllo pubblico sulla moneta. Lo Stato italiano dal 1981 non può stampare moneta per finanziarsi, ma deve chiedere prestiti alle banche. Poi dal 1992, con il Trattato di Maastricht e poi con l’euro, lo Stato italiano ha persino dovuto cancellare la sua sovranità su come e quanto indebitarsi. Sono i vincoli europei a imporre le decisioni.Così siamo arrivati ad avere cittadini che pagano sempre di più, uno Stato che dà sempre meno, un debito che cresce. Tutto in funzione dei profitti delle banche e della finanza internazionale, che grazie alla usura sul debito fanno shopping delle risorse del paese. Ora il Fiscal Compact renderà questo meccanismo ancora più feroce ed insopportabile. Questo accordo europeo, imposto dalla Germania nel 2012, infatti non solo obbliga al pareggio di bilancio, che vergognosamente Pd, Forza Italia e satelliti hanno addirittura inserito nell’articolo 81 della Costituzione. Il Fiscal Compact va oltre questa misura socialmente criminale e impone non solo la stabilizzazione del debito, ma la sua riduzione in venti anni al 60% del Pil. Per l’Italia che attualmente è al 133%, significa più che dimezzare. Dunque oltre a quelli per pagare gli interessi, dovremmo ogni anno trovare altri 40-50 miliardi per ridurre l’ammontare del debito. In totale ogni anno dovremmo fare finanziarie da 120 miliardi, come per un paese in guerra.Questa follia è sembrata esagerata persino ai burocrati di Bruxelles, che hanno capito che se la si imponeva troppo rigidamente, sarebbe saltata. Così in questi giorni tutti i governi della Ue hanno deciso di far slittare il Fiscal Compact, che avrebbe dovuto scattare già l’anno prossimo, al 2019. Inoltre questo patto non dovrebbe più essere inserito nei grandi trattati costituenti la Ue, ma diventare una direttiva. Questo fa dire a Gentiloni che l’Italia ha ottenuto un successo. Balle, se non è zuppa è pan bagnato. Anche l’usuraio a volte allenta il cappio sulla vittima, quando vede che non ce la può più fare. Preferisce rinunciare a qualcosa, ma mantenere il guadagno sicuro e tenere sempre la vittima a propria disposizione. Il Fiscal Compact sarà meno rigido, ma per questo ancora più micidiale e ridurrà l’Italia a condizioni uguali o persino peggiori della Grecia. Tutto sarà privatizzato, tutto sarà in vendita. E la democrazia sarà completa finzione, perché un superministro del tesoro Ue compilerà i nostri bilanci.Intanto però il Fiscal Compact non scatterà con le elezioni, e questo ha permesso a tutte le principali forze politiche di parlare d’altro. Avete per caso sentito Renzi, Di Maio, Berlusconi, Meloni, Grasso e Salvini affrontare davvero la questione? E soprattutto metterla in testa a tutte le altre, visto la sua importanza per i diritti sociali e le vite di tutti? Quale forza politica oggi in Parlamento propone non di sbattere i pugni su qualche inesistente tavolo, ma di disdettare il Fiscal Compact e di riconquistare il controllo sul bilancio pubblico, rompendo con tutti i vincoli dei trattati Ue, cioè rompendo con la Ue? Nessuna, per questo i burocrati di Bruxelles e la Germania hanno allentato il cappio per qualche mese. Sanno che comunque lo tengono ben saldo su chi governa o vuole governare. Solo la rottura coi vincoli Ue e con le complicità con essi può dare un futuro al paese.(Giorgio Cremaschi, “Gli usurai europei del Fiscal Compact e i loro complici”, da “Micromega” del 14 dicembre 2017).Nella complice e colpevole disattenzione dei palazzi della politica, in questi giorni a Bruxelles si decide del futuro del nostro paese. L’Italia è il paese Ue con il più alto numero assoluto di poveri, quasi 11 milioni. Proprio mentre emerge questo nostro record mostruoso, il governo Gentiloni decide di aderire al nuovo accordo europeo sul Fiscal Compact. C’è un rapporto tra i due fatti? Certamente, il secondo aggraverà il primo, il record di poveri non ce lo toglierà più nessuno. In questi dieci anni di crisi i poveri sono triplicati, e questo perché il lavoro e la vita stesse delle persone sono stati sacrificati al rigore di bilancio. Rigore feroce, nonostante che le fake news del regime propagandino l’idea di una spesa pubblica troppo generosa verso i cittadini. In realtà il bilancio pubblico è in attivo da più di venti anni, cioè ogni anno i cittadini versano in tasse allo Stato più di quanto ricevano in servizi e prestazioni. Il deficit della spesa pubblica deriva da una sola voce: gli interessi sul debito che si pagano alle banche. Essi ammontano a quasi 80 miliardi all’anno. Lo Stato ne copre circa 50 con i soldi dei cittadini, in particolare lavoratori, pensionati, ceti medi. Il resto sono deficit e manovre, che portano via altre risorse ai servizi pubblici.
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Liberi di morire, per legge, in una sanità da Est Europa
La sanità allo sfascio non riesce più a curare gli italiani, ma in compenso li aiuterà a morire: senza per questo contestare l’introduzione della norma sul “fine vita”, fa riflettere che i suoi promotori non aprano bocca per denunciare lo stato comatoso dell’assistenza sanitaria, flagellata dai tagli imposti dal regime di austerity introdotto da Bruxelles. «Come sapete la settimana scorsa è stata approvata la legge sul Dat, cioè sul testamento biologico che dovrebbe regolare il fine vita», scrive Fabio Lugano su “Scenari Economici”. «Un bel po’ di gente a celebrare, la Bonino che piangeva, e altri marpioni ad occupare la Tv. Per me, personalmente, è stata una notizia piuttosto triste: avrei preferito mille volte veder affermata un po’ più di vita, con una cura in più, una nascita in più, che questa triste affermazione della morte». Purtroppo, aggiunge Lugano, in Italia ormai «siamo a un livello di disorientamento e di disperazione tale che l’assassino, non il salvatore, è l’eroe, così come l’ignorante è il ministro dell’istruzione o il distruttore è ministro dell’economia». Tutto è ribaltato. E, mentre i poveri sono diventati 10 milioni e mezzo – quota record nell’Unione Europea – i livelli di assistenza stanno scivolando verso quelli dell’Est Europa.Come rileva “La Verità”, riservano brutte sorprese i dati più recenti sulla spesa pubblica sanitaria italiana comparata con la media dei paesi occidentali. A furia di essere “efficienti” e “austeri”, sintetizza Lugano, «stiamo abbandonando i paesi avanzati per avvicinarci alla spesa pubblica dei paesi dell’Est Europa, parte del vecchio blocco sovietico, sia come spesa in generale sia come spesa a carico dello Stato». Ormai, insiste “Scenari Economici”, stiamo lasciando il welfare State occidentale per muoverci verso quello dei paesi dove la garanzia è inferiore. «Ricordo che ho avuto discussioni durissime con un governatore regionale italiano mostrandogli, dati alla mano, quanto ad esempio i posti letto ospedalieri per 100 mila abitanti in Italia fossero ormai molto inferiori a quelli tedeschi e francesi». Ma non è stato utile, ammette Lugano: non ci sono piani (né soldi) per sperare di poter invertire la rotta. Da quell’orecchio, la politica non ci sente: sa che “non può” spendere, e non si ribella alla dottrina del rigore imposta dall’ordoliberismo finto-europeista.In più, a pesare sono anche i forti disequilibri lungo la penisola: «L’Italia ha la non invidiabile caratteristica di presentare un’incredibile differenza di spesa sanitaria pro capite da regione a eegione: in Trentino la spesa sanitaria pro capite è pari a 805 euro a persona, mentre in Campania è pari a 326 euro, per cui non appare così strano che i pronto soccorso esplodano e la gente sia curata per terra». Sarebbe interessante conoscere il parere del governatore Vincenzo De Luca su questi dati, «ma non vorremmo disturbarlo solo per la salute dei suoi concittadini», conclude Lugano, sarcastico. Parlano i numeri, purtroppo: «La spesa pubblica in sanità nel 2017 è stata pari al 6,7% del totale, ma scenderà ancora al 6,4% da qui al 2020. Quindi, che senso ha parlare di vita, di cure, quando si può scegliere di morire?».La sanità allo sfascio non riesce più a curare gli italiani, ma in compenso li aiuterà a morire: senza per questo contestare l’introduzione della norma sul “fine vita”, fa riflettere che i suoi promotori non aprano bocca per denunciare lo stato comatoso dell’assistenza sanitaria, flagellata dai tagli imposti dal regime di austerity introdotto da Bruxelles. «Come sapete la settimana scorsa è stata approvata la legge sul Dat, cioè sul testamento biologico che dovrebbe regolare il fine vita», scrive Fabio Lugano su “Scenari Economici”. «Un bel po’ di gente a celebrare, la Bonino che piangeva, e altri marpioni ad occupare la Tv. Per me, personalmente, è stata una notizia piuttosto triste: avrei preferito mille volte veder affermata un po’ più di vita, con una cura in più, una nascita in più, che questa triste affermazione della morte». Purtroppo, aggiunge Lugano, in Italia ormai «siamo a un livello di disorientamento e di disperazione tale che l’assassino, non il salvatore, è l’eroe, così come l’ignorante è il ministro dell’istruzione o il distruttore è ministro dell’economia». Tutto è ribaltato. E, mentre i poveri sono diventati 10 milioni e mezzo – quota record nell’Unione Europea – i livelli di assistenza stanno scivolando verso quelli dell’Est Europa.