Archivio del Tag ‘speculazione’
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Illusioni e delusioni, lo show del Magus sul ring del potere
Incoerenza e fellonia conclamata anche da parte dei 5 Stelle, il cui vertice si schiera sottobanco con l’establishment euro-economicida tentando, ancora, di raccontare ai follower e agli elettori italiani la favola bella della rivoluzione gentile a colpi di democrazia diretta via Casaleggio Associati? Se c’è un capolavoro assoluto e perfetto, a cura del potere che ci manipola incessamente da decenni, per un outsider “guerrigliero” come Paolo Barnard è proprio questo: aver storicamente tolto, agli elettori, ogni possibilità di incidere realmente nei destini della comunità, nazionale e internazionale, facendo semplicemente piazza pulita di qualsiasi reale oppositore, di qualsiasi vero antagonista di un sistema che è teleguidato dalla grande finanza paramassonica ma gode del pieno consenso della gran parte del pubblico, sempre passivo, ridotto a massa composita di ex cittadini trasformati in docili spettatori, in semplici consumatori, cui la relativa libertà del web consente di coltivare l’illusione della partecipazione, affidata ai social media e alle riserve indiane, i blog della cosiddetta controinformazione complottistica.Per Barnard, la politica occidentale è stata scientificamente colonizzata dal potere economico, a partire dagli anni ‘70, sulla scorta del Memorandum Powell tradotto in tutte le lingue, attraverso la Trilaterale dei Kissinger e dei Rockefeller, e declinato in manuali di propaganda che hanno fatto storia, fino alla “Crisi della democrazia” celeberata nel Vangelo di Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, per arrivare ai Chigaco Boys di Milton Friedman e al Nobel per l’Economia assegnato al grande stratega europeo del governo “illuminato” dell’élite, l’austriaco Friedrick von Hayek. Università, editoria, informazione: un unico grande coro, per dire che il mercato ha sempre ragione, che “non c’è alternativa” (Thatcher), che bisogna rimuovere ogni ostacolo alla finanza speculativa (Bill Clinton). E’ così che la destra economica si è imposta anche sulla sinistra, colonizzando partiti, sindacati e leader, da Massimo D’Alema a Gerhard Schroeder, da Tony Blair a Romano Prodi, per affermare l’onnipotenza “storica” nel neoliberismo, fino all’ordoliberismo dei super-massoni Angela Merkel, Mario Draghi, Wolfgang Schaeuble, Giorgio Napolitano, Jacques Attali, Jens Weidmann, François Hollande.Cade Grillo, perdendo la sua residua “credibilità antisistema” proprio mentre si affaccia sugli Usa e sul mondo il nuovo regno del presidente Trump, presentatosi come alfiere del “popolo” contro l’oligarchia? Illusioni ottiche, sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, massone e scrittore, esperto di simbologia e studioso del potere come «schema astratto, che “fabbrica” persone utili si suoi scopi». Il super-potere apolide ha rottamato per via giudiziaria la Prima Repubblica italiana, gremita anche di personaggi come Craxi e Andreotti, scomodi per il nuovo vertice europeo che si doveva imporre? Vero, ma i partiti di Craxi e Andreotti «facevano i congressi con i morti, gestendo pacchetti di voti di militanti defunti da tempo». E i cittadini dov’erano? A casa, come sempre. Rassegnati alla “fine della storia” celebrata dall’ultimo cantore della Trilaterale, Francis Fukuyama. Persuasi della “morte delle ideologie”. Una liberazione? Al contrario: «L’ideologia – sottolina Carpeoro – contiene il futuro: è l’idea di come vorremmo la società fra trent’anni. C’è qualche politico, oggi, che pensa a un orizzonte che vada oltre i sei mesi?».Carpeoro è uno studioso dei Rosacroce, misteriosi antesignani dell’anarchismo socialista utopico e pre-marxista, le cui prime parole d’ordine sono probabilmente contenute nel manifesto “Fama Fraternitatis”, che nel 1614 chiedeva l’abolizione della proprietà privata e dei confini tra le nazioni. Un mondo migliore, liberato dalla logica del dominio, la cui comparsa sulla Terra uno studioso come Francesco Saba Sardi fa risalire addirittura al neolitico, con la scoperta dell’agricoltura e l’improvvisa necessità di possedere terre, gestirle, difenderle, conquistarle. Proprio l’esigenza di sudditi, destinati a lavorare e combattere, secondo Saba Sardi partorì “l’invenzione” della religione, da parte del re-sacerdote, come pretesto per l’obbedienza e la sottomissione, da cui – per successiva e ulteriore degenerazione – nacque il Magus, l’uomo del potere che utilizza la conoscenza per manipolare la comunità.E’ una storia lunga 12.000 anni, con di mezzo imperi e dominazioni, millenni di evoluzione, grandiosi progressi, guerre, rivoluzioni. Per Carpeoro, però, siamo ancora e sempre prigionieri del cerchio magico tracciato da Magus di turno: all’interno del cerchio vivono promesse di miracoli, fuori dal cerchio ci minaccia il Nemico. «Rompere il cerchio significa imparare a chiedersi perché, il perché delle cose». Ovvero: «Perché questo sistema prevede che, perché noi stiamo meglio, altri devono per forza stare peggio?». Il Magus ha una caratteristica invariabile: non rischia mai, davvero. Durante la sanguinosa fase storica della decolonizzazione, nel secondo ‘900, l’ideologia comunista ha partorito personaggi come Patrick Lumumba, Ernesto Che Guevara, Thomas Sankara. Hanno tutti pagato, con la vita, il prezzo delle loro idee. Loro la vedevano, eccome, la proiezione nel tempo della società ideale. Oggi invece – altra epoca, altro millennio – i più restano a casa, con idee a portata di click, limitandosi ad assistere alla caduta del Magus di turno, senza mai mettere in discussione – nella vita quotidiana – il potere che l’aveva creato, per accomodare il pubblico nel suo rassicurante cerchio magico. Poi il cerchio esplode, come una bolla di sapone, nel lutto degli adepti. Il potere invece se la ride, sta già fabbricando il Magus che verrà.Incoerenza e fellonia conclamata anche da parte dei 5 Stelle, il cui vertice si schiera sottobanco con l’establishment euro-economicida tentando, ancora, di raccontare ai follower e agli elettori italiani la favola bella della rivoluzione gentile a colpi di democrazia diretta via Casaleggio Associati? Se c’è un capolavoro assoluto e perfetto, a cura del potere che ci manipola incessamente da decenni, per un outsider “guerrigliero” come Paolo Barnard è proprio questo: aver storicamente tolto, agli elettori, ogni possibilità di incidere realmente nei destini della comunità, nazionale e internazionale, facendo semplicemente piazza pulita di qualsiasi reale oppositore, di qualsiasi vero antagonista di un sistema che è teleguidato dalla grande finanza paramassonica ma gode del pieno consenso della gran parte del pubblico, sempre passivo, ridotto a massa composita di ex cittadini trasformati in docili spettatori, in semplici consumatori, cui la relativa libertà del web consente di coltivare l’illusione della partecipazione, affidata ai social media e alle riserve indiane, i blog della cosiddetta controinformazione complottistica.
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Bauman: addio umanità, schiavizzata da un’élite di parassiti
«Le opere di Bauman, che, per quanto fortunate editorialmente, sono state cibo per pochi, purtroppo, sono un tesoro cui attingere per comprendere le ingiustizie del tempo presente, denunciarle, e se possibile, combatterle». Così Angelo d’Orsi ricorda su “Micromega”, all’indomani della sua scomparsa, il grande sociologo polacco Zigmunt Bauman, massone progressista e celebrato teorico della “società liquida”: «Il messaggio che ci affida è appunto di non smettere di scavare sotto la superficie luccicante del “mondo globale”, come ce lo raccontano media e intellettuali mainstream, che non solo hanno rinunciato al ruolo di “legislatori”, trasformandosi compiutamente in meri “interpreti”, ossia tecnici, ma sono diventati laudatores dei potenti». Nato a Poznan nel 1925, Bauman aveva attraversato il “tempo di ferro e di fuoco” dell’Europa fra le due guerre, «tra nazismo, stalinismo, cattolicesimo oltranzista, antisemitismo». Di origine ebraica, «si era allontanato dalla sua terra, per sottrarsi proprio a una delle tante ondate di furore antiebraico, che da sempre la animano». Era stato comunista militante, poi allontanatosi dal marxismo canonico, fino alla “scoperta” di un grande italiano, Antonio Gramsci, «che lo aveva aiutato a leggere il mondo con occhi nuovi», rispetto alla vulgata marxista-leninista e alle scienze sociali angloamericane.Bauman aveva studiato sociologia a Varsavia, con maestri come Stanislaw Ossowski, prima di trasferirsi in Israele, all’università di Tel Aviv, e quindi a Leeds, in Inghilterra dove insegnò per decenni. «Sarebbe però riduttivo definirlo sociologo – scrive d’Orsi – sia per il tipo di sociologia da lui professata e praticata, poco accademica e nient’affatto canonica, sia per la vastità dello sguardo, la larghezza degli interessi, la molteplicità degli approcci». Filosofo, politologo, storico del tempo presente: uno studioso prolifico, autore di una cinquantina di opere, preziose per «l’osservazione critica della contemporaneità». Bauman si era occupato «in modo nient’affatto banale dell’Olocausto, messo in relazione alla modernità», in qualche modo riprendendo spunti di Max Horkheimer e Theodor Adorno, «puntando il dito contro l’ingegneria sociale e il predominio della tecnica (in questo vicino a Jürgen Habermas), che uccide la morale, contro l’elefantiasi burocratica che schiaccia gli individui senza aumentare l’efficienza del sistema sociale». In più, aggiunge d’Orsi, Bauman «aveva studiato la trasformazione degli intellettuali, passati da figure elevate, capaci di dettare l’agenda politica ai governanti, a meri tecnici amministratori del presente, al servizio del sistema». In altre parole: la degenerazione progressiva del potere.Fra i tanti meriti di questo pensatore, Angelo d’Orsi segnala «la sua capacità di descrivere gli esiti della forsennata corsa senza meta della società post-moderna, attraverso un’acutissima analisi del nostro mondo», in cui «la globalizzazione delle ricchezze ha oscurato quella ben più mastodontica, gravissima, delle povertà». Studiando “le conseguenze sulle persone”, ridotte a “scarti”, «residui superflui che vanno conservati soltanto fin tanto che possono esser consumatori», Bauman ha svelato «il volto cupo e tragico dell’ultra-capitalismo, feroce espressione di creazione e gestione della disuguaglianza tra gli individui, dove all’arricchimento smodato dei pochi ha corrisposto il rapido, crescente impoverimento dei molti». Quell’uomo, continua d’Orsi, «ci ha aiutato a guardare dietro lo specchio ammiccante del post-moderno, sotto la vernice lucente dell’asserito arricchimento generalizzato e universale, dietro lo slogan della “fine della storia”, ossia della proclamata nuova generale armonia tra Stati e gruppi sociali», oltre alla quale «era apparso l’altro volto della globalizzazione, ossia una terribile guerra dei ricchi ai poveri, ennesima manifestazione della lotta di classe dall’alto».Ha guardato, Bauman, alle “Vite di scarto” (altra sua opera), generate incessantemente «dall’infernale “megamacchina” del “finanzcapitalismo”», scrive sempre d’Orsi, citando un’espressione di un altro grande scomparso, Luciano Gallino. Il nuovo, grande problema denunciato da Bauman è il “capitalismo parassitario”: «Quella che chiamava “omogeneizzazione” forzosa delle persone (un concetto che richiama la pasoliniana “omologazione”), era l’altro volto della società anomica, che distrugge legami, elimina connessioni, scioglie il senso stesso della convivenza». Volumi, saggi, articoli, conferenze: «E’ come se quest’uomo mite e affabile avesse voluto tendere una mano a tutti coloro che dal processo di mostruosa produzione di denaro attraverso denaro, erano esclusi; quasi a voler “salvare”, con le sue parole, gli schiacciati dai potentati economici, a voler dar voce a quanti, in una “Società sotto assedio” (ancora un suo titolo), dominata dalla paura, dal rancore, dall’ostilità, vedevano e vedono le proprie vite disintegrate».I “Danni collaterali”, elencati in uno dei suoi ultimi libri, «sono in realtà l’essenza di questa società, che egli ha definito, felicemente, “liquida”, con una trovata che è poi divenuta formula, ripetuta, un po’ stucchevolmente, negli ultimi anni, applicata a tutti gli ambiti del vivere in comune», scrive ancora Angelo d’Orsi, nel suo intervento su “Micromega”. «Liquida è questa nostra società, che ha perso il senso della comunità, priva di collanti al di là del profitto e del consumo: una società il cui imperativo, posto in essere dai ricchi contro i poveri, dai potenti contro gli umili, è ridotto alla triade “Produci/Consuma/Crepa”». Di conseguenza, diventano tristemente “liquidi” anche «i rapporti umani», così come la cultura. In altre parole: «Liquido tutto il nostro mondo, che sta crollando mentre noi fingiamo di non accorgercene».«Le opere di Bauman, che, per quanto fortunate editorialmente, sono state cibo per pochi, purtroppo, sono un tesoro cui attingere per comprendere le ingiustizie del tempo presente, denunciarle, e se possibile, combatterle». Così Angelo d’Orsi ricorda su “Micromega”, all’indomani della sua scomparsa, il grande sociologo polacco Zygmunt Bauman, massone progressista e celebrato teorico della “società liquida”: «Il messaggio che ci affida è appunto di non smettere di scavare sotto la superficie luccicante del “mondo globale”, come ce lo raccontano media e intellettuali mainstream, che non solo hanno rinunciato al ruolo di “legislatori”, trasformandosi compiutamente in meri “interpreti”, ossia tecnici, ma sono diventati laudatores dei potenti». Nato a Poznan nel 1925, Bauman aveva attraversato il “tempo di ferro e di fuoco” dell’Europa fra le due guerre, «tra nazismo, stalinismo, cattolicesimo oltranzista, antisemitismo». Di origine ebraica, «si era allontanato dalla sua terra, per sottrarsi proprio a una delle tante ondate di furore antiebraico, che da sempre la animano». Era stato comunista militante, poi allontanatosi dal marxismo canonico, fino alla “scoperta” di un grande italiano, Antonio Gramsci, «che lo aveva aiutato a leggere il mondo con occhi nuovi», rispetto alla vulgata marxista-leninista e alle scienze sociali angloamericane.
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La profezia di Blondet: trovato il passaporto, lo uccideranno
Due poliziotti in mondovisione (nomi e cognomi, persiono le foto), uno di loro è ferito. E a terra, nella notte, a Sesto San Giovanni, un giovane tunisino: Anis Amri. «Era lui il killer di Berlino?», si domanda Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. «Vedete? Anche la polizia e i servizi tedeschi imparano presto», scriveva giorni fa Maurizio Blondet. «Prima si lasciano scappare il terrorista della strage di Natale; ma il giorno dopo, guardando meglio, scoprono che – come tutti i terroristi islamici – ha lasciato nel vano porta-oggetti il suo documento di prolungamento della permanenza in Germania, che è praticamente la prova della sua identità». Lo ha fatto uno dei fratelli Kouachi dopo aver sparato a quelli di Charlie Hebdo. E lo stragista di Nizza, Lahouaiej-Bouhlel? «Anche lui, prima di lanciarsi nella folle corsa omicida e suicida, pone in bella vista patente di guida, carta d’identità, telefonino, persino carte di credito». Ricorda la storia, semre uguale, dei documenti dei “terroristi” emersi tra le macerie dell’11 Settembre, in mezzo all’apocalisse. «Da allora, è una certezza per gli investigatori: cercate bene sui sedili, sotto la cenere, nella guantiera, e smetterete di brancolare nel buio». Un copione: diffondere ai media l’identità del “mostro” da braccare. Se intercettato, «invariabilmente risponde al fuoco gridando “Allah Akhbar!”. Sicchè non ne vien preso vivo uno. Succederà, possiamo profetizzarlo, anche al “tunisino “ identificato dalla polizia tedesca».Queste righe, Blondet le scriveva il 21 dicembre, cioè quasi due giorni prima l’evento sanguinoso di Milano, che ha fatto il giro del mondo. «Ma com’è che ora si pubblica, oltre al nome e cognome, anche la fotografia del poliziotto che ha appena ucciso un terrorista?», si domanda Francesco Santoianni. «Una ipotesi: Marco Minniti – da tempo immemorabile tutor dei servizi segreti e ora anche ministro dell’interno – si era reso conto che la morte di Anis Amri – identificato come il responsabile della strage con il Tir a Berlino grazie ad un ennesimo documento di identità, miracolosamente ritrovato dopo 24 ore – per mano di un ignoto avrebbe legittimato in tutta l’opinione pubblica i sospetti che Anis Amri non fosse altro che un Patsy», cioè un capro espiatorio, paragonabile a Lee Harvey Oswald, l’apparente killer di John Kennedy. «Poliziotto – continua Santoianni, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – al quale auguriamo che – dopo il nome, la fotografia, l’account Facebook – non venga pubblicato anche il suo indirizzo di casa». Se le “stranezze” abbondano, irrompe l’inevitabile corredo di dietrologie: Federico Dezzani si spinge a ipotizzare «un assist anglomericano all’Italia, ai danni della Germania», contraria alla nazionalizzazione di Mps, “punita” ora con la dimostrazione di efficienza della polizia italiana, che dimostrerebbe l’inadeguatezza di quella tedesca.«Poca gloria, ma in compenso molte domande», sintetizza “Piotr” su “Megachip”: «Come sapevano che era proprio questo tizio alla guida del camion che ha fatto strage a Berlino? Semplice. Come al solito, hanno trovato – toh, guarda – un suo documento nella cabina del camion, sotto il sedile. Come mai allora l’efficientissima polizia tedesca aveva arrestato un pakistano che non c’entrava nulla? Ci hanno messo veramente un giorno a trovare un documento sotto il sedile dell’arma del crimine? Ma va là». La sequenza, sottolinea “Megachip”, si ripete con un cliché incredibilmente monotono: prima un attentato “imprevisto”, poi il ritrovamento dei documenti degli attentatori sul luogo del crimine, quindi la dichiarazione che l’attentatore era già sospettato, magari sotto sorveglianza (però l’attentato lo riesce a fare lo stesso, invariabilmente). Quindi scatta la caccia all’uomo. Finale: «Conflitto a fuoco e uccisione del sospetto. Niente cattura e interrogatorio. Nemmeno per Osama bin Laden». Identica sceneggiatura: «Qualcuno sta usando sempre lo stesso canovaccio. Non chiedetemi chi. Non ho le prove», ammette “Piotr”. L’importante, conclude, è vedere che la narrazione ufficiale «non sta in piedi, ed è diventata mortalmente noiosa». Intanto, «gli innocenti continuano ad essere ammazzati, per la gloria di poche élite, pronte a scatenare tutte le loro speculazioni politiche e gli stati di emergenza sull’onda di una campagna di terrore e tensione».Due poliziotti in mondovisione (nomi e cognomi, persiono le foto), uno di loro è ferito. E a terra, nella notte, a Sesto San Giovanni, un giovane tunisino: Anis Amri. «Era lui il killer di Berlino?», si domanda Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. «Vedete? Anche la polizia e i servizi tedeschi imparano presto», scriveva giorni fa Maurizio Blondet. «Prima si lasciano scappare il terrorista della strage di Natale; ma il giorno dopo, guardando meglio, scoprono che – come tutti i terroristi islamici – ha lasciato nel vano porta-oggetti il suo documento di prolungamento della permanenza in Germania, che è praticamente la prova della sua identità». Lo ha fatto uno dei fratelli Kouachi dopo aver sparato a quelli di Charlie Hebdo. E lo stragista di Nizza, Lahouaiej-Bouhlel? «Anche lui, prima di lanciarsi nella folle corsa omicida e suicida, pone in bella vista patente di guida, carta d’identità, telefonino, persino carte di credito». Ricorda la storia, sempre uguale, dei documenti dei “terroristi” emersi tra le macerie dell’11 Settembre, in mezzo all’apocalisse. «Da allora, è una certezza per gli investigatori: cercate bene sui sedili, sotto la cenere, nella guantiera, e smetterete di brancolare nel buio». Un copione: diffondere ai media l’identità del “mostro” da braccare. Se intercettato, «invariabilmente risponde al fuoco gridando “Allah Akhbar!”. Sicchè non ne vien preso vivo uno. Succederà, possiamo profetizzarlo, anche al “tunisino “ identificato dalla polizia tedesca».
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Draghi: ora vi taglio i viveri, così imparate a votare No
«Una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite». Mario Draghi esce allo scoperto: dopo la Brexit e il referendum italiano, avverte che “la ricreazione è finita”. La Bce chiuderà i rubinetti del quantitative easing, esponendo gli Stati al ricatto dello spread, senza più protezioni. Fallita la “carota” (Renzi), si torna al “bastone”: meno soldi per tutti, tranne che per la Germania. Una sfida, frontale, a chi ha votato No – a Renzi, all’Ue. Dal presidente della Bce, scrive “Micromega”, arriva la prima, vera risposta dell’élite sconfitta nelle urne italiane e inglesi. In arrivo lacrime e sangue, se gli Stati non vorranno piegarsi alle “riforme strutturali” volute dal super-potere. Tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della Banca d’Italia, prounciate mentre infuriavano gli anni di piombo: «La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga». E Draghi «non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi», scrive “Micromega”. Al contrario: «Le affila, per fronteggiare la minaccia del populismo».Si tratta di «un vero proprio disegno politico», contenuto nei dettagli operativi illustrati da Draghi nell’ultima riunione del consiglio direttivo della Bce. Un evento solo in apparenza tecnico, avverte “Micromega”, in un’analisi firmata “Raro”. Draghi ha annunciato che l’autorità monetaria proseguirà il programma di acquisto di titoli pubblici, come tutti si aspettavano, oltre la scadenza inizialmente prevista per il marzo prossimo, «ma ha aggiunto un elemento di novità in cui pochi credevano: il flusso di liquidità con cui la banca centrale sta tenendo a bada gli spread inizierà a ridimensionarsi, già a partire da aprile». Ciò significa che «la Bce prefigura, per la prima volta, un progressivo alleggerimento dello stimolo monetario garantito da ormai due anni all’Eurozona». Ed è così che, «mentre politici e governanti europei vengono impietosamente travolti dall’onda anomala del populismo antisistema, l’autorità monetaria si profila come l’unica soggettività politica capace di elaborare una qualche forma di reazione della classe dirigente d’Europa».Dopo due anni relativamente tranquilli, scrive “Micromega”, la progressiva riduzione del sostegno ai titoli di Stato «determinerà, nei prossimi mesi, una minore liquidità del debito pubblico europeo e non potrà che portare con sé un rialzo nei tassi di interesse pagati dai governi della periferia, a discapito della stabilità finanziaria». La Bce ha poi esteso il programma sia sul fronte delle scadenze, includendo titoli a più breve termine (fino ad un anno), che sul fronte dei tassi, rendendosi disponibile all’acquisto di titoli caratterizzati da un rendimento inferiore al già negativo tasso sui depositi presso la banca centrale. «Il significato di queste rifiniture del quantitative easing appare chiaro», osserva “Micromega”: «Dal momento che la stragrande maggioranza dei titoli pubblici con rendimenti negativi è ascrivibile alla Germania, e in particolare alle sue scadenze a breve termine, le modifiche apportate al programma di acquisti perseguono l’obiettivo di assicurare a Berlino una quota consistente della liquidità residua che arriverà nei prossimi mesi. Dunque, proprio mentre procede a ridurre la portata del suo supporto alla generalità dei debiti pubblici europei, l’autorità monetaria mette in chiaro che non sarà la Germania a soffrire di questa minore copertura».Al contrario, come i movimenti di Borsa stanno segnalando in queste ore, si assiste già ad una contrazione del rendimento dei titoli tedeschi a fronte di un leggero rialzo di quelli italiani: «Si riaffaccia, in Europa, il fantasma dello spread, ovverosia l’ampliamento del divario tra il costo del debito pubblico dei paesi centrali e quello dei paesi periferici». Per “Micromega”, dunque, «inizia così ad emergere, dal complesso intreccio delle specifiche tecniche della manovra di politica monetaria appena varata, un dato politico». Corsi e ricorsi: fu proprio sulla scia di un repentino ampliamento degli spread che, ad Atene nel lontano 2009, «si è aperta per l’Europa la stagione dell’austerità». Una fase storica «caratterizzata dall’applicazione simultanea, nei principali paesi europei, del medesimo indirizzo politico: abbattimento dello stato sociale, contrazione dei diritti dei lavoratori e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti». Un indirizzo politico che, «a dispetto del suo marcato carattere antipopolare», di fatto «non ha incontrato alcuna resistenza significativa per quasi cinque anni, grazie soprattutto al clima emergenziale imposto dai mercati attraverso la frusta dello spread».Tuttavia, «gli esiti socialmente disastrosi di questa violenta accelerazione della globalizzazione hanno fatto maturare un rifiuto dell’austerità e delle sue istituzioni», che ha trovato espressione prima in Grecia, nell’estate 2015, dove l’ennesimo programma “lacrime e sangue” è stato rispedito (invano) al mittente con un referendum, poi in Gran Bretagna un anno dopo con la Brexit, e infine in Italia, con la recente bocciatura della riforma costituzionale promossa dal governo. «Dopo cinque lunghi anni di austerità – continua l’analista di “Micromega” – una borghesia impoverita e un esercito di venti milioni di disoccupati hanno iniziato ad alzare la voce: approfittando dei tre grandi referendum popolari, queste vittime del neoliberismo europeo hanno inferto tre durissimi colpi al progetto di integrazione europea». E attenzione: «È esattamente a questo punto della storia che interviene la mossa decisa da Draghi giovedì scorso: la stretta monetaria programmata per i prossimi mesi si configura come la prima, violenta risposta delle élite europee alla marea antisistema che le sta minacciando».Si tratta di una reazione che «rischia di compromettere la stabilità finanziaria dell’Europa», e proprio su questo punto «si misurerà l’intraprendenza della Bce». La stretta monetaria, infatti, «è pensata per aumentare il grado di esposizione dei governi alla disciplina dei mercati: tolta la protezione del quantitative easing, il debito pubblico dei paesi periferici tornerà ad essere pienamente vulnerabile ai venti della speculazione». Nei progetti dell’autorità monetaria, «la pressione esercitata dai mercati attraverso gli spread può riuscire laddove le regole, da Maastricht al Fiscal Compact, hanno fallito: costringere la periferia d’Europa sulla strada delle riforme e dell’austerità senza ulteriori esitazioni, e dunque senza quella prudenza che l’avanzata dei populismi sembra suggerire alla classe politica europeista». Nel promuovere l’austerità attraverso la disciplina degli spread, Draghi «si pone alla testa di quella classe politica e la trascina sul rischioso crinale dello scontro frontale con gli sconfitti della globalizzazione e le loro rivendicazioni». L’impatto, per “Micromega”, «potrebbe trascinare ancora più a fondo l’Europa».«Una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite». Mario Draghi esce allo scoperto: dopo la Brexit e il referendum italiano, avverte che “la ricreazione è finita”. La Bce chiuderà i rubinetti del quantitative easing, esponendo gli Stati al ricatto dello spread, senza più protezioni. Fallita la “carota” (Renzi), si torna al “bastone”: meno soldi per tutti, tranne che per la Germania. Una sfida, frontale, a chi ha votato No – a Renzi, all’Ue. Dal presidente della Bce, scrive “Micromega”, arriva la prima, vera risposta dell’élite sconfitta nelle urne italiane e inglesi. In arrivo lacrime e sangue, se gli Stati non vorranno piegarsi alle “riforme strutturali” volute dal super-potere. Tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della Banca d’Italia, pronunciate mentre infuriavano gli anni di piombo: «La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga». E Draghi «non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi», scrive “Micromega”. Al contrario: «Le affila, per fronteggiare la minaccia del populismo».
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Hayek, il profeta dell’élite che ha rottamato la democrazia
Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».La sua pubblicazione nel 1960 segnò la transizione da una filosofia rispettabile, anche se estrema, ad un caos totale, scrive Monbiot, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Quella filosofia era chiamata neoliberalismo. «Considerava la competizione come la caratteristica distintiva delle relazioni umane. Il mercato avrebbe trovato la sua naturale gerarchia di vincitori e perdenti, e ne sarebbe risultato un sistema più efficiente di quanto sarebbe stato possibile attraverso la programmazione o la progettazione». Attenzione: «Qualsiasi cosa impedisse tale processo, come tasse sostanziose, regole, attività sindacali o incentivi statali, era controproducente. L’imprenditorialità senza restrizioni avrebbe prodotto una ricchezza con effetti positivi a cascata su tutti». Quando Hayek iniziò a scrivere “The Constitution of Liberty”, «la rete di lobbisti e pensatori che aveva creato stava ricevendo generosi finanziamenti da parte di multi-milionari che vedevano questa dottrina come un modo per difendere se stessi dalla democrazia». Hayek inizia il libro suggerendo la concezione più semplice possibile di libertà: l’assenza di coercizione. Rifiuta nozioni come libertà politica, diritti universali, uguaglianza degli esseri umani e distribuzione equa della ricchezza.Tutti concetti che, limitando il campo d’azione di ricchi e potenti, si interpongono tra loro e l’assoluta libertà dai vincoli a cui ambiscono. La democrazia, al contrario, «non è un valore supremo o gradito a tutti». Infatti, la libertà consiste nell’impedire che la maggioranza abbia potere decisionale sulla direzione che la politica e la società decidono di prendere. Hayek «giustifica questa visione delineando una narrativa epica di estrema prosperità», e identifica l’élite economica «con un gruppo di pionieri della filosofia e della scienza che spenderanno il loro denaro in modi nuovi». Così come il filosofo politico dovrebbe essere libero di “pensare l’impensabile”, allo stesso modo «chi è molto ricco dovrebbe essere libero di tentare l’infattibile, senza vincoli posti dall’interesse collettivo o dall’opinione pubblica». E allora i super-ricchi diventano «esploratori» che «sperimentano nuovi stili di vita», tracciando la strada che il resto della società seguirà. Il progresso della società «dipende dalla libertà di questi “indipendenti” di guadagnare tutto il denaro che vogliono e di spenderlo come meglio credono. Tutto ciò che è buono e utile, quindi, deriva dall’ineguaglianza». Non ci dovrebbe essere connessione tra merito e ricompensa, nessuna distinzione tra guadagni giusti e immeritati e alcun limite agli affitti che possono far pagare.Inoltre, la ricchezza ereditata è socialmente più utile di quella guadagnata: «Il ricco indolente», che non deve lavorare per denaro, può dedicarsi a influenzare «aree di pensiero e opinione, gusti e idee». Anche quando sembra che spenda soldi solo per uno «sfoggio senza senso», sta in realtà agendo da avanguardia della società. Tutto ciò che il ricco fa è, per definizione, positivo. Hayek ammorbidì l’opposizione ai monopoli e irrigidì quella verso i sindacati. Criticò la tassazione progressiva e ogni tentativo da parte dello Stato di elevare il benessere generale dei cittadini. Insistette che ci fossero «argomentazioni schiaccianti contro la sanità pubblica gratuita per tutti» e respinse l’idea della salvaguardia delle risorse naturali (non stupisce che abbiano dato il Nobel per l’economia). Sicché, «quando la signora Thatcher sbatté il suo libro sul tavolo, si era già formata su entrambe le rive dell’Atlantico una vivace rete di think tank, lobbisti e accademici che promuovevano la dottrina di Hayek, abbondantemente finanziata da alcune delle persone e compagnie più ricche del pianeta, compresi DuPont, General Electric, la società di birrificazione Coors, Charles Koch, Richard Mellon Scaife, Lawrence Fertig, il William Volcker Fund e la Earhart Foundation».Usando in modo geniale la psicologia e la linguistica, continua Monbiot, i pensatori sponsorizzati da queste persone trovarono le parole e le argomentazioni necessarie per trasformare l’inno all’élite di Hayek in un programma politico plausibile. Il Thatcherismo e il Reaganismo? Due facce del medesimo neoliberismo: «L’imponente taglio alle tasse per i ricchi, l’attacco ai sindacati, la riduzione degli alloggi popolari, la liberalizzazione, privatizzazione, delocalizzazione e la concorrenza nei servizi pubblici erano già stati teorizzati da Hayek e dai suoi discepoli». Ma il vero trionfo di questo network, sottolinea Monbiot, non fu la sua “innovativa” concezione del diritto, bensì «la conquista di partiti che un tempo erano schierati a favore di tutto ciò che Hayek detestava», cioè le formazioni politiche “di sinistra”, che furono completamente “colonizzate”. Bill Clinton e Tony Blair «estrapolarono alcuni elementi di ciò che un tempo i loro partiti avevano creduto, lo combinarono con idee prese in prestito dai loro oppositori, e da questa improbabile combinazione diedero vita alla “terza via”. Era inevitabile che lo sfavillante e rivoluzionario entusiasmo del neoliberalismo avrebbe esercitato una forza di attrazione più potente della stella morente della democrazia sociale».Dovunque, allora, si poteva assistere al trionfo di Hayek: dall’ampliamento della Private Finance Initiative di Blair alla revoca da parte di Clinton del Glass-Steagal Act, che regolava il settore finanziario. «Nonostante le sue lodevoli intenzioni, nemmeno Barack Obama aveva una narrativa politica ben definita (eccetto la “speranza”), e lentamente è stato cooptato da coloro che detenevano migliori mezzi di persuasione». Il risultato di tutto ciò è stato «prima l’indebolimento del potere e poi la privazione dei diritti civili». Se l’ideologia dominante consiglia ai governi di non garantire più la giustizia sociale, «essi non possono più rispondere ai bisogni dell’elettorato», e così «la politica diventa irrilevante per le vite dei cittadini». Al che, il cittadino defraudato dei propri diritti «si rivolge verso un’astiosa anti-politica, dove fatti e ragionamenti vengono sostituiti da slogan». Il risultato di oggi è paradossale, dice Monbiot: proprio la sollevazione popolare contro la “dittatura” del neoliberismo «ha portato al successo proprio quel tipo di uomo che Hayek mitizzava», cioè Donald Trump, ovvero un uomo «che non ha una visione politica coerente, non è un neoliberale classico, ma è la perfetta rappresentazione dell’“indipendente” di Hayek: è il beneficiario di una fortuna ereditata, non assoggettato ai comuni limiti della moralità, le cui rozze inclinazioni aprono nuove strade che altri potrebbero seguire».I pensatori neoliberali adesso «brulicano intorno a questo uomo vacuo, a questo vaso vuoto che aspetta di essere riempito da coloro che sanno bene cosa vogliono». Il probabile risultato «sarà la demolizione di tutto ciò che ancora ci fa onore, a cominciare dall’accordo sulla limitazione del riscaldamento globale». Conclude Monbiot: «Coloro che raccontano storie governano il mondo. La politica è fallita a causa della mancanza di narrative valide. La sfida principale adesso è raccontare una storia nuova, quella di cosa significhi “umanità” nel ventunesimo secolo». Un nuovo “racconto”, dunque, che «deve essere tanto seducente per coloro che hanno votato Trump e lo Ukip, quanto per i sostenitori di Hillary Clinton, Bernie Sanders o Jeremy Corbyn». La psicologia e le neuroscienze riconoscono che gli esseri umani, rispetto ad altri animali, sono al tempo stesso fortemente sociali e fortemente egoisti? Certo, e «l’atomizzazione e il comportamento cinico che il neoliberalismo promuove va contro quasi tutto ciò che caratterizza la natura umana. Hayek ci ha detto chi siamo, e si sbagliava. Il primo passo da compiere è riappropriarci della nostra umanità».Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».
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Dezzani: Bergoglio scelto dal superclan Usa oggi perdente
Ratzinger “deposto” da un complotto gestito dai servizi segreti anglosassoni, con anche la collaborazione di Gianroberto Casaleggio. Obiettivo: insediare in Vaticano l’attuale pontefice “modernista”. Un piano del massimo potere, gestito da personaggi come George Soros e ora messo in pericolo dalla vittoria di Trump. Lo sostiene Federico Dezzani, che evoca “padrini occulti” dietro al pontificato di Bergoglio, di cui profetizza l’imminente fine. Nonostante il flop del Giubileo e «il sostanziale fallimento dell’Anno Santo», Papa Francesco oggi accelera la svolta modernista: crea nuovi cardinali a lui fedeli e concede a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere l’aborto. «Forse Bergoglio ha fretta, perché sa che il contesto internazionale che lo ha portato sul Soglio Petrino si è dissolto con l’elezione di Donald Trump», scrive Dezzani, secondo cui furono «l’amministrazione Obama e George Soros» a introdurre il gesuita argentino, «in forte odore di massoneria», dentro le Mura Leonine. Bergoglio? Sarebbe «la versione petrina di Barack Hussein Obama», in coerenza col “cesaropapismo”, grazie al quale il potere civile estende la propria competenza al campo religioso, così da plasmare la dottrina «secondo le esigenze del potere temporale».Una pratica bizantina, ancora viva nell’Occidente moderno? Senz’altro: «La Chiesa di Roma subisce, dalla notte dei tempi, gli influssi del mondo esterno: re francesi, imperatori tedeschi, generali corsi e dittatori italiani hanno sempre cercato di ritagliarsi una Chiesa su misura». Dopo il 1945, il Vaticano è stato «inglobato come il resto dell’Europa Occidentale nell’impero angloamericano», subendone l’influenza politica, economica e ideologica: «Quanto avviene alla Casa Bianca, presto o tardi, si ripercuote dentro le Mura Leonine». Se poi il potere temporale si sente particolarmente forte e ha fretta di imporre la propria agenda alla Chiesa cattolica, «indebolita da decenni di secolarizzazione della società e in preda ad una profonda crisi d’identità», a quel punto – sostiene Dezzani – spinge più a fondo la “modernizzazione” dello Stato pontificio «cosicché il Papa “si dimetta”, come un amministratore delegato qualsiasi, e gli azionisti di maggioranza possano nominare un nuovo “chief executive officer” della Chiesa cattolica apostolica romana, sensibile ai loro interessi».Ratzinger “licenziato” dalla Casa Bianca? «Durante la folle amministrazione di Barack Hussein Obama, periodo durante cui l’oligarchia euro-atlantica si è manifestata in tutte le sue forme, dal terrorismo islamico all’immigrazione selvaggia, dagli assalti finanziari alle guerre per procura alla Russia – continua Dezzani nel suo blog – abbiamo assistito a tutto: comprese le dimissioni di Benedetto XVI, le prime da oltre 600 anni (l’ultimo pontefice ad abdicare fu Gregorio XII nel 1415), e alla nascita di un ruolo, quello di “pontefix emeritus”, sinora mai attribuito ad un Vicario di Cristo vivente». L’interruzione del pontificato di Joseph Ratzinger, seguita dal conclave del marzo 2013 che elegge l’argentino Jorge Mario Bergoglio, è una vera e propria “rivoluzione”: «Ad un pontefice “conservatore” come Benedetto XVI ne succede uno “progressista” come Francesco, a un difensore dell’ortodossia cattolica succede un modernista che vuole “rinnovare” la dottrina millenaria della Chiesa». Non solo: «Ad un Papa che aveva ribadito l’inconciliabilità tra Chiesa Cattolica e massoneria ne subentra uno che è in fortissimo odore di libera muratoria».E ad un pontefice «sicuro che solo nella Chiesa di Cristo c’è la salvezza» segue «un paladino dell’ecumenismo», talmente ardito da dichiarare ad Eugenio Scalfari nel 2013: «Non esiste un Dio cattolico, esiste Dio». Per Dezzani, il fondatore della “Repubblica”, «ben introdotto negli ambienti “illuminati” nostrani ed internazionali», in effetti «è un’ottima cartina di tornasole per afferrare il mutamento in seno alla Chiesa», strettamente sorvegliato dall’élite di potere. Si passa dall’editoriale “Da Pacelli a Ratzinger, la lunga crisi della Chiesa” del maggio 2012, dove Scalfari ragiona a distanza sul pontificato “lezioso” di Ratzinger, rinfacciandogli una scarsa apertura alla modernità, a Lutero ed all’ecumenismo, al dialogo tête-à-tête del novembre 2016, dove Scalfari discetta amabilmente con Bergoglio di “meticciato universale”, «tema tanto caro alla massoneria», interprete del sincretismo culturale che è alla base della modernità stessa, alla cui creazione proprio il network libero-muratorio contribuì, a partire dal ‘700.Federico Dezzani si concentra su Bergoglio, che considera «la versione petrina di Barack Obama», al punto che «si potrebbe sostenere che sia stato il presidente americano ad installare il gesuita ai vertici della Chiesa»? Sarebbe un’affermazione «soltanto verosimile», precisa, visto che «sono gli stessi ambienti che hanno appoggiato Barack Obama (e che avevano investito tutto su Hillary Clinton nelle ultime elezioni) ad aver preparato il terreno su cui è germogliato il pontificato di Bergoglio». In altre parole, è il milieu «della finanza angloamericana, di George Soros e dell’establishment anglofono liberal». Se si riflette sugli ultimi tre anni di pontificato, continua Dezzani, l’azione del Papa sembra infatti ricalcata sull’amministrazione democratica. Obama si fa il paladino della lotta al surriscaldamento globale, culminata col Trattato di Parigi del dicembre 2015? Bergoglio risponde con l’enciclica ambientalista “Laudato si”. Obama «ed i suoi ascari europei, Merkel e Renzi in testa», incentivano l’immigrazione di massa? Bergoglio «ne fornisce la copertura religiosa, finendo col dedicare la maggior parte del pontificato al tema». Ancora: Obama legalizza i matrimoni omosessuali? «Bergoglio si spende al massimo affinché il Sinodo sulla famiglia del 2014 si spinga in questa direzione».Gli “automatismi” continuano, estendendosi anche al welfare. La Casa Bianca vara una discussa riforma sanitaria che incentiva l’uso di farmaci abortivi? «Bergoglio allarga all’intera platea di sacerdoti, anziché ai soli vescovi, la facoltà di assolvere dall’aborto». Ma è possibile «insediare in Vaticano» un pontefice «in perfetta sintonia con l’amministrazione democratica di Obama» e, sopratutto, «espressione degli interessi retrostanti», che Dezzani definisce «massonici-finanziari»? E’ il tema della ricostruzione di Dezzani, che parte dalla “resa” di Ratzinger. Se si vuole attuare un “regime change”, il primo passo è «sbarazzarsi della vecchia gerarchia». Dinamica classica, «già vista in Italia con Tangentopoli, che spazzò via la vecchia classe dirigente italiana spianando la strada ai governi “europeisti” di Amato e Prodi». In Germania, la Tangentopoli tedesca «decapitò la Cdu e favorì l’emergere della semi-sconosciuta Angela Merkel». A Firenze, lo scandalo urbanistico sull’area Castello «eliminò l’assessore-sceriffo Graziano Cioni e avviò la scalata al potere di Matteo Renzi». O ancora, in Brasile, dove «lo scandalo Petrobas ha causato la caduta di Dilma Rousseff e la nomina a presidente del massone Michel Temer».Stesso schema, sempre: «Accuse di corruzione (fondate o non), illazioni infamanti, minacce, sinistre allusioni, carcerazioni preventive, battage della stampa, false testimonianze, omicidi: qualsiasi mezzo è impiegato per “scalzare” i vecchi vertici indesiderati». In Vaticano, nel mirino finirono «Ratzinger e il suo seguito di cardinali conservatori, da defenestrare a qualsiasi costo per l’avvento di un pontefice modernista». Ed ecco, puntale, lo scandalo “Vatileaks”, cioè lo smottamento – lungamente incubato – che ha condotto al ritiro di Ratzinger. L’analisi di Dezzani parte dagli Usa. Aprile 2009: Obama è insediato alla Casa Bianca da appena tre mesi «e con lui quell’oligarchia liberal decisa a sbarazzarsi di Benedetto XVI». In Italia esce “Vaticano SpA”, il libro di Gianluigi Nuzzi che “grazie all’accesso, quasi casuale, a un archivio sterminato di documenti ufficiali, spiega per la prima volta il ruolo dello Ior nella Prima e nella Seconda Repubblica”. Ovvero: «Mafia, massoneria, Vaticano e parti deviate dello Stato sono il mix di questo bestseller che apre la campagna di fango e intimidazione contro Ratzinger».L’autore, secondo Dezzani, «è uno dei pochi giornalisti italiani ad essere in stretti rapporti con il solitamente schivo Gianroberto Casaleggio: Nuzzi ottiene nel 2013 dal guru del M5S una lunga intervista e, tre anni dopo, partecipa alle sue esequie a Milano». Nuzzi è una prestigiosa “penna” del “Giornale”, di “Libero” e del “Corriere della Sera”: è lecito supporre che «confezioni “Vaticano SpA” e il successivo bestseller “Vatileaks”, avvalendosi delle fonti passategli dagli stessi ambienti che si nascondo dietro Gianroberto Casaleggio ed il M5S»? Ipotetici, veri manovratori: «I servizi atlantici e, in particolare, quelli britannici che storicamente vivono in simbiosi con la massoneria». Il biennio 2010-2011 vede Ratzinger «assalito da ogni lato dalle inchieste sulla pedofilia, il tallone d’Achille della Chiesa cattolica su cui l’oligarchia atlantica può colpire con facilità», infliggendo ingenti danni. “Scandalo pedofilia, il 2010 è stato l’annus horribilis della Chiesa cattolica” scrive nel gennaio 2011 il “Fatto Quotidiano”.È lo stesso periodo in cui l’argentino Luis Moreno Ocampo, primo procuratore capo della Corte Penale Internazionale ed ex-consulente della Banca Mondiale, valuta se accusare il pontefice Ratzinger di crimini contro l’umanità, imputandogli i “delitti commessi contro milioni di bambini nelle mani di preti e suore ed orchestrati dal Papa”. Poi arriva il 2012, ancora con gli americani in prima linea. Lo rivela Wikileaks, svelando l’esistenza di un documento «indispensabile per capire le trame che portano alla caduta di Ratzinger». È il febbraio 2012 quando John Podesta, futuro capo della campagna di Hillary, scrive a Sandy Newman un’email intitolata: “Opening for a Catholic Spring? just musing…” ossia: “Preparare una Primavera cattolica? Qualche riflessione…”. Già allora, Podesta era «un papavero dell’establishment liberal», capo di gabinetto della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton, nonché fondatore del think-tank “Center for American Progress”, «di cui uno dei principali donatori è lo speculatore George Soros». E Sandy Newman? Creatore di potenti think-tanks progressisti (“Voices for Progress”, “Project Vote!”, “Fight Crime: Invest in Kids”) in cui si fece le ossa, fresco di dottorato, il giovane Obama.Scrive Newman: «Ci deve essere una Primavera cattolica, in cui i cattolici stessi chiedano la fine di una “dittatura dell’età media” e l’inizio di un po’ di democrazia e di rispetto per la parità di genere». E Podesta: «Abbiamo creato “Cattolici in Alleanza per il Bene Comune” per organizzare per un momento come questo, ma non ha ancora la leadership per farlo. Come la maggior parte dei movimenti di “primavera”, penso che questo dovrà avvenire dal basso verso l’alto». Lo scambio di email hacketrato ora da Wikileaks, aggiunge Dezzani, si inserisce perfettamente nel contesto degli ambienti anglosassoni liberal, «gli stessi dove si discute da anni della necessità di un Concilio Vaticano III che apra a omosessuali, aborto e contraccezione». Il mondo ha bisogno di un nuovo Concilio Vaticano, scrive nel 2010 un membro del “Center for American Progress”, che parla apertamente di una “primavera cattolica” «che ponga fine alla dittatura medioevale della Chiesa, sulla falsariga della “primavera araba” che ha appena sconquassato il Medio Oriente».Di lì a poche settimane, continua Dezzani, «parte infatti la manovra a tenaglia che nell’arco di una decina di mesi porterà alla clamorose dimissioni di Benedetto XVI: è il cosiddetto “Vatileaks”, una furiosa campagna mediatica che attaccando su più fronti (Ior, abusi sessuali, lotte di palazzo, la controversa gestione della Segreteria di Stato da parte del cardinale Bertone) infligge il colpo di grazia al già traballante pontificato del conservatore Ratzinger, dipinto come “troppo debole per guidare la Chiesa”». L’intero scandalo, insiste Dezzani, poggia sulla fuga di notizie, «un’attività che dalla notte dei tempi è svolta dai servizi segreti». Notizie «trafugate» sono quelle che consentono a Nuzzi di confezionare il secondo bestseller, il libro-terremoto che esce nel maggio 2012: “Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI”, poi tradotto in inglese dalla Casaleggio Associati con l’emblematico titolo “Ratzinger was afraid: The secret documents, the money and the scandals that overwhelmed the pope”.Chi è la fonte di Nuzzi, il cosiddetto “corvo”? «Come nel più banale dei racconti gialli, è il maggiordomo, quel Paolo Gabriele che funge da capro espiatorio per una macchinazione ben più complessa», sostiene Dezzani. Notizie “trafugate” sarebbero anche quelle che compaiono sul “Fatto Quotidiano”, utili a dimostrare che lo Ior, gestito da Ettore Gotti Tedeschi, per il giornale di Travaglio «non ha alcuna intenzione di attuare gli impegni assunti in sede europea per aderire agli standard del Comitato per la valutazione di misure contro il riciclaggio di capitali», né di «permettere alle autorità antiriciclaggio vaticane e italiane di guardare cosa è accaduto nei conti dello Ior prima dell’aprile 2011». Gotti Tedeschi, ricorda Dezzani, verrà brutalmente licenziato dallo Ior il 25 maggio, lo stesso giorno dell’arresto del maggiordomo Gabriele, «così da alimentare il sospetto che i “corvi” siano ovunque, anche ai vertici dello Ior, Gotti Tedeschi compreso».Notizie “trafugate”, infine, sarebbero anche gli stralci pubblicati da Concita De Gregorio su “La Repubblica” e da Ignazio Ingrao su “Panorama” nel febbraio 2013, «estrapolati da un presunto dossier segreto e concernenti una fantomatica “lobby omosessuale in Vaticano”: sarebbe la gravità di questo documento, secondo le ricostruzione della stampa, ad aver convinto Ratzinger alle dimissioni». Si arriva così all’11 febbraio 2013: durante un concistoro per la canonizzazione di alcuni santi, Benedetto XVI, visibilmente affaticato, comunica in latino la clamorosa rinuncia al Soglio Pontificio. «Fu costretto alle dimissioni sotto ricatto? Era effettivamente spaventato?». Ratzinger smentisce nel modo più netto. Di recente ha ribadito che «non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte». E ha aggiunto: «Nessuno ha cercato di ricattarmi».L’11 febbraio 2013, Ratzinger aveva affermato di «non essere più sicuro delle sue forze nell’esercizio del ministero petrino». Lo si può capire: era «fiaccato da tre anni di attacchi mediatici, piegato dallo scandalo “Vatileaks”». Così, l’anziano teologo – 86 anni – ha scelto le dimissioni. Tutto calcolato? «Le disgrazie del “conservatore” Ratzinger ed il massiccio cannoneggiamento che ha indebolito i settori della Chiesa a lui fedeli, spianano così la strada ad un Papa modernista, che attui quella “Primavera cattolica” tanto agognata dall’establishment angloamericano», scrive Dezzani. «Il Conclave del marzo 2013 (durante cui, secondo il giornalista Antonio Socci, si verificano gravi irregolarità che avrebbero potuto e dovuto invalidarne l’esito), sceglie così come vescovo di Roma l’argentino Jorge Mario Bergoglio: primo gesuita a varcare il soglio pontificio, dai trascorsi un po’ ambigui ai tempi della dittatura argentina». Duro il giudizio di Dezzani: «La ricattabilità è un tratto saliente dei burattini atlantici, da Angela Merkel a Matteo Renzi». Inoltre, il nuovo vescovo di Roma «è salutato con gioia dalla massoneria argentina, da quella italiana e dalla potente loggia ebraica del B’nai B’rith, che presenzia al suo insediamento».Lo stesso Bergoglio è un libero muratore? «Più di un elemento di carattere dottrinario, dal diniego che “Dio sia cattolico” all’ossessivo accento sull’ecumenismo, fanno supporre di sì», sostiene Dezzani. «Ma è soprattutto l’amministrazione democratica di Barack Obama e quella cricca di banchieri liberal ed anglofoni che la sostengono, a rallegrarsi per il nuovo papa». Bergoglio è il pontefice che «attua nel limite del possibile quella “Primavera Cattolica” tanto agognata (matrimoni omosessuali, aborto e contraccezione)». E’ il Papa che «sposa la causa ambientalista», che «fornisce una base ideologica all’immigrazione indiscriminata», che «sdogana Lutero e la riforma protestante». Ancora: è il pontefice che «sostanzialmente tace sulla pulizia etnica in Medio Oriente ai danni dei cristiani per mano di quell’Isis, dietro cui si nascondono quegli stessi poteri (Usa, Gb e Israele) che lo hanno introdotto dentro le Mura Leonine». È anche il primo Papa ad avere l’onore di parlare al Congresso degli Stati Uniti durante la visita del settembre 2015, prodigandosi per «sedare i malumori nel mondo cattolico americano contro la riforma sanitaria Obamacare».L’ultimo clamoroso intervento di Bergoglio a favore dell’establishment atlantico, continua Dezzani, risale al febbraio 2016, quando il pontefice etichettò come “non cristiana” la politica anti-immigrazione di Donald Trump. Un «incauto intervento», che per Dezzani rivela «il desiderio di sdebitarsi con quel mondo cui il pontefice argentino deve tutto», ma c’era anche «la volontà di mettere al riparo la sua opera di “modernizzazione” della Chiesa». La vittoria di Hillary Clinton, cioè della candidata di George Soros e dell’oligarchia euro-atlantica, «era infatti la conditio sine qua non perché la “Primavera Cattolica” di Bergoglio potesse continuare». Al contrario, «la sua sconfitta ha smantellato quel contesto geopolitico su cui Bergoglio ha edificato la traballante riforma progressista della Chiesa», sostiene sempre Dezzani. «Come François Hollande, come Angela Merkel e come Matteo Renzi, Jorge Mario Bergoglio, benché vescovo di Roma, oggi non è altro che il residuato di un’epoca archiviata». Dezzani lo considera «un figurante senza più copione, fermo sul palco, ammutolito ed estraniato, in attesa che cali il sipario».«Ultimo sussulto», da parte di Bergoglio, per «blindare la sua opera», il conferimento a tutti i sacerdoti della facoltà di assolvere dal peccato dell’aborto. A ciò si aggiunge «una terza infornata di cardinali (più di un terzo del collegio cardinalizio è ora formato da prelati a lui fedeli), così da imprimere un connotato “liberal” anche al futuro della Chiesa di Roma». Ma, per Dezzani, «è ormai troppo tardi», perché «la ribellione dentro la Chiesa alla sua “Primavera Cattolica” è iniziata». Quattro cardinali hanno di recente sollevato gravi contestazioni al documento “Amoris Laetitiae”, con cui Bergoglio ha chiuso i lavori del Sinodo sulla Famiglia, «contestazioni cui il pontefice non ha ancora risposto». E soprattutto: «Alla Casa Bianca non c’è più nessuno a proteggerlo. Anzi, c’è un presidente in pectore che, forte del voto della maggioranza dei cattolici americani, ne gradirebbe forse le dimissioni sulla falsariga di Benedetto XVI». Un’analisi buia, estrema e sconcertante. In premessa, Dezzani la definisce “verosimile”. Poi però la sottoscrive senza più incertezze: per Bergoglio, dice, «la fine si avvicina».Ratzinger “deposto” da un complotto gestito dai servizi segreti anglosassoni, con anche la collaborazione di Gianroberto Casaleggio. Obiettivo: insediare in Vaticano l’attuale pontefice “modernista”. Un piano del massimo potere, gestito da personaggi come George Soros e ora messo in pericolo dalla vittoria di Trump. Lo sostiene Federico Dezzani, che evoca “padrini occulti” dietro al pontificato di Bergoglio, di cui profetizza l’imminente declino. Nonostante il flop del Giubileo e «il sostanziale fallimento dell’Anno Santo», Papa Francesco oggi accelera la svolta modernista: crea nuovi cardinali a lui fedeli e concede a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere l’aborto. «Forse Bergoglio ha fretta, perché sa che il contesto internazionale che lo ha portato sul Soglio Petrino si è dissolto con l’elezione di Donald Trump», scrive Dezzani, secondo cui furono «l’amministrazione Obama e George Soros» a introdurre il gesuita argentino, «in forte odore di massoneria», dentro le Mura Leonine. Bergoglio? Sarebbe «la versione petrina di Barack Hussein Obama», in coerenza col “cesaropapismo”, grazie al quale il potere civile estende la propria competenza al campo religioso, così da plasmare la dottrina «secondo le esigenze del potere temporale».
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Jobs Act, misero imbroglio fallito: peggior legge di sempre
Il Jobs Act? E’ la peggior legge varata nel dopoguerra, tale da provocare un salto indietro di cinquant’anni. Consiste in una sistematica distruzione dei diritti che assicuravano dignità ai lavoratori italiani. Con la pratica abolizione dell’articolo 18 dello Statuto, i lavoratori sono ormai privi di difesa contro ogni tipo di sopraffazione. Si tratta di un’operazione reazionaria molto articolata. Un attacco scientifico della finanza speculativa. Per ottenere quale risultato? E’ evidente: l’abbassamento del costo del lavoro e la spoliazione dei diritti finalizzati all’umiliazione dei lavoratori. Meno diritti, e anche meno lavoro – e di minor qualità. Il risultato è un fallimento. Il governo Renzi ha pensato di ricorrere a un costosissimo trucco che gli avrebbe consentito poi di propagandare dei risultati: dotare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato, privi però della garanzia dell’articolo 18, di un incentivo economico davvero poderoso, drogando in questo modo le assunzioni nel periodo subito successivo al Jobs Act, nell’anno 2015. Contratti instabili, senza tutele, che possono essere sciolti con un avviso e un risarcimento. Da qui i licenziamenti cresciuti. Operazione direi criminale, per avere un risultato drogato e limitato nel tempo, con contratti privi di articolo 18.Operazione costosissima: 8.000 euro l’anno per tre anni vuol dire 24.000 euro di decontribuzione a contratto. Si chiama furto di denaro pubblico. Solo che, prima, gli ispettorati Inps vigilavano e controllavano. Ora hanno smesso di farlo. Praticamente abbiamo regalato 10 miliardi agli evasori. Ecco perché sono cresciuti i contratti senza articolo 18. L’unica condizione era che il lavoratore da assumere non avesse già avuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato negli ultimi sei mesi precedenti, perché altrimenti tutti sarebbero ricorsi a licenziamenti, immediatamente seguiti dalle assunzioni con l’incentivo. La decontribuzione veniva invece concessa se il lavoratore avesse prima lavorato con contratto precario, perché queste trasformazioni sarebbero state utilizzate dalla propaganda e diventate il fiore all’occhiello del governo Renzi come grande protagonista della lotta al precariato. E i contratti infatti ora diminuiscono. Nel corso del 2015 si sono registrati 1,4 milioni di nuovi rapporti a tempo indeterminato incentivati, ma con quasi 500.000 trasformazioni di contratti a termine e quasi 100.00 di contratti di apprendistato, oltre alle trasformazioni di centinaia di migliaia di “co.co.pro.”, figura giuridica abrogata dal gennaio di quest’anno.Ma c’è dell’altro. Nel 2016, la decontribuzione è stata ridotta per i contratti di quest’ultimo anno da 8.060 a 3.250 e la sua durata decurtata da 36 a 24 mesi. Allora l’imbroglio è stato svelato. L’Inps, infatti, nei primi quattro mesi del 2016 ha accertato una diminuzione del 78% dei contratti a tempo indeterminato, sostituiti da contratti precari e a termine e addirittura voucher, forma di mercificazione inaudita del lavoro umano. Possiamo parlare di bluff, e anche di reato. Le diverse centinaia di migliaia di trasformazioni dei contratti precari nascondevano una circostanza: erano quasi sempre irregolari. Mancava una causale precisa o l’insegnamento, come nell’apprendistato o il progetto, con la conseguenza che, per legge, quei rapporti dovevano essere considerati già tutti a tempo indeterminato fin dal loro inizio. E dunque l’Inps non poteva concedere la decontribuzione legata alla apparente trasformazione nei nuovi contratti a tutele crescenti. La stessa legge 190/2014 vietava di concedere la decontribuzione ai lavoratori che già fossero in realtà a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti.Il Jobs Act ha aperto anche la strada ai licenziamenti. E’ diventato un’arma di intimidazione individuale e collettiva. In una fabbrica, i lavoratori dopo aver timbrato l’ingresso volevano indossare i vestiti da lavoro necessari alle condizioni di sicurezza per quella fabbrica e poi cominciare. Il padrone invece pretendeva che la vestizione fosse fatta fuori orario. I lavoratori hanno protestato e il padrone ha licenziato subito il primo di loro che si era rifiutato. Gli altri sono stati così intimiditi. Il licenziato al massimo potrà avere 4 mensilità, e che resti a casa. Queste sono le propagandate tutele crescenti. L’articolo 18 era dunque l’ostacolo da rimuovere, l’architrave da spezzare. Una straordinaria norma anti-ricatto, che consentiva il godimento di altri diritti. Era un diritto-architrave, appunto. Oggi abbiamo lavoratori sotto il regime Fornero e altri con il contratto a tutele crescenti. Un balzo enorme indietro, un peggioramento enorme della disciplina del lavoro.Certamente i lavoratori hanno subìto un insulto, ma si possono riprendere tutele e diritti. Con i referendum della Cgil. Che, se passassero, cancellerebbero le tutele crescenti e abolirebbero i voucher, reintroducendo i limiti di responsabilità nella catena degli appalti. Dobbiamo sfruttrare questa occasione e farne un uso positivo per eliminare l’inferno che si è creato in Italia: via articolo 18, contratti a termine senza causale, licenziamenti e voucher. Peggio di così… Il sistema dei nuovi ammortizzatori? Sono un netto peggioramento. Abolita l’indennità di mobilità, abolite molte causali della cassa integrazione e ridotte le altre. Ora c’è il modello americano, della fabbrica a fisarmonica: licenzio e assumo, lavoratori come stracci. La tanto decantata Naspi è esattamente il contrario di ciò che deve essere la sicurezza sociale, basata com’è sul presupposto assicurativo. Perché penalizza chi ha lavorato poco. La Naspi è ridicola. Questo chiude il cerchio: abbiamo la sottrazione di tutele nel posto di lavoro, non c’è cassa integrazione e mobilità, la Naspi penalizza. Vogliono i lavoratori come cagnolini fedeli ai datori di lavoro.(Piergiovanni Alleva, dichiarazioni rilasciate a Vindice Lecis per l’intervista “Ecco perché il colossale e costoso flop del Jobs Act”, pubblicata su “Fuoripagina” il 21 novembre 2016. Il professor Alleva è uno dei più importanti giuslavoristi italiani: ha insegnato diritto del lavoro nelle università di Bologna e Ancona).Il Jobs Act? E’ la peggior legge varata nel dopoguerra, tale da provocare un salto indietro di cinquant’anni. Consiste in una sistematica distruzione dei diritti che assicuravano dignità ai lavoratori italiani. Con la pratica abolizione dell’articolo 18 dello Statuto, i lavoratori sono ormai privi di difesa contro ogni tipo di sopraffazione. Si tratta di un’operazione reazionaria molto articolata. Un attacco scientifico della finanza speculativa. Per ottenere quale risultato? E’ evidente: l’abbassamento del costo del lavoro e la spoliazione dei diritti finalizzati all’umiliazione dei lavoratori. Meno diritti, e anche meno lavoro – e di minor qualità. Il risultato è un fallimento. Il governo Renzi ha pensato di ricorrere a un costosissimo trucco che gli avrebbe consentito poi di propagandare dei risultati: dotare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato, privi però della garanzia dell’articolo 18, di un incentivo economico davvero poderoso, drogando in questo modo le assunzioni nel periodo subito successivo al Jobs Act, nell’anno 2015. Contratti instabili, senza tutele, che possono essere sciolti con un avviso e un risarcimento. Da qui i licenziamenti cresciuti. Operazione direi criminale, per avere un risultato drogato e limitato nel tempo, con contratti privi di articolo 18.
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Ma perché votare No, se poi comanda la mafia euro-Ue?
«L’orrenda verità è che qui in Italia ci possono lasciare un Senato, due, otto, o toglierlo e farne uno di bambù, o possono farne uno coi Sette Nani, Totti e la Blasi, ma qui in Italia non cambia nulla». Per Paolo Barnard, l’unico No che avrebbe senso, il 4 dicembre, «sarebbe quello di un’Italia dove la cittadinanza poi si fa sentire, sia dalla Camera che dal Senato, per riprendersi i suoi diritti», che ci sono stati “scippati”, nell’ultimo quarto di secolo, da governi e Parlamenti sostanzialmente d’accordo sul grande piano: rottamare l’Italia, asservendola al super-potere del business imposto da Bruxelles con la revoca della sovranità nazionale. Se si capisce questo, perché mai votare? «Per mantenere un sistema bicamerale che dal 1992 a oggi ha solo firmato la distruzione d’Italia? E’ questo il sistema bicamerale che volete mantenere?», si domanda Barnard. Senza un vero No al regime Ue e all’Eurozona, ogni altro voto è perfettamente inutile, sostiene il giornalista, autore del saggio “Il più grande crimine”, nel quale mostra come l’Italia sia stata “terminata”, per volere dell’élite finanziaria, col pieno consenso dei politici al potere, di destra e di sinistra.La lista degli eventi catastrofici è sterminata: «Governi tecnici fino all’ultimo D’Alema, poi Monti e Letta», quindi «le 14, diventate poi più di 36, nuove flessibilità sul lavoro dal ‘Baffetto’ in poi», senza contare «gli interventi militari», cioè «crimini contro l’umanità» in Kosovo, Afghanistan, Iraq, poi «l’appoggio italiano al disastro libico». Ma anche «i salvataggi bancari da Tremonti in poi, per ben oltre 110 miliardi di euro». E soprattutto: «I Trattati di Maastricht, Lisbona, Europact, Six Pack, Fiscal Compact, Pareggio di Bilancio in Costituzione». E ancora: l’Efsf, il Mes, l’European Semester e tutto l’impianto dell’Eurozona, «che certificarono la più indicibile perdita di sovranità monetaria, parlamentare e costituzionale della storia d’Italia, e lo sprofondamento del paese nei Piigs», da cui «lo scannatoio-pensioni della riforma Fornero/Modigliani, l’attacco all’articolo 18 e la finanziarizzazione del diritto di pensionamento, il Jobs Act e il resto dell’abominio della nano-economia di Renzi», con in mezzo «le spending review di Cottarelli e Grilli, il massacro civile dei Patti di Stabilità dei Comuni».Barnard denuncia anche «la violazione di 17 articoli della Costituzione italiana per mano dei governi Monti e Letta col benestare di Napolitano», nonché «la continuata umiliazione di Roma che bela pietà a Bruxelles prima di poter passare una legge di bilancio, o per poter spendere 10 euro per i cataclismi naturali o per l’arrivo dei migranti, mentre Francia e Germania se ne sbattono il cazzo di Bruxelles dal primo giorno dell’entrata in Eurozona». Da segnalare anche «la mancata regolamentazione delle più fallite banche di tutta Europa con 360 miliardi di euro di buchi contabili», e poi «gli aumenti di Iva proiettati al 24% e una pressione fiscale oscillante dal 44 al 72% reali, la seconda più alta al mondo». E chi ha votato questo abominio? Chi non vi si è opposto? «Risposta: una Camera dei Deputati, e un Senato, italiani. E adesso mi si viene a dire che l’apocalisse della democrazia italiana è l’eliminazione di quel Senato? Ah, perché prima invece ci tutelava?». Per Barnard, mantenere un Senato in Italia, «dopo la sua vomitevole performance degli ultimi 24 anni», ha un senso «solo e la cittadinanza capisce che non è una questione di avere Camere, Senati, sgabuzzini e tinelli», ma sovranità vera.La questione, insiste Barnard, è «avere una cittadinanza che capisca cosa pretendere da Camere e Senati, e che pretenda subito: via dall’Eurozona dell’economicidio, via dall’Europa dei tecnocrati, dal mostro di Bruxelles». Bisogna «riprendersi tutte le sovranità: legislative, monetarie, costituzionali». Occorre «capire le operazioni monetarie per ottenere la piena occupazione, il dominio pubblico sul sistema finanziario e la supremazia dell’interesse pubblico sui profitti del settore privato», e cioè «espandere il deficit di Stato a moneta sovrana, fino alla rinascita del paese». Ma Barnard è ultra-pessimista: «Nulla mai cambierà, per noi, anche con una o due Camere, due o cinque Senati, perché quell’opinione pubblica che capisca cosa pretendere da un Parlamento non ce l’abbiamo». In Gran Bretagna c’è un bicameralismo ‘snello’ che ha una specie di Senato, i Lords, che costano la metà del nostro Senato e non possono bocciare le leggi della Camera. «Ma di chi è il merito della più grande rivoluzione europea dal 1848, quella esplosa il 23 giugno con Brexit? Non certo del loro bicameralismo ‘snello’. E’ dei britannici, che si sono fatti sentie dalla politica sul tema vitale per il loro paese, ovvero la fuga dall’Unione Europea dell’economicidio». Da noi invece c’è solo Grillo, conclude Barnard: un «buffone stellato», che agli speculatori non fa nessuna paura.«L’orrenda verità è che qui in Italia ci possono lasciare un Senato, due, otto, o toglierlo e farne uno di bambù, o possono farne uno coi Sette Nani, Totti e la Blasi, ma qui in Italia non cambia nulla». Per Paolo Barnard, l’unico No che avrebbe senso, il 4 dicembre, «sarebbe quello di un’Italia dove la cittadinanza poi si fa sentire, sia dalla Camera che dal Senato, per riprendersi i suoi diritti», che ci sono stati “scippati”, nell’ultimo quarto di secolo, da governi e Parlamenti sostanzialmente d’accordo sul grande piano: rottamare l’Italia, asservendola al super-potere del business imposto da Bruxelles con la revoca della sovranità nazionale. Se si capisce questo, perché mai votare? «Per mantenere un sistema bicamerale che dal 1992 a oggi ha solo firmato la distruzione d’Italia? E’ questo il sistema bicamerale che volete mantenere?», si domanda Barnard. Senza un vero No al regime Ue e all’Eurozona, ogni altro voto è perfettamente inutile, sostiene il giornalista, autore del saggio “Il più grande crimine”, nel quale mostra come l’Italia sia stata “terminata”, per volere dell’élite finanziaria, col pieno consenso dei politici al potere, di destra e di sinistra.
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Si goda Trump, l’infame sinistra che ha tradito il popolo
«Sinistre infami», che per “progresso politically correct” intendono «la demolizione di ogni sovranità per accumulare fortune immani sull’economia speculativa». E l’economia reale? «Marcisca assieme a milioni di sfigati che non leggono il “New Yorker”, la “London Review of Books”, o “Micromega” e “Repubblica”». E adesso “godetevi” Donald Trump, dice Paolo Barnard, che avverte: «Non abbiamo ancora visto niente». Trump in realtà «iniziò a vincere» già 16 anni fa, nel 2000. Il giornalista, all’epoca impegnato a “Report”, lo disse: «Stiamo portando masse immense dritte nelle mani delle destre estreme». Era a West Miffling, «uno dei miserabili ruderi dell’ex potenza dell’acciaio Usa, parte della tragica “Rust Belt”, la cintura della ruggine che prende dentro tutta la Pennsylvania e parte dell’Ohio ma praticamente tutto il centro d’America, così chiamata perché proprio a partire da Bush Senior, e terribilmente con Bill Clinton, il cuore industriale americano fu lasciato a marcire con milioni di licenziati, esodati, tutti i cosiddetti colletti blu. Gli impieghi andavano in Cina. Vidi letteralmente intere cittadine abbandonate ai rovi con le porte delle case o negozi deserti chiusi con assi di legno inchiodate».Filmò tutto per “Report”, Barnard. La mid-class si domandava cosa mai volessero quei “bifolchi” che «ancora pretendevano un salario quando i miliardi si potevano fare a Wall Street, nella Silicon Valley e con Google». E quindi «che crepassero, a milioni, pensò l’America “educated e politcally correct” di New York e di San Francisco, cioè i Democratici e parte dei Repubblicani ‘Liberal’». Il reportage per la Gabanelli, scrive Barnard nel suo blog, includeva una manifestazione a Pittsburgh dove migliaia di anziani marciavano con il trespolo della flebo attaccata al braccio e i cartelli “O la cena, o le cure”. «Ma che cazzo volevano ’sti bifolchi che ancora pretendevano la sanità pubblica quando bastava una polizza per avere tutto? Non l’avevano? Incapaci e falliti loro, pensò l’America “educated e politcally correct” di New York e San Francisco. Poco importa se la sanità ObamaCare ha strafallito dopo aver regalato 70 miliardi di dollari alle assicurazioni. Poco importa se il manifatturiero Usa cerca oggi 3,5 milioni di lavoratori che nessuno ha mai istruito. Sapete, i ragazzi dovevano studiare economics, servizi… non essere bifolchi colletti blu».Dall’America all’Europa: Halikidiki, un villaggio nell’est greco, appena a sud di Macedonia e Bulgaria. «Fu dopo il Trattato di Maastrich e col progressivo allargamento a est della Ue che in Grecia iniziarono a piovere orde di lavoratori dell’est europeo, gente disperata per una cena e che di regola forniva la stessa manodopera di un greco al 40% in meno», racconta Barnard. «L’imbianchino di Halkidiki che incontrai, Sakis Martini, non aveva mai avuto un problema prima. Casetta, soldi, auto, e tanto lavoro. Quando l’incontrai io, aveva subito un crollo di commesse tragico». Si era ridotto a tornare alla pesca notturna per racimolare due soldi in più. «Sono albanesi, macedoni, e chissà da dove», gli disse, «ci stanno fottendo la vita». Ma a Bruxelles «una scrollata di spalle dei colletti bianchi calciava in un angolo il bifolco greco che non capiva l’illuminante destino di una Grande Unione Europea in espansione!». Stessa amarezza per il signor Elio, un pomeriggio del 2000. «Se ne stava passeggiando, mani dietro la schiena, alla periferia di Bologna, quando un cane lupo lo aggredisce. Il cane apparteneva a un campo nomadi, i rom, specie protetta dall’Unesco». Quando il malcapitato protestò coi rom, fu preso a spintoni. Si rivolse alla polizia, ma l’agente gli disse: «Non posso farci nulla. Se li tocco, quelli denunciano me». Scrisse al “Resto del Carlino” una lettera di protesta, «e gli fu risposto dall’illuminata sinistra degli allora Democratici di Sinistra che era un razzista. Tornò a casa, nero di livore, a 76 anni e con una gamba zoppa».Una sera, continua Barnard, si trovava a una cena in un salotto buono «della sinistra Pds, Ds poi Pd», in compagnia di insegnanti, psicologi, politologi. Si mise a urlare: «Questa truffa delle nuove sinistre intellettual-elitarie, voi colletti bianchi sinistra snob, politcally correct e soprattutto servi della nuova finanza mondiale, porterà milioni di occidentali a buttarsi alla destra di Gianfranco Fini o di Bush, e saranno cazzi, stolti!». Dice oggi Barnard: «Donald J. Trump ha vinto esattamente per questo. L’Europa, dalla Le Pen alla Lega, da Alba Dorata in Grecia a Hofer in Austria a Farage in Inghilterra, segue e seguirà. Lo urlai 16 anni or sono».Il “New York Times” ha un grafico oggi che fa impressione, continua Barnard. C’è una mappa bianca con solo i confini degli Stati Usa, coperta da uno sciame di micro-freccette rosse che indicano lo spostamento dei colletti blu verso Trump. «Lo sciame diventa un’invasione di locuste precisamente sopra Pittsburgh, la Pennsylvania, ma anche a ovest e a est lungo tutto la “Rust Belt”. Questo, 16 anni dopo il mio stare in piedi su quel ponte arrugginito a guardare una devastazione sociale che denunciai».Nel tritacarne, osserva Barnard, sono finite anche le classi medie americane, che vedono i loro redditi in termini reali stagnanti addirittura dal 1972, epoca Nixon. «Gente che si trovò a milioni a dormire in tenda dopo la crisi dei subprime, mentre Obama sborsava 13.000 miliardi di dollari per salvare le banche. Una classe media che oggi paga dal 4 al 12% in più su polizze sanità che non coprono neppure un diabete serio. Ci sono anche loro fra i dimenticati dal Dio Sinistra finanziaria politically correct. Ci sono anche loro fra i Trump boys». E’ semplicissimo: «La trasmutazione delle sinistre, sia europee che americane, in arroganti fighetti intellettualoidi snob, politically correct “sons of a bitch”, ’ste sinistre totalmente vendute alla nuova era della finanza speculativa, nemici giurati di qualsiasi economia reale di salari, pensioni, scuole, sanità». Questa «trasmutazione infame delle sinistre», accusa Barnard, «ha tradito per 30 anni centinaia di milioni di persone. Le ha lasciate a marcire, le ha lasciate a gridare proteste a cui veniva risposto dal New Labour di Tony Blair, dai socialisti di Mitterrand in poi, dall’infame Pds-Pd-Unipol, Monte dei Paschi-Lista Tsipras, dai Democratici Usa sopra ogni altro, cioè dalle sinistre intellettual-elitarie, colletti bianchi snob politically correct, e soprattutto servi della nuova finanza mondiale».«Sinistre infami», che per “progresso politically correct” intendono «la demolizione di ogni sovranità per accumulare fortune immani sull’economia speculativa». E l’economia reale? «Marcisca assieme a milioni di sfigati che non leggono il “New Yorker”, la “London Review of Books”, o “Micromega” e “Repubblica”». E adesso “godetevi” Donald Trump, dice Paolo Barnard, che avverte: «Non abbiamo ancora visto niente». Trump in realtà «iniziò a vincere» già 16 anni fa, nel 2000. Il giornalista, all’epoca impegnato a “Report”, lo disse: «Stiamo portando masse immense dritte nelle mani delle destre estreme». Era a West Miffling, «uno dei miserabili ruderi dell’ex potenza dell’acciaio Usa, parte della tragica “Rust Belt”, la cintura della ruggine che prende dentro tutta la Pennsylvania e parte dell’Ohio ma praticamente tutto il centro d’America, così chiamata perché proprio a partire da Bush Senior, e terribilmente con Bill Clinton, il cuore industriale americano fu lasciato a marcire con milioni di licenziati, esodati, tutti i cosiddetti colletti blu. Gli impieghi andavano in Cina. Vidi letteralmente intere cittadine abbandonate ai rovi con le porte delle case o negozi deserti chiusi con assi di legno inchiodate».
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Ue, ricatto Italia: se vince il No torna l’agguato dello spread
Ci sono due modi per commentare la lettera della Commissione europea con cui si fanno le pulci alla manovra italiana, finalmente arrivata al Tesoro. Sorridere, perché è davvero singolare che un’istituzione così importante perda il tempo col calcolo dei decimali nella legge di bilancio, quando in mare muoiono centinaia di persone, l’Italia ne accoglie 153.000 da inizio anno e altri paesi, a partire dall’Ungheria, meriterebbero molto più di una tirata d’orecchie perché di questi disperati non ne vuole vedere l’ombra. Oppure preoccuparsi. Di fronte al dramma della giungla di Calais sgombrata, ai quotidiani morti nel “Mare Mostrum”, al veto della minuscola Vallonia a un accordo internazionale, Bruxelles si sarebbe premurata di comunicare solo il 5 dicembre la sua risoluzione sulla legge di bilancio da 27 miliardi, non certo in odore di santità e perfettibile quanto si voglia. La tempestività o meno di una comunicazione comunque così rilevante può avere effetti nefasti sui mercati finanziari, che già hanno cerchiato di rosso il primo lunedì dell’ultimo mese del 2016, perché quel giorno sarà noto il risultato del referendum costituzionale.Ci mancava anche la solita pagella comunitaria. Difficile che quella sarà una giornata tranquilla, a prescindere dal contenuto della stessa comunicazione, già ampiamente anticipata peraltro da fonti di vario genere: si preannuncia un giorno del giudizio, per giunta probabilmente negativo. Gli economisti le chiamano profezie auto-avveranti e di precedenti analoghi ce ne sono. Possibile che nessuno ricordi infatti lo smottamento che provocò la diffusione, nell’agosto del 2011, di un’altra lettera, quella della Bce e della Banca d’Italia al governo Berlusconi, in cui di fatto si annunciava la fine degli acquisti dei titoli di stato se non si fosse messo mano ad un decreto legge lacrime e sangue? Con quella disclosure improvvisa sui diktat dei banchieri centrali – spedita anche a Madrid ma in questo caso rimasta riservata – si posero le basi per la tirannia dello spread, che poco dopo sarebbe arrivato a 575 punti base rispetto ai bund tedeschi, comportando un traumatico cambio di esecutivo.È di qualche giorno fa la decisione dell’agenzia di rating Fitch di mantenere a livello quasi spazzatura il voto sull’Italia, Bbb+, con prospettive, guarda caso, non più stabili ma negative, nel mentre la Francia, che è già da anni in procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo e lotta contro un debito in crescita, ha mantenuto la sua doppia A. Un divario enorme ed ingiustificato. Se non fosse per il paracadute della Bce, che col suo Quantitative Easing mette al riparo dalla speculazione i titoli di Stato del Belpaese, ci sarebbe da allacciare le cinture, perché annunciare il verdetto Ue per il 5 dicembre è un po’ come aver dato appuntamento a tutti gli hedge fund del mondo.(Roberto Sommella, “La Commissione dà appuntamento agli speculatori il 5 dicembre”, dall’“Huffington Post” del 5 dicembre 2016).Ci sono due modi per commentare la lettera della Commissione europea con cui si fanno le pulci alla manovra italiana, finalmente arrivata al Tesoro. Sorridere, perché è davvero singolare che un’istituzione così importante perda il tempo col calcolo dei decimali nella legge di bilancio, quando in mare muoiono centinaia di persone, l’Italia ne accoglie 153.000 da inizio anno e altri paesi, a partire dall’Ungheria, meriterebbero molto più di una tirata d’orecchie perché di questi disperati non ne vuole vedere l’ombra. Oppure preoccuparsi. Di fronte al dramma della giungla di Calais sgombrata, ai quotidiani morti nel “Mare Mostrum”, al veto della minuscola Vallonia a un accordo internazionale, Bruxelles si sarebbe premurata di comunicare solo il 5 dicembre la sua risoluzione sulla legge di bilancio da 27 miliardi, non certo in odore di santità e perfettibile quanto si voglia. La tempestività o meno di una comunicazione comunque così rilevante può avere effetti nefasti sui mercati finanziari, che già hanno cerchiato di rosso il primo lunedì dell’ultimo mese del 2016, perché quel giorno sarà noto il risultato del referendum costituzionale.
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Barnard: ma i padroni di Hillary temono la guerra atomica
Può sembrare assurdo, ma il rischio-guerra è minore, oggi, se la Casa Bianca finisce nelle mani del super-falco Hillary Clinton. Motivo: la Terza Guerra Mondiale non conviene ai suoi “padroni”, i signori di Wall Street. Lo sostiene Paolo Barnard, sconcertato per «l’isteria» diffusa secondo cui la Clinton – a differenza di Trump – scatenerebbe un conflitto atomico con la Russia. Errore: «Non va visto il candidato, va visto il paese», cioè gli Stati Uniti d’America, che «sono un impero», ma anche «un impero che sta crollando». Basta dare un’occhiata allo scenario geopolitico: il presidente cinese Xi Jinping che annuncia di riesumare la Via della Seta, «cioè di ricostruire l’Impero cinese dallo Stretto di Malacca fino alle porte della Turchia», e «il girone infernale del Medio Oriente, quel manicomio criminale alla deriva in cui gli Usa letteralmente si sono persi, e che li ha già succhiati dentro a una catastrofe che dissanguerà una Washington anemica fino alla morte di tutta la sua politica estera», e forse «fino a una guerra nucleare». Morale: «Qualsiasi presidente americano, in tutto l’arco che va da Bernie Sanders a Ted Cruz, dovrà affrontare il crollo dell’impero, e questo significa letteralmente che ogni giorno nei prossimi cento anni è il giorno del possibile scoppio della Terza Guerra Mondiale, convenzionale o meno, indipendentemente dal candidato alla Casa Bianca».Il punto non è assolutamente se la Clinton sia più guerrafondaia di Trump, insiste Barnard nel suo blog: «La questione è quale candidato americano assillato dal crollo dell’impero resisterà più tempo prima di una dichiarazione di guerra mondiale». E la risposta fra Trump e Clinton «è senza dubbio la Clinton, perché Hillary almeno pensa», e in più «deve rispondere ai suoi padroni», mentre Trump «non pensa e risponde solo agli sbalzi di serotonina del suo cervello da mucca pazza». Sulla Clinton, ovviamente, nessuna illusione: «Sappiamo con certezza, fin dai tempi della giovane coppia Clinton in Arkansas, chi governa e possiede quella coppia di criminali internazionali. Ne conosciamo nomi cognomi e soprattutto gli interessi, che oggi si sono spostati da quelli delle lobby agricole e immobiliari degli anni ’90, a quelli di Wall Street». E qui, per Barnard, viene il punto cruciale, se si teme la Terza Guerra Mondiale: «L’ultima cosa al mondo che la finanza vuole è una guerra nucleare, semplicemente perché non esiste modello algoritmico, statistico, o tendenza di Borsa che racconti all’uomo con le scarpe da 5.000 dollari a Manhattan o a Francoforte cosa accadrebbe alla finanza in caso di guerra nucleare. Non esiste, non ce l’hanno. E gente che oggi ha in mano assets per oltre 30 volte il Pil mondiale, non rischia il culo su un modello che non conosce».Al contrario, continua Barnard, i super-potenti dell’élite finanziaria «sanno benissimo che bottoni premere, dove investire, che profitti si fanno in caso di guerra convenzionale», ma appunto, «non in caso di guerra atomica». Sicché, «la Clinton dovrà guardarli tutti in faccia prima di schiacciare il bottone rosso e non lo farà mai per prima». Al contrario, continua Barnard, Trump sarebbe completamente solo di fronte a quattro fattori ad altissimo rischio: l’espansionismo Nato alle soglie di Mosca, le nuove mini-atomiche americane, l’esplosivo derby Israele-Iran e il dilagare delle basi militari Usa. Il pericolo è motivato da ragioni drasticamente concrete: «Qualsiasi candidato alla Casa Bianca potrebbe scatenare una Terza Guerra da un giorno all’altro, perché dovrà preservare l’Impero per la sopravvivenza di 350 milioni di americani nel loro stile di vita, che non verrà mai messo in discussione, mai». Lo dimostra il fatto che persino Bernie Sanders appoggia le guerre “utili”, infatti «ha speso parole mielose per “i nostri migliori e valorosi americani”, cioè le truppe Usa in guerra, e mai ha pronunciato una singola parola per lo smantellamento totale della finanza speculativa».L’espansionismo Nato, ricorda Barnard, nasce ben prima di Trump e Clinton: fu Ronald Reagan che, «con la faccia come il culo», tradì le promesse fatte a Gorbaciov negli anni ’80 di non espandere la Nato di un metro a Est. «Oggi la Nato è letteralmente arrivata al confine con la Russia, e “deve” farlo, sempre per il solito motivo, cioè il controllo delle risorse materiali e finanziarie» del maggior numero possibile di nazioni, «e dei flussi di energia nell’interesse dell’Impero al crollo». Attenzione: Trump «non si oppone all’espansionismo, dice solo che lo devono pagare gli altri». In effetti, «non ha mai messo in programma il ritiro Nato a ovest della Polonia». Così, «la scintilla finale con Mosca rimarrà tale e quale, pronta a scoppiare, con Donald o con Hillary o con chiunque altro». E la donna «non è affatto peggio», sostiene Barnard. Sviluppi di crisi potrebbero avere tempi brevissimi, con l’impiego di armi micidiali come le mini-atomiche B-61 Model 12 per le quali Obama ha speso 1.000 miliardi di dollari. «Escluso che la Clinton possa prendere per prima una decisione atomica per i motivi detti sopra», cioè la necessità di consultare prima i suoi “padroni” di Wall Street, «la facilità dell’uso di una testata “mini” capace ad esempio di distruggere selettivamente un’area grande come 4 quartieri di Milano, si addice molto di più a un rantolo cerebrale di Trump se, poniamo, vi fosse un attentato Isis a Filadelfia con 100 morti».In assoluto, però, secondo Barnard il maggior pericolo di guerra atomica, il più realistico, «non risiede in una consolle di un bunker di Washington, ma a Tel Aviv». Norman Finkelstein definì Israele «uno Stato psicotico». Per Barnard, «i sionisti sono non solo dei criminali internazionali di comprovata devastante letalità, ma sono anche letteralmente dei pazzi». Finora, «l’unico fattore che ha impedito a Israele di usare l’atomica sull’Iran è stata la mano del “padrone” a Washington». Ora, Trump «vuole il disingaggio degli Stati Uniti soprattutto dal rapporto Iran-Usa-Israele, e l’ha detto: per prima cosa ripudierà l’accordo Obama-Rouhani sul nucleare». Questo, per Barnard, significa solo una cosa: che «verrà tolta la “sicura” dalla pistola dei pazzi genocidi sionisti», lasciando mano libera a Tel Aviv per «far partire le testate contro l’Iran», scatenando la guerra atomica. «Qui – insiste Barnard – dobbiamo scongiurare Dio di far vincere la Clinton, che invece la mano sugli psicopatici eredi di Theodor Herzl la terrà eccome».Quanto all’espansionsimo imperiale post-Urss inaugurato con Colin Powell, la “Lillypad expansion”, cioè l’espansione a foglia di ninfea delle basi Nato, se ieri era un’opzione oggi è un “obbligo assoluto” per puntellare l’impero declinante, «pena appunto la sua morte», cominciando con l’accerchiare la Via della Seta cinese in piena costruzione. «E stanno succedendo entrambe le cose contemporaneamente», con Pechino che «ha già piazzato 46 miliardi di dollari in Pakistan protetti da oltre 10.000 soldati con la mira al Golfo Persico», e intanto «sta costruendo piste di decollo per bombardieri in tutti i distretti del Sud-Est Asiatico che controlla», mentre gli Usa «stanno circondando i cinesi» com la “Lillypad expansion” «mirando proprio agli Stretti di Malacca da cui passa la gran parte dell’energia di cui necessita Pechino». Washington «semina basi e flotte, con l’aiuto dell’Australia, come ha recentemente rivelato il grande John Pilger». Dunque: «Avete voi sentito Trump parlare di un piano sensato per la distensione con la Cina?». Soprattutto: sarebbe capace, Trump, «di pensare a una cosa immensa come un piano di distensione fra potenze?». La Clinton, almeno, «non reagirà a una crisi dei missili nel Pacifico con lo sguardo demente sotto alla parrucca di un Trump».Può sembrare assurdo, ma il rischio-guerra è minore, oggi, se la Casa Bianca finisce nelle mani del super-falco Hillary Clinton. Motivo: la Terza Guerra Mondiale non conviene ai suoi “padroni”, i signori di Wall Street. Lo sostiene Paolo Barnard, sconcertato per «l’isteria» diffusa secondo cui la Clinton – a differenza di Trump – scatenerebbe un conflitto atomico con la Russia. Errore: «Non va visto il candidato, va visto il paese», cioè gli Stati Uniti d’America, che «sono un impero», ma anche «un impero che sta crollando». Basta dare un’occhiata allo scenario geopolitico: il presidente cinese Xi Jinping che annuncia di riesumare la Via della Seta, «cioè di ricostruire l’Impero cinese dallo Stretto di Malacca fino alle porte della Turchia», e «il girone infernale del Medio Oriente, quel manicomio criminale alla deriva in cui gli Usa letteralmente si sono persi, e che li ha già succhiati dentro a una catastrofe che dissanguerà una Washington anemica fino alla morte di tutta la sua politica estera», e forse «fino a una guerra nucleare». Morale: «Qualsiasi presidente americano, in tutto l’arco che va da Bernie Sanders a Ted Cruz, dovrà affrontare il crollo dell’impero, e questo significa letteralmente che ogni giorno nei prossimi cento anni è il giorno del possibile scoppio della Terza Guerra Mondiale, convenzionale o meno, indipendentemente dal candidato alla Casa Bianca».
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Scalfari sdogana l’oligarchia e i dogmi dell’élite reazionaria
L’oligarchia «è il governo dei pochi ma è la sola forma d’un governo democratico». Continua la campagna di Scalfari – tanto caro a certa (sedicente) sinistra da salotto – che, attraverso un altro ragionamento contorto e surreale, non solo giustifica l’oligarchia, ma la accomuna di nuovo alla democrazia, compiendo un’opera di mistificazione. Ci aveva già provato, infatti, con un articolo scritto all’indomani del confronto Renzi vs Zagrebelski, di cui consiglio vivamente la lettura. Ci sarebbero tante cose da dire, ma mi soffermo su di una in particolare. Innanzitutto, la democrazia (quella rappresentativa, s’intende) è sì una delega del potere (dai “molti” ai “pochi”), ma pro-tempore: questa è la prima cosa che bisogna sottolineare, visto che si parla di un mandato a scadenza, pensato apposta per non conferire permanentemente poteri a nessuno. Dopodiché, i cittadini hanno il diritto di scegliere liberamente i propri rappresentanti, tramite elezioni: la delega, dunque, segue la logica – di derivazione illuminista – del “contratto sociale”, secondo la tradizione inaugurata dal giusnaturalismo (o scuola del diritto naturale laico).La democrazia – almeno in via di principio – afferma il diritto da parte di tutti di concorrere per una carica politica (elettorato passivo), così come il diritto di voto universale (elettorato attivo). Le oligarchie, invece, il governo “dei pochi”, non contemplano la partecipazione popolare alle decisioni collettive. Possono essere manifeste, occulte, agiscono dentro e/o fuori dalle strutture preposte all’esercizio del potere e, a seconda dei casi, si basano su un diritto divino di governare le masse (oligarchie religiose: ad es. caste sacerdotali), su uno “status d’ascrizione” (aristocrazie di sangue), sulla gestione della governance economica globale (oligarchie finanziarie: banche d’affari, multinazionali, conglomerati vari), su una gestione burocratica dei processi politico-economici e sociali (oligarchie tecnocratiche: Bce, Commissione Europea) o su una presunta superiorità spirituale (oligarchie iniziatiche: società misteriosofiche/esoteriche varie; in primis la massoneria, in riferimento alle sue declinazioni interne di stampo conservatore, neo-aristocratico e reazionario, lontane dall’ideale democratico-progressista).La questione, poi, si fa ancora più sottile e malefica, se pensiamo che negli ultimi 40 anni in Occidente c’è stato questo tentativo (riuscito, ad oggi) di piegare la democrazia, lasciandola nelle forme ma svuotandola nella sostanza – dopo quello fallito di eliminarla ovunque, anche dal punto di vista formale, con l’esperimento nazifascista – facendola diventare una “oligarchia de facto”. Come? Delegittimando la politica e il ruolo dello Stato e, contemporaneamente, legittimando il mercato; grazie alle sue leggi (domanda-offerta, “mano invisibile”, ecc), una comunità di individui sarebbe in grado di auto-regolarsi, senza il bisogno di un intervento governativo. Idea, questa, che sta alla base di una vera e propria teologia dogmatica – il neoliberismo – intrinsecamente anti-democratica, neo-oligarchica e falsamente liberale. Dunque, nel momento in cui Eugenio Scalfari accomuna i due concetti sopra esposti, non solo dice qualcosa di non vero, ma è anche in malafede.Egli, infatti, cerca – in maniera assai subdola – non tanto e non solo di screditare la democrazia, quanto soprattutto (e qui sta la chiave del discorso) di legittimare – da un punto di vista filosofico – oltre che difendere, l’oligarchia stessa. Che è, in sostanza, la modalità di governo attualmente dominante in Occidente. Almeno finché la democrazia non verrà smantellata anche nelle sue forme. Prima di chiudere, riprendo un attimino la citazione iniziale e vi sottopongo una riflessione: l’oligarchia «è il governo dei pochi ma è la sola forma d’un governo democratico». Non sentite anche voi puzza di “teorie trioculari”? Questa citazione non vi ricorda – almeno vagamente – le affermazioni contenute in “The Crisis of Democracy”, famigerato rapporto della Trilateral Commission redatto nel 1975? A me sì.(Rosario Picolla, “Scalfari, l’oligarchia e la democrazia”, dal blog del “Movimento Roosevelt” del 14 ottobre 2016).L’oligarchia «è il governo dei pochi ma è la sola forma d’un governo democratico». Continua la campagna di Scalfari – tanto caro a certa (sedicente) sinistra da salotto – che, attraverso un altro ragionamento contorto e surreale, non solo giustifica l’oligarchia, ma la accomuna di nuovo alla democrazia, compiendo un’opera di mistificazione. Ci aveva già provato, infatti, con un articolo scritto all’indomani del confronto Renzi vs Zagrebelski, di cui consiglio vivamente la lettura. Ci sarebbero tante cose da dire, ma mi soffermo su di una in particolare. Innanzitutto, la democrazia (quella rappresentativa, s’intende) è sì una delega del potere (dai “molti” ai “pochi”), ma pro-tempore: questa è la prima cosa che bisogna sottolineare, visto che si parla di un mandato a scadenza, pensato apposta per non conferire permanentemente poteri a nessuno. Dopodiché, i cittadini hanno il diritto di scegliere liberamente i propri rappresentanti, tramite elezioni: la delega, dunque, segue la logica – di derivazione illuminista – del “contratto sociale”, secondo la tradizione inaugurata dal giusnaturalismo (o scuola del diritto naturale laico).