Archivio del Tag ‘speranza’
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Falchi, Wall Street e Israele: tutti pazzi per Hillary Clinton
Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.Se la propaganda presenterebbe la candidatura come opportunità di ringiovanimento e simbolo di speranza e cambiamento, ci pensa “Politico Magazine” a chiarire “perché Wall Street ama Hillary”, spiega Greenwald, in un post ruipreso da “Controinformazione”. «Giù a Wall Street non credono alla retorica populista della Clinton neanche per un minuto», scrive il magazine. «Mentre l’industria finanziaria effettivamente odia Warren, i grandi banchieri amano la Clinton e in linea di massima la vogliono a tutti i costi come presidente». Tra i super-banchieri dalla sua parte, oltre a Blankfein, spiccano James Gorman e Tom Nides (Morgan Stanley), nonché i capi di Jp Morgan Chase e Bank of America. «Considerano la Clinton una pragmatica risolutrice di problemi poco propensa alla retorica populista», scrive “Politico Magazine”. «Per loro è una che ha l’idea che tutti beneficiamo se Wall Street e il business americano prosperano». Ardente retorica populista? «Nessuno di loro pensa che lei faccia sul serio». La sostanza: «Wall Street, soprattutto, ama i vincitori, tanto più quelli che difficilmente toccheranno troppo il suo salvadanaio».Altro caposaldo della scalata di Hillary, la lobby israeliana. «Se dovesse diventare presidente, rapporti migliori con Israele sarebbero praticamente garantiti», assicura “Foreign Policy”. «Non dimentichiamo che i Clinton hanno già trattato con Bibi primo ministro». Non è mai stato facile, ma il rapporto con Netanyahu era chiaramente «molto più produttivo di quanto vediamo adesso», con Obama. Hillary? «E’ buona per Israele e si relaziona al paese in un modo in cui questo presidente non fa». La Clinton «è di un’altra generazione, e ha lavorato in un mondo politico in cui essere buoni per Israele era sia obbligatorio che intelligente», cioè conveniente. «Siamo chiari: quando si tratta di Israele, non esiste un Bill Clinton 2.0». L’ex presidente è stato probabilmente “unico”, sia «per la profondità dei suoi sentimenti per Israele» che per «la sua disponibilità a mettere da parte le proprie frustrazioni per certi aspetti del comportamento di Israele, come gli insediamenti». Ma questa intesa vale anche per Hillary, garantisce “Foreign Policy”. «Sia Bill che Hillary sono così innamorati dell’idea di Israele e della sua storia unica che sono propensi a fare certe concessioni sul comportamento del paese, come la continua costruzione di insediamenti».Poi ci sono loro, gli interventisti (ovvero i fanatici della guerra). Come Robert Kagan, il super-falco dell’entourage di Obama, marito di Victoria Nuland, architetto del golpe di Kiev per rovesciare il governo ucraino regolarmente eletto e aprire la sfida anche militare con Mosca. Molti “interventisti” come Kagan ripongono le loro speranze proprio nella Clinton, conferma il “New York Times”. «Mi sento a mio agio con lei in politica estera», ha ammesso Kagan, aggiungendo che il prossimo passo, dopo l’approccio “realista” di Obama, «potrebbe in teoria essere qualsiasi cosa Hillary porti in tavola», se eletta alla presidenza. «Se perseguirà la politica che noi crediamo perseguirà», ha aggiunto Kagan, «è qualcosa che si potrebbe chiamare neoconservatrice, ma chiaramente i suoi sostenitori non la definiranno così, la chiameranno in modo diverso». Di fatto, però, le idee sono quelle dei neo-con. Che sempre il “New York Times” ipotizza siano pronti ad allearsi con Hillary, «dopo quasi un decennio di esilio politico». Ovvero: «Mentre castigano Obama, i neo-con forse si stanno preparando per un’impresa più sfrontata: allinearsi con Hillary Rodham Clinton e la sua nascente campagna presidenziale, nel tentativo di tornare al posto di comando della politica estera americana». Lo conferma Max Boot, membro del Council on Foreign Relations: «Nei consigli dell’amministrazione, Hillary era una voce di principio per una posizione forte su questioni controverse, che fosse a supporto dell’insorgenza afghana o dell’intervento in Libia».Esatto: «La signora Clinton ha votato per la guerra in Iraq, ha supportato l’invio di armi ai ribelli siriani, ha paragonato il presidente russo Putin ad Adolf Hitler», scrive il “New York Times. Tuttora, Hillary «supporta appassionatamente Israele e sottolinea l’importanza di “promuovere la democrazia”». Dunque, «è facile immaginare che la signora Clinton nella sua amministrazione farà spazio ai neo-con. Nessuno la potrebbe incolpare di essere debole, nella sicurezza nazionale, con uno come Robert Kagan a bordo». Nel 1972, il primo a tracciare l’identità trasversale della lobby neo-con fu Robert Bartley, editorialista del “Wall Street Journal”, vicino ai neo-con: Bartley, dice il “New York Times”, «definì acutamente il movimento come “un gruppo altalenante tra i due maggiori partiti”», nonostante la decantata democrazia dell’alternanza bipolare. «Perciò beccatevi questo, cinici», conclude Greenwald. «Ci sono sacche di vibrante eccitazione politica che si stanno entusiasmando nel paese per una presidenza di Hillary Clinton. Si fanno poster, si attaccano distintivi, si preparano assegni, si bramano appuntamenti. I costituenti uniti, alleati, sinergici della plutocrazia e della guerra senza fine hanno la loro beneamata candidata. Ed è davvero difficile argomentare che la loro eccitazione ed affetto non sia giustifica».Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.
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Gaglianone, film: val Susa, la strana guerra contro tutti noi
Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.Travolti dal loro problema – il conflitto fisiologico tra grande opera e benessere del territorio – si sono comportati da cittadini democratici, appellandosi ai diritti previsti dalla Costituzione. Tutto inutile: sono convinti che il potere non abbia lasciato loro altra scelta che vedersela coi reparti della polizia antisommossa. La vertenza NoTav ha origini ormai lontane anni luce dall’attualità odierna, risale infatti a prima del Duemila. Nel documentario di Gaglianone, il primo grande scontro – quello del 2005 – è rievocato dal sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, che fece suonare le campane a distesa per far accorrere la popolazione a sostegno degli inermi manifestanti, manganellati a freddo in piena notte. La rottura istituzionale è già perfettamente leggibile: Durbiano racconta di come, in quanto primo cittadino, fu convocato alle tre di notte alla Prefettura di Torino. Un colloquio gelido, evidentemente per sondare il sindaco alla vigilia del pestaggio destinato a sgomberare i NoTav dall’area di Venaus, dove allora doveva sorgere il cantiere della galleria preliminare esplorativa, oggi trasferito a Chiomonte.Assenza di dialogo: come se fosse già in corso una sorta di guerra, non dichiarata, contro la popolazione. L’unico precedente, all’epoca, era stato il trauma del G8 di Genova, la Diaz e Bolzaneto, che stroncò il movimento no-global, di cui le multinazionali globaliste avevano paura. Subito dopo, l’infarto mondiale dell’11 Settembre e la “guerra infinita” da esso originata: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libia, Siria, Ucraina. E poi ancora Iraq, seguendo le eroiche imprese dell’Isis guidato dal “califfo” Al-Baghdadi. Un avventuriero che, secondo varie fonti – ultimo, il massone Gioele Magaldi col suo libro sulle super-logge del potere occulto – fu liberato proprio perché mettesse in piedi l’armata jihadista. Quanto è lontana la valle di Susa dalle “armi chimiche” siriane e dalla manipolazione dello spread per imporre Monti a Palazzo Chigi? Molto meno di quanto si pensi, stando ai resoconti disarmati degli interlocutori di Gaglianone, praticamente smarriti di fronte alla dissoluzione di ogni solido punto di riferimento: la solitudine siderale del cittadino trova parziale conforto solo nella democrazia spontanea che la stessa cittadinanza alimenta, sotto forma di movimento civile.Servono risposte, e non arrivano mai. Così, dopo un po’ ci si arrende all’evidenza. Magari pregando, come fanno gli attivisti cattolici, il gruppo di Gabriella Tittonel che accompagna la troupe lungo i reticolati di Chiomonte, filo spinato di fabbricazione israeliana. O cercando di dialogare coi reparti antisommossa, come fa l’infermiera Cinzia Dalle Pezze, esasperata dall’abuso di lacrimogeni e gas tossici. Il documentario propone la voce di antagonisti come Aurelio Loprevite di “Radio Blackout”, in diretta telefonica con Luca Abbà quando l’attivista precipitò dal traliccio sul quale si era arrampicato per protesta, e militanti dal passato sorprendente come Alessandro Lupi, carabiniere in congedo e convinto NoTav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno. La telecamera raccoglie parole e silenzi di persone finite in carcere, pensionati decisi ad ammanettarsi alle recinzioni militarizzate, famiglie disposte a tutto per difendere la loro casa, minacciata dalla nuova arteria ferroviaria.Sullo sfondo, i fantasmi di ogni realizzazione faraonica – devastazione ambientale, crisi idrogeologica, dissesto urbanistico, impatto insostenibile dei cantieri, rischi concreti per la salute e l’incolumità della popolazione – e in più, in questo caso, la sordità autistica ed esasperante dell’élite di potere di fronte alle più argomentate osservazioni tecniche, sciorinate dai migliori esperti dell’università italiana: la linea Tav Torino-Lione non è solo l’ennesimo attentato alle dissanguate finanze pubbliche del paese, non è solo l’ennesimo invito a nozze per l’imprenditorialità mafiosa, ma è anche e soprattutto uno spreco totalmente folle, visto che l’attuale linea ferroviaria internazionale che già attraversa la valle di Susa è praticamente deserta. Nonostante il recente e costoso ammodernamento del traforo del Fréjus, non esiste più traffico merci tra Italia e Francia: secondo l’osservatorio europeo per i trasporti alpini, affidato alla Svizzera, l’attuale linea valsusina italo-francese potrebbe tranquillamente incrementare del 900% il volume dei transiti. Perché allora incancrenire lo scontro sociale rincorrendo il miraggio di un super-treno miliardario da imporre a mano armata?Perché non siamo più in tempo di pace, e da parecchi anni, sembrano suggerire i valsusini ascoltati da Gaglianone, i primi a constatare sulla loro pelle l’avvento del cambio d’epoca: loro erano già sulle barricate molto prima di Occupy Wall Street, prima degli “attentati” all’articolo 18, prima della guerra di Marchionne contro la Fiom. Erano in campo, i cittadini italiani della valle di Susa, ben prima della riforma Fornero, o delle recenti “rivelazioni” di Geithner sul “golpe dello spread”. La Merkel, Draghi, la “dittatura bancaria” dell’euro, la privatizzazione globale. E poi il Ttip, le torture inflitte alla Grecia, la teologia disonesta dell’austerity, la fine del welfare europeo. Ormai il capolinea lo vedono tutti: l’abisso precario della disoccupazione, la sparizione del futuro. Loro, i valsusini, l’hanno avvistato in anticipo. Se c’è una parola che può riassumerli tutti, probabilmente questa parola è “democrazia”. Se ne avverte la dolorosa assenza, la nostalgia. «Se qualcuno mi parla ancora di Tav», scrisse Giorgio Bocca all’indomani dell’insurrezione popolare della valle del 2005, «tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo seppellito nel ‘45».Vedeva lungo, il giornalista-partigiano. E oggi, la causa NoTav vanta autorevolissimi sostenitori, nel mondo culturale italiano: ormai le istanze democratiche della popolazione hanno trovato piena cittadinanza, nell’Italia tramortita dalla cosiddetta crisi. Malgrado il costante depistaggio dalla disinformazione “mainstream”, ognuno percepisce la minaccia concreta di un declino che pare inesorabile. Finalmente, con Gaglianone, protagonisti e testimoni della remota trincea valsusina ora affiorano in superficie, mostrando le loro voci e i loro volti, in una quotidianità che si sforza di restare ordinaria, benché terremotata dagli eventi. E’ un’umanità che si esprime con gesti semplici e rivela una natura mite, costretta a misurarsi con la violenza dell’imposizione, nel vuoto cosmico della politica. Anni fa, espressioni come “destra” e “sinistra” avevano ancora maschere rappresentative. Puro teatro, ormai, come sperimentato nella valle alpina che unisce Torino alla Francia. Dove però la grande calamità collettiva ha cementato una comunità plurale, di italiani che resistono e sperano. E che, nel film di Gaglianone, parlano una lingua immediatamente riconoscibile e universale.(Il film: “Qui”, di Daniele Gaglianone, Italia 2014, 120′, prodotto da Gianluca Arcopinto e Domenico Procacci – produzione “Axelotil Film”, “Fandango”, in collaborazione con Babydoc Film – distribuito da “Pablo”).Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.
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Da soldati del capitale a uomini liberi, malgrado la Boldrini
L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.Come una veggente di stampo neoliberista, infatti, la Boldrini fa riferimento ad un futuro dove si «dovranno muovere i capitali, le merci, gli esseri umani», vale a dire un mondo senza coesione sociale, valori condivisi e stabilità, in cui a comandare, sempre di più, saranno i marchi multinazionali e gli investitori privati. Non un futuro roseo, insomma, per chi è portatore di tradizioni millenarie e combatte contro i disagi della post-modernità da tutta la propria vita. La posizione “boldriniana”, inoltre, ha la presunzione di considerare la vita dell’immigrato come positiva e fiorente, senza interrogarsi su quanto l’esistenza di una persona, costretta ad abbandonare il proprio paese, la propria famiglia e le proprie consuetudini possa essere considerata un bene e dirsi veramente felice. Quest’atteggiamento denota un forte etnocentrismo che forse sarebbe ora di considerare come il razzismo del XXI secolo. Se è vero, infatti, che gran parte della storia coloniale ha visto nella presunta superiorità di una razza sull’altra la giustificazione del dominio e delle ingiustizie, oggi è l’imposizione di modelli propri di una determinata cultura, liberale e occidentale, ad altre, a svolgere la stessa funzione soggiogatrice.È così che le diverse popolazioni perdono la propria identità e il rispetto di se stesse, nella falsa speranza di divenire altro. Del resto, come osserva Jean Baudrillard, «la cultura occidentale si mantiene soltanto sul desiderio del resto del mondo di accedervi». In quanto tristemente reale, questo concetto si collega direttamente all’altra posizione accennata in precedenza, spesso popolare, che vede nell’immigrato il nemico numero uno, l’artefice del male. Questa visione confonde il vero problema in questione, individuandolo non nel fenomeno sistemico e manipolato dai poteri forti, ma nei suoi attori individuali e disperati. Erroneamente, sposta il bersaglio della critica dall’immigrazione agli immigrati. Questi ultimi, più che ad un esercito invasore, assomigliano a quello che Karl Marx, nel primo libro del “Capitale”, definisce «l’esercito industriale di riserva», ovvero quella massa di disoccupati particolarmente comoda ai capitalisti perché, a seguito della grande concorrenza, determina bassi salari e scarse rivendicazioni sociali.Ecco allora come l’immigrazione, difesa non a caso dai liberisti più accaniti, assomiglia più che ad un’invasione, ad una tratta di schiavi. L’immigrato è, allo stesso tempo, agente inconsapevole e vittima reale di un sistema planetario capace di minare la sicurezza e la dignità di tutti. Continuare a sostenere questo tipo di immigrazione, che di scambio tra culture non ha veramente nulla, significa semplicemente legittimare le logiche neoliberiste. Le stesse logiche che hanno ridotto i paesi del “Nord” alla crisi (culturale, sociale, economica) e, più o meno indirettamente, quelli del “Sud” alla miseria. Questo significherebbe volersi chiudere su se stessi ignorando i problemi, tra l’altro da noi creati, nelle parti più povere del mondo? Niente affatto. In realtà, questa presa di coscienza rappresenterebbe il primo passo concreto per agire veramente a difesa delle popolazioni ridotte oggi alla fame, perché intaccherebbe la struttura stessa del sistema liberal-capitalista, prendendo le distanze sia da slogan distanti dalla realtà di cose, sia da un moralismo molto politically correct che non ha davvero ragione di esistere.Questa critica, costruttiva e non distruttiva, dovrà partire dalla rivalutazione dei paesi, delle culture e della dignità stessa degli abitanti del “Sud” del mondo. Nel suo “Breve trattato sulla decrescita serena”, Serge Latouche parla di una «sfida della decrescita per il Sud», sostenendo come la sua popolazione è ancora in tempo per non ficcarsi in quel vicolo cieco, che è la società progressista, in cui l’altra parte del mondo è condannata da tempo. Oggi la società occidentale attira migliaia di persone con l’illusione della tecnica e di un marcio benessere, costruito proprio sulle spalle altrui; per questo, come osserva Latouche, «finché l’Etiopia e la Somalia saranno costrette, mentre infuria la carestia, a esportare alimenti per i nostri animali domestici, finché noi ingrasseremo il nostro bestiame con la pasta di soia prodotta sulle cenere delle foreste amazzoniche, noi soffocheremo qualsiasi tentativo di reale autonomia nel Sud». La “reale autonomia” di tutti i popoli, alimentata dal confronto e dalla scambio tra le diverse realtà presenti nel mondo, rappresenta l’obiettivo per cui lottare oggi. Una presa di posizione netta sul tema dell’immigrazione, al di là di posizioni stereotipate, è necessaria per far finire il circolo vizioso e conseguire questo fine.(Lorenzo Pennacchi, “Da soldati del capitale a uomini liberi”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 24 ottobre 2014).L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.
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Giannuli: la televisione è finita, come i leader che fabbricava
Non nascerà un altro Berlusconi, perché sta andando in pensione, per sempre, la vecchia fabbrica del consenso, la televisione, ormai disertata dal pubblico perché unidirezionale e quindi obsoleta. Lo sostiene Aldo Giannuli, che segnala «il collasso della televisione, il media principe dell’ultimo mezzo secolo». Per sessant’anni, la Tv pubblica ha svolto una funzione di socializzazione culturale e politica: «Se la società del Novecento è diventata una società della cultura di massa e della partecipazione politica di massa lo deve più di tutti alla televisione». Ma oggi la formula è stanca e la televisione perde costantemente ascolti. «E’ probabile che nel giro di pochi anni l’interazione fra Tv e computer produrrà l’abbandono del palinsesto», sostiene Giannuli. «La Tv trasmetterà in diretta solo i notiziari ed eventi sportivi o spettacoli, mentre, per il resto, le televisioni si trasformeranno in società produttrici di format televisivi a pagamento, che gli spettatori sceglieranno da un menù per guardarli quando meglio gli parrà».In fondo accade già con YouTube. E il fenomeno produrrà ricadute non banali: «Spingerà le Tv ad abbandonare sempre più l’impegno culturale e formativo a favore del taglio commerciale», diversificando peraltro l’offerta. Ormai la vecchia Tv ha perso troppo terreno nei confronti del Web. «La Tv è stata l’ultimo media mono-direzionale, e, nella sua versione commerciale è stato il media ideale del successo berlusconiano. Il Web è il primo media interattivo e bidirezionale, e in questo senso è terreno sfavorevole al Pd e soprattutto a Fi, mentre ha propiziato il successo del M5S». Se per vent’anni l’Italia è stata condizionata da un personaggio come Berlusconi, oggi la televisione come collettore elettorale non funziona più. Per Giannuli, il tramonto della vecchia Tv è il sintomo di una nuova trasformazione radicale del sistema politico, che va molto oltre l’occasionale performance di questo o quel leader. «Inizia a sentirsi davvero l’urto della crisi finanziaria internazionale e della prolungata stagnazione dell’economia italiana, che ormai brucia primati in discesa».Il sistema, ricorda Giannuli, era rimasto stabile dopo il crollo della Prima Repubblica, «nonostante la classe politica fosse assai meno capace di quella che l’aveva preceduta». Nell’euforia finanziaria internazionale, «l’economia italiana galleggiava sul mare della globalizzazione senza troppi scossoni». Oggi invece la situazione è molto più difficile, «e con pochissime speranze di miglioramento a breve». Inoltre, «si stanno liquefacendo le forme della politica che avevamo conosciuto». Fine dei partiti con insediamento sociale: più ancora di Forza Italia e del M5S, il Pd «sta diventando “partito del capo” che azzera ogni dissidenza interna e non ha neppure un vero e proprio gruppo dirigente collettivo», l’unico magnete elettorale è l’ascendente del condottiero e i congressi diventeranno «liturgie del karaoke». La minoranza, che sogna riscosse interne, «non ha capito che non sta più nel Pds e neppure nel Pd, ma nel prossimo “Partito della Nazione”, diverso per struttura interna, per funzione e collocazione politica: questo sarà un partito di centro con decise puntate a destra». Bersani e Speranza? «Stanno a Renzi come Turati stava a Mussolini: uomini del secolo precedente, del tutto inadeguati di fronte all’arroganza violenta del nuovo inquilino del potere».Non nascerà un altro Berlusconi, perché sta andando in pensione, per sempre, la vecchia fabbrica del consenso, la televisione, ormai disertata dal pubblico perché unidirezionale e quindi obsoleta. Lo sostiene Aldo Giannuli, che segnala «il collasso della televisione, il media principe dell’ultimo mezzo secolo». Per sessant’anni, la Tv pubblica ha svolto una funzione di socializzazione culturale e politica: «Se la società del Novecento è diventata una società della cultura di massa e della partecipazione politica di massa lo deve più di tutti alla televisione». Ma oggi la formula è stanca e la televisione perde costantemente ascolti. «E’ probabile che nel giro di pochi anni l’interazione fra Tv e computer produrrà l’abbandono del palinsesto», sostiene Giannuli. «La Tv trasmetterà in diretta solo i notiziari ed eventi sportivi o spettacoli, mentre, per il resto, le televisioni si trasformeranno in società produttrici di format televisivi a pagamento, che gli spettatori sceglieranno da un menù per guardarli quando meglio gli parrà».
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La rivoluzione e il Muro della Vergogna tra ricchi e poveri
«Il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere». Così scriveva Norberto Bobbio nel 1989, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, davanti alla repressione cinese di piazza Tienanmen. «E’ da stolti rallegrarsi della sconfitta», scriveva il filosofo, criticando il trionfalismo dell’Occidente di fronte alla grande ritirata dell’Urss di Gorbaciov. «Credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?». Parole ricordate oggi da Angelo d’Orsi, all’indomani delle fastose celebrazioni berlinesi, in cui lo stesso Gorbaciov – che aveva sperato nell’avvento di un mondo multipolare e pacificato – ha ammonito gli Usa: voler stravincere è irresponsabile, significa trascinare il pianeta verso la guerra senza risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità, devastata dalle diseguaglianze con l’avvento destabilizzante della globalizzazione neoliberista.Tra le pagine del settimanale tedesco “Die Welt”, scrive d’Orsi su “Micromega”, sopravvive la coscienza problematica del presente, lontano dallo spirito della celebrazione, «quella beota» di chi non ha perso l’occasione per inneggiare al “liberalismus triumphans”, «magari tirando in ballo la situazione geopolitica attuale, con cenni al ritorno alla guerra fredda per colpa dell’aggressività dell’“Orso russo”». La televisione ha riproposto «luoghi comuni, stucchevoli e spesso fuorvianti», anche se con «un minimo di pudore in più rispetto al passato», forse per effetto «della crisi che si sta impietosamente prolungando, lasciando una scia sempre più scura di dolore, tra rassegnazione inerte e rivolta incipiente». Eppure, «l’apologetica dell’Occidente domina, e prevale, di gran lunga, incurante di quel che le vicende internazionali ci hanno regalato come prodotto della fine del bipolarismo, e ingresso nell’era unipolare, con lo strapotere militare, economico, finanziario, culturale, degli Stati Uniti d’America, il vero Big Brother della famiglia umana».Il biennio 1989-1991, si interroga d’Orsi, fu davvero una rivoluzione? Produsse cambiamenti repentini di regimi politici e portò al potere classi sociali nuove? Sì e no: intanto, perché gli ex satelliti dell’Urss sono stati gestiti a lungo dalla vecchia nomenklatura, «semplicemente con un cambio di casacca politica». E poi perché «il sistema di garanzie sociali, di diritti sostanziali, di welfare, fu spazzato via». Cambiò il clima umano di quei paesi: «Pochi giorni fa ero in Polonia – racconta d’Orsi – e ho conversato con un ingegnere, che lucidamente ha ammesso i benefici del post-’89, ma altrettanto lucidamente ha elencato i danni, il primo dei quali per lui era proprio sul piano antropologico. Era emerso, diceva, parlando accoratamente, un individualismo prima sconosciuto; furono spezzati i legami sociali, cessarono tutte quelle attività collettive – dalle ferie al dopolavoro, dalle sezioni di partito agli eventi sportivi, dalle biblioteche al teatro – che facevano sentire le persone garantite da reti di protezione: oltre alle istituzioni, v’era “la gente”, a costituire la rete. Ora ciascuno finito il lavoro corre a casa, sbarra l’uscio e si fa gli affari suoi».Secondo fonti occidentali, aggiunge d’Orsi, «in molti paesi dell’Est Europa le aspettative di vita si sono ridotte, le disuguaglianze economiche sono diventate macroscopiche». E, per gli ultimi in fondo alla scala sociale, «la vita è più dura che in passato, anche se hanno i supermercati traboccanti di merci, e possono espatriare liberamente». Ma le conseguenze più gravi, per d’Orsi, sono sul piano internazionale, «nella terrificante definizione del “nuovo ordine mondiale”», col dominio economico-militare degli Usa, senza alcun bilanciamento, e senza più l’Onu, «ridotto al rango di notaio della superpotenza». Questo ha generato nella classe dirigente americana «una perversa volontà sopraffattoria», al punto che «il mondo è parso per un momento alla sua mercé: il bombardamento della sede dell’ambasciata cinese a Belgrado, nel corso della più infame delle “nuove guerre”, nel 1999, fu la prova di quella volontà». Poi però è cominciato un riassetto internazionale, «con fenomeni di resistenza diffusi, allo strapotere statunitense», e oggi l’unipolarismo si sta trasformando progressivamente in multipolarismo. «Oggi gli Usa non si potrebbero permettere di bombardare l’ambasciata cinese. E la Russia è ritornata al rango di grande potenza, piaccia o non piaccia, malgrado la corona di ferro che Nato e Ue cercano di disporre intorno al suo territorio che, benché ridotto dalla frammentazione dell’Urss post 1991, rimane il più esteso del mondo».Nello stesso tempo, proprio la riscossa di altre nazioni e la crescita economica e militare dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), hanno eccitato «l’eterna cupidigia degli Usa», i quali «nella situazione di crisi sistemica del capitalismo», oggi «cercano nuovi sbocchi commerciali e hanno bisogno di far girare a pieno ritmo la propria macchina militare, smaltendo armi e investendo, di conseguenza, in nuovi, sempre più sofisticati sistemi di distruzione e di morte». E’ un fatto: «L’esportazione della democrazia, la grottesca formula che ha giustificato tutte le guerre recenti, è la conseguenza evidente del “crollo del Muro”. Ossia, la dissoluzione del blocco sovietico, con “l’arrivo della democrazia” in quei paesi, ha avviato il gioco del domino, con il cosiddetto “contagio democratico”, che è consistito, in definitiva, in una serie di piccoli e grandi colpi di Stato, il cui fine era la eliminazione di leader (dittatori o capi eletti in libere elezioni) sgraditi a Washington, o in moti di piazza più o meno spontanei, che quando sfociavano in regimi politicamente accettabili all’Occidente venivano tollerati, ma quando producevano, magari, anche, con democraticissime elezioni, assetti politici non graditi (vedi l’Egitto), si provvedeva senza tanti complimenti a cassare con un tratto di penna, secondo il modello cileno».Non di rado, aggiunge d’Orsi, il pretesto è stato un ostentato sentimento di umanità verso popolazioni in difficoltà, nel vasto mondo: «E furono le “guerre umanitarie”, le più ipocrite, realizzate con una sfacciata cancellazione delle convenzioni internazionali, una destrutturazione del “diritto dei popoli” e un ritorno alla forme più estreme della umana ferocia». E così «il mondo, pacificato sotto il segno del “libero mercato”, ha palesato il suo volto orribile di una conflittualità permanente: Afghanistan, Iraq, Kosovo, Libia, Siria, Ucraina, per tacere di Israele che impunemente procede nella sua politica genocidaria verso i palestinesi». Proprio il “muro della vergogna” costruito dagli israeliani all’interno dei Territori Occupati, «una struttura rispetto alla quale il Muro di Berlino appare una specie di giocattolo», per d’Orsi è la prova della grande menzogna: «Lo slogan “mai più muri” è risuonato anche in questi giorni di celebrazione del 9 novembre 1989: ma evidentemente vale soltanto per i muri costruiti dagli “altri”; noi i “nostri” muri ce li teniamo e li rafforziamo e li moltiplichiamo: alla frontiera tra Usa e Messico, nei possedimenti spagnoli in Marocco, persino a Padova, per isolare gli extracomunitari».Ma il peggiore dei muri, conclude d’Orsi, è quello che ormai separa e contrappone, irrimediabilmente, quei quattro quinti di umanità, che giacciono nella miseria, dal rimanente quinto che invece vive nell’agiatezza. «E più noi, i cittadini del “Nord” del mondo, alziamo barriere protettive, più intorno a noi cresce la minaccia di chi nulla possiede. Se non ci apriremo all’accoglienza e alla solidarietà, queste enormi maree umane ci sommergeranno, e allora non varrà dire: noi eravamo dalla vostra parte. Saremo tutti colpevoli, ai loro occhi, e la nostra indifferenza odierna giustificherà la loro vendetta». Per questo vale la pena, oggi, ricordare Bobbio: la speranza della rivoluzione non si è spenta solo perché è fallita l’utopia comunista. «Personalmente non so se il comunismo fosse soltanto una utopia», dice d’Orsi, «ma certo era e rimane una speranza, per gli “schiacciati dai grandi potentati economici” (ancora Bobbio), per i “dannati della terra” (per dirla con Frantz Fanon). E questa speranza non verrà meno sino a quando ve ne saranno».«Il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere». Così scriveva Norberto Bobbio nel 1989, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, davanti alla repressione cinese di piazza Tienanmen. «E’ da stolti rallegrarsi della sconfitta», scriveva il filosofo, criticando il trionfalismo dell’Occidente di fronte alla grande ritirata dell’Urss di Gorbaciov. «Credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?». Parole ricordate oggi da Angelo d’Orsi, all’indomani delle fastose celebrazioni berlinesi, in cui lo stesso Gorbaciov – che aveva sperato nell’avvento di un mondo multipolare e pacificato – ha ammonito gli Usa: voler stravincere è irresponsabile, significa trascinare il pianeta verso la guerra senza risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità, devastata dalle diseguaglianze con l’avvento destabilizzante della globalizzazione neoliberista.
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Orsi: è ufficiale, l’Italia in rottamazione non è più salvabile
Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».«Per sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare default. Non disponendo di una valuta nazionale, l’Italia non può controllare la prima opzione: quindi, se non ci saranno cambiamenti realmente significativi in tempi brevi, il default sovrano diverrà lo scenario più probabile». Sul piano tecnico è obiettivamente difficile stabilire, per qualsiasi paese, una soglia massima oltre la quale il default diventa “matematicamente inevitabile”. Basti pensare al Giappone che, nonostante un rapporto debito/Pil al 230%, è ancora considerato un creditore solvibile. Nel caso dell’Italia, la mancanza di una moneta nazionale complica però le cose. Evans ritiene comunque che «il debito pubblico italiano raggiungerà un livello pericoloso il prossimo anno». Pericoloso al punto che «potrebbe essere superato il punto di non ritorno». L’articolo di Münchau è il più esplicito e allarmistico: «La posizione economica dell’Italia è insostenibile e sfocerà in un default a meno che non vi sia un’immediata e duratura inversione di tendenza sul piano economico». E un default, naturalmente, «comprometterebbe il futuro del paese nell’Eurozona e l’esistenza stessa della moneta unica».I tre pezzi, scrive in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” il professor Roberto Orsi (London School of Economics e Università di Tokyo) potrebbero essere considerati come l’inizio di un’offensiva mediatica indirizzata alla Bce per forzarla ad adottare politiche monetarie espansive simili a quelle della Fed, della Bank of Japan e della Bank of England: un intervento che tutti e tre gli autori auspicano, insieme alla realizzazione di ampie riforme politico-economiche. Queste osservazioni vanno inoltre lette tenendo a mente che le previsioni di crescita dell’economia italiana dal 2011 a oggi sono state sistematicamente smentite. Quanto al 2015, il rallentamento dell’Eurozona e le correzioni attese sui mercati finanziari internazionali rendono ben poco verosimili le stime di aumento del Pil formulate dal nostro governo. I tre analisi invocano le famose riforme strutturali? La natura e la portata delle riforme finora proposte (Senato, pubblica amministrazione, giustizia, scuola, legge elettorale) dimostrano che l’Italia «manca delle fondamenta», scrive Orsi, secondo cui «tutto questo discutere di riforme è una pura e semplice illusione».La tempistica italiana è eterna: nei sei anni successivi al crollo di Lehman Brothers, osserva Orsi, è stata portata a termine una sola riforma strutturale, la drammatica riforma Fornero (pensioni) firmata dal governo Monti, anche perché «l’ordine costituzionale vigente (e la cultura politica sottesa) combina un potere esecutivo debole a un potere legislativo frammentato, con una pletora di autorità e poteri di veto incrociati che finiscono per paralizzare il sistema». E se anche le riforme annunciate fossero realizzate nei tempi previsti, il loro impatto sarebbe sufficiente a evitare il collasso del sistema-paese? Il mondo è cambiato: prima la super-globalizzazione del 2007 e poi il crack di Wall Street del 2008. «In Italia questo contesto sfugge, e si discute a vuoto su questioni quali l’abolizione dell’articolo 18 senza considerarne l’ormai sostanziale irrilevanza in un mondo lavorativo dominato dai contratti “flessibili” e dalla disoccupazione». Quanto alle “riforme” evocate da Renzi e dei poteri forti – Bce, Troika Ue, finanza – restano sfocate. Quando Münchau scrive che «l’Italia ha bisogno di modificare il proprio sistema legale, ridurre le tasse e migliorare la qualità e l’efficienza del settore pubblico», secondo Orsi offre certamente «consigli ragionevoli e condivisibili, ma troppo generici. Quali regole potrebbero funzionare? Come dovrebbero essere attuate? Ci sono i presupposti perché ciò accada? Quali ostacoli andrebbero superati?».Riguardo poi al suggerimento di «cambiare l’intero sistema politico», ciò appare impossibile a meno che non si sostenga la rottura della continuità costituzionale e l’ascesa di un “dispotismo illuminato” come quello che contraddistinse le riforme Stein-Hardenberg nella Prussia del primo Ottocento, rileva Orsi. «Il “consenso di Washington” è ormai in declino, e oggi non ci sono chiare indicazioni sulle politiche che potrebbero garantire condizioni economiche migliori a un determinato paese. Questo ci conduce al più generale problema dell’inadeguatezza dei modelli socio-economici oggi dominanti, il “neo-keynesiano” e quello fondato sull’austerità. E, andando ancora più a fondo, ci porta a constatare quanto poco utile sia pensare ancora nei termini “positivistici” propri di paradigmi e modelli economici – come se il governo dell’economia potesse essere completamente de-politicizzato». L’ansiosa ricerca di una soluzione definitiva e “scientificamente corretta” ai problemi economici «tradisce un implicito anti-intellettualismo e una drammatica carenza di leadership da parte delle élite politiche». Al riguardo, aggiunge Orsi, è sintomatico il paradosso implicito nell’aver trasferito il problema della “guida” sulle spalle dei banchieri centrali, figure tecniche originariamente de-politicizzate.A oggi, le proposte di riforma avanzate dai governi italiani sono «prive di una chiara logica e idonee a produrre effetti in tempi troppo dilatati». Per lo più derivano da «dottrine neo-liberal ormai superate». Visione del futuro? Non pervenuta. Dell’Italia non resta altro che l’astrazione contabile del Def, puro e semplice documento di bilancio finanziario e fiscale. «Lavorare e accettare pesantissimi sacrifici per migliorare uno Stato così concepito non ha molto senso». Vere riforme, serie ed eque, ben diverse da quelle finora proposte? «Arriverebbero comunque troppo tardi: il paese è esausto e si trova sull’orlo di un’irreversibile implosione demografica, economica e sociale». Per Orsi, «le riforme dovevano essere fatte vent’anni fa, quando il contesto nazionale e globale era molto più favorevole e si dovevano introdurre i cambiamenti necessari per accedere all’Eurozona ancora in gestazione. Al punto in cui siamo oggi, le riforme potrebbero addirittura essere tanto pericolose quanto l’immobilismo, spingendo il paese verso un’ulteriore destabilizzazione: la Francia del 1789 e l’Unione Sovietica degli anni Ottanta sono solo due esempi storici di come il tentativo di introdurre riforme fuori tempo massimo possa innescare il crollo del sistema che si vorrebbe salvare».L’articolo di Münchau menziona esplicitamente la parola “default”. Anticipare ciò che è probabile (o inevitabile) che avvenga in futuro, scrive Orsi, è un vecchio espediente: la verità fa meno male quando diventa manifesta e ineludibile. «Dovrebbe essere chiaro che l’Italia, a questo punto, non può più essere salvata. La perdita di capacità industriale è irreversibile, e il debito pubblico continuerà a crescere fino a quando non si renderà necessaria una qualche forma di ristrutturazione». Il blogger Stefano Bassi ipotizza un progressivo “smantellamento” del paese, mirato a trasferire l’ancora ingente patrimonio privato degli italiani verso il debito pubblico secondo la logica dei vasi comunicanti. I “mercati” potrebbero cambiare la propria percezione di rischio nei confronti dell’Italia e agire di conseguenza, innescando la speculazione al ribasso e il panico. Lo scenario di un’implosione controllata e a lungo termine dell’Italia (e, in prospettiva, di molti altri paesi europei, Germania inclusa) è realistico solo se accompagnato da una parallela strategia di “manipolazione monetaria” della Bce, da cui dipende la sopravvivenza dell’euro. La Germania però resta inflessibile – niente espansione monetaria – e per contro «non ci sono garanzie sul fatto che ciò che ha “funzionato” negli Usa e nel Regno Unito produrrebbe gli stessi effetti nell’Eurozona».Un nuovo accordo politico che sostituisca Maastricht potrebbe certamente essere raggiunto a livello europeo, dice Orsi, ma richiederebbe anni di lavoro e appare tutto sommato improbabile. Senza contare che è illusorio pensare che gli organi di governo dell’Ue e la dirigenza tedesca «abbiano in serbo idee migliori di quelle attuali». Sicché, «l’Italia potrà essere “tenuta a galla” artificialmente per un periodo di tempo piuttosto lungo, ma non indefinitamente, perché nel frattempo l’economia reale continuerà a deteriorarsi e il rapporto debito/Pil continuerà ad aumentare». Nessuna speranza, all’interno dell’attuale struttura Ue. L’euro? «Non può certamente crollare dalla sera alla mattina, e la probabilità che l’attuale leadership politica e finanziaria annunci la fine della moneta comune è paragonabile a quella che un pilota informi i propri passeggeri di aver perso il controllo dell’aereo: semplicemente, non accadrà mai». Forse si può sperare nella graduale transizione verso un distema duale, a doppia moneta, che permetta di ridenominare i debiti nazionali. «In realtà, si tratterebbe del primo passo verso l’abbandono del sistema. Una strada accidentata, se vogliamo, ma preferibile all’esplodere di forze centrifughe difficilmente controllabili». Quanto all’Italia, per dirla con Bassi, «non ci sono soluzioni, e solo ammetterlo porterà a una soluzione».Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».
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Bifo: noi e la barbarie dell’Ue, fabbrica di miseria e guerra
Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.Così oggi il sindacato si mobilita contro la precarizzazione che ormai dilaga, contro l’impoverimento e lo smantellamento del sistema economico italiano che ormai sono cosa fatta. Ancora una volta si chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati. L’articolo 18 è un feticcio vuoto perché la precarietà è divenuta forma generale del rapporto di lavoro salariato, e a questo si aggiunge l’espansione continua del lavoro schiavistico, mascherato da lavoro volontario. La cancellazione dell’articolo 18 è il colpo di grazia, il sacrificio rituale che il dio della finanza chiede a Renzi per concedergli in cambio un po’ di flessibilità finanziaria. Nonostante tutto questo la mobilitazione contro la ferocia del ceto politico-finanziario può avere un effetto positivo nel lungo periodo, riaprendo una dinamica di solidarietà e organizzazione che negli ultimi anni si è progressivamente spenta. Ma qual è il contesto?L’Unione Europea è un morto che cammina. A che punto è la notte europea? Purtroppo la notte è appena cominciata, anzi quel che stiamo vivendo forse è solo il tramonto. Il tramonto della speranza di democrazia e di pace nel continente. La democrazia è parola svuotata dalla pratica austeritaria, mentre dovunque cresce il nazionalismo come hanno dimostrato le elezioni del maggio che il ceto finazista europeo non ha voluto neppure considerare. Al finazismo della Bce e al revanscismo tedesco risponde un nuovo nazionalismo nei paesi economicamente più impoveriti dall’offensiva finazista. Il disegno del finazismo globale è stato da sempre ed è oggi più che mai lo smantellamento definitivo dell’Unione Europea, e la sottomissione della popolazione europea alla condizione semi-schiavistica della precarietà. Il punto di precipitazione definitiva dell’Unione, e di inizio della nuova guerra civile europea si trova nel confronto franco-tedesco. La probabile vittoria del Front National è destinata a segnare la fine dell’Unione con conseguenze inimmaginabili, sullo sfondo della guerra russo-ucraina.Non occorre molta sapienza storica per capire che il nazionalismo francese non può tollerare che l’Europa sia unita sotto il dominio tedesco, anche se la Deutsche Bank ha preso il posto che nel 1941 aveva la Wehrmacht. La sceneggiatura è già scritta: crollo del partito di Hollande, affermazione dei nazionalisti, sgretolamento dell’Unione Europea. E dopo? Un articolo di George Soros uscito sulla “Repubblica” del 26 ottobre chiama l’Europa a prepararsi alla guerra con la Russia. Alcuni auspicano l’uscita dell’Italia dall’Unione come se questo fosse la soluzione di qualcosa. L’Italia è uno stato fallito, una società disgregata, depressa, corrotta, un’economia smantellata, un patrimonio industriale distrutto o svenduto come Alitalia. Parlare di Italia è idiota. Occorre parlare della classe operaia che da Torino a Napoli – per quanto decimata, tradita, sconfitta – può mettere in moto un processo che coinvolga il lavoro precario, e soprattutto il lavoro cognitivo disperso fuori dai confini nazionali. Non per la riscossa nazionale di un paese la cui unica azienda in attivo è la mafia, ma per aprire e guidare un processo di rivolta e di autonomia dei lavoratori europei.Siamo entrati in un’epoca oscura e non serve fingere di non vederlo: non si può restaurare la democrazia, l’occupazione non è destinata a crescere ma a diminuire, la pace civile si sta sgretolando, e la crescita non ha più senso economico né ecologico. Occorre prepararsi al pieno dispiegamento delle condizioni che stanno iscritte nella disgregazione sociale, e nella cultura della competizione e della paura: prepararsi alla miseria e alla guerra, per dirlo in chiaro. E’ in questa prospettiva che si devono creare le condizioni per l’autonomia sociale e il dispiegamento delle potenzialità contenute nell’alleanza possibile tra tecnologia e lavoro.Che caratteri avrà un nuovo movimento di emancipazione, dentro e oltre il disastro che liberismo e finazismo hanno preparato con l’aiuto servile della sinistra?Si uscirà dall’epoca buia solo quando la cultura sociale si orienterà verso la riduzione generale del tempo di lavoro. Metà dei posti di lavoro sono inutili, se si applica a pieno la potenza tecnologica. Nelle condizioni del capitalismo questo è un disastro senza rimedio. In condizioni libere dalla stretta del capitalismo questa potenza tecnica può diventare fattore di arricchimento egualitario e di rinascimento culturale. La potenza dell’intelletto generale in rete riduce il tempo di lavoro necessario. L’effetto di questa riduzione è stato finora riduzione del salario, aumento dello sfruttamento relativo e assoluto, aumento della disoccupazione e della miseria. Il sindacato ha testardamente e inutilmente difeso il posto di lavoro mentre si trattava (ormai dagli anni ’80) di scatenare la forza della società e l’immaginazione del lavoro cognitivo per la liberazione di tempo sociale dal lavoro salariato. La sconfitta politica e l’arretramento culturale di questi anni derivano direttamente dall’incapacità della sinistra e del sindacato di allearsi con la tecnologia e il lavoro cognitivo, e di battersi per la riduzione del tempo di lavoro generale.Ora siamo in un tunnel molto nero. La luce verrà soltanto dal rovesciamento della cultura lavorista. Non il produttivismo, non la difesa della composizione esistente del lavoro, non la partecipazione alla corsa del topo liberista. Ma la riduzione generale del tempo di lavoro, la redistribuzione della ricchezza, la liberazione delle energie affettive, educative, culturali dalla morsa imbecille della competizione. Occorre cominciare subito, mentre il tramonto volge verso il buio assoluto. Occorrerà continuare mentre nel buio l’uomo si farà lupo per l’uomo. I lavoratori italiani possono riprendere il ruolo di avanguardia che ebbero nel passato non per salvare il cadavere d’Europa che sta ammorbando l’atmosfera, ma per mettere in moto un processo di lotta europea e internazionalista, per la liberazione del tempo dal lavoro, per la liberazione dell’intelligenza dall’oscurantismo economicista.(Franco “Bifo” Berardi, “Al tramonto d’Europa”, da “Micromega” del 25 ottobre 2014).Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.
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Della Luna: tutti i falsi dogmi che fanno la nostra rovina
E’ tutto falso, ma c’è un problema: sembra vero. Viviamo in mezzo a verità di fede, spacciate per realtà. Basta ripeterle all’infinito, sui giornali e in televisione. I mercati infallibili, la spesa pubblica da tagliare, l’inevitabile Europa dell’euro. Dogmi che servono a occultare il conflitto tra oligarchia parassitaria e cittadini-lavoratori. Economia, legittimazione del potere, interpretazione della storia. Avverte Marco Della Luna: chi osa uscire dal recinto dei dogmi viene etichettato come «antagonista, estremista, antisociale, populista», viene delegittimato ed emarginato, «finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico». E’ la legge del regime attuale, con la «classe finanziaria» che si prende quasi tutto il reddito disponibile ed erode, «attraverso l’indebitamento pubblico e le tasse», anche il risparmio. Questo, grazie al consenso e all’acquiescenza «ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi, che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto».Nel suo blog, Della Luna offre un drammatico “inventario” dei dogmi su cui si fonda la falsa verità spacciata dal sistema. Prima favola, quella dei “mercati efficienti”, cioè liberi e trasparenti: moneta, credito, materie prime ed energia non sono oggetto di monopoli e di cartelli. I mercati «prevengono o correggono efficientemente le crisi e realizzano l’ottimale distribuzione delle risorse e dei redditi», in più «abbassano i prezzi e le tariffe» e inoltre «puniscono gli Stati inefficienti e spendaccioni mentre premiano quelli efficienti e virtuosi». Di conseguenza, «la regolazione della politica va ultimamente affidata ad essi, non ai Parlamenti». Così si arriva al secondo dogma, quello della spesa pubblica concepita come zavorra: «La spesa pubblica è la causa dell’indebitamento pubblico, il quale a sua volta è la causa delle tasse, della recessione e dell’inefficienza del sistema». Obiettivo? Facile: «Tagliare la spesa pubblica come tale e affidare i servizi pubblici alla gestione del mercato, cioè alla logica del profitto».Tutto questo, in Europa, sotto il grande ombrello del terzo dogma, quello dell’integrazione europea: che è al tempo stesso «benefica, possibile e inevitabile». Dunque, chi la contrasta «si oppone a una tendenza naturale e storica, va contro la realtà e gli interessi di tutti». L’Europa quindi «legittimamente detta le regole a cui tutti devono adeguarsi». A cominciare dalla moneta unica, cioè il dogma dell’euro, valuta che «produce la convergenza delle economie europee, quindi sostiene l’assimilazione e l’integrazione tra i paesi europei, favorisce la crescita economica e la loro solidarietà». Bugia per bugia, ecco il quinto dogma: la preziosità e scarsità oggettiva della moneta, che «non è un simbolo prodotto a costo zero, ma è un bene, una commodity, con un costo di produzione che giustifica il fatto che coloro che la producono (come moneta primaria o creditizia), in cambio di essa, tolgano grandi quote del reddito a chi produce beni e servizi reali». Lo fanno anche grazie alla pretesa “indipendenza” della banca centrale, sesto dogma: la banca centrale è indipendente dalla politica, dai governi e dai Parlamenti. «Non è vero che renda la politica dipendente dai banchieri, bensì assicura al paese un’adeguata disponibilità di liquidità e di credito, previene le bolle speculative e le crisi bancarie».Il settimo dogma è quello della contrazione salariale: «Se si riducono i salari e i diritti dei lavoratori, se si rende liberi i licenziamenti e impraticabili gli scioperi, allora i costi di produzione calano, l’economia diventa più competitiva, la disoccupazione viene riassorbita, gli investimenti aumentano e diventiamo tutti più ricchi, e non è vero che la domanda interna cali». Il lavoro scarseggia ma l’immigrazione aumenta? Nessun problema, perché l’immigrazione – ottavo dogma – è sempre benefica: «Va accolta anche sostenendo grosse spese», perché ormai «è indispensabile per compensare l’invecchiamento e il diradamento della popolazione attiva, quindi per sostenere il sistema previdenziale e per coprire i molti posti di lavoro che gli italiani rifiutano; non è vero che tolga posti di lavoro agli italiani, che faccia loro concorrenza al ribasso sui salari, che serva come manovalanza alle mafie, che comporti un apprezzabile aumento della criminalità e dei costi sanitari o assistenziali».Carattere comune di questo catechismo propagandistico, continua Della Luna, è la censura: l’occultamento dei conflitti di interesse e di bisogni, e ancor più della lotta di classe in atto. Il primo conflitto oppone la «classe globale finanziaria, improduttiva, parassitaria e speculatrice» alle classi produttive dell’economia reale, «legate ai loro territori e sempre più private di potere», di istituzioni democratiche nonché di quote di reddito, «in favore delle rendite finanziarie», attraverso «una serie di riforme del sistema finanziario, del diritto del lavoro e delle Costituzioni», e anche attraverso «i trattati internazionali come quelli europei e come il Wto, che modificano dall’esterno le Costituzioni». Forte, in Italia, il conflitto di interessi tra Nord e Sud, con risorse trasferite verso «alcune regioni meridionali, onde tenere unito il sistema paese». Terzo conflitto negato, quello dei bisogni oggettivi tra paesi manifatturieri come Italia e Germania, «nel quale la Germania ha interesse a tenere l’Italia entro una moneta comune per togliere all’Italia il vantaggio di una moneta più debole, quindi di una maggiore competitività rispetto alla Germania, così da prendere anche sue quote di mercato».Poi c’è il conflitto di bisogni oggettivi tra paesi creditori, come la Germania, e paesi debitori, come l’Italia: «I tedeschi, essendo detentori di crediti sia personali, previdenziali, da investimento, sia anche pubblici, sono interessati a mantenere forte il ricorso della valuta in cui quei crediti sono denominati, cioè l’euro». Da qui «l’esigenza di tenere stretti i cordoni della borsa, cioè di far scarseggiare la moneta» per tenerne alto il costo. Per contro, «l’Italia e gli italiani, essendo indebitati e avendo i loro investimenti perlopiù in immobili, hanno bisogno di una moneta meno forte». Quinto conflitto oscurato: quello tra paesi in recessione, che hanno bisogno di politiche monetarie espansive, e paesi in crescita, che hanno bisogno di politiche monetarie restrittive. Poi ci sono paesi ad economia manifatturiera-trasformatrice e paesi ad economia basata sui servizi finanziari e il commercio, come il Regno Unito. «Tutti conflitti che rendono dannosa l’unione monetaria, o meglio che fanno sì che la politica monetaria faccia gli interessi del paese più forte dentro di essa (la Germania) a danno dei paesi meno forti».Gli ultimi due conflitti d’interesse sono fortemente paralleli. Un conflitto classico oppone gli imprenditori ai lavoratori: «I primi hanno interesse a togliere ai lavoratori quanto più possibile forza negoziale e capacità di resistenza, di sciopero, oltre che di salario». L’altro grande conflitto, ormai dilagante, vede da una parte i cittadini-utenti e dall’altra i monopolisti (o al massimo oligopolisti) dei servizi pubblici: «Questi ultimi hanno interesse a imporre tariffe sempre più alte in cambio di servizi sempre più scarsi, onde massimizzare i loro profitti; da qui la privatizzazione sistematica di tali servizi». I pochi che, da sinistra, contestano il trend neoliberista in chiave socialista, spesso «dimenticano che il settore pubblico spende in modo inefficiente e molto condizionato dalla criminalità burocratica, partitica, mafiosa», senza trascurare il «cattivo sindacalismo» che ha incoraggiato «una mentalità e una prassi parassitarie e improduttive», squalificando la pur sacrosanta difesa dei diritti del lavoro, quelli che il neoliberismo oggi confisca.Grazie al mainstream politico e mediatico, «il complesso di dogmi e nascondimenti è stato costruito come senso comune socio-economico, cioè come percezione comune e condivisa della realtà». Proprio questo, scrive Della Luna, «consente a una classe globale parassitaria di perfezionare la spoliazione dei diritti e dei redditi delle altre classi, facendola apparire come espressione naturale di leggi impersonali del mercato, e non come una guerra di classe», come se la storia del genere umano non fosse nient’altro che «una competizione assoluta e totale tra individui per la conquista della ricchezza e del potere». Ideologia del “mercatismo”, individualismo di massa: «Ciascuno è solo davanti allo schermo, davanti alle tasse, davanti alle banche, davanti ai problemi di salute, vecchiaia, disoccupazione». Ognuno è solo «soprattutto davanti a un sempre più impersonale e grande datore di lavoro», e si scopre «senza diritti comuni, senza solidarietà e garanzie».Si vive in un mondo «dove tutto è merce e prestazione, dove la vita è riconosciuta solo come scambio di valori commerciali, dove tutto è quantificato in debiti e crediti, dove è proibito agli Stati persino introdurre tutele alla salute pubblica, se queste possono limitare il profitto delle corporations (norme del Wto e del Ttip)». Lavoro autonomo, piccole imprese, professionisti indipendenti? Tutti «vessati e costretti a cedere il campo o a confluire in grandi aziende», mentre i lavoratori dipendenti «sono impossibilitati a conservare i propri diritti, conquistati con dure e lunghe lotte, dalla scelta politica di mantenere il sistema economico, attraverso la pratica dell’austerità (della anemizzazione monetaria), in una condizione di diffusa disoccupazione e precarietà che, combinata col diritto al libero licenziamento e demansionamento dei lavoratori, priva questi di ogni potere di lotta e contrattazione, rendendo pressoché impraticabile lo sciopero».E’ un modello socio-economico «che viene costruito metodicamente, anche a livello legislativo e costituzionale, nazionale ed europeo, dalle nostre élites», denuncia Della Luna, indicando in Italia «la staffetta dei governi Berlusconi-Monti-Letta-Renzi (sotto la guida dei banchieri centrali e la locale regia di Giorgio I». E’ un modello “markt-konform”, «conforme e ideale per le esigenze del mercato, del capitale e del profitto», ma incompatibile con «le esigenze psicofisiologiche dell’essere umano, inteso sia come individuo che come famiglia, che come comunità sociale». Esigenze che comprendono «una prospettiva stabile per la progettazione e l’impostazione della vita, per la procreazione e l’educazione della prole», ma anche «ambiti di non-mercificazione e di non-competitività», con in più «la garanzia di una dimensione pubblica sottratta alla logica del profitto finanziario». L’Interesse Pubblico, estirpato dalle riforme neoliberiste degli ultimi decenni.Lo spettacolo attuale è desolante: generazioni di giovani senza lavoro o costretti ad accettare salari precari e irrisori, da contendere ai colleghi-coetanei in una spietata gara al ribasso. «E quando iniziano a invecchiare e non riescono più a tenere il ritmo, sono fuori». La prospettiva della pensione? Diventa un miraggio. Nessuna speranza, se a decidere saranno gli yes-men di cui si circonda Renzi. Nessuno che si possa opporre alla “voce del padrone”: «Se guardiamo alla storia, vediamo sempre, solo e dappertutto società che non si gestiscono dal loro interno per i loro interessi, ma sono gestite da padroni (oligarchie) esterni, che perseguono il duplice obiettivo di rinforzare il loro dominio sulla società e di intensificare lo sfruttamento di essa». Tecnologia e globalizzazione, accentramento planetario degli strumenti di controllo: oggi l’élite piò spingersi oltre ogni limite, sottoponendoci a tensioni altissime. Un giorno, però, la corda si spezzerà: «I vari sistemi di dominazione, nel corso dei secoli, si sono rotti tutti, prima o poi». Qualche fattore fa sempre saltare il gioco, conclude Della Luna. E paradossalmente, oggi più che mai, «la più concreta ragione di speranza del genere umano sta proprio in questo, ossia nel fatto che finora tutti i tentativi umani di soggiogare definitivamente l’umanità siano falliti, si siano rotti. Speriamo quindi nel caos, che vinca ancora e presto, nonostante la tecnologia».E’ tutto falso, ma c’è un problema: sembra vero. Viviamo in mezzo a verità di fede, spacciate per realtà. Basta ripeterle all’infinito, sui giornali e in televisione. I mercati infallibili, la spesa pubblica da tagliare, l’inevitabile Europa dell’euro. Dogmi che servono a occultare il conflitto tra oligarchia parassitaria e cittadini-lavoratori. Economia, legittimazione del potere, interpretazione della storia. Avverte Marco Della Luna: chi osa uscire dal recinto dei dogmi viene etichettato come «antagonista, estremista, antisociale, populista», viene delegittimato ed emarginato, «finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico». E’ la legge del regime attuale, con la «classe finanziaria» che si prende quasi tutto il reddito disponibile ed erode, «attraverso l’indebitamento pubblico e le tasse», anche il risparmio. Questo, grazie al consenso e all’acquiescenza «ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi, che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto».
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Putin: americani fermatevi, il mondo non vuole più guerre
La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.Nel mondo si è accumulata una moltitudine di contrasti. E bisogna chiedersi in tutta franchezza se abbiamo una rete di protezione sicura. Purtroppo, la certezza che il sistema di sicurezza globale e regionale sia capace di proteggerci dai cataclismi non c’è. Questo sistema risulta seriamente indebolito, frantumato e deformato. Vivono tempi difficili le istituzioni, internazionali e regionali, di interazione politica, economica e culturale. Molti meccanismi atti ad assicurare l’ordine mondiale si sono formati in tempi lontani, influenzati soprattutto dall’esito della Seconda Guerra Mondiale. La solidità di questo sistema non si basava esclusivamente sul bilanciamento delle forze e sul diritto dei vincitori, ma anche sul fatto che i “padri fondatori” di questo sistema di sicurezza si trattavano con rispetto, non cercavano di “spremere fino all’ultimo” ma cercavano di mettersi d’accordo. Il sistema continuava ad evolversi e, nonostante tutti i suoi difetti, era efficace per – se non una soluzione – almeno per un contenimento dei problemi mondiali, per una regolazione dell’asprezza della concorrenza naturale tra gli Stati.Sono convinto che questo meccanismo di controbilanciamenti non potesse essere distrutto senza creare qualcosa in cambio, altrimenti non ci sarebbero davvero rimasti altri strumenti se non la rozza forza. Tuttavia gli Stati Uniti, dichiarandosi i vincitori della “guerra fredda”, hanno pensato – e credo che l’abbiano fatto con presunzione – che di tutto questo non v’è alcun bisogno. Dunque, invece di raggiungere un nuovo bilanciamento delle forze, che rappresenta una condizione indispensabile per l’ordine e la stabilità, hanno intrapreso, al contrario, i passi che hanno portato a un peggioramento repentino dello squilibrio. La “guerra fredda” è finita. Però non si è conclusa con un raggiungimento di “pace”, con degli accordi comprensibili e trasparenti sul rispetto delle regole e degli standard oppure sulle loro elaborazione. Par di capire che i cosiddetti vincitori della “guerra fredda” abbiano deciso di “sfruttare” fino in fondo la situazione per ritagliare il mondo intero a misura dei propri interessi. E se il sistema assestato delle relazioni e del diritto internazionali, il sistema del contenimento e dei controbilanciamenti impediva il raggiungimento di questo scopo, veniva da loro immediatamente dichiarato inutile, obsoleto e soggetto ad abbattimento istantaneo.Il concetto stesso della “sovranità nazionale” per la maggioranza degli Stati è diventato un valore relativo. In sostanza, è stata proposta la formula seguente: più forte è la lealtà a un unico centro di influenza nel mondo, più alta è la legittimità del regime governante. Le misure per esercitare pressione sui disubbidienti sono ben note e collaudate: azioni di forza, pressioni di natura economica, propaganda, intromissione negli affari interni, rimandi a una certa legittimità di “infra-diritto”. Recentemente siamo venuti a conoscenza di testimonianze di ricatti non velati nei confronti di una serie di leader. Non è un caso che il cosiddetto “grande fratello” spenda miliardi di dollari per lo spionaggio in tutto il mondo, compresi i suoi stretti alleati. Allora facciamoci la domanda se tutti noi troviamo la nostra vita confortevole e sicura in questo mondo, chiediamoci quanto sia giusto e razionale il mondo. Forse il modo in cui gli Usa detengono la leadership è davvero un bene per tutti? Le loro onnipresenti interferenze negli affari altrui implicano pace, benessere, progresso, prosperità, democrazia? Bisogna semplicemente rilassarsi e godersela? Mi permetto di dire che non è così. Non è assolutamente così.Il diktat unilaterale e l’imposizione dei propri stereotipi producono un risultato opposto: al posto di una soluzione dei conflitti, l’escalation; al posto degli Stati sovrani, stabili, l’espansione del caos; al posto della democrazia, il sostegno a gruppi ambigui, dai neonazisti dichiarati agli islamisti radicali. Continuo a stupirmi di fronte agli errori ripetuti, una volta dopo l’altra, dei nostri partner che si danno da soli la zappa sui piedi. A suo tempo, nella lotta contro l’Unione Sovietica, avevano sponsorizzato i movimenti estremisti islamici che si erano rinvigoriti in Afghanistan, fino a generare sia i talebani sia Al-Qaeda. L’Occidente, pur senza ammettere il suo sostegno, chiudeva un occhio. Anzi, in realtà sosteneva l’irruzione dei terroristi internazionali in Russia e nei paesi dell’Asia Centrale attraverso le informazioni, la politica e la finanza. Non l’abbiamo dimenticato. Solo dopo i terribili atti terroristici compiuti nel territorio degli stessi Usa siamo arrivati alla comprensione della minaccia comune del terrorismo. Vorrei ricordare che allora siamo stati i primi a esprimere il nostro sostegno al popolo degli Stati Uniti d’America e abbiamo agito come amici e partner dopo la spaventosa tragedia dell’11 Settembre.Nel corso dei miei incontri con i leader statunitensi ed europei ho costantemente ribadito la necessità di lottare congiuntamente contro il terrorismo, che rappresenta una minaccia su scala mondiale. Non possiamo rassegnarci di fronte a questa sfida. Una volta la nostra visione era condivisa, ma è passato poco tempo e tutto è tornato come prima. Si sono verificati in seguito gli interventi sia in Iraq sia in Libia. Quest’ultimo paese, tra l’altro, ora è diventato un poligono per i terroristi. E soltanto la volontà e la saggezza delle autorità attuali dell’Egitto hanno permesso di evitare il caos e lo scatenarsi violento degli estremisti anche in questo paese-chiave del mondo arabo. In Siria, come in passato, gli Usa e i loro alleati hanno cominciato a finanziare apertamente e a fornire le armi ai ribelli, favorendo il loro rinforzo con gli arrivi dei mercenari di vari paesi. Permettetemi di chiedere dove i ribelli trovano denaro, armi, esperti militari? Com’è potuto accadere che il famigerato Isis si sia trasformato praticamente in un esercito?Si tratta non solo dei proventi dal traffico di droga, ma la sovvenzione finanziaria proviene anche dalle vendite del petrolio, la cui estrazione è stata organizzata nei territori sotto il controllo dei terroristi. Lo vendono a prezzi stracciati, lo estraggono, lo trasportano. Qualcuno lo compra, lo rivende e ci guadagna, senza pensare al fatto che così sta finanziando i terroristi, gli stessi che prima o poi colpiranno anche nella sua terra. Da dove provengono le nuove reclute? Sempre in Iraq, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein sono state distrutte le istituzioni dello Stato, compreso l’esercito. Già allora abbiamo detto: siate prudenti e cauti. Con quale risultato? Decine di migliaia di soldati e ufficiali, ex militanti del partito Baath, buttati sulla strada, oggi si sono uniti ai guerriglieri. A proposito, non sarà nascosta qui la capacità di azione dell’Isis? Le loro azioni sono molto efficaci dal punto di vista militare, sono oggettivamente dei professionisti. La Russia aveva avvertito più volte del pericolo che comportano le azioni di forza unilaterali, delle interferenze negli affari degli Stati sovrani, delle avance agli estremisti e ai radicali, insistendo sull’inclusione dei raggruppamenti che lottavano contro il governo centrale siriano, in primo luogo dell’Isis, nelle liste dei terroristi. Tutto inutile.L’accrescimento del dominio di un unico centro di forza non conduce alla crescita del controllo dei processi globali. Al contrario, è inefficace contro le vere minacce costituite dai conflitti regionali, terrorismo, traffico di droga, fanatismo religioso, sciovinismo e neonazismo. Allo stesso tempo ha largamente spianato la strada ai nazionalismi e alla rude soppressione dei più deboli. Il mondo unipolare è la celebrazione apologetica della dittatura sia sulle persone sia sui paesi. Ed è un mondo insostenibile e difficile da gestire anche per il cosiddetto leader autoproclamatosi. Da qui nascono i tentativi odierni di ricreare un simulacro del mondo bipolare, più “comodo” per la leadership americana. Poco importa chi occuperà, nella loro propaganda, il posto del “centro del male” che spettava una volta all’Urss: l’Iran, la Cina oppure ancora la Russia. Adesso assistiamo di nuovo a un tentativo di frantumare il mondo, fabbricare delle coalizioni non secondo il principio “a sostegno di”, ma “contro”; serve l’immagine di un nemico, come ai tempi della “guerra fredda”, per legittimare la leadership e ottenere un diritto di diktat.Durante la “guerra fredda”, agli alleati si diceva continuamente: «Abbiamo un nemico comune, è spaventoso, è lui il centro del male; noi vi difendiamo, dunque abbiamo il diritto di comandarvi, di costringervi a sacrificare i propri interessi politici e economici, a sostenere le spese per la difesa collettiva; ma a gestire questa difesa saremo, naturalmente, noi». Oggi traspare evidente l’aspirazione a trarre dividendi politici ed economici tramite la riproposizione dei consueti schemi di gestione globale. Tuttavia il mondo è cambiato. Le sanzioni hanno già cominciato a intaccare le fondamenta del commercio internazionale e le normative del Wto, i principi della proprietà privata, il modello liberale della globalizzazione, basato sul mercato, sulla libertà e sulla concorrenza. Un modello i cui beneficiari, lo voglio rilevare, sono soprattutto i paesi occidentali. A mio parere, i nostri amici americani stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Non si può mescolare politica ed economia, ma è proprio questo che sta accadendo.Ho sempre ritenuto e ritengo ancora che le sanzioni politicamente motivate siano state un errore che danneggia tutti quanti. Comprendiamo bene in che modo e sotto quale pressione siano state adottate. Ma ciò nonostante la Russia non intende, e lo voglio mettere ben in chiaro, impuntarsi, portare rancore contro qualcuno o chiedere qualcosa a qualcuno. La Russia è un paese autosufficiente. Lavoreremo nelle condizioni di economia esterna che si sono create, sviluppando la nostra industria tecnologica. La pressione esterna non fa altro che consolidare la nostra società, ci obbliga a concentrarci sulle tendenze principali di sviluppo. Beninteso, le sanzioni ci ostacolano: stanno cercando di danneggiarci, di arrestare il nostro sviluppo, di ridurci all’auto-isolamento e all’arretratezza. Ma il mondo è cambiato radicalmente. Non abbiamo alcuna intenzione di chiuderci nell’autarchia; siamo sempre aperti al dialogo, compreso quello sulla normalizzazione delle relazioni economiche, nonché quelle politiche. In questo contiamo sulla visione pragmatica e sullo schieramento delle comunità imprenditoriali dei paesi leader. Affermano che la Russia avrebbe voltato le spalle all’Europa, cercando partner economici in Asia. Non è così. La nostra politica in Asia e nel Pacifico risale ad anni fa e non è affatto legata alle sanzioni. L’Oriente occupa un posto sempre più importante nel mondo e nell’economia e non possiamo trascurarlo. Lo stanno facendo tutti e noi continueremo a farlo, anche perché una parte notevole del nostro territorio si trova in Asia.Se non sapremo creare un sistema di obblighi e accordi reciproci e non elaboriamo i meccanismi per gestire le situazioni di crisi, rischiamo l’anarchia mondiale. Già oggi è aumentata repentinamente la probabilità di una serie di conflitti violenti con il coinvolgimento, se non diretto, ma indiretto, delle grandi potenze. Il fattore di rischio viene amplificato dall’instabilità interna dei singoli Stati, in particolar modo quando si parla dei paesi cardine degli interessi geopolitici e si trovano ai confini dei “continenti” storici, economici e culturali. L’Ucraina è un esempio – ma non l’unico – di questo genere di conflitti che dividono le forze mondiali. Da qui scaturisce la prospettiva reale della demolizione del sistema attuale degli accordi sulle restrizioni e il controllo degli armamenti. Il via a questo pericoloso processo è stato dato proprio dagli Usa quando, nel 2002, sono usciti unilateralmente dal Trattato sulla limitazione dei sistemi di difesa antimissilistica per avviare la creazione di un proprio sistema globale di difesa.Non siamo stati noi a iniziare tutto questo. Stiamo di nuovo scivolando verso tempi in cui i paesi si trattengono dagli scontri diretti non in virtù di interessi, equilibri e garanzie, ma solo per il timore dell’annientamento reciproco. È estremamente pericoloso. Noi insistiamo sui negoziati per la riduzione degli arsenali e siamo aperti alla discussione sul disarmo nucleare, ma deve essere seria, senza “doppi standard”. Che cosa intendo dire? Oggi le armi di precisione si sono avvicinate alle armi di distruzione di massa. Nel caso di rinuncia assoluta o diminuzione del potenziale nucleare, i paesi che si sono guadagnati la leadership nella produzione dei sistemi di alta precisione otterranno un netto dominio militare. Sarà spezzata la parità strategica, comportando così il rischi di una destabilizzazione: affiora così la tentazione di ricorrere al cosiddetto “primo colpo disarmante globale”. In breve, i rischi non diminuiscono ma aumentano.Un’altra minaccia evidente è l’ulteriore proliferazione dei conflitti di origine etnica, religiosa e sociale, che creano zone di vuoto di potere, illegalità e caos, in cui trovano conforto terroristi, delinquenti comuni, pirati, scafisti e narcotrafficanti. I nostri “colleghi” hanno continuato i tentativi, nel loro esclusivo interesse, di sfruttare i conflitti regionali: hanno progettato le “rivoluzioni colorate”, ma la situazione è sfuggita a loro di mano, alla faccia del “caos controllato”. E il caos globale aumenta. Nelle condizioni attuali sarebbe ora di cominciare ad accordarsi sulle questioni di principio. È decisamente meglio che non rifugiarsi nei propri angoli, soprattutto perché ci scontriamo con i problemi comuni, siamo sulla stessa barca. La via logica è quella della cooperazione tra i paesi e la gestione congiunta dei rischi, sebbene alcuni dei nostri partner si ricordino di questo solo quando risponde al loro interesse. Certo, le risposte congiunte alle sfide non sono una panacea e nella maggioranza dei casi sono difficilmente realizzabili: non è per niente semplice superare le diversità degli interessi nazionali, la parzialità delle visioni, soprattutto se si parla dei paesi di diverse tradizioni storico-culturali. Eppure ci sono stati casi in cui, guidati dagli obiettivi comuni, abbiamo raggiunto successi reali.Vorrei ricordare la soluzione del problema delle armi chimiche siriane, il dialogo sul programma nucleare iraniano e il nostro soddisfacente lavoro svolto in Corea del Nord. Perché allora non attingere a questa esperienza anche in futuro, per la soluzioni dei problemi sia locali sia globali? Non ci sono ricette già pronte. Sarà necessario un lavoro lungo, con la partecipazione di una larga cerchia di Stati, del business mondiale e della società civile. Bisogna definire in modo nitido dove si trovano i limiti delle azioni unilaterali e dove nasce l’esigenza di meccanismi multilaterali. Bisogna trovare la soluzione, nel contesto del perfezionamento del diritto internazionale, al dilemma tra le azioni della comunità mondiale volte a garantire la sicurezza e i diritti dell’uomo e il principio della sovranità nazionale e non intromissione negli affari interni degli Stati. Non c’è bisogno di ripartire da zero, le istituzioni create subito dopo la Seconda Guerra Mondiale sono abbastanza universali e possono essere riempite di contenuti più moderni. Sullo sfondo dei cambiamenti fondamentali nell’ambito internazionale, della crescente ingovernabilità e dell’aumento delle più svariate minacce abbiamo bisogno di un nuovo consenso delle forze responsabili per dare stabilità e della sicurezza alla politica e all’economia.Vorrei ricordarvi gli eventi dell’anno passato. Allora dicevamo ai nostri partner, sia americani che europei, che le decisioni frettolose, come ad esempio quella sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, erano pregne di seri rischi. Simili passi clandestini ledevano gli interessi di molti terzi paesi, tra cui la Russia, in quanto partner commerciale principale dell’Ucraina. Abbiamo ribadito la necessità di avviare una larga discussione. Una volta realizzato il progetto dell’associazione dell’Ucraina, si presentano da noi attraverso le porte di servizio i nostri partner con le loro merci e i loro servizi, ma noi non lo abbiamo concordato, nessuno ha chiesto il nostro parere a riguardo. Abbiamo dibattuto su tutte le problematiche inerenti all’Ucraina in Europa in modo assolutamente civile, ma nessuno ci ha dato ascolto. Ci hanno semplicemente detto che non era affar nostro, finito il dibattito e la faccenda è deteriorata fino al colpo di Stato e alla guerra civile. Tutti allargano le braccia: è andata così. Ma non era inevitabile.Io lo dicevo: l’ex presidente ucraino Yanukovich aveva sottoscritto tutto quanto, aveva approvato tutto. Perché allora bisognava insistere? Sarebbe questo il modo civile per risolvere le questioni? Evidentemente coloro che “producono a macchia” una rivoluzione colorata dopo l’altra si ritengono degli artisti geniali e non ce la fanno proprio a fermarsi. Voglio aggiungere che avremmo gradito l’inizio di un dialogo concreto tra L’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea. A proposito, fino a oggi ci è stato praticamente sempre negato: e di nuovo è poco chiaro per quale motivo; cosa c’è di spaventoso? Ne ho parlato spesso in precedenza trovando l’appoggio dei molti nostri partner occidentali, almeno quelli europei: è necessario formare uno spazio comune di cooperazione economica e umanitaria, lo spazio che si stenda dall’Atlantico al Pacifico. La Russia ha fatto la sua scelta. Le nostre priorità sono costituite dall’ulteriore perfezionamento degli istituti di democrazia e di economia aperta, l’accelerazione dello sviluppo interno tenendo conto di tutte le tendenze positive nel mondo, il consolidamento della società sulla base dei valori tradizionale e del patriottismo.La nostra agenda è orientata all’integrazione, è positiva, pacifica. La Russia non vuole ricostituire un impero, compromettendo la sovranità dei vicini, e non esige un posto esclusivo nel mondo. Rispettando gli interessi altrui vogliamo che si tenga contro anche dei nostri interessi, che anche la nostra posizione sia rispettata. Abbiamo bisogno di un grado particolare di prudenza, di evitare passi sconsiderati. Dopo la “guerra fredda” i protagonisti della politica mondiale hanno perduto in certo senso queste qualità. È giunto il momento di ricordarle. In caso contrario, le speranze per uno sviluppo pacifico, sostenibile, si riveleranno una nociva illusione, mentre i cataclismi di oggi significheranno la vigilia del collasso dell’ordine mondiale. Siamo riusciti a elaborare le regole di interazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, siamo riusciti a trovare un accordo negli anni ‘70 a Helsinki. Il nostro obbligo comune è trovare un soluzione per questo obiettivo fondamentale anche nel contesto di una nuova fase di sviluppo.(Vladimir Putin, estratti dal discorso pronunciato il 24 ottobre 2014 al Forum internazionale del “Club Valdai” a Sochi, tradotto e ripreso da “Il Giornale”).La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.
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La premiata macelleria Fmi propone di tagliare le pensioni
«Ottenere risparmi significativi sarebbe difficile senza intervenire sulla grande spesa pensionistica». Parola di Christine Lagarde, la “comare secca” del Fmi. Quando parla la Signora con la Falce, generalmente si mette male – malissimo, in questo caso, per i pensionati italiani, cui sono rivolte le attenzioni della temutissima presidente del Fondo Monetario, che ora “consiglia” al bravo Renzi di accelerare le sue “coraggiose riforme” cominciando proprio da una vigorosa tosatura dell’Inps. Non è la prima volta che il Fmi punta il dito contro gli assegni pensionistici del Belpaese: l’élite tecno-finanziaria non tollera che la spesa sociale sia gonfiata dalle pensioni pubbliche, che del resto fanno “concorrenza” alle assicurazioni pensionistiche private, uno dei maggiori rami del grande business finanziario. Così, dopo gli schiaffoni dell’Ocse, Matteo Renzi deve incassare quelli della super-cupola diretta dalla Lagarde, che ha rivisto al ribasso le stime sul Pil italiano nel 2014, indicando una contrazione dello 0,1%.Il sistema-Italia è entrato in agonia dopo Maastricht, con l’adesione all’euro e la conseguente introduzione dell’austerity europea di marca tedesca, che predica il taglio drastico dello Stato. Nonostante ciò, la Troika – di cui il Fmi è una colonna – propone esattamente la stessa “cura” che sta uccidendo il paziente, ovvero il taglio ulteriore della spesa pubblica, quello che “ammazza” i consumi e quindi l’occupazione, il Pil, il gettito fiscale, la capacità di sostenere l’economia nazionale. Con grande enfasi, i tecnocrati del Fmi fingono addirittura di stupirsi per le dimensioni del disastro, da essi essi progettato e generato con la contrazione progressiva dell’investimento pubblico: si parla apertamente di «rischi che restano ancorati al ribasso» e della «possibilità di stagnazione e bassa inflazione», come riporta il blog “Vox Populi”. «Nell’analisi degli esperti di Washington, la crescita è destinata a rimanere attorno all’1% fino a tutto il 2019: le stime sono infatti per un +1,3% nel 2016, un +1,2% nel 2017, un +1% nel 2018 e un +1% nel 2019. Poi, cattive notizie anche sulla disoccupazione».Quest’anno, la mancanza di lavoro salirà ai massimi dal dopoguerra, secondo le previsioni del Fondo Monetario: si arriverà al 12,6% rispetto al 12,2% del 2013. «La disoccupazione, inoltre, per il Fmi è destinata a restare a due cifre fino al 2017». In altre parole quello che abbiamo di fronte è «uno scenario pessimo, che potrebbe anche essere rivisto ulteriormente al ribasso», prima della fine di ottobre: lo ha spiegato senza peli sulla lingua Kenneth Kang, capo della missione annuale del Fmi in Italia. Di fatto non ci sono speranze, perché nessuna forza politica denuncia le cause della catastrofe. Senza un Piano-B, basato sull’unico rimedio possibile – l’interventismo diretto dello Stato, in barba al cappio dell’Ue – il bollettino clinico resterà quello di oggi, nutrito di un lessico che appare sempre più di natura psichiatrica, più che economica. Tutto sta crollando, e ancora si vaneggia di crescita del Pil, anziché dell’occupazione, in un mondo globalizzato nel quale l’Occidente fa sempre più fatica a piazzare le sue merci. L’Europa, poi, non ha più neppure il margine fisiologico di oscillazione della moneta: privatizzata anche quella, dalle stesse “istituzioni” che oggi propongono a Renzi di massacrare i pensionati italiani.«Ottenere risparmi significativi sarebbe difficile senza intervenire sulla grande spesa pensionistica». Parola di Christine Lagarde, la “comare secca” del Fmi. Quando parla la Signora con la Falce, generalmente si mette male – malissimo, in questo caso, per i pensionati italiani, cui sono rivolte le attenzioni della temutissima presidente del Fondo Monetario, che ora “consiglia” al bravo Renzi di accelerare le sue “coraggiose riforme” cominciando proprio da una vigorosa tosatura dell’Inps. Non è la prima volta che il Fmi punta il dito contro gli assegni pensionistici del Belpaese: l’élite tecno-finanziaria non tollera che la spesa sociale sia gonfiata dalle pensioni pubbliche, che del resto fanno “concorrenza” alle assicurazioni pensionistiche private, uno dei maggiori rami del grande business finanziario. Così, dopo gli schiaffoni dell’Ocse, Matteo Renzi deve incassare quelli della super-cupola diretta dalla Lagarde, che ha rivisto al ribasso le stime sul Pil italiano nel 2014, indicando una contrazione dello 0,1%.
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Scie, metalli, filamenti, piogge: stanno irrorando il cielo
Qualcuno sta “coltivando” il cielo. Lo dimostrano le anomalie climatiche e i residui che piovono a terra. Ne è convinto l’ingegner Paolo Broggia: ormai, dice, la realtà supera largamente qualsiasi ipotesi fantascientifica. Inoltre, i “coltivatori” dell’aria lasciano tracce quotidiane: «Se osservassimo i nostri cieli più attentamente, vedremmo attività aeronautiche non ufficiali, cioè non legate a transiti di aerei di linea, che rilasciano delle sostanze visibili che si disperdono dopo qualche minuto, a volte dopo ore. Probabilmente si tratta di droni, che quotidianamente “spazzolano” il cielo come una griglia “a scacchi”: ormai non c’è zona dell’Italia (e dell’Europa) che non sia irrorata». Droni, dunque, perché solo velivoli senza pilota potrebbero reggere al millimetro «la estrema ripetitività delle rotte, stressanti e pericolose per esseri umani in carne e ossa: infatti, nel ripassare nelle precedenti scie, in cabina entrerebbe l’aria proveniente dall’esterno, inquinata dello stesso materiale rilasciato dallo scarico». Che cosa spruzzano? «Qualunque cosa, a giudicare dalle analisi dell’acqua piovana».Sembra proprio che dal cielo stia venendo giù di tutto, scrive Broggia su “Megachip”: nell’aria si registra infatti la presenza di «metalli pesanti, polimeri, batteri, sostanze non classificate». Attenzione: ci sono anche «i fili che cadono dal cielo, imitazioni quasi perfette delle ragnatele, ma di lunghezze spropositate». Vietato confondersi: «Se fossero di un vero ragno volante (il fenomeno è quello dello “spider ballooning”), questo dovrebbe essere grande più di 100 metri». Inoltre, «le vere ragnatele non vengono attratte da un potente magnete, come invece sembra accadere a questi fili». Sul web si trovano tracce di un esperimento condotto nel 2011 dall’università di San Diego, in California. Il test fornisce la misura dell’impegno teorico: «Considerando l’intero territorio italiano formato da tanti quadrati di 100 chilometri di lato, in totale abbiamo solo 30 quadrati. Ipotizzando 2 droni che lavorino per ciascun quadrato, con appena 60 droni si potrebbe coprire una nazione intera, con tutti i suoi abitanti, piante, falde acquifere, eco-sistemi». Presso i centri radar aeronautici italiani, continua Broggia, «i controllori di volo sono consapevoli di questo enorme movimento di velivoli, ma lo ignorano. O non danno spiegazioni se interpellati».Già nel 1957, chiarisce “Megachip”, si studiava tecnicamente la possibilità di controllare la grandine per evitare la distruzione delle colture, per esempio in Piemonte: due fisici, Barla e Barbero, nel “Giornale di Geofisica” parlano di «nuclei di condensazione prodotti da ossidi radioattivati», e descrivono «teoria ed esperimenti per attivare artificialmente dei nuclei di molecole di acqua usando ossidi di alluminio e campi elettromagnetici». Gli italiani, conferma Broggia, sono sempre stati molto attivi in questo campo: si citano sperimentazioni nei dintorni di Roma e in Sardegna, pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali e brevetti industriali registrati negli Usa (molti materiali sono presenti nel portale “No Geoingegneria”). E in un documento del 1963, il generale Antonio Serra, capo del servizio meteorologico dell’aeronautica, cita una collaborazione svolta con una azienda americana «per provocare la pioggia», attività condotta con fondi pubblici, per la precisione col sostegno della Cassa del Mezzogiorno e della Regione Sardegna. Si trattò di «un terzo ciclo di esperienze di nucleazione artificiale dell’atmosfera, il più lungo finora condotto in Italia», scrive il generale Serra nel ‘63.Un esperimento fondamentale, dunque, «affidato alla società americana “Weather Researches Development Corporation”». Positivo l’esito: l’autore si dichiara «molto fiducioso sui progressi tecnici migliorativi, per risolvere tutti i problemi legati alla siccità». Trent’anni dopo, nel 1994, il governo italiano ha promulgato addirittura una legge, la numero 36 del 5 gennaio, che prevede la creazione regolare di piogge artificiali per sconfiggere la siccità. Si intitola: “Disposizioni in materia di risorse idriche”. L’articolo 2, comma 2, conferma l’adozione del «regolamento per la disciplina delle modificazioni artificiali della fase atmosferica del ciclo naturale dell’acqua». Due anni dopo, continua Paolo Broggia, viene pubblicato un documento di ricerca aerospaziale, proveniente dai militari Usa, “Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”. Letteralmente: il clima come moltiplicatore di forze: possedere il controllo del clima entro il 2025. «In questo raccapricciante documento – scrive Broggia su “Megachip” – viene enunciata la possibilità tecnica di poter controllare localmente il clima, allo scopo di avere vantaggi sul nemico e renderlo più vulnerabile, con tanto di tabelle, grafici, metodologie. Evidentemente – aggiunge l’ingegnere – venivano ritenute molto significative le esperienze del Vietnam, dove gli Usa sono riusciti a usare con successo la geoingegneria allagando con abbondanti piogge i campi dei Vietcong».Il resto è cronaca, ormai quasi quotidiana: clima “impazzito”, alluvioni, “bombe d’acqua”. E’ sempre più frequente, precisa Broggia, la comparsa di brevetti nel settore, specie «sull’uso dei campi elettromagnetici per far interagire a comando le particelle rilasciate dagli aerei, in forma di additivi nei carburanti». Si moltiplicano ormai le conferenze su “geoengineering” e “climate engineering”, la geo-ingegneria del clima. Nuove direttrici di ricerca, quindi, che si sono affacciate nelle comunità scientifiche internazionali, monopolizzando l’attenzione e apportando nuove risorse economiche. È inoltre nato l’Ipcc, il panel dell’Onu sui cambiamenti climatici, una struttura «che potrebbe legittimare l’uso della geoingegneria», ma ovviamente con le solite cautele verso i mezzi di informazione: «Se si va a dire a questi scienziati che stanno già facendo la geoingegneria, essi negano inorriditi». Così, dobbiamo rassegnarci alle “stranezze” del clima. Per esempio quella «pioggerellina sottile, fina-fina, come quelle londinesi». Pioggerelline «insolitamente frequenti in Italia», ormai, così come «le piogge torrenziali e le conseguenti alluvioni», con chicchi di grandine «grandi come arance».Non solo: ultimamente si registra addirittura «la presenza di formazioni di alghe», praticamente «incredibili da trovare nelle zone di campagna interne, molto lontane dalle coste». Strano clima, appunto: con aria «più secca di quella del deserto, come nel 2012 in Italia». E poi, le strane patologie che colpiscono le piante ornamentali, quelle d’appartamento: malattie «da attribuire a qualcosa di strano, mai visto». E il sole, lassù, sempre più pallido. Al punto che «i pannelli fotovoltaici stanno generando sempre meno elettricità rispetto all’anno precedente». Se poi si fa un “mineral test”, nelle analisi risultano«eccessi di alluminio e piombo», come è capitato allo stesso Broggia e ai suoi vicini di casa. Inutile che ci prendano in giro, conclude l’ingnegnere: non potranno negare all’infinito. Stanno davvero irrorando il nostro cielo, sperando di “possedere il clima”. Arma cosmica, sia per l’economia che per la guerra. La speranza? «La Natura è grande, in ogni caso. I suoi eterni elementi riusciranno a raggiungere una coerenza per reagire opportunamente a questa fonte di inquinamento». La cui esistenza, peraltro, nessun governo ammette ancora.Qualcuno sta “coltivando” il cielo. Lo dimostrano le anomalie climatiche e i residui che piovono a terra. Ne è convinto l’ingegner Paolo Broggia: ormai, dice, la realtà supera largamente qualsiasi ipotesi fantascientifica. Inoltre, i “coltivatori” dell’aria lasciano tracce quotidiane: «Se osservassimo i nostri cieli più attentamente, vedremmo attività aeronautiche non ufficiali, cioè non legate a transiti di aerei di linea, che rilasciano delle sostanze visibili che si disperdono dopo qualche minuto, a volte dopo ore. Probabilmente si tratta di droni, che quotidianamente “spazzolano” il cielo come una griglia “a scacchi”: ormai non c’è zona dell’Italia (e dell’Europa) che non sia irrorata». Droni, dunque, perché solo velivoli senza pilota potrebbero reggere al millimetro «la estrema ripetitività delle rotte, stressanti e pericolose per esseri umani in carne e ossa: infatti, nel ripassare nelle precedenti scie, in cabina entrerebbe l’aria proveniente dall’esterno, inquinata dello stesso materiale rilasciato dallo scarico». Che cosa spruzzano? «Qualunque cosa, a giudicare dalle analisi dell’acqua piovana».
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Quella serenità di trent’anni fa, quando non c’era paura
Fa un certo effetto pensare a 30 anni addietro. Perché di 30 addietro ho memoria storica personale e ricordi vividi. Quando leggo di serie storiche, di anni Cinquanta e Sessanta, posso solo studiarne i dati e immaginare. Ma il comunicato di Confcommercio della settimana scorsa non lascia scampo: «I redditi delle famiglie sono tornati indietro di 30 anni». Io quei tempi me li ricordo. Io c’ero. I redditi di mio padre e di mia madre me li ricordo eccome. E mi ricordo come vivevamo proprio dal punto di vista economico. Giornalista mio padre, impiegata mia madre, io decenne e mio fratello poco più piccolo in casa e altri due figli di una vita precedente di mio padre che però non vivevano con noi. Il reddito di allora. Il reddito dei miei. Il nostro “tenore di vita” (economico) e quello etico e morale. E me: cosa facevo? Cosa consumavo? Cosa mi mancava? Impossibile non fare confronti con oggi. Oggi che siamo quarantenni noi come allora lo erano i nostri genitori.Oggi, quasi all’indomani dell’apertura della scatola nera dei ricordi e degli oggetti svuotati dalla casa avita ormai disabitata per la morte dei miei e per la necessità ereditaria di doverla vendere. Giravano solo cari fantasmi ormai in quelle stanze e in quei corridoi, in quei disimpegni spariti dalle case moderne eppure così utili, così intimi, così indispensabili, così importanti. Fantasmi dei miei genitori e di me e mio fratello piccoli, di mia nonna, del nostro cane. E quei ricordi di come vivevamo allora di cui quasi sento ancora gli odori, i rumori, i ritmi e le consuetudini. Con il reddito dei miei di allora avevamo un appartamento a Roma, in un quartiere ancora vivibile, dove i negozianti ci conoscevano ad uno ad uno. Dove andavo “da Remo” ogni pomeriggio, tornando da scuola da solo, e prendevo un pezzo di pizza che poi mia madre passava a pagare. Dove ci portavano ancora il vino a casa con le damigiane e dove Taraddei, il pizzicarolo dietro l’angolo, un giorno mi accompagnò sin dietro la porta di casa, sul pianerottolo, per riconsegnarmi a mia madre dopo che mi ero acceso come un fiammifero strusciando sull’asfalto in seguito a una curva ardita sulla mia bicicletta rossa.Ora i palazzi di quel quartiere hanno appartamenti con dei confortevoli affacci vista traffico, smog e rumore h24. Roba da cui scappare, dunque. Ma allora era diverso. Torniamo ai consumi e imponiamoci di non divagare oltre. Una famiglia, dunque, un appartamento al quale poi si sarebbe aggiunto un piccolo villino fuori Roma, sul Lago di Bracciano per trascorrervi i mesi estivi – i mesi estivi, non i quindici giorni comandati di oggi – una Renault 4 bianca che ho detestato fino al compimento dei 18 anni e poi invece adorata per tanti motivi… Ma soprattutto una cosa: la certezza, nei miei genitori e dunque fatalmente trasferita inconsciamente anche a noi figli, di una vita serena. Limitata all’interno del possibile e dell’impossibile di quella condizione di allora, ma senza alcuna paura di precipitare. I nostri genitori allora riuscivano anche a risparmiare. Io allora e negli anni seguenti, e almeno sino ai vent’anni, non ho mai sentito la pesantezza di qualche mancanza grave. Poi il consumo della società prese a salire vertiginosamente. Per quasi tutti. E chi non si adeguava, in qualche modo, si sentiva automaticamente lasciato indietro. E dunque qualche azzardo personale, a rate. E dunque qualche preoccupazione. Qualche capitombolo. Qualche notte non proprio serena.Per tornare a quello stato di serenità provato anni prima, di consapevolezza di non aver bisogno d’altro, di non sentirne proprio l’esigenza, e dopo essere passati per le forche caudine degli orribili anni Ottanta e Novanta, quelli del consumo folle, c’è voluto almeno un altro decennio e qualche migliaio di libri letti. Una crisi economica colta e aspettata sin da prima che iniziasse sul serio e la volontà di abbracciare la decrescita fatale che ne è scaturita con la consapevolezza della maturità raggiunta, delle convinzioni acquisite. Un processo lungo, dunque. E in continuo aggiornamento. A ogni rinuncia, a ogni step di decrescita, un ulteriore passo verso la serenità. Ma che fatica, soprattutto all’inizio. Fatica del cambiamento. Malgrado aver interiorizzato il tutto, la trasformazione ha richiesto – e richiede – impegno. Una lotta senza quartiere contro le abitudini incrostateci addosso.Voglio dire: in realtà oggi abbiamo infinitamente meno di allora, di 30 anni fa. Non di oggetti, naturalmente, di cui siamo pieni. Ma di speranze per il futuro.La privazione di allora era per qualche capriccio che non potevamo permetterci – e che a casa mia ci negavamo sino al momento in cui non vi fossero effettivamente stati i denari necessari per eventualmente acquistarlo. La privazione di oggi è in quella serenità che ci è stata sottratta. Allora dovevamo combattere per convincerci a rinunciare a qualche cosa, e magari risparmiare per continuare ad avere quella certezza di riuscire a vivere senza affanni all’interno di quei limiti ben precisi. Oggi si deve lavorare su se stessi per attraversare il guado che la nostra generazione ha davanti, dal mondo come era indirizzato negli ultimi vent’anni a quello che sarà. Per sopportare queste incertezze che abbiamo davanti. Insomma: con il reddito di allora ho la netta sensazione si vivesse meglio, nel senso più ampio della parola, rispetto a come si viveva con il reddito di una decina d’anni fa, nel periodo pre-crisi, per intenderci.Certo oggi, con un reddito come quello di trenta anni addietro, si vive molto peggio, perché ciò che allora era assicurato, con quel reddito, è ora invece avvicinabile solo con affanno, visto che i servizi dello Stato sono meno e i beni primari costano molto di più. Ma è negli anni prima del 2008 che si è compiuto il dramma. Perché in quella moltiplicazione di beni e servizi in vendita in comode rate è cambiata la nostra capacità di resilienza alla vita. È cambiata la nostra capacità di capire cosa serve e cosa no, cosa è più importante e cosa lo è meno. La sfida personale di oggi – oltre alle battaglie che è necessario combattere contro i titani della finanza e della speculazione – risiede dunque nel ritrovare gli equilibri interni che ci consentano di riprendere contatto con la realtà di cosa ci serve sul serio. Di ciò di cui possiamo fare tranquillamente – tranquillamente! – a meno, e che dunque non vale un solo minuto della nostra serenità perduta onde poterlo raggiungere. E di ciò che invece, certo, ci è sul serio indispensabile.Ma per trovare quella serenità interiore di trenta anni addietro serve un lavoro mostruoso su se stessi, che è possibile iniziare, peraltro, solo dopo il momento in cui ci si convince intimamente che quel mondo non tornerà. Che è meglio sia così. E che ci si deve iniziare a inventare “come vivere” in un mondo completamente differente. Chi aspetta unicamente che le cose tornino a girare come prima non solo è un ingenuo, perché va incontro immancabilmente a una delusione feroce, ma è spacciato, perché non riuscirà mai più a trovare un vero equilibrio. La nostra generazione deve abbracciare questo cambiamento e deve imparare ad apprezzarlo, sin quasi ad amarlo, per plasmare un nuovo modo di vivere che sia degno di essere vissuto. Fare altrimenti è condannarsi alle delusioni, alle paranoie, alle ansie. È condannarsi a non voler più vivere.(Valerio Lo Monaco, “Quella serenità di 30 anni fa”, da “Il Ribelle” del 17 settembre 2014).Fa un certo effetto pensare a 30 anni addietro. Perché di 30 addietro ho memoria storica personale e ricordi vividi. Quando leggo di serie storiche, di anni Cinquanta e Sessanta, posso solo studiarne i dati e immaginare. Ma il comunicato di Confcommercio della settimana scorsa non lascia scampo: «I redditi delle famiglie sono tornati indietro di 30 anni». Io quei tempi me li ricordo. Io c’ero. I redditi di mio padre e di mia madre me li ricordo eccome. E mi ricordo come vivevamo proprio dal punto di vista economico. Giornalista mio padre, impiegata mia madre, io decenne e mio fratello poco più piccolo in casa e altri due figli di una vita precedente di mio padre che però non vivevano con noi. Il reddito di allora. Il reddito dei miei. Il nostro “tenore di vita” (economico) e quello etico e morale. E me: cosa facevo? Cosa consumavo? Cosa mi mancava? Impossibile non fare confronti con oggi. Oggi che siamo quarantenni noi come allora lo erano i nostri genitori.