Archivio del Tag ‘sospetti’
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Il killer di Olof Palme? Chiamatelo Isis, la mano è la stessa
«Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito». Lo afferma il noto criminologo Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, un criminale di strada inizialmente fermato, ma che apparentemente non aveva motivi per uccidere il premier socialdemocratico svedese, il primo leader europeo a essere assassinato nell’Europa democratica (il secondo sarà il serbo Zoran Dijndic, nel 2003). Un caso tuttora irrisolto, pieno di ombre: comprese quelle che si allungano sulla strana morte dello scrittore Stieg Larsson, colto da malore dopo aver consegnato alla polizia un imponente dossier sui legami tra presunti killer e servizi segreti. «Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta», scrisse dal Sudamerica un certo Licio Gelli, in un messaggio indirizzato a Philip Guarino, esponente repubblicano Usa vicinissimo a George Bush senior e stretto collaboratore di Michael Ledeen, «storico e giornalista le cui vicende sono torbidamente intrecciate con l’intelligence americana», scrive l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che denuncia il ruolo degli 007 nella strategia della tensione. Una regia occulta, da cui oggi proverrebbero gli attentati in Europa firmati Isis.Tre giorni dopo quello strano messaggio di Gelli sulle “palme” svedesi in procinto di essere “abbattute”, alle 23,21 del 28 febbraio 1986, Olof Palme venne ucciso da un sicario in una strada centrale di Stoccolma, non lontano dalla stazione. Palme era il leader del partito socialdemocratico, ed era in pima linea nella lotta contro l’apartheid e i regimi autoritari in Sud America. Venne freddato con due colpi di pistola. «Ma soprattutto – aggiunge il newsmagazine “BergamoPost” – l’episodio avvenne lontano dalle telecamere, e senza che il politico fosse seguito dalla scorta, motivo per il quale l’attentatore non fu mai trovato». Un caso che ricorda, da vicino, l’omicidio di Jfk a Dallas. Sempre il “BergamoPost” ha scovato un indizio curioso: l’ultimo a vedere Palme vivo fu un giovane italiano di origini pugliesi, Nicola, che all’epoca aveva 22 anni. Oggi vive nell’hinterland della capitale svedese e ha lavorato nella ristorazione proprio a Stoccolma. La sua testimonianza è stata utilizzata dalla polizia nei giorni successivi, e ha raccontato brevemente l’accaduto anche al giornale online bergamasco. «Ho incrociato i Palme qualche minuto prima dell’omicidio, Olof e la moglie Lisbeth. Dietro la coppia camminava un uomo: ovviamente non sono riuscito a dargli una connotazione, altrimenti sarei stato molto più utile».Quando si è reso conto dell’omicidio, Nicola? «Ho sentito gli spari in lontananza, poi ho realizzato che poteva essere Palme e mi sono girato, ho guardato per un po’ e poi mi sono rimesso in cammino». L’indagine, ricorda “BergamoPost”, è stata fra le più costose della storia e, con oltre 700mila pagine di documenti accumulati, è la più ampia in tutto il mondo. La polizia interrogò il giovane italiano solo un paio di volte: «La prima alcuni giorni dopo, la seconda l’anno seguente, quando – racconta – mi fecero osservare alcuni sospetti, dei quali non riconobbi nessuno». La ricostruzione degli eventi, resa pubblica nel corso delle indagini, indica come Nicola avesse incrociato la coppia all’altezza del numero 56 di Sveavägen, la stessa via in cui, all’incrocio successivo con Tunnelgatan (dai 2 ai 3 minuti a piedi), Palme venne ucciso e la moglie ferita lievemente. Nicola vide anche, dieci metri più avanti, un uomo con una grossa giacca blu, mentre seguiva con passo spedito la coppia. Dal report della polizia, l’italiano dichiara di aver pensato che si trattasse di una guardia del corpo in borghese, ma che sembrava anche troppo anziano per essere tale. La maggior parte dei testimoni che videro l’attentatore lo descrissero come una persona fra i 35 e i 40 anni. E il primo sospettato, Christer Pettersson, ne aveva 39.Ma dov’erano le guardie del corpo? «All’epoca, in Svezia non vi erano seri timori di agguati nei confronti di personaggi politici di spicco, e la sicurezza veniva impiegata per lo più in occasione di eventi pubblici», continua “Bergamo Post”. Olof Palme, la moglie Lisbeth, il figlio e la fidanzata di quest’ultimo trascorsero la serata al cinema Grand (sempre su Sveavägen) prima di ritornare a casa. «Mårten Palme, il figlio del primo ministro, riconobbe un uomo all’uscita del cinema, la cui figura poi venne prima associata a Pettersson, poi, in un recente sviluppo, all’agente segreto sudafricano Eugene De Kock, che sarebbe stato individuato dalle telecamere della Svt il giorno dopo all’aeroporto di Stoccolma, particolare che ha ipotizzato un coinvolgimento del Sudafrica nell’uccisione». Ma l’uomo ha negato di essere mai stato in Svezia. All’epoca dell’omicidio, De Kock aveva 37 anni. La sequenza di sangue è nota: il primo ministro e la sua famiglia arrivarono all’incrocio con Tunnelgatan quando l’attentatore si parò di fronte a Palme e lasciò partire due colpi di pistola verso il primo ministro (di cui uno fatale, al petto) e uno che colpì di striscio la moglie. Poi rimase qualche secondo ad assistere alla scena, tanto da essere riconosciuto da Lisbeth Palme (e dal figlio, che lo aveva visto di fronte al cinema prima di tornare a casa con la fidanzata), la cui testimonianza portò dapprima in carcere Pettersson.«Lo stesso Pettersson, che in passato era stato condannato per omicidio ed era coinvolto in piccole attività criminali, venne poi scarcerato per mancanza di indizi», aggiunge il giornale online. «Altre quattro persone si trovavano entro una ventina di metri, molto più vicine rispetto a Nicola, ma non riuscirono a identificare l’aggressore, di cui si persero le tracce una volta che egli svoltò sulla scalinata che sovrasta Tunnelgatan». Un caso non ancora risolto, dopo 31 anni. L’arma del delitto non è mai stata trovata, ma si tratta probabilmente di una 357 Magnum. Sigge Cedergren, un malavitoso che temeva Christer Pettersson, dichiarò di aver smarrito quel tipo di pistola e che il principale sospettato sapeva dove era nascosta. Nel 2006, continua “Bergamo Post”, venne ritrovata un’arma simile sul fondo di un lago nella Svezia centrale, ma era troppo arrugginita per poter permettere qualsiasi tipo di ricostruzione. La stessa scena del crimine fu inquinata dai numerosi passanti e curiosi che assistettero all’arrivo dell’ambulanza, e poi da chi lasciò fiori e ricordi di vario genere sul marciapiede. Le indagini sul Dna vennero introdotte solo a partire dagli anni ‘90 e non era possibile, all’epoca, poterle utilizzare.Christer Pettersson, a sua volta, «è morto nel 2004 in seguito a ferite al cranio mai chiarite». Pochi mesi prima, «si era rivolto a Mårten Palme, dicendo di volerlo incontrare per parlare della morte del padre». Sfortunatamente, «l’incontro non avvenne mai, e la morte di Pettersson mise fine a qualsiasi speranza». Strano, no? L’ex principale sospettato contatta il figlio della vittima ma, prima di portergli parlare, viene ucciso da “ferite al cranio mai chiarite”. Qualcuno sta dunque lavorando nell’ombra, ancora, per impedire che emerga la verità sul caso Palme? Ne è convinto l’avvocato Carpeoro, massone, che denuncia apertamente il ruolo criminale di una parte della massoneria internazionale, al centro di torbidi intrecci e depistaggi come quelli che tuttora inquinano le indagini sul terrorismo finto-islamico che colpisce a Parigi, Londra, Nizza, Bruxelles e Berlino. L’accusa: l’élite mondialista “reazionaria” si avvale di settori dei servizi segreti per fabbricare una nuova strategia della tensione, impiegando manovalanza presentata oggi come islamista. Obiettivo: seminare il caos, la paura, perché nulla cambi e il sistema resti com’è, fondato sul dominio della finanza a spese della democrazia.Olof Palme? Un uomo-simbolo: «Era il padre spirituale del welfare europeo, il sistema di diritti estesi su cui la sinistra moderata e riformista ha costruito il benessere dell’Europa nel dopoguerra: cioè quel sistema contro cui si batte, strenuamente, l’Unione Europea del rigore e dell’austerity». E se non bastano la super-tassazione e l’euro, i tagli alla spesa e il pareggio di bilancio, a “spegnere la luce” sulla democrazia «può intervenire anche il terrorismo». Allora impegnato nel movimento socialista europeo, Carpeoro assistette personalmente a congressi del partito svedese di Palme: era il politico che, più di ogni altro – per capacità, coraggio e autorevolezza – avrebbe impresso un’impronta “sociale” alla politica europea, sbarrando la strada, sul nascere, alla presente Ue degli orrori finanziari. «Un uomo come Palme rappresentava un pericolo mortale, per questa élite: andava tolto di mezzo».Nel suo libro, pubblicato da “Revoluzione”, Carpeoro sostiene che il pericolo è più che mai vicino: e denuncia il ruolo, in molti retroscena oscuri, del politologo Michael Ledeen, «uomo Cia, esponente nella super-massoneria reazionaria nonché del B’nai B’rith, la massoneria israeliana prossima al Mossad». Secondo Carpeoro, lo stesso Ledeen – definito “vicino” a Philip Guarino all’epoca del messaggio di Gelli alla vigilia dell’omicidio Palme – sarebbe un esponente-chiave della “sovragestione” politica dell’Italia, affidata a potenti apparati. Carpeoro dichiara che Ledeen avrebbe “sovragestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e, contemporaneamente, il grillino Di Maio». Secondo questa tesi, lo stesso potere occulto manovra – da decenni – per condizionare, a nostra insaputa, il corso degli eventi. L’obiettivo sarebbe sempre lo stesso: sabotare la democrazia, di cui in Europa un leader come Olof Palme sarebbe stato un autentico campione, a danno delle lobby che oggi hanno in mano il bilancio degli Stati, per via bancaria, fino al paradosso della Bce che rappresenta l’unico, vero governo dell’Unione Europea, al riparo da qualsiasi “rischio” democratico.«Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito». Lo afferma il noto criminologo Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, un criminale di strada inizialmente fermato, ma che apparentemente non aveva motivi per uccidere il premier socialdemocratico svedese, il primo leader europeo a essere assassinato nell’Europa democratica (il secondo sarà il serbo Zoran Dijndic, nel 2003). Un caso tuttora irrisolto, pieno di ombre: comprese quelle che si allungano sulla strana morte dello scrittore Stieg Larsson, colto da malore dopo aver consegnato alla polizia un imponente dossier sui legami tra presunti killer e servizi segreti. «Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta», scrisse dal Sudamerica un certo Licio Gelli, in un messaggio indirizzato a Philip Guarino, esponente repubblicano Usa vicinissimo a George Bush senior e stretto collaboratore di Michael Ledeen, «storico e giornalista le cui vicende sono torbidamente intrecciate con l’intelligence americana», scrive l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che denuncia il ruolo degli 007 nella strategia della tensione. Una regia occulta, da cui oggi proverrebbero gli attentati in Europa firmati Isis.
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Numbers Stations, trasmissioni misteriose: destinate a chi?
Le Numbers Stations sono stazioni radio ad onde corte che trasmettono numeri in sequenza apparentemente casuale. Il fenomeno dura da molti anni e ancora nessuno è riuscito a capire né la loro funzione né da dove provengano. Il mistero delle Numbers Stations, anche se non molto conosciuto, è uno dei più intriganti in circolazione e anche uno dei più recenti. Queste particolari stazioni radio esistono da svariati anni; se ne hanno tracce addirittura sin dalla Prima Guerra Mondiale, ma agli inizi degli anni ᾽90 il fenomeno è cresciuto a dismisura, diventando un vero e proprio caso internazionale e anche una sorta di leggenda metropolitana. Un messaggio “tipo” ha una durata media di 45 minuti ed è in genere composto da blocchi di numeri che vengono letti con un intervallo regolare di pochi secondi tra l’uno e l’altro; l’inizio di ogni trasmissione è sempre dichiarato con una o più parole, quindi un esempio può essere: “Atenciòn! 12345 – 45678 – 98765”, eccetera. La parola iniziale viene solitamente ripetuta più volte prima dell’inizio della trasmissione, presumibilmente per essere sicuri che chiunque sia il ricevente si trovi in ascolto, oppure per fare in modo che capisca determinate cose.In qualche caso, oltre alla consueta parola si possono sentire una serie di “bip” elettronici o di numeri ripetuti più volte prima che abbia inizio il messaggio vero e proprio. Secondo gli esperti, questi primi blocchi di numeri starebbero a indicare il totale dei blocchi di codice contenuti nel messaggio successivo, come ad esempio: “Count 204 – Count 204 – Achtung! 12345 – 45678 – 98765”, eccetera. Questi appena descritti sono i tipi messaggio più comuni di una Numbers Station. Tuttavia nel corso degli anni si sono registrati casi più particolari, in cui i messaggi iniziavano con una musica di carillon, oppure erano caratterizzati dalla presenza di strani effetti sonori come “gong” o sirene. Per quanto riguarda la lettura dei numeri, è quasi sempre una voce maschile o una voce sintetizzata al computer a leggere il messaggio. Ma anche qui non mancano le eccezioni: ci sono state trasmissioni dove chi leggeva il codice era apparentemente un bambino, oppure una voce con un accento di un paese straniero, forse per depistare eventuali ascoltatori indesiderati sulla provenienza del messaggio; ma, a detta di molti, queste simulazioni linguistiche non sono mai riuscite tanto bene…Altri tipi di Numbers Stations sono quelle che trasmettono codice Morse o rumore, ma questo particolare tipo di stazioni sono molto più rare rispetto a quelle classiche, anche se ultimamente sono in aumento. C’è un’ultima caratteristica da non sottovalutare: le trasmissioni iniziano sempre ad orari ben precisi, tipo le 16.00. Non è quasi mai successo che siano iniziate alle 16:13 o orari simili: questo, secondo molti, starebbe a indicare il fatto che questi messaggi siano indirizzati a qualcuno che ha una sorta di “appuntamento”. Prima di cercare capire cosa ci sia dietro a tutto questo, ricapitoliamo in breve le caratteristiche di un messaggio di una Numbers Station: trasmissione a onde corte; durata di circa 45 minuti; una o più parole prima dell’inizio; blocchi di codice ripetuti con intervalli regolari; orario di inizio sempre preciso. Probabili implicazioni governative? La convinzione popolare vuole le Numbers Stations come canali di trasmissione criptati usati da spie per trasmettere informazioni in codice. Secondo questa teoria, i messaggi sarebbero cifrati con un cifrario di Vernam per evitare ogni rischio di decifrazione da parte del nemico.A supporto di chi sostiene che le Numbers Stations sarebbero usate da spie internazionali, c’è il fatto che le stazioni avrebbero cambiato le modalità delle loro trasmissioni o effettuato operazioni fuori programma in concomitanza con grandi eventi politici, come la crisi costituzionale russa del 1993: solo un caso? Ad oggi, nessun ente governativo ha mai ammesso di aver fatto uso di Numbers Stations. Tuttavia, nel 1998 un portavoce del Department of Trade and Industry, un dipartimento del governo britannico che si occupa anche di comunicazioni, dichiarò al “Daily Telegraph” che le Numbers Stations non sono cose di pubblico uso e che la gente non dovrebbe essere suggestionata da esse. In Inghilterra, per l’appunto, l’ascolto delle Numbers Stations è considerato illegale; questa legge comunque è stata fatta presumibilmente per evitare casi di spionaggio da parte di altri governi, dato che il rintracciamento delle frequenze a onde corte delle Numbers Stations è abbastanza dispendioso, sia in termini di tempo che di denaro per un semplice radioamatore.A causa del metodo di trasmissione a onde corte, è molto difficile capire da dove provenga il segnale delle stazioni. Tuttavia, grazie a errori di trasmissione o alla propagazione delle onde radio, è stato possibile avere alcuni indizi; per esempio, grazie ad un presunto errore di trasmissione negli anni ‘90, si riuscì a capire che la stazione ribattezzata “Atencion” si trovasse a Cuba, dato che per un breve lasso di tempo la stazione “Radio Habana Cuba” venne trasmessa nelle frequenze di questa Numbers Station. Nel 2000 gli Usa riconobbero ufficialmente la provenienza cubana della stazione “Atencion”, che in seguito venne perseguita legalmente dalla giustizia statunitense. Tutti i governi sospettati di essere implicati con le Numbers Stations hanno sempre smentito di aver fatto uso di questi metodi di trasmissione; in effetti, se fossero effettivamente trasmissioni governative, un dubbio verrebbe naturale: perché svariati governi di tutto il mondo avrebbero fatto uso tutti dello stesso metodo di trasmissione segreto? Questo, a rigor di logica, non avrebbe senso. Considerando questo fatto, saremmo di nuovo al punto di partenza… ma allora a cosa servono, e che cosa sono queste misteriose stazioni radiofoniche?Altre possibili funzioni? Come abbiamo già detto in precedenza, l’ipotesi più gettonata sulle Numbers Stations è quella del metodo segreto di trasmissione tra spie governative, ma se consideriamo l’ultima riflessione del paragrafo precedente, si aprono altri scenari. Tra chi è convinto che la pista governativa sia falsa perché troppo sconveniente, c’è chi sostiene che le stazioni sarebbero utilizzate non da governi, ma bensì da organizzazioni internazionali segrete, delle quali non si conoscerebbero gli effettivi scopi. Oltre a quest’ultima sono state prodotte le più svariate teorie sulle Numbers Stations. Come al solito, in questi casi il web negli ultimi anni ha contribuito a far crescere il fenomeno e a far sì che ognuno potesse dire la sua; per questo motivo sarebbe impossibile riportare tutte le ipotesi fatte in merito. Quindi concludiamo osservando che la funzione di queste stazioni è un vero e proprio rompicapo da circa 50 anni ormai. E, data la difficoltà di captarle e di capire a cosa servano, questo mistero è destinato probabilmente a durare ancora per molto tempo.(“Number Stations, le stazioni radio misteriose”, post redatto da “Blackstar” sul blog “Il Sapere” l’8 aprile 2017. Il blog segnala inoltre la presenza sul web di siti Internet attraverso i quali scaricare Cd contenenti registrazioni di trasmissioni delle Numbers Stations captate via radio, e dà indicazioni sui cifrari utilizzati e sulle fonti disponibili per approfondire).Le Numbers Stations sono stazioni radio ad onde corte che trasmettono numeri in sequenza apparentemente casuale. Il fenomeno dura da molti anni e ancora nessuno è riuscito a capire né la loro funzione né da dove provengano. Il mistero delle Numbers Stations, anche se non molto conosciuto, è uno dei più intriganti in circolazione e anche uno dei più recenti. Queste particolari stazioni radio esistono da svariati anni; se ne hanno tracce addirittura sin dalla Prima Guerra Mondiale, ma agli inizi degli anni ᾽90 il fenomeno è cresciuto a dismisura, diventando un vero e proprio caso internazionale e anche una sorta di leggenda metropolitana. Un messaggio “tipo” ha una durata media di 45 minuti ed è in genere composto da blocchi di numeri che vengono letti con un intervallo regolare di pochi secondi tra l’uno e l’altro; l’inizio di ogni trasmissione è sempre dichiarato con una o più parole, quindi un esempio può essere: “Atenciòn! 12345 – 45678 – 98765”, eccetera. La parola iniziale viene solitamente ripetuta più volte prima dell’inizio della trasmissione, presumibilmente per essere sicuri che chiunque sia il ricevente si trovi in ascolto, oppure per fare in modo che capisca determinate cose.
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Fonti Usa: Siria, l’attacco coi gas è opera di Israele e sauditi
Il giornalista pluripremiato che indagò sul caso Iran-Contra, Robert Parry, sostiene che l’attacco con armi chimiche in Siria sia stato lanciato da una base congiunta saudita-israeliana per le operazioni speciali situata in Giordania, secondo quanto gli hanno riferito le sue fonti di intelligence. Gli analisti dei servizi segreti Usa hanno stabilito che un drone è stato responsabile dell’attacco e «alla fine sono giunti a ritenere che il volo sia stato lanciato in Giordania da una base per operazioni speciali saudita-israeliana a sostegno dei ribelli siriani», secondo la fonte. «La ragione sospettata per l’uso del gas velenoso era quella di creare un incidente che avrebbe rovesciato l’annuncio dell’amministrazione Trump di fine marzo sul fatto che non stesse più cercando la rimozione del presidente Bashar al-Assad», scrive Parry. Come evidenziammo già nel 2013, dopo un altro attacco con armi chimiche presso Al-Ghouta che venne attribuito ad Assad, i ribelli ammisero spontaneamente al corrispondente della “Associated Press” Dale Gavlak che erano stati riforniti delle armi dall’Arabia Saudita, ma avevano «maneggiato le armi in modo improprio e fatto partire le esplosioni».Il retroterra professionale di Parry conferisce credibilità alle informazioni. A suo tempo aveva dato copertura informativa allo scandalo Iran-Contra per l’“Associated Press” e per il settimanale “Newsweek” e successivamente fu insignito del premio George Polk per il suo lavoro sulle questioni di intelligence. La tesi secondo cui l’incidente ha costituito un’operazione “false flag” intesa a creare una giustificazione per degli attacchi aerei è stata ventilata anche dall’ex parlamentare Ron Paul così come da numerose altre voci di spicco, compreso lo stesso Vladimir Putin, che ha continuato a mettere in guardia sul fatto che i ribelli potrebbero ora mettere in scena un incidente simile a Damasco per pungolare gli Stati Uniti al rovesciamento di Assad. A chiunque si attribuisca la responsabilità dell’attacco, ciò non toglie nulla all’orrore di questo evento e al fatto che persone innocenti e bambini siano morti. Nel riscontrare quanto sia pesante nelle asserzioni ma priva di prove vere e proprie, Parry ha respinto la relazione di quattro pagine pubblicata dal Consiglio di Sicurezza Nazionale e diffusa dal presidente Trump, che accusa il governo siriano per l’attacco chimico.Il libro bianco afferma che «non possiamo rilasciare pubblicamente tutte le notizie di intelligence disponibili su questo attacco a causa della necessità di proteggere fonti e metodi», anche se, come sottolinea Parry, «in situazioni altrettanto tese in passato, i presidenti Usa hanno rilasciato dati sensibili di intelligence per dare man forte alle asserzioni del governo Usa, tra cui la divulgazione dei voli di spionaggio U-2 da parte di John F. Kennedy nel corso della crisi missilistica cubana del 1962 e la rivelazione di Ronald Reagan sulle intercettazioni elettroniche dopo l’abbattimento sovietico del volo 007 della Korean Airlines nel 1983». Parry ha sfidato l’amministrazione Trump a rendere le sue prove disponibili pubblicamente, ma ha anche chiesto lumi sul motivo per cui sia il direttore della Cia, Mike Pompeo, sia il direttore della National Intelligence, Dan Coats, non apparivano in una foto rilasciata dalla Casa Bianca, che mostra il presidente e una dozzina dei suoi consiglieri monitorare l’attacco missilistico del 6 aprile da una stanza nella sua tenuta di Mar-a-Lago in Florida. «Data la casistica sporadica in cui dal presidente Trump si ottengono i fatti correttamente, lui e la sua amministrazione dovrebbero fare uno sforzo in più per presentare prove inconfutabili a sostegno delle sue valutazioni, non solo insistendo sul fatto che il mondo deve “fidarsi di noi”», conclude Parry.(Paul Joseph Watson, “Fonti intelligence Usa: l’attacco chimico in Siria partito da base saudita”, da “Infowars” del 13 aprile 2017, tradotto e ripreso da “Megachip”).Il giornalista pluripremiato che indagò sul caso Iran-Contra, Robert Parry, sostiene che l’attacco con armi chimiche in Siria sia stato lanciato da una base congiunta saudita-israeliana per le operazioni speciali situata in Giordania, secondo quanto gli hanno riferito le sue fonti di intelligence. Gli analisti dei servizi segreti Usa hanno stabilito che un drone è stato responsabile dell’attacco e «alla fine sono giunti a ritenere che il volo sia stato lanciato in Giordania da una base per operazioni speciali saudita-israeliana a sostegno dei ribelli siriani», secondo la fonte. «La ragione sospettata per l’uso del gas velenoso era quella di creare un incidente che avrebbe rovesciato l’annuncio dell’amministrazione Trump di fine marzo sul fatto che non stesse più cercando la rimozione del presidente Bashar al-Assad», scrive Parry. Come evidenziammo già nel 2013, dopo un altro attacco con armi chimiche presso Al-Ghouta che venne attribuito ad Assad, i ribelli ammisero spontaneamente al corrispondente della “Associated Press” Dale Gavlak che erano stati riforniti delle armi dall’Arabia Saudita, ma avevano «maneggiato le armi in modo improprio e fatto partire le esplosioni».
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Carpeoro: oligarchi in guerra, e idioti che tifavano Trump
«Stupiti che Trump abbia sparato missili sulla Siria? Friggeva dalla voglia di farlo, e finalmente l’ha fatto. Con buona pace dei tanti idioti che avevano creduto in lui, come fosse qualcosa di diverso dai suoi predecessori». In collegamento con Fabio Frabetti di “Border Nights”, l’autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” spiega così l’ultimo sussulto di guerra in Medio Oriente: «E’ la guerra degli oligarchi, sgomitano per non restare indietro: sanno che le risorse del pianeta stanno per finire, e ciascuno tenta di conquistare la prima fila per mettere in atto il suo Piano-B». Soldi, interessi. Nient’altro. Da conquistare con ogni mezzo, dai missili al terrorismo “false flag”, targato Isis, che nel frattempo colpisce anche la Svezia, a Stoccolma, con il “solito” veicolo lanciato sulla folla, come già a Nizza, a Berlino, a Londra. Carpeoro legge gli indizi dell’escalation: «Tanti attentati, in serie, temo preparino un attentato più devastante». Il metodo del camion-kamikaze? Micidiale: «Costi minimi, rischio zero, potenzialità di fare enormi danni: gli stessi di un grosso investimento in termini di intelligence, che però comporterebbe alti costi e grandi rischi». Strada ormai obbligata, per l’Isis: «Senza più una base territoriale, è più semplice mandare in giro dei “cani sciolti”, destinati a colpevolizzare l’Islam, che ovviamente non c’entra niente».
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Scie chimiche: schermare il Sole per “proteggere” la Terra?
Scie chimiche? La meno complottista delle teorie è forse anche la peggiore: irrorare il cielo per creare un velo persistente che attenui l’impatto del sole, scongiurando il cataclisma del surriscaldamento. Un’incognita immensa: nessuno sa che impatto possa avere, questo stratagemma, sull’ecosistema terrestre, continenti e oceani. E’ una riflessione che Giulietto Chiesa ha riproposto di recente, in un dibattito al Senato con politici e scienziati. Del “fenomeno” sappiamo pochissimo, tranne quello che si vede a occhio nudo: i nostri cieli sono ormai gremiti di scie bianche rilasciate dagli aerei. Scie che restano nell’aria per ore, espandendosi, fino a diventare nuvole. Sembra l’applicazione, alla lettera, delle teorie di Edward Teller, il fisico ungherese (naturalizzato statunitense), padre della bomba all’idrogeno e probabile ispiratore del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Si chiama Solar Radiation Management, l’ipotetico “scudo solare termico” che si andrebbe allestendo, da diversi anni, nel tentativo di ridurre l’effetto della radiazione solare facendola “rimbalzare” su un velo chimico chiaro, riflettente. Un’operazione necessariamente coperta, segreta, gestita da militari, impossibile da divulgare e ammettere.Non abbiamo prove, soltanto indizi: le scie nel cielo sono protette dal silenzio assoluto di qualsiasi istituzione, nonostante il proliferare di voci isolate, denunce, sospetti, qualche ammissione parziale, svariati indizi: Putin che vieta sorvoli di aerei Lufthansa, lo scienziato aerospaziale Douglas Rowland (Nasa) che dichiara che il carburante dei velivoli sarebbe addizionato con il litio, sostanza usata da decenni in ambito psichiatrico. Commentando lo studio dell’Us Air Force, “Owning the weather”, il generale Fabio Mini, già capo della missione Nato in Kosovo, spiega che “possedere il clima” significa utilizzarlo “as a force multiplier”, come moltiplicatore di forza, in ambito militare. Il sottilissimo “fim” creato nella ionosfera sarebbe uno “schermo artificiale” perfetto per ricevere le emissioni radio del sistema Haarp (stazioni in Alaska, Australia e Sicilia, la base Muos di Niscemi) destinate a coordinare in tempo reale le forze armate sparse in tutto il mondo – ma anche, si sospetta, a condizionare il clima di intere regioni del pianeta provocando siccità, inondazioni, forse anche terremoti e tsunami. Complottismo?Se ancora mancano le prove, Giulietto Chiesa si interroga sul possibile movente. Semplicissimo, terribilmente banale: il global warming è una realtà ormai anche scientifica, la Terra si sta velocemente surriscaldando a causa dell’emissione di gas serra provocati dal consumo di carbone e metano, e nessuno – nessun paese, nessun governo – è in grado di fermare le macchine, riducendo l’anidride carbonica e il metano. Per questo, forse, si ricorre alle teorie di Teller: attenuare l’azione del sole, senza però avere la minima idea dell’impatto che questo possa avere sul delicato equilibrio degli ecosistemi. Per questo, se l’operazione è davvero in corso, è impossibile averne conferma: nessuno potrebbe assumersene le responsabilità, ufficialmente. Se il “movente” è innanzitutto ecologico – prima che strategico, militare, geopolitico – allora la situazione è più grave del previsto: significherebbe che si sta tentando, alla cieca, si trovare soluzioni d’emergenza, disperate, a una situazione ormai fuori controllo, che preoccupa l’élite in modo inconfessabile. Ma questi, ribadisce Chiesa, sono soltanto interrogativi: oggi è impossibile pretendere risposte certe dai servizi segreti, perché non esistono forze politiche democratiche capaci di reclamare verità da offrire ai cittadini. Regna il silenzio, mentre il cielo si va riempiendo di scie bianche: domande mute, a cui nessuno vuole rispondere.Scie chimiche? La meno complottista delle teorie è forse anche la peggiore: irrorare il cielo per creare un velo persistente che attenui l’impatto del sole, scongiurando il cataclisma del surriscaldamento. Un’incognita immensa: nessuno sa che impatto possa avere, questo stratagemma, sull’ecosistema terrestre, continenti e oceani. E’ una riflessione che Giulietto Chiesa ha riproposto di recente, in un dibattito al Senato con politici e scienziati. Del “fenomeno” sappiamo pochissimo, tranne quello che si vede a occhio nudo: i nostri cieli sono ormai gremiti di scie bianche rilasciate dagli aerei. Scie che restano nell’aria per ore, espandendosi, fino a diventare nuvole. Sembra l’applicazione, alla lettera, delle teorie di Edward Teller, il fisico ungherese (naturalizzato statunitense), padre della bomba all’idrogeno e probabile ispiratore del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Si chiama Solar Radiation Management, l’ipotetico “scudo solare termico” che si andrebbe allestendo, da diversi anni, nel tentativo di ridurre l’effetto della radiazione solare facendola “rimbalzare” su un velo chimico chiaro, riflettente. Un’operazione necessariamente coperta, segreta, gestita da militari, impossibile da divulgare e ammettere.
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L’Ue imbroglia: ok al glifosato della Monsanto, cancerogeno
L’Unione Europea aiuterà la Monsanto ad avvelenarci per altri 15 anni con un micidiale diserbante come il glifosato. E’ un rischio concreto, denunciato da “Sustainable Pulse”, network di scienziati e attivisti impegnati sul fronte dell’agricoltura sostenibile e contro gli Ogm, dopo la recente decisione dell’agenzia europea per le sostanze chimiche di non considerare il controverso diserbante come un probabile cancerogeno. Tutto ciò, rileva “Voci dall’Estero”, nonostante diversi studi indipendenti – esaminati anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – abbiano suggerito che si dovrebbe considerarlo tale, quantomeno in via precauzionale. «La Ue ha chiaramente calpestato la propria prassi per la sicurezza alimentare». In più, anche se «la cosa ovviamente non ci sorprende», per “Voci dall’Estero” c’è anche «il sospetto di conflitto di interessi nella commissione incaricata della valutazione», che potrebbe «spianare la strada a un rinnovo di 15 anni dell’autorizzazione».Seguendo quanto già fatto dall’Efsa, l’autorità europea per la sicurezza alimentare – scrive “Sustainable Pulse” – anche l’Echa, l’agenzia per la chimica, «ha respinto l’evidenza scientifica che mostrava che il controverso diserbante chiamato glifosato potrebbe essere cancerogeno». Si tratta di uno dei diserbanti più diffusi al mondo, che la Iarc (l’agenzia per la ricerca sul cancro, una costola dell’Oms) aveva già classificato come “probabile” causa di tumori. Per arrivare alla sua conclusione, Bruxelles «ha rifiutato lampanti prove scientifiche raccolte in laboratorio sugli animali, ha ignorato gli avvertimenti lanciati da oltre 90 ricercatori indipendenti e si è basata su studi non pubblicati commissionati dagli stessi produttori di glifosato». La denuncia è firmata Greenpeace, la cui direttrice dell’unità europea per la politica alimentare, Franziska Achterberg, protesta: «L’agenzia si è spinta molto in là nel momento in cui ha rifiutato tutte le prove che il glifosato potrebbe causare il cancro: le ha nascoste come la polvere sotto il tappeto».«I dati a disposizione – aggiunge la Achterberg – superano di gran lunga il limite legale necessario perché la Ue sia tenuta a bandire l’uso del glifosato, eppure l’agenzia ha preferito guardare dall’altra parte». Se pretende di rispettare le risultanze scientifiche, l’Unione Europea «non può distorcere l’evidenza dei fatti». E attenzione: «Se la Ue non opera come sarebbe tenuta a fare, le persone e l’ambiente continueranno a essere le cavie da laboratorio dell’industria chimica». Come per la valutazione dell’autorità europea per la sicurezza alimentare, anche il parere dell’agenzia per le sostanze chimiche si è basata su un dossier iniziale preparato dal Bfr, l’istituto federale tedesco per la valutazione dei rischi, che però – a detta di Ong e scienziati indipendenti – contraddice l’evidenza scientifica, sottolinea “Sustainable Pulse”. E dire che l’Echa è responsabile della classificazione Ue sulla pericolosità della chimica: ogni sostanza va classificata come “presumibilmente” cancerogena quando almeno due studi indipendenti dimostrano che causa un aumento dell’incidenza del cancro in una stessa specie. La Iarc (Oms) ha provato la proliferazione di tumori in due studi sui topi sottoposti al glifosato, ma l’Ue li ha ignorati.L’agenzia europea, aggiunge “Sustainable Pulse”, ha inoltre respinto altri indizi di una possibile cancerogenicità del glifosato negli esseri umani, nonché le prove sulla presenza, nel glifosato, di due caratteristiche associate alle sostanze cancerogene, tutte cose documentate dalla Iarc. «Secondo le leggi Ue sui pesticidi, le sostanze classificate come “presumibilmente” cancerogene non possono essere utilizzate, a meno che il rischio per l’uomo non sia “trascurabile”». Le organizzazioni ambientaliste e per la salute sollevano preoccupazioni per possibili conflitti d’interessi all’interno della commissione responsabile della valutazione del glifosato, e criticano la scelta dell’agenzia stessa di basarsi su studi non pubblicati condotti dalle stesse industrie chimiche. A febbraio, associazioni e cittadini hanno lanciato un appello alla Commissione Europea affinché proibisca l’uso del glifosato e riformi il processo Ue di approvazione dei pesticidi, stabilendo obiettivi vincolanti per la loro riduzione. Quasi mezzo milione di persone hanno già firmato la petizione.L’Unione Europea aiuterà la Monsanto ad avvelenarci per altri 15 anni con un micidiale diserbante come il glifosato. E’ un rischio concreto, denunciato da “Sustainable Pulse”, network di scienziati e attivisti impegnati sul fronte dell’agricoltura sostenibile e contro gli Ogm, dopo la recente decisione dell’agenzia europea per le sostanze chimiche di non considerare il controverso diserbante come un probabile cancerogeno. Tutto ciò, rileva “Voci dall’Estero”, nonostante diversi studi indipendenti – esaminati anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – abbiano suggerito che si dovrebbe considerarlo tale, quantomeno in via precauzionale. «La Ue ha chiaramente calpestato la propria prassi per la sicurezza alimentare». In più, anche se «la cosa ovviamente non ci sorprende», per “Voci dall’Estero” c’è anche «il sospetto di conflitto di interessi nella commissione incaricata della valutazione», che potrebbe «spianare la strada a un rinnovo di 15 anni dell’autorizzazione».
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E se poi, un bel giorno, scopri che non era vero niente?
Perché l’oro è così importante? L’oro, non il ferro, l’argento, altri metalli. Perché si è scoperto che l’oro, incorruttibile, può isolare al 100% da radiazioni pericolose, provenienti da tecnologie avanzate. Lo affermano i controversi studiosi della cosiddetta paleo-astronautica, che si interrogano sul singolare interesse manifestato, per l’oro, da tutti gli “dèi” dell’antichità, chiamati Viracochas sulle Ande nel regno Inca, Túatha Dé Dànann in Irlanda, Elohim in Palestina, Annunaki in Mesopotamia, Theòi in Grecia, Vimana in India. E ancora: Kachinas in Arizona, Muxul nello Yucatan presso i Maya, Dogu in Giappone, Wakinyan in Nord America presso i Lakota Sioux, Nommo in Mali presso i Dogon. Una cosa è sicura: a un certo punto, nella storia, l’oro viene improvvisamente apprezzato e ricercato, estratto, lavorato, tesaurizzato, utilizzato come valore di scambio. Tutti quegli esseri appassionati all’oro, spesso chiamati Figli delle Stelle perché comparsi a bordo di formidabili mezzi volanti, raffigurati in sculture e altorilievi ancora oggi visibili un po’ in tutto il mondo, instaurarono dominazioni di tipo coloniale, imponendo sempre – alle popolazioni assoggettate – lo stesso “sacrificio” quotidiano: bruciare, per loro, il grasso (inizialmente dei neonati primogeniti, poi solo di agnelli) presente in prossimità di certi organi, fegato e reni.Grasso che, una volta bruciato, produce un fumo inebriante e “calmante”, come spiegano nella Bibbia i sudditi di Jahwè, uno degli Elohim dell’area palestinese, divenuto celebre attraverso il drammatico racconto biblico – Jahwè (o anche Jeohwà o Jihwì, a seconda delle vocalizzazioni convenzionali introdotte solo nel medioevo dai biblisti ebrei della scuola masoretica) era il dispotico, temutissimo padrone della famiglia di Giacobbe-Israele, poi successivamente trasformato, dalla teologia, addirittura in “Dio unico”. Nell’antica Roma, quello stesso grasso era chiamato “omentum”. Stesse disposizioni: era la parte “sacra”, cioè riservata esclusivamente agli “dèi”, perché fosse bruciata (quindi “sacrificata”) solo per loro, pena la morte dei trasgressori. Quel particolare grasso che sovrasta gli organi interni non è come l’adipe, provvisorio e accumulato con l’alimentazione, ma è un grasso stratificato fin dall’infanzia, addirittura dalla nascita. Se bruciato, confermano i chimici, produce un fumo che sprigiona molecole pressoché identiche a quelle delle endorfine, fortemente psicotrope, il cui odore ricorda il profumo appetitoso che si libera dal barbecue durante una grigliata.L’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, di ritorno dallo spazio, ha dichiarato che, lassù, aleggia un odore di carne bruciata. Gli scienziati spiegano che quell’odore si diffonde, anche in un’astronave, man mano che si prolunga la missione, perché le condizioni ambientali all’interno del veicolo spaziale accelerano la morte di milioni di cellule epiteliali – morte che, appunto, produce quell’odore. Di recente, poi, ricercatori hanno scoperto che il vino rosso contiene una sostanza particolarissima, il resveratrolo, che protegge le ossa da svariate complicazioni, inclusa la “friabilità” che colpisce lo scheletro negli astronauti esposti a lunghi soggiorni orbitali. La Bibbia racconta che Jahwè beveva vino spesso e volentieri (fece impiantare una vigna a Noè, subito dopo lo sbarco dall’Arca), mentre i testi sumero-accadici riferiscono che gli Annunaki gradivano molto la birra. Elohim, Vimana e tutti gli altri: Figli delle Stelle? “Vimàn” era il nome di una compagnia aerea del Bangladesh, ricorda Mauro Biglino. “In India voliamo da tremila anni”, era uno slogan pubblicitario dell’Air India. El-Al è invece il nome della celebre compagnia israeliana.Se la tradizione rabbinica racchiusa nel Talmud ammette con assoluta tranquillità la presenza della manipolazione genetica nella Genesi – basta vedere come vennero al mondo Adamo ed Eva, disse il professor Safran, rabbino e docente universario di etica medica in Israele, all’epoca della clonazione della pecora Dolly – è davvero impossibile trascurare gli studi più recenti dei genetisti, che mettono in crisi l’evoluzionismo darwiniano: è come se fosse intervenuto qualcosa a “correggere” l’evoluzione, accelerandola – non solo per il Sapiens, ma anche per la pecora e la mucca, la patata, il grano. Cioè gli animali e i vegetali che popolavano il Gan Eden di cui parla la Bibbia, da cui i primi ibridi – Adamo ed Eva, appunto – furono allontanati preventivamente, prima cioè che potessero approfondire “le pratiche dell’albero della vita”, acquisendo cioè le medesime conoscenze, dunque il medesimo potere, dei loro “creatori”, gli Elohim, veri specialisti in genetica sperimentale, a quanto sembra.Emerge un’altra verità, dunque, sui cosiddetti “testi sacri”, da cui discende un impianto di pensiero – e di potere – almeno bimillenario. Non stupisce, quindi, il grande successo dei bestseller di Biglino, pubblicati anche da Mondadori, né l’entusiasmo delle centinaia di persone che affollano le sue frequentissime conferenze. Di Biglino si può apprezzare innanzitutto la correttezza, nella sua impostazione preliminare: non metto in discussione l’esistenza di Dio, ripete, perché non ho le certezze degli atei; mi limito a dimostrare che quella della Bibbia non è una divinità ma solo un Elohim, di cui la stessa Bibbia nomina almeno 20 “colleghi”, di equivalente status, senza peraltro mai spiegare il significato della parola Elohim, che nessuno al mondo conosce. Inoltre, nella Bibbia non sono presenti, mai, i concetti-chiave del monoteismo: creazione, eternità, immortalità, divinità. Il verbo tradotto con “creare” è Baraa, che significa dividere, separare (i cieli dalle acque, le acque dalle terre – Genesi). E della parola Olàm, ancora e sempre tradotta con “eternità”, e che in realtà significa “tempo molto lungo”, i dizionari raccomandano: non tradurla mai con il termine “eternità”.Lo scorso marzo, Biglino è stato protagonista, a Milano, di un importante confronto con eminenti teologi: un importante sacerdote e docente di teologia dell’università cattolica, un arcivescovo ortodosso, il rabbino capo della comunità ebraica di Torino e un insigne biblista, pastore valdese, co-autore di alcuni tra i più importanti dizionari di ebraico e aramaico antico. Nessuno ha messo in discussione le sue tesi. Tutti, al contrario, hanno ammesso che la Bibbia è stata ampiamente travisata. Ma lì si fermano: non denunciano, cioè, il fatto che venga ancora oggi regolarmente travisata. Dice Biglino: nel 95% dei casi, chi professa e propaga le grandi religioni monoteiste che si pretendono originate da quel libro (e quindi: Papi, vescovi, parroci, catechisti, pastori) non conosce neppure la lingua in cui quel libro è scritto. Pretende di “far dire” a quel libro determinate verità, per di più “sacre”, ma non conosce – alla lettera – il testo, nella lingua originaria. Senza contare, poi, che la Bibbia resta una raccolta (non uniforme) di testi di epoche diverse, tutti senza fonte: non è possibile risalire con certezza neppure a un autore; nessuno dei testi biblici ha una chiara paternità – tantomeno i libri più famosi e celebrati, come quello attribuito all’ipotetico profeta Isaia.Anche per questo, mezzo secolo fa, i biblisti ebraici hanno varato il “Bible Project” con il compito, entro 200 anni, di ricostruire una Bibbia più attendibile. L’unica certezza, dicono, è che la Bibbia di oggi – riveduta e corretta per l’ultima volta dai masoreti all’epoca di Carlomagno – non è l’originale. Inoltre mancano una decina di libri, pure citati qua e là: quei libri sono scomparsi. E le incongruenze sintattiche presenti nella versione masoretica dimostrano il grado di manipolazione cui quei testi sono stati sottoposti, nel corso dei secoli. Biglino dice: mi si rimprovera di offrire una lettura letterale del testo, anziché allegorica, simbologica, esoterica, teologica. Va bene, teniamo pure conto di tutte le interpretazioni possibili. Ma aggiunge: perché privarci della versione letterale, sia pure di un testo che sappiamo essere così pesantemente rimaneggiato? Non si sa neppure in che lingua fosse scritto, l’originale: all’epoca della prima stesura della Genesi, per esempio, la lingua ebraica non esisteva ancora. Dunque non sappiamo in che lingua fosse scritto, quel libro, né tantomeno come venissero pronunciate, le parole in esso contenute. Poi intervenne la traduzione in ebraico, ma con le sole consonanti; le vocali furono introdotte solo fra il VI e l’XVIII secolo dopo Cristo, quando appunto “Yhw” divenne finalmente “Jahwè” (ma aJahwènche “Jihwì” e “Jeohwah”).Nonostante tutto ciò, insiste Biglino, perché non provare a leggere il testo così com’è, dando per buona – per un attimo – l’idea che racconti fatti realmente accaduti? Si scoprirebbe, conclude, che la storia narrata – vera o falsa che sia – non è priva di coerenza. Ed è, tra l’altro, la fotocopia perfetta di molti altri libri antichi preesistenti, “sacri” e non, come la trilogia fondativa di un popolo geograficamente contiguo a quello ebraico, i sumero-babilonesi. Quei testi mesopotamici sono l’Atrahasis, l’Enuma Elish e l’Epopea di Gilgamesh. Raccontano tutti la stessa storia: e cioè l’arrivo (da cielo?) di individui potentissimi ma non onnipotenti, molto longevi ma non immortali, in possesso esclusivo di tecnologie fantascientifiche, decisi a colonizzare territori imponendo la loro legge (i comandamenti di Jahwè non sono 10, ma oltre 600) e stabilendo alleanze con singole tribù, in lotta perenne tra loro per la spartizione di piccoli territori. Il patto: voi lavorate per me (mi servite, mi nutrite, mi bruciate quel famoso grasso e mi obbedite in tutto) e io vi aiuto a conquistare “terre promesse”. Se disobbedite, vi stermino. Jahwè, è scritto nella Bibbia, arrivò a uccidere in massa 24.000 sudditi disobbedienti.Quello che Biglino contesta è che, nonostante le evidenze e le conferme provenienti dagli ambiti di studio più disparati (dall’esegesi ebraica all’autorevole École Biblique dei domenicani di Gerusalemme) le traduzioni erronee continuino a essere presenti nelle Bibbie attualmente stampate. In sintesi, il primo problema è Dio. Nella Bibbia, semplicemente, non c’è, dice Biglino. C’è Jahwè, che però è sempre in compagnia dei “colleghi” Milkòm, Kamòsh, e tanti altri. Viene tradotto con “Altissimo” il nome Eliòn, che invece è un individuo «chiaramente indicato come il capo degli Elohim: è scritto nel testo biblico che ne presiede un’assemblea, nientemeno». E addirittura è tradotto coi termini “eterno” e “onnipotente” il nome El Shaddai, letteralmente “signore della steppa”, cioè l’Elohim nel quale si imbatté Abramo. Allo stesso modo, altri termini vengono sempre tradotti in modo consapevolmente inappropriato e fuorviante: Kavod, per esempio. Il contesto biblico lo presenta come un’arma da guerra, un oggetto volante e pericoloso, dotato di armanenti micidiali. Viene tradotto: “gloria”. Così, il “Kavod di Jahwè” diventa la “gloria di Dio”.Quando appare, il Kavod solleva un gran vento, il Ruach – che viene tradotto “spirito”. Sotto il Kavod sono fissati 4 Cherubini. Mezzi meccanici volanti, secondo i rabbini: robot, monoposto. Per l’esegesi teologica cristiana, invece, i Cherubini sono “angeli”, così come gli altri “angeli”, incorporei e alati, che la Bibbia invece chiama Malachìm, presentandoli come individui in carne e ossa, di cui gli umani hanno paura – sono soldati, ufficiali degli Elohim, portaordini pericolosi, molesti, inquietanti. «L’angelo apparve alla vista di Gedeone, volando con leggerezza», e poi «scomparve», scrive la traduzione cristiana della Bibbia, che invece nell’originale, in ebraico, scrive che «il Malach» si fece vedere da Gedeone, e poi «se ne andà camminando». Pura invenzione, il volo, così come l’attraversamento miracoloso del Mar Rosso: «Nel testo c’è scritto che Mosè e i suoi attraversarono solo uno Yam Suf, un canneto. Nessun mare, tantomeno Rosso».Quanto agli “angeli”, più tardi, il fondatore del cristianesimo, Paolo di Tarso, raccomanda alle giovani donne di coprirsi il capo con il velo, se partecipano ad assemblee, e di farlo «a motivo degli angeli», poiché sono sessualmente eccitabili e poco raccomandabili, violenti. Biglino “corregge” anche l’interpretazione della comparsa dell’Arcangelo Gabriele, quello dell’Annunciazione: «Gabriele non è un nome proprio ma solo un termine comune, funzionale: deriva da Ghevèr-El, e essere “il Ghevèr di un El”, per di più “arcangelo”, significa essere un potente ufficiale di alto grado». Dallo studio condotto da Biglino appare evidente la fabbricazione artificiale di un culto, la cui radice viene attribuita a un libro debitamente leggendario, in quanto antico, scritto in una lingua sconosciuta ai più. Lo studioso contesta chi ritiene obbligatoria una lettura necessariamente cifrata: «Quando furono scritti, i testi biblici, a saper leggere e scrivere erano in pochissimi: che motivi avrebbero avuto per dover nascondere il loro racconto sotto il velo simbolico-allegorico?».La prima versione della Bibbia divulgata nel Mediterraneo oltre la Palestina, detta “Bibbia dei Settanta”, fu tradotta in greco ad Alessandria d’Egitto, secondo Biglino ricorrendo a una massiccia interpolazione interpretativa ispirata dal pensiero platonico, che – a differenza della Bibbia – contempla le nozioni filosofiche di trascendenza, divinità, creazione, eternità. Gli ebrei considerano la “Bibbia dei Settanta”, letteralmente, «una tragedia per l’umanità». Eppure, sottolinea lo stesso Biglino, è proprio quella Bibbia in greco ad aver poi originato quella in latino, che è alla base della teologia cattolica e quindi delle Bibbie in italiano per le famiglie. Il lavoro del ricercatore torinese non mette in crisi solo la teologia ufficiale su cui si basano le istituzioni religiose, ma anche l’esegesi alternativa fornita dall’esoterismo, acutamente suggestiva, fondata sulla lettura allegorica e simbolica del testo – lettura che, come quella cattolica, non mette mai in discussione la presenza della divinità nell’Antico Testamento. Diversa ancora l’interpretazione offerta dalla Cabala, che dal testo originario ricava essenzialmente relazioni, assai criptiche, tra valori numerico-simbolici, come se la Bibbia fosse in realtà una complessa trama numerica, velata dalla narrazione superficiale di eventi di per sé non così importanti quanto invece il tessuto ermetico sottostante.Certo è singolare la produzione, negli ultimi anni, di una tale quantità di informazioni, ormai di pubblico dominio, che riguardano in particolare l’interpretazione della storia antica, sacra e non, ma anche una radicale rilettura dell’approccio scientifico alla conoscenza, rivalutando sia i testi sacri, fondativi delle grandi religioni, sia l’opera di esoteristi particolarmente illuminanti – filosofi, medici, artisti, alchimisti, proto-scienziati – che tendono a fornire chiavi di interpretazione delle “leggi universali” i “leggi di natura” molto simili a quelle cui oggi pervengono i settori più avanzati della scienza stessa, a cominciare dalla fisica, dall’astrofisica, dalla geofisica, dalla meccanica quantistica, con le recenti indagini sulla reale consistenza della materia, in cui si suppone che il visibile e l’invisibile rispondano alle stesse leggi, essendo costituiti della medesima energia. Da qui le riflessioni sulla percezione del tempo e della vita stessa, sulla cosiddetta Energia Oscura, sulla Materia Bianca cerebrale di cui i neurologi ammettono di non sapere praticamente nulla.Fisici come Vittorio Marchi e Giuliana Conforto sostengono che la realtà sensibile non sia altro che rappresentazione, e che il nostro cervello non percepisca che il 2% di quanto ci circonda, sulla Terra – per non parlare dell’universo, di cui sappiamo ben poco, al di là del nostro minuscolo sistema solare. Un numero sempre maggiore di storici e antropologi sospetta che la storia sia interamente da riscrivere: a quanto pare non furono gli egizi a erigere le piramidi; quelle scoperte in Bosnia sono più antiche e più grandi di quelle dell’Egitto. Né tantomeno conosciamo la storia misteriosa dei Sumeri, che sorsero all’improvviso come civiltà già formata, in possesso di conoscenze evolute (architettura, agricoltura, scrittura). Forse, ipotizza Biglino sempre prendendo la Bibbia alla lettera, i Sumeri erano la discendenza di Caino, che – essendo cresciuto nel Gan Eden – era stato formato e istruito dagli Elohim.L’esegesi ebraica ritiene ormai in modo unanime che Abramo, storicamente, non sia mai esistito. Quantomeno, il personaggio biblico rispondente a quel nome era evidentemente un sumero, spinto dagli Elohim a vagare “lungi dalla casa di padre mio”, viaggiando fino in Palestina. Poi, i Sumeri scomparvero di colpo, in coincidenza con la distruzione delle città ribelli di Sodoma e Gomorra, operata dagli Elohim impiegando “l’arma dei terrore”, che sprigionò nell’atmosfera una nube letale – i venti dovettero sospingerla fino alla regione di Babilonia, dove è documentata la strage della popolazione (con sintomi da contaminazione nucleare) e la fuga precipitosa degli “dèi” locali, gli Annunaki, che presero il largo a bordo dei loro “carri celesti”, in tutto simili al Kavod di Jahwè.Perché l’oro è così importante? L’oro, non il ferro, l’argento, altri metalli. Forse perché si suppone che l’oro, incorruttibile, possa isolare al 100% da radiazioni pericolose, provenienti da tecnologie avanzate? Lo affermano i controversi studiosi della cosiddetta paleo-astronautica, che si interrogano sul singolare interesse manifestato, per l’oro, da tutti gli “dèi” dell’antichità, chiamati Viracochas sulle Ande nel regno Inca, Túatha Dé Dànann in Irlanda, Elohim in Palestina, Annunaki in Mesopotamia, Theòi in Grecia, mentre Vimana è il nome che in India designa le antiche, ipotetiche astronavi dei Veda. E ancora: i semi-dei “venuti dal cielo” prendono il nome di Kachinas in Arizona, Muxul nello Yucatan presso i Maya, Dogu in Giappone, Wakinyan in Nord America presso i Lakota Sioux, Nommo in Mali presso i Dogon. Una cosa è sicura: a un certo punto, nella storia, l’oro viene improvvisamente apprezzato e ricercato, estratto, lavorato, tesaurizzato, utilizzato come valore di scambio. Tutti quegli esseri appassionati all’oro, spesso chiamati Figli delle Stelle perché comparsi a bordo di formidabili mezzi volanti, raffigurati in sculture e altorilievi ancora oggi visibili in diverse parti del mondo, instaurarono dominazioni di tipo coloniale, imponendo sempre – alle popolazioni assoggettate – lo stesso “sacrificio” quotidiano: bruciare, per loro, il grasso (inizialmente dei neonati primogeniti, poi solo di agnelli) presente in prossimità di certi organi, fegato e reni.
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Italia commissariata, dal giorno della demolizione di Craxi
Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva 65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato malissimo. Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo. Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse rientrato sarebbe morto in cella. Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville, motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione giudiziaria?La seconda ipotesi francamente è più probabile. La prima è quella più diffusa nell’opinione pubblica, sostenuta con grande impegno da quasi tutta la stampa, difesa e spada sguainata da gran parte della magistratura. Craxi era stato uno degli uomini più importanti e potenti d’Italia, negli anni Ottanta, aveva goduto di grande prestigio internazionale. Si era scontrato e aveva dialogato con Reagan, col Vaticano, con Israele e i paesi Arabi, con Gorbaciov, con quasi tutti i leader internazionali. Aveva sostenuto furiose battaglie con i comunisti in Italia, con Berlinguer e Occhetto e D’Alema; e anche con la Dc, con De Mita, con Forlani, epici gli scontri con Andreotti; con la Dc aveva collaborato per anni e governato insieme. Bene, male? Poi ne discutiamo. Aveva anche firmato con la Chiesa il nuovo concordato. Morì solo solo. Solo: abbandonato da tutti. Stefania, sua figlia, racconta di quando la mamma la chiamò al telefono, nell’autunno del ‘99, e le disse che Bettino era stato ricoverato a Tunisi, un attacco di cuore. Lei era a Milano, si precipitò e poi cercò di muovere mari e monti per fare curare il padre. Non si mossero i monti e il mare restò immobile.Craxi fu curato all’ospedale militare di Tunisi. Stefania riuscì ad avere gli esami clinici e li spedì a Milano, al San Raffaele, lì aveva degli amici. Le risposero che c’era un tumore al rene e che andava operato subito, se no poteva diffondersi. Invece passarono ancora due mesi, perché a Tunisi nessuno se la sentiva di operarlo. Arrivò un chirurgo da Milano, operò Craxi in una sala operatoria dove due infermieri tenevano in braccio la lampada per fare luce. Portò via il rene, ma era tardi. Il tumore si era propagato, doveva essere operato prima, si poteva salvare, ma non ci fu verso. In quei giorni drammatici dell’ottobre 1999 Craxi era caduto in profonda depressione. Non c’è da stupirsi, no? Parlava poco, non aveva forse voglia di curarsi. Era un uomo disperato: indignato, disgustato e disperato. Stefania mi ha raccontato che lei non sapeva a che santo votarsi: non conosceva persone potenti. Il Psi non esisteva più. Chiamò Giuliano Ferrara e gli chiese di intervenire con D’Alema. Il giorno dopo Ferrara gli disse che D’Alema faceva sapere che un salvacondotto per l’Italia era impossibile, la Procura di Milano avrebbe immediatamente chiesto l’arresto e il trasferimento in carcere.Stefania chiese a Ferrara se D’Alema potesse intervenire sui francesi, i francesi sono sempre stati generosi con la concessione dell’asilo politico. Era più che naturale che glielo concedessero. Curarsi a Parigi dava qualche garanzia in più che curarsi all’ospedale militare di Tunisi. Passarono solo 24 ore e Jospin, che era il primo ministro francese, rilasciò una dichiarazione alle agenzie: «Bettino Craxi non è benvenuto in Francia». Quella, più o meno, fu l’ultima parola della politica su Craxi. Fu la parola decisiva dell’establishment italiano e internazionale. Craxi deve morire. Il 19 gennaio Craxi – per una volta – obbedì e se andò all’altro mondo. E’ curioso che quasi vent’anni dopo la sua morte, e mentre cade il venticinquesimo anniversario dell’inizio della stagione di Tangentopoli (Mario Chiesa fu arrestato il 17 febbraio del 1992, e da lì cominciò tutto, da quel giorno iniziò la liquidazione della prima repubblica), qui in Italia nessuno mai abbia voluto aprire una riflessione su cosa successe in quegli anni, sul perché Craxi fu spinto all’esilio e alla morte, sul senso dell’inchiesta Mani Pulite, sul peso della figura di Craxi nella storia della repubblica. Ci provò Giorgio Napolitano, qualche anno fa. Ma nessuno gli diede retta. Vogliamo provarci? Partendo dalla domanda essenziale: Statista o brigante.Forse sapete che Bettino Craxi negli anni Ottanta scriveva dei corsivi sull’“Avanti!”, il giornale del suo partito, firmandoli “Ghino di Tacco”. Ghino era un bandito gentiluomo vissuto verso la metà del 1200 dalle parti di Siena, a Radicofani. Boccaccio parla di lui come una brava persona. A Craxi non dispiaceva la qualifica di brigante. Perché era un irregolare della politica. Uno che rompeva gli schemi, che non amava il politically correct. Però non fu un bandito e fu certamente uno statista. Persino Gerardo D’Ambrosio, uno dei più feroci tra i Pm del pool che annientò Craxi, qualche anno fa ha dichiarato: non gli interessava l’arricchimento, gli interessava il potere politico. Già: Craxi amava in modo viscerale la politica. La politica e la sua autonomia. Attenzione a questa parola di origine greca: autonomia. Perché è una delle protagoniste assolute di questa storia. Prima di parlarne però affrontiamo la questione giudiziaria. Era colpevole o innocente? Sicuramente era colpevole di finanziamento illecito del suo partito. Lo ha sempre ammesso. E prima di lasciare l’Italia lo proclamò in un famosissimo discorso parlamentare, pronunciato in un’aula di Montecitorio strapiena e silente.Raccontò di come tutti i partiti si finanziavano illegalmente: tutti. Anche quelli dell’opposizione, anche il Pci. Disse: se qualcuno vuole smentirmi si alzi in piedi e presto la storia lo condannerà come spergiuro. Beh, non si alzò nessuno. Il sistema politico in quegli anni – come adesso – era molto costoso. E i partiti si finanziavano o facendo venire i soldi dall’estero o prendendo tangenti. Pessima abitudine? Certo, pessima abitudine, ma è una cosa molto, molto diversa dalla corruzione personale. E in genere il reato, che è sempre personale e non collettivo, non era commesso direttamente dai capi dei partiti, ma dagli amministratori: per Craxi invece valse la formula, del tutto antigiuridica, “non poteva non sapere”. Craxi era colpevole. Nello stesso modo nel quale erano stati colpevoli De Gasperi, Togliatti, Nenni, la Malfa, Moro, Fanfani, Berlinguer, De Mita, Forlani… Sapete di qualcuno di loro condannato a 10 anni in cella e morto solo e vituperato in esilio? Ecco, qui sta l’ingiustizia. Poi c’è il giudizio politico. Che è sempre molto discutibile. Craxi si occupò di due cose. La prima era guidare la modernizzazione dell’Italia che usciva dagli anni di ferro e di fuoco delle grandi conquiste operaie e popolari, e anche della grande violenza, del terrorismo, e infine della crisi economica e dell’inflazione. Craxi pensò a riforme politiche e sociali che permettessero di stabilizzare il paese e di interrompere l’inflazione.La seconda cosa della quale si preoccupò, strettamente legata alla prima, era la necessità di salvare e di dare un ruolo alla sinistra in anni nei quali, dopo la vittoria di Reagan e della Thatcher, il liberismo stava dilagando. Craxi cercò di trovare uno spazio per la sinistra, senza opporsi al liberismo. Provò a immaginare una sinistra che dall’interno della rivoluzione reaganiana ritrovava una sua missione, attenuava le asprezze di Reagan e conciliava mercatismo e stato sociale. Un po’ fu l’anticipatore di Blair e anche di Clinton (e anche di Prodi, e D’Alema e Renzi…). Craxi operò negli anni precedenti alla caduta del comunismo, ma si comportò come se la fine del comunismo fosse già avvenuta. Questa forse è stata la sua intuizione più straordinaria. Ma andò sprecata. Personalmente non ho mai condiviso quella sua impresa, e cioè il tentativo di fondare un liberismo di sinistra. Così come, personalmente, continuo a pensare che fu un errore tagliare la scala mobile, e che quell’errore di Craxi costa ancora caro alla sinistra. Ma questa è la mia opinione, e va confrontata con la storia reale, e non credo che sia facile avere certezze.Quel che certo è che Craxi si misurò con questa impresa mostrando la statura dello statista, e non cercando qualche voto, un po’ di consenso, o fortuna personale. Poi possiamo discutere finché volete se fu un buono o un cattivo statista. Così come possiamo farlo per De Gasperi, per Fanfani, per Moro. E qui arriviamo a quella parolina: l’autonomia della politica. Solo in una società dove esiste l’autonomia della politica è possibile che vivano ed operano gli statisti. Se l’autonomia non esiste, allora i leader politici sono solo funzionari di altri poteri. Dell’economia, della magistratura, della grande finanza, delle multinazionali… In Italia l’autonomia della politica è morta e sepolta da tempo. L’ha sepolta proprio l’inchiesta di Mani Pulite. C’erano, negli anni Settanta, tre leader, più di tutti gli altri, che avevano chiarissimo il valore dell’autonomia. Uno era Moro, uno era Berlinguer e il terzo, il più giovane, era Craxi. Alla fine degli anni Ottanta Moro e Berlinguer erano morti. Era rimasto solo Craxi. Io credo che fu essenzialmente per questa ragione che Craxi fu scelto come bersaglio, come colosso da abbattere, e fu abbattuto.Lui era convinto che ci fu un complotto. Sospettava che lo guidassero gli americani, ancora furiosi per lo sgarbo che gli aveva fatto ai tempi di Sigonella, quando ordinò ai carabinieri di circondare i Marines che volevano impedire la partenza di un un aereo con a bordo un esponente della lotta armata palestinese. I carabinieri spianarono i mitra. Si sfiorò lo scontro armato. Alla fine, in piena notte, Reagan cedette e l’aereo partì. Sì, certo, non gliela perdonò. Io non credo però che ci fu un complotto. Non credo che c’entrassero gli americani. Penso che molte realtà diverse (economia, editoria, magistratura) in modo distinto e indipendente, ma in alleanza tra loro, pensarono che Tangentopoli fosse la grande occasione per liquidare definitivamente l’autonomia della politica e per avviare una gigantesca ripartizione del potere di Stato. Per questo presero Craxi a simbolo da demolire. Perché senza di lui l’autonomia della politica non aveva più interpreti.Dal punto di vista giudiziario “mani pulite” ha avuto un risultato incerto. Migliaia e migliaia di politici imputati, centinaia e centinaia arrestati, circa un terzo di loro, poi, condannati, moltissimi invece assolti ( ma azzoppati e messi al margine della lotta politica), diversi suicidi, anche illustrissimi come quelli dei presidenti dell’Eni e della Montedison. Dal punto di vista politico invece l’operazione fu un successo. La redistribuzione del potere fu realizzata. Alla stampa toccarono le briciole, anche perché nel frattempo era sceso in campo Berlusconi. All’imprenditoria e alla grande finanza andò la parte più grande del bottino, anche perché decise di collaborare attivamente con i magistrati, e dunque fu risparmiata dalle inchieste. Quanto alla magistratura, portò a casa parecchi risultati. Alcuni molto concreti: la fine dell’immunità parlamentare, che poneva Camera e Senato in una condizione di timore e di subalternità verso i Pm; la fine della possibilità di concedere l’animista; la fine della discussione sulla separazione delle carriere, sulla responsabilità civile, e in sostanza la fine della prospettiva di una riforma della giustizia.Altri risultati furono più di prospettiva: l’enorme aumento della popolarità, fino a permettere al Procuratore di Milano – in violazione di qualunque etica professionale – di incitare il popolo alla rivolta contro la politica (“resistere, resistere, resistere… ”) senza che nessuno osasse contestarlo, anzi, tra gli applausi; il via libera all’abitudine dell’interventismo delle Procure in grandi scelte politiche ( di alcune parlava giorni fa Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”); l’enorme aumento del potere di controllo sulla stampa e sulla Tv; la totale autonomia. Ora a me restano due domande. La prima è questa: quanto è stata mutilata la nostra democrazia da questi avvenimenti che hanno segnato tutto l’ultimo quarto di secolo? E questa mutilazione è servita ad aumentare il tasso di moralità nella vita pubblica, oppure non è servita a niente ed è stata, dunque, solo una grandiosa e riuscita operazione di potere?E la seconda domanda è di tipo storico, ma anche umano: è giusto che un paese, e il suo popolo, riempano di fango una figura eminente della propria storica democratica, come è stato Craxi, solo per comodità, per codardia, per “patibolismo”, deturpando la verità vera, rinunciando a sapere cosa è stato nella realtà il proprio passato? Io penso di no. Da vecchio anticraxiano penso che dobbiamo qualcosa a Bettino Craxi.(Piero Sansonetti, “Da anticraxiano vi dico: gli dobbiamo qualcosa”, da “Il Dubbio” del 19 gennaio 2017).Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva 65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato malissimo. Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo. Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse rientrato sarebbe morto in cella. Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville, motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione giudiziaria?
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Verità per Regeni? Dagli 007 inglesi: l’hanno ucciso loro
Verità per Giulio Regeni? Chiedetela agli 007 inglesi, per i quali lavorava. La giusta causa della missione del giovane ricercatore? Nobile: contribuire alla democrazia in Egitto. Molto meno edificante, invece, il vero obiettivo dei suoi committenti-killer: sabotare le relazioni tra l’Italia e il governo del generale Al-Sisi, dopo che l’Eni aveva scoperto, al largo delle coste egiziane, un colossale giacimento di gas. E’ la tesi rilanciata da un analista geopolitico come Federico Dezzani, a un anno dall’atroce “sacrificio” di Regeni, trucidato e fatto curiosamente ritrovare nel modo più clamoroso e raccapricciante, esibito come vittima degli “aguzzini” del Cairo: come se la polizia di Al-Sisi, dovendo liquidare un “nemico”, fosse così folle e autolesionista da metterne in piazza la crocifissione. Il primo a lanciare la pista alternativa a quella della versione ufficiale fu il giornalista Marco Gregoretti, già inviato di “Panorama”, vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, dove furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le fonti: riservate, di intelligence. Il messaggio, chiaro: Regeni ucciso su ordine di Londra, per rovinare il business italo-egiziano.Chi invece ha contribuito a distogliere l’attenzione da questa ipotesi, scagliando l’opinione pubblica contro il regime del Cairo, è stato il gruppo “Espresso” capitanato da “Repubblica”, accusa Dezzani, intervistato da Stefania Nicoletti ai microfoni di “Border Nights”. La realtà sarebbe tutt’altra, ben nota a Roma come al Cairo e a Londra, nonché a tutti i servizi segreti presenti in territorio egiziano. Un verità così indigesta da costringere l’Egitto sulla difensiva a recitare la parte del cattivo, di fronte al governo italiano che finge di reclamare collaborazione nelle indagini, pur sapendo benissimo cosa sarebbe accaduto, in realtà, il 25 gennaio 2016 al Cairo, quando una telefonata da Londra ordinò ai killer di uccidere il coraggioso ricercatore italiano. «L’assassinio di Regeni – scrive Dezzani nel suo blog – si è dispiegato come un’articolata manovra ai danni dell’Italia: sono finiti nel mirino l’Eni e la nostra collaborazione col Cairo sul dossier libico. Ma anche una piccola società d’informatica milanese, l’Hacking Team, diventata d’intralcio al club degli spioni anglosassoni, noto come “Five Eyes”».Manipolazioni, accusa Dezzani, realizzate in collaborazione coi media mainstream: «Perché giornali e istituzioni hanno dedicato poche e stringate parole a Giovanni Lo Porto, il cooperante ucciso in Afghanistan nel gennaio 2015 da un drone statunitense? Perché hanno liquidato in pochi giorni la vicenda di Fausto Piano e Salvatore Failla, i due tecnici uccisi in Libia, dopo che un raid americano a Sabrata fece saltare le trattative per la liberazione? E perché, al contrario, la triste storia di Giulio Regeni, il ricercatore sequestrato al Cairo e poi ucciso, è stata oggetto per un anno intero del dibattito politico, di inchieste, di manifestazioni e di appelli? Si direbbe che fosse utile dimenticare le morti di Lo Porto, Piano e Failla, e facesse comodo tenere quella di Regeni sotto i riflettori, il più a lungo possibile». Non solo il caso Regeni ha monopolizzato l’attenzione dei media per un anno intero, «ma ha assunto connotati quasi ridicoli», con i giornali – “Repubblica” in primis – a dar voce ai “si dice”, ad “anonimi” che incolpano il capo della polizia criminale egiziana, il ministero dell’interno, i vertici dei servizi segreti e, dulcis in fundo, il presidente Abd Al-Sisi in persona. «Illazioni, fonti non attendibili», risponderà tranciate la magistratura italiana a distanza di poche ore.“La Repubblica”, continua Dezzani, è lo stesso giornale che, a pochi giorni dal ritrovamento del corpo di Regeni, informava il pubblico che l’Eni avrebbe dovuto a breve firmare con l’Egitto il contratto per lo sfruttamento del maxi-giacimento di Zohr, sostenendo che «congelarlo, fino ad una chiara identificazione e punizione degli assassini di Giulio, potrebbe essere una buona arma (diplomatica) di pressione». Dunque, «un qualche interesse petrolifero che esulava dalla morte del povero Regeni?», si domanda Dezzani. «Il sospetto è più che legittimo: non solo perché, come diceva Andreotti, “a pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina”, ma anche perché al battage del gruppo “L’Espresso” contro l’Egitto si affianca da subito la martellante campagna di Amnesty International», che ha sede a Londra e «solidi legami col Dipartimento di Stato americano e il variegato mondo della vecchia sinistra extra-parlamentare (ex-Lotta Continua, ex-Potere Operaio, “Il Manifesto”) che da sempre gravita nell’orbita Nato». E allora: quale “verità” hanno invocato per dodici mesi i media e le Ong? «La verità oggettiva, oppure una verità di comodo? Quella utile a scoprire i veri carnefici di Giulio Regeni, oppure quella utile all’establishment atlantico, lo stesso in cui si annidano i mandanti dell’omicidio?».In svariati post sul suo blog, Dezzani ha sviscerato a fondo la dinamica del feroce assassinio, evidenziando «tutti gli elementi che indicano una chiara regia atlantica, e inglese in particolar modo, dietro il delitto». Lo scenario è squisitamente geopolitico: tutto comincia nel luglio 2013, quando il golpe militare di Al-Sisi mette fine alla “rivoluzione colorata” del 2011 e depone il governo dei Fratelli Musulmani. Attenzione: benché islamista, la Fratellanza Musulmana è «manovrata da Londra sin dal secolo scorso». Tra il nuovo Egitto nazionalista e l’Italia i rapporti si infittiscono: interscambi commerciali, investimenti, sintonia sullo scacchiere mediorientale. Nel 2014, l’Eni si aggiudica la concessione Shorouk al largo delle coste egiziane. Nel marzo 2015, continua Dezzani nella sua ricostruzione, il vertice di Sharm El-Sheik coincide con lo zenit dei rapporti tra Roma e il Cairo: l’Italia si affida all’Egitto per risolvere il rebus libico, puntando così implicitamente sul generale Khalifa Haftar, già in buoni rapporti con i servizi segreti italiani. Ma ecco che, nel luglio 2015, un’autobomba sventra un’ala del consolato italiano al Cairo: «Rivendicato dall’Isis, l’attentato è un primo messaggio angloamericano affinché l’Italia si svincoli dall’Egitto».Un mese dopo, ad agosto, l’Eni annuncia la scoperta del maxi-giacimento Zohr all’interno della concessione Shorouk: 850 miliardi di metri cubi, la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel Mediterraneo. Ancora un mese, e nel settembre 2015 al Cairo sbarca Regeni. «Reduce da un’esperienza alla società di consulenze Oxford Analytica, il dottorando italiano all’università di Cambridge svolge un programma di studio e azione sul campo (“Participatory action research”) che lo mette in contatto con esponenti dell’opposizione di Al-Sisi: i suoi docenti, Anne Alexandre e Maha Abdelrahman, sono infatti legate al milieu della Fratellanza Mussulmana e delle “rivoluzioni colorate”». Secondo Dezzani, la decisione di “sacrificare” Regeni risale già a questa fase: «Il ricercatore è deliberatamente esposto all’ambiente dei dissidenti, informatori e spioni, così da creare il pretesto per il suo successivo sequestro e omicidio». In altre parole, sarebbe stato mandato al macello. A dicembre, intanto, al vertice marocchino di Skhirat convocato per decidere le sorti della Libia, gli angloamericani “staccano” l’Italia dal generale Haftar e la spingono verso l’effimero governo d’unità nazionale libico: «A questo punto, bisogna solo più incrinare i rapporti italo-egiziani ed estromettere, se possibile, l’Eni dalle sue concessioni».E arriva il fatidico 25 gennaio 2016: Regeni è rapito «su ordine dei servizi inglesi», scrive Dezzani, precisando che «le celle telefoniche testimoniano un traffico tra Regno Unito ed Egitto al momento del sequestro». L’operazione è affidata a «criminali comuni», oppure a «qualche sgherro della Fratellanza Musulmana». Non è neppure da escludere che i rapitori «abbiano agito in uniforme da poliziotti». Nove giorni dopo, il 3 febbraio, il cadavere di Regeni è rinvenuto alla periferia del Cairo. «Se Regeni fosse effettivamente morto durante un interrogatorio della polizia, il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato», assicura Dezzani, che aggiunge: «Grazie allo zelante ambasciatore Maurizio Massari, con una lunga esperienza a Londra e Washington alle spalle, la situazione precipita in poche ore. E la delegazione del ministro Federica Guidi, in visita in Egitto, è bruscamente richiamata in Italia. Massari sarà promosso qualche mese dopo alla carica di ambasciatore italiano presso la Ue». Il 9 aprile, l’Italia richiama l’ambasciatore, dopo un “fallimentare” vertice a Roma con le autorità egiziane. «Lo sforzo per sabotare l’attività dell’Eni in Egitto raggiunge l’acme e si avanza esplicitamente l’ipotesi che il cane a sei zampe, “visto che ha in piedi in Egitto il più grande investimento, da circa sette miliardi di euro”, faccia le dovute pressioni sul Cairo. Come? Sospendendo i progetti. Si ventilano anche possibili sanzioni economiche contro l’Egitto».A giugno, il filone delle indagini che porta in Inghilterra «si schianta contro il muro di omertà dell’università di Cambridge». Un aspetto della massima serietà. «Il rifiuto di collaborare con gli inquirenti italiani non genera però nessuna crisi diplomatica in questo caso: Londra e Washington godono infatti di una totale impunità in Italia, sin dagli accordi di Yalta del 1945». Uccidere Regeni? Due piccioni con una fava: «Sabotare la presenza italiana in Libia, separandola dalla coppia Al-Sisi/Haftar, ed estromettere l’Eni dal giacimento Zohr». Missione compiuta, a distanza di dodici mesi? Forse, osserva Dezzani, la tradizionale “elasticità” della politica estera italiana, «un po’ cerchiobottista e un po’ levantina», ha limitato i danni: «Il governo ha adottato una linea intransigente contro l’Egitto, seguendo il copione impostogli da Londra e Washington, mentre l’Eni ha mantenuto toni concilianti e filo-egiziani, così da non compromettere gli interessi italiani nella regione». Nel complesso, quindi, «i danni che i mandanti dell’omicidio Regeni volevano infliggere all’Italia sono stati circoscritti e limitati». L’Italia ha sì interrotto la collaborazione con il Cairo in Libia, però l’Eni si è alleata con la russa Rosneft per l’affare del gas. Già, ma il povero Regeni? Verrà mai il giorno in cui, finalmente, i mandanti dei suoi killer avranno un nome, al di là della recita pubblica sulla “verità” per Giulio?Verità per Giulio Regeni? Chiedetela agli 007 inglesi, per i quali lavorava, dietro copertura universitaria. La giusta causa della missione del giovane ricercatore? Nobile: contribuire alla democrazia in Egitto. Molto meno edificante, invece, il vero obiettivo dei suoi committenti-killer: sabotare le relazioni tra l’Italia e il governo del generale Al-Sisi, dopo che l’Eni aveva scoperto, al largo delle coste egiziane, un colossale giacimento di gas. E’ la tesi rilanciata da un analista geopolitico come Federico Dezzani, a un anno dall’atroce “sacrificio” di Regeni, trucidato e fatto curiosamente ritrovare nel modo più clamoroso e raccapricciante, esibito come vittima degli “aguzzini” del Cairo: come se la polizia di Al-Sisi, dovendo liquidare un “nemico”, fosse così folle e autolesionista da metterne in piazza la crocifissione. Il primo a lanciare la pista alternativa a quella della versione ufficiale fu il giornalista Marco Gregoretti, già inviato di “Panorama”, vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, dove furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le fonti: riservate, di intelligence. Il messaggio, chiaro: Regeni ucciso su ordine di Londra, per rovinare il business italo-egiziano.
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Bravi, odiate Trump. Per la Cia sarà più facile assassinarlo
Il breve discorso inaugurale del presidente Trump è stato una dichiarazione di guerra contro tutto l’establishment americano al potere. Tutto. Trump ha reso abbondantemente chiaro che i nemici degli americani sono proprio qui in casa: globalisti, economisti neoliberisti, neoconservatori e altri unilateralisti abituati ad imporre gli Stati Uniti nel mondo, che ci coinvolgono in costose guerre senza fine, e politici che servono l’establishment al potere piuttosto che gli americani; a dirla tutta, l’intera cupola di interessi privati che ha portato l’America allo sfinimento mentre gli interessati si arricchivano. Se si può dire la verità, il presidente Trump ha dichiarato guerra a se stesso, una guerra per lui molto più pericolosa che se avesse dichiarato guerra alla Russia o alla Cina. I gruppi di interesse designati da Trump come “Il Nemico” sono ben radicati e abituati a stare al potere. Le loro potenti reti di relazioni sono ancora al loro posto. Anche se ci sono maggioranze repubblicane sia alla Camera che al Senato, la maggior parte dei rappresentati del Congresso è tenuta a rispondere ai gruppi di interesse al potere che finanziano le loro campagne, e non al popolo americano e al presidente.Il complesso militare/della sicurezza, le multinazionali che delocalizzano, Wall Street e le banche, non cederanno a Trump. Né lo faranno i media prezzolati, che sono di proprietà dei gruppi di interesse il cui potere viene sfidato da Trump. Trump ha chiarito che sta dalla parte di ogni americano, nero, marrone e bianco. Pochi dubbi sul fatto che la sua dichiarazione di inclusività e apertura verrà ignorata dagli odiatori della sinistra, che continueranno a chiamarlo razzista, come già stanno facendo, mentre scrivo, i manifestanti pagati 50 dollari all’ora. In effetti, la leadership nera, per esempio, è educata al ruolo della vittima, ruolo al quale le sarebbe difficile sfuggire. Come si fa a mettere insieme persone alle quali per tutta la vita è stato insegnato che i bianchi sono razzisti e che loro sono vittime dei razzisti? Lo si può fare? Ho partecipato ad un breve programma su “Press Tv”, nel quale avremmo dovuto commentare il discorso inaugurale di Trump. L’altro commentatore era un nero americano, da Washington Dc. Il carattere inclusivo del discorso di Trump non gli ha fatto nessuna impressione, e l’ospite della trasmissione era interessato solo a mostrare le proteste dei manifestanti al fine di screditare l’America. Così tante persone hanno un interesse economico a parlare in nome delle vittime e a dire che l’apertura di Trump toglie loro lavoro.Quindi insieme ai globalisti, alla Cia, alle multinazionali che delocalizzano, alle industrie degli armamenti, all’establishment Nato in Europa, e ai politici stranieri abituati a essere pagati profumatamente per sostenere la politica estera interventista di Washington, si schiereranno contro Trump anche i leader dei gruppi vittimizzati, i neri, gli ispanici, le femministe, i clandestini, gli omosessuali e i transgender. Questa lunga lista ovviamente include anche i bianchi liberal, convinti che l’America da una costa all’altra sia abitata da bianchi razzisti , misogini, omofobi, e svitati amanti delle armi. Per quanto li riguarda, questo 84% della geografia degli Stati Uniti dovrebbe essere messo in quarantena o seppellito. In altre parole, rimane abbastanza buona volontà nella popolazione per consentire a un presidente di riunire il 16% che odia l’America con l’84% che la ama? Considerate le forze che Trump si trova contro. I leader neri e ispanici hanno bisogno del vittimismo, perché è quello che conferisce loro reddito e potere. Guarderanno con sospetto all’apertura di Trump. La sua inclusività è un bene per i neri e gli ispanici, ma non per i loro leader.I dirigenti e gli azionisti delle multinazionali sono arricchiti dalla delocalizzazione del lavoro che Trump dice che riporterà a casa. Se tornano i posti di lavoro, se ne andranno i loro profitti, i bonus e le plusvalenze. Ma tornerà la sicurezza economica della popolazione americana. Il complesso militare e della sicurezza ha un bilancio annuale di 1.000 miliardi che dipende dalla “minaccia russa”, minaccia che Trump dice di voler sostituire con una normalizzazione dei rapporti. L’assassinio di Trump non può essere escluso. Molti europei devono il proprio prestigio, il proprio potere, e i propri redditi alla Nato, che Trump ha messo in discussione. I profitti del settore finanziario derivano quasi interamente dalla schiavitù del debito cui sono sottoposti gli americani e dal saccheggio delle loro pensioni private e pubbliche. Il settore finanziario con il suo agente, la Federal Reserve, può distruggere Trump con una crisi finanziaria. La Federal Reserve di New York ha una sala operativa completa. Può mandare nel caos qualsiasi mercato. O sostenere qualsiasi mercato, perché non vi è alcun limite alla sua capacità di creare dollari.L’intero edificio politico degli Stati Uniti si è completamente isolato dal volere, dai desideri e dalle esigenze del popolo. Ora Trump dice che i politici risponderanno al popolo. Questo, naturalmente, significherebbe un forte colpo alla continuità dei loro incarichi, al loro reddito e alla loro ricchezza. C’è un gran numero di gruppi, finanziati da non-sappiamo-chi. Ad esempio, oggi RootsAction ha risposto al forte impegno di Trump di stare al fianco di tutto il popolo contro l’Establishment al Potere, con la richiesta al Congresso “di incaricare la Commissione Giustizia della Camera per un’iniziativa di impeachment” e di inviare denaro per l’impeachment di Trump. Un altro gruppo di odio, Human Rights First, attacca la difesa di Trump dei nostri confini in quanto chiude “un rifugio di speranza per coloro che fuggono dalle persecuzioni“. Pensateci per un minuto. Secondo le organizzazioni liberal-progressiste di sinistra e i gruppi di interesse razziali, gli Stati Uniti sono una società razzista e il presidente Trump è un razzista. Eppure, le persone soggette al razzismo americano fuggono dalle persecuzioni verso l’America, dove subiranno persecuzioni razziali? Non ha senso. I clandestini vengono qui per lavoro. Chiedete alle imprese di costruzione. Chiedete ai mattatoi. Chiedete ai servizi di pulizia nelle aree turistiche.La lista di quelli a cui Trump ha dichiarato guerra è abbastanza lunga, anche se se ne potrebbero aggiungere degli altri. Dovremmo chiederci perché un miliardario di 70 anni con imprese fiorenti, una bella moglie, e dei figli intelligenti, sia disposto a sottoporre i suoi ultimi anni alla straordinaria pressione di fare il presidente con il difficile programma di riportare il governo nelle mani del popolo americano. Non c’è dubbio che Trump ha fatto di sé stesso un bersaglio. La Cia non ha intenzione di mollare il colpo e andare via. Perché una persona dovrebbe farsi carico dell’imponente ricostruzione dell’America che Trump ha dichiarato di voler fare, quando poteva invece trascorrere i suoi ultimi anni godendosela immensamente? Qualunque sia la ragione, dovremmo essergli grati per questo, e se è sincero lo dobbiamo sostenere. Se viene assassinato, dobbiamo prendere le armi, radere al suolo Langley [sede centrale della Cia] e ucciderli tutti. Se avrà successo, merita il titolo: Trump il Grande! La Russia, la Cina, l’Iran, il Venezuela, l’Ecuador, la Bolivia, e qualsiasi altro paese sulla lista nera della Cia dovrebbe capire che l’ascesa di Trump non basta a proteggerlo. La Cia è una organizzazione a livello mondiale. I suoi redditizi affari forniscono delle entrate indipendenti dal bilancio degli Stati Uniti. L’organizzazione è in grado di intraprendere azioni indipendentemente dal presidente o anche dal proprio direttore. La Cia ha avuto circa 70 anni per consolidarsi. Ed esiste ancora.(Paul Craig Roberts, “La dichiarazione di guerra di Trump”, dal sito di Craig Roberts del 20 gennaio 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Il breve discorso inaugurale del presidente Trump è stato una dichiarazione di guerra contro tutto l’establishment americano al potere. Tutto. Trump ha reso abbondantemente chiaro che i nemici degli americani sono proprio qui in casa: globalisti, economisti neoliberisti, neoconservatori e altri unilateralisti abituati ad imporre gli Stati Uniti nel mondo, che ci coinvolgono in costose guerre senza fine, e politici che servono l’establishment al potere piuttosto che gli americani; a dirla tutta, l’intera cupola di interessi privati che ha portato l’America allo sfinimento mentre gli interessati si arricchivano. Se si può dire la verità, il presidente Trump ha dichiarato guerra a se stesso, una guerra per lui molto più pericolosa che se avesse dichiarato guerra alla Russia o alla Cina. I gruppi di interesse designati da Trump come “Il Nemico” sono ben radicati e abituati a stare al potere. Le loro potenti reti di relazioni sono ancora al loro posto. Anche se ci sono maggioranze repubblicane sia alla Camera che al Senato, la maggior parte dei rappresentati del Congresso è tenuta a rispondere ai gruppi di interesse al potere che finanziano le loro campagne, e non al popolo americano e al presidente.
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Poliziotti ora in pericolo, il potere stragista investe sull’odio
Quei due poliziotti di Milano ora sono in pericolo, ma a questo Stato «servono eroi da esibire», anche a rischio della loro incolumità: lo afferma l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo” che denuncia la “sovragestione” degli attentati, progettati da “menti massoniche” e coordinati da settori dei servizi segreti che utilizzano manovalanza di pretesa matrice islamista. «L’Isis è sostanzialmente una marionetta, a disposizione di Ur-Lodges reazionarie americane, prime fra tutte la “Hathor Pentalpha” e la “Three Eyes”», la cui esistenza è stata rivelata da Gioele Magaldi nel saggio “Massoni”, a fine 2014. La strage di Berlino? «Sembra attuata per colpire Angela Merkel in vista delle prossime elezioni politiche in Germania, per forzare il governo tedesco spingendolo ad assumere un atteggiamento intransigente verso l’immigrazione: come sempre – aggiunge Carpeoro – chi utilizza il terrorismo colpisce gli elementi moderati e dialoganti: in Italia fu colpito Moro perché dialogava col Pci, in Israele a cadere fu Rabin perché dialogava coi palestinesi. Gli estremisti invece non vengono mai toccati, perché seminano odio, e l’odio fa sempre comodo al potere».Riflessioni a caldo, che Carpeoro ha consegnato alla diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di Border Nights la mattina di Natale. Durissimo il giudizio dello studioso sulla decisione di esporre al pubblico l’identità dei due agenti di polizia che, a Sesto San Giovanni, hanno fermato e poi abbattuto il tunisino Anis Amri, sospettato di essere l’autore della strage di Berlino dopo il ritrovamento dei suoi documenti sotto il sedile del camion-killer. «Un terrorista “normale” non va a compiere un attentato portando con sé il passaporto: il far ritrovare prontamente il documento è la prova della “sovragestione” che ha diretto l’attentato», sostiene Carpeoro, che spiega: «Risalire immediatamente al presunto killer, in modo da neutralizzarlo subito, è estremamente utile agli strateghi del terrorismo: una prolungata caccia all’uomo manterrebbe in tensione per molto tempo le forze di polizia, e questo disturberebbe i piani dei manovratori occulti». A Milano, inoltre, l’identità dei poliziotti è stata esibita: «Il problema è questo potere ha bisogno di eroi», insiste Carpeoro, «e questa sua esigenza è superiore al tutelare la vita delle persone che lavorano per noi». Finì sotto i riflettori anche il “Capitano Ultimo”, l’ufficiale dei carabinieri coinvolto nella cattura di Riina: «Fu gettato in pasto ai porci in maniera evidente, esposto al rischio della vita in modo ancora più efferato».Carpeoro sta analizzando le clamorose analogie tra l’attentato di Nizza del 14 luglio e quello di Berlino al mercatino natalizio. Identiche modalità: «Un camion lanciato contro la folla è uno strumento probabilmente più facile da utilizzare, non richiede requisiti tecnici come invece gli esplosivi, e infine un mezzo di trasporto non suscita di per sé allarme, può sfuggire al controllo delle forze di sicurezza». Di regola, questi attentati stragicisti sono “firmati” con un corredo simbolico, «segnali in codice rivolti a chi li può intendere», nei circoli del massimo potere. In attesa di decifrare quali segni (anche nascosti) possano legare la strage di Nizza e quella di Berlino, Carpeoro avverte: «Temo che siamo di fronte a un’escalation», uno “sciame” di stragi «destinate a preparare il terreno per un evento ancora più grave e sanguinoso». La “filosofia” che muoverebbe questa regia occulta? Sempre la stessa: alimentare l’odio, attraverso il falso “scontro di civiltà”. «La paura e l’odio sono strumenti adottati dall’attuale élite di potere, il cui obiettivo è impedire qualsiasi cambiamento dello status quo, dopo che la finanza ha neutralizzato la democrazia. Non serve nemmeno una Terza Guerra Mondiale: basta e avanza quello che è già in atto, cioè un insieme di tante guerre locali». Paura, tensione, odio: funzione che, in Europa, è svolta dal terrorismo “sovragestito”, comodamente targato Isis.Quei due poliziotti di Milano ora sono in pericolo, ma a questo Stato «servono eroi da esibire», anche a rischio della loro incolumità: lo afferma l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo” che denuncia la “sovragestione” degli attentati, progettati da “menti massoniche” e coordinati da settori dei servizi segreti che utilizzano manovalanza di pretesa matrice islamista. «L’Isis è sostanzialmente una marionetta, a disposizione di Ur-Lodges reazionarie americane, prime fra tutte la “Hathor Pentalpha” e la “Three Eyes”», la cui esistenza è stata rivelata da Gioele Magaldi nel saggio “Massoni”, a fine 2014. La strage di Berlino? «Sembra attuata per colpire Angela Merkel in vista delle prossime elezioni politiche in Germania, per forzare il governo tedesco spingendolo ad assumere un atteggiamento intransigente verso l’immigrazione: come sempre – aggiunge Carpeoro – chi utilizza il terrorismo colpisce gli elementi moderati e dialoganti: in Italia fu colpito Moro perché dialogava col Pci, in Israele a cadere fu Rabin perché dialogava coi palestinesi. Gli estremisti invece non vengono mai toccati, perché seminano odio, e l’odio fa sempre comodo al potere».
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La profezia di Blondet: trovato il passaporto, lo uccideranno
Due poliziotti in mondovisione (nomi e cognomi, persiono le foto), uno di loro è ferito. E a terra, nella notte, a Sesto San Giovanni, un giovane tunisino: Anis Amri. «Era lui il killer di Berlino?», si domanda Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. «Vedete? Anche la polizia e i servizi tedeschi imparano presto», scriveva giorni fa Maurizio Blondet. «Prima si lasciano scappare il terrorista della strage di Natale; ma il giorno dopo, guardando meglio, scoprono che – come tutti i terroristi islamici – ha lasciato nel vano porta-oggetti il suo documento di prolungamento della permanenza in Germania, che è praticamente la prova della sua identità». Lo ha fatto uno dei fratelli Kouachi dopo aver sparato a quelli di Charlie Hebdo. E lo stragista di Nizza, Lahouaiej-Bouhlel? «Anche lui, prima di lanciarsi nella folle corsa omicida e suicida, pone in bella vista patente di guida, carta d’identità, telefonino, persino carte di credito». Ricorda la storia, semre uguale, dei documenti dei “terroristi” emersi tra le macerie dell’11 Settembre, in mezzo all’apocalisse. «Da allora, è una certezza per gli investigatori: cercate bene sui sedili, sotto la cenere, nella guantiera, e smetterete di brancolare nel buio». Un copione: diffondere ai media l’identità del “mostro” da braccare. Se intercettato, «invariabilmente risponde al fuoco gridando “Allah Akhbar!”. Sicchè non ne vien preso vivo uno. Succederà, possiamo profetizzarlo, anche al “tunisino “ identificato dalla polizia tedesca».Queste righe, Blondet le scriveva il 21 dicembre, cioè quasi due giorni prima l’evento sanguinoso di Milano, che ha fatto il giro del mondo. «Ma com’è che ora si pubblica, oltre al nome e cognome, anche la fotografia del poliziotto che ha appena ucciso un terrorista?», si domanda Francesco Santoianni. «Una ipotesi: Marco Minniti – da tempo immemorabile tutor dei servizi segreti e ora anche ministro dell’interno – si era reso conto che la morte di Anis Amri – identificato come il responsabile della strage con il Tir a Berlino grazie ad un ennesimo documento di identità, miracolosamente ritrovato dopo 24 ore – per mano di un ignoto avrebbe legittimato in tutta l’opinione pubblica i sospetti che Anis Amri non fosse altro che un Patsy», cioè un capro espiatorio, paragonabile a Lee Harvey Oswald, l’apparente killer di John Kennedy. «Poliziotto – continua Santoianni, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – al quale auguriamo che – dopo il nome, la fotografia, l’account Facebook – non venga pubblicato anche il suo indirizzo di casa». Se le “stranezze” abbondano, irrompe l’inevitabile corredo di dietrologie: Federico Dezzani si spinge a ipotizzare «un assist anglomericano all’Italia, ai danni della Germania», contraria alla nazionalizzazione di Mps, “punita” ora con la dimostrazione di efficienza della polizia italiana, che dimostrerebbe l’inadeguatezza di quella tedesca.«Poca gloria, ma in compenso molte domande», sintetizza “Piotr” su “Megachip”: «Come sapevano che era proprio questo tizio alla guida del camion che ha fatto strage a Berlino? Semplice. Come al solito, hanno trovato – toh, guarda – un suo documento nella cabina del camion, sotto il sedile. Come mai allora l’efficientissima polizia tedesca aveva arrestato un pakistano che non c’entrava nulla? Ci hanno messo veramente un giorno a trovare un documento sotto il sedile dell’arma del crimine? Ma va là». La sequenza, sottolinea “Megachip”, si ripete con un cliché incredibilmente monotono: prima un attentato “imprevisto”, poi il ritrovamento dei documenti degli attentatori sul luogo del crimine, quindi la dichiarazione che l’attentatore era già sospettato, magari sotto sorveglianza (però l’attentato lo riesce a fare lo stesso, invariabilmente). Quindi scatta la caccia all’uomo. Finale: «Conflitto a fuoco e uccisione del sospetto. Niente cattura e interrogatorio. Nemmeno per Osama bin Laden». Identica sceneggiatura: «Qualcuno sta usando sempre lo stesso canovaccio. Non chiedetemi chi. Non ho le prove», ammette “Piotr”. L’importante, conclude, è vedere che la narrazione ufficiale «non sta in piedi, ed è diventata mortalmente noiosa». Intanto, «gli innocenti continuano ad essere ammazzati, per la gloria di poche élite, pronte a scatenare tutte le loro speculazioni politiche e gli stati di emergenza sull’onda di una campagna di terrore e tensione».Due poliziotti in mondovisione (nomi e cognomi, persiono le foto), uno di loro è ferito. E a terra, nella notte, a Sesto San Giovanni, un giovane tunisino: Anis Amri. «Era lui il killer di Berlino?», si domanda Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. «Vedete? Anche la polizia e i servizi tedeschi imparano presto», scriveva giorni fa Maurizio Blondet. «Prima si lasciano scappare il terrorista della strage di Natale; ma il giorno dopo, guardando meglio, scoprono che – come tutti i terroristi islamici – ha lasciato nel vano porta-oggetti il suo documento di prolungamento della permanenza in Germania, che è praticamente la prova della sua identità». Lo ha fatto uno dei fratelli Kouachi dopo aver sparato a quelli di Charlie Hebdo. E lo stragista di Nizza, Lahouaiej-Bouhlel? «Anche lui, prima di lanciarsi nella folle corsa omicida e suicida, pone in bella vista patente di guida, carta d’identità, telefonino, persino carte di credito». Ricorda la storia, sempre uguale, dei documenti dei “terroristi” emersi tra le macerie dell’11 Settembre, in mezzo all’apocalisse. «Da allora, è una certezza per gli investigatori: cercate bene sui sedili, sotto la cenere, nella guantiera, e smetterete di brancolare nel buio». Un copione: diffondere ai media l’identità del “mostro” da braccare. Se intercettato, «invariabilmente risponde al fuoco gridando “Allah Akhbar!”. Sicchè non ne vien preso vivo uno. Succederà, possiamo profetizzarlo, anche al “tunisino “ identificato dalla polizia tedesca».