Archivio del Tag ‘sopravvivenza’
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La fine del mondo c’è già stata: lo dice la stele dell’Avvoltoio
Undicimila anni prima di Cristo uno sciame di comete colpì la Terra devastandola, modificando l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, provocando l’estinzione di molte specie come quella dei mammut e causando un’era glaciale che durò mille anni. Lo afferma un gruppo di ricercatori dell’università di Edimburgo, che ha trovato la narrazione di questo cataclisma nel più antico libro di storia esistente: i bassorilievi portati alla luce nel 1995 nel sito archeologico di Gobekli Tepe, nel Sud della Turchia. All’annuncio della scoperta, i sostenitori della teoria secondo la quale antiche civiltà avanzate sono state distrutte da eventi catastrofici hanno esultato, e sono pronti a scrivere nuovi libri di successo. Una stele in particolare, quella chiamata “dell’avvoltoio”, ha attratto l’attenzione degli scienziati di Edimburgo. Riproduce attraverso simbolismi animali una serie di costellazioni, indicandone la posizione nel cielo. Grazie all’aiuto di un computer, è stato possibile stabilire che le stelle si trovavano in quel punto esattamente nel 10.950 a.C., alla fine del Pleistocene. Altri bassorilievi riproducevano la caduta dello sciame di comete e un uomo senza testa indicava la perdita di molte vite umane.La stele è importante perché conferma eventi che già conoscevamo, come il periodo glaciale noto come Dryas Recente (dal nome di un fiore della tundra) e l’anomalia dell’iridio osservata in Nord America, risalente all’11-10.000 a.C.: l’iridio è poco presente nel suolo e quando in uno strato geologico se ne trova molto di più, vuol dire che un meteorite o una cometa lo hanno portato sulla Terra, come avvenne nell’estinzione dei dinosauri. Per il professor Martin Sweatman, direttore della ricerca pubblicata su “Mediterranean Archaeology”, «questa scoperta, insieme all’anomalia dell’iridio, chiude il caso in favore dell’impatto di una serie di comete». Gobekli Tepe è il tempio più antico dell’umanità e pare fosse dedicato all’osservazione delle comete e dei meteoriti. I bassorilievi che narrano la catastrofe dell’11.000 a.C. erano tenuti in grande considerazione e conservati con cura, come se fosse importante non perderne la memoria. Inspiegabilmente, in epoca preistorica, il sito venne abbandonato e completamente ricoperto di terra, perché nessuno lo potesse individuare.Archeologi e antropologi collocano nel Dryas Recente l’inizio della civiltà umana, con le prime coltivazioni e i primi villaggi del Neolitico. Ma per altri ricercatori, che il mondo accademico non tiene in alcuna considerazione, la caduta delle comete ha causato la fine di una civiltà che già esisteva sulla Terra e ha costretto gli esseri umani sopravvissuti a un nuovo e faticosissimo inizio. Graham Hancock, nato a Edimburgo, ha scritto molti libri su questo tema e nell’ultimo, “Maghi degli dei: la saggezza dimenticata delle civiltà perdute”, ha sostenuto proprio la tesi che intorno al 12.000 a.C. l’impatto di una cometa abbia posto fine a una società molto evoluta, che ha lasciato tracce di sé nella perfezione delle piramidi di Giza e in altri inspiegabili monumenti ciclopici sparsi per il pianeta. Se l’asse della Terra si è davvero spostato a causa di quella catastrofe, forse l’Antartide era all’epoca libera da ghiacci e nasconde segreti che non tarderemo a scoprire, vista la progressione del riscaldamento globale.Hancock ha visitato il sito di Gobekli Tepe, giudicandolo uno dei grandi misteri dell’antichità. Se uno sciame di comete era in arrivo sulla Terra, gli astronomi del tempio le hanno sicuramente individuate in anticipo e forse quelle scie luminose arrivate nel Sistema solare interno sono state una presenza costante nel cielo per molti anni prima del loro devastante impatto. Forse da allora ci è stata tramandata la convinzione che tutte le comete (ma per lo meno bisogna salvare quella di Natale) portino sfortuna e siano messaggere di lutti e devastazioni. La teoria che grandi civiltà del passato siano state distrutte da eventi catastrofici è suggestiva e spiegherebbe le grandi costruzioni le cui rovine sono state trovate sui fondali dell’Oceano, dove Platone collocava Atlantide, così come la “piramide” sommersa che si trova vicino all’isola di Yonaguni, in Giappone. Ma c’è da sperare che i cultori delle civiltà perdute non abbiano ragione: gli sciami di comete sono infatti periodici e secondo Hancock quello descritto nella stele di Gobekli Tape potrebbe tornare nell’arco di qualche decennio. Meglio che l’autorevole e più rassicurante mondo accademico si affretti a rimettere ogni pietra, e ogni data, al suo posto.(Vittorio Sabadin, “La fine del mondo c’è gia stata: lo svela la stele dell’Avvoltoio”, da “La Stampa” del 24 aprile 2017).Undicimila anni prima di Cristo uno sciame di comete colpì la Terra devastandola, modificando l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, provocando l’estinzione di molte specie come quella dei mammut e causando un’era glaciale che durò mille anni. Lo afferma un gruppo di ricercatori dell’università di Edimburgo, che ha trovato la narrazione di questo cataclisma nel più antico libro di storia esistente: i bassorilievi portati alla luce nel 1995 nel sito archeologico di Gobekli Tepe, nel Sud della Turchia. All’annuncio della scoperta, i sostenitori della teoria secondo la quale antiche civiltà avanzate sono state distrutte da eventi catastrofici hanno esultato, e sono pronti a scrivere nuovi libri di successo. Una stele in particolare, quella chiamata “dell’avvoltoio”, ha attratto l’attenzione degli scienziati di Edimburgo. Riproduce attraverso simbolismi animali una serie di costellazioni, indicandone la posizione nel cielo. Grazie all’aiuto di un computer, è stato possibile stabilire che le stelle si trovavano in quel punto esattamente nel 10.950 a.C., alla fine del Pleistocene. Altri bassorilievi riproducevano la caduta dello sciame di comete e un uomo senza testa indicava la perdita di molte vite umane.
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Addio Merkel, euro e Nato: il voto francese cambia il mondo
La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».In un’analisi pubblicata sul suo blog, Dezzani colloca le presidenziali francesi in una più ampia cornice geopolitica: «Solo chi nascondesse la testa sotto terra, potrebbe infatti affermare che l’imminente voto sia scollegato dalle rinnovate tensioni tra Nato e Russia e dai venti di guerra nella Corea del Nord». La Francia ripropone il medesimo schema politico che travaglia l’intera Europa: i partiti tradizionali, «legati a doppio filo all’establishment euro-atlantico», riusciranno o meno a respingere l’assalto “populista”, cioè l’avanzata di quei movimenti che predicano ricette economiche e una politica estera diametralmente opposta a quella dell’oligarchia al potere? «La risposta è quasi certamente “no”», sostiene Dezzani. «Di fronte all’eurocrisi scoppiata nel lontano 2009 e progressivamente incancrenitasi avendo mancato l’obiettivo di fondo (strappare il Tesoro Unico europeo e gli Stati Uniti d’Europa)», la Francia «è scivolata giorno dopo giorno verso l’euro-periferia, mostrando l’illusorietà del “motore franco-tedesco”». A collocare il paese «più vicino al Mediterraneo che al Reno» è ormai, «la galoppante crescita del debito pubblico francese, che dall’introduzione dell’euro è passato dal 60% al 97% del Pil», insieme ad altri indicatori sfavorevoli: «Gli alti deficit in funzione anti-ciclica, il cronico disavanzo della bilancia commerciale e la disoccupazione record (quella ufficiale si attesta attorno al 10% della forza lavoro)».Tra Parigi e Berlino, sottolinea Dezzani, c’è ancora una «parità formale», che attualmente scongiura quelle politiche di austerità imposte al resto dell’europeriferia: misure di austerity che potrebbero «innescare esplosive rivolte in una società come quella francese, abituata a ricevere generose prestazioni dallo Stato». Questo però «non impedisce che qualche “riforma strutturale” sia somministrata anche alla Francia: il “Job Act” gallico, la legge El Khomri, provoca reazioni impensabili in Italia, mobilitando sindacati e lavoratori per settimane e paralizzando diversi settori strategici dell’economia». L’assaggio di neoliberismo, il crescere incessante della disoccupazione e la parallela caduta verticale del presidente François Hollande in termini di popolarità, continua Dezzani, sono accompagnati dall’esplosione del terrorismo “islamista” che, avviato nel gennaio 2015 con la strage di Charlie Hebdo, semina morti fino alla strage di Nizza dello scorso luglio: «E’ la classica strategia della tensione utile a “sedare” un’opinione pubblica sul piede di guerra, a causa dell’impoverimento generalizzato e dei tagli allo Stato sociale».La strategia della tensione, però, secondo Dezzani ha fallito: doveva «compattare i francesi attorno al capo di Stato», quell’Hollande che – dopo aver ripeuto che «la France est en guerre» – è il primo presidente, dall’avvento della Quinta Repubblica, a scegliere di “abdicare”, rinunciando a correre per un secondo mandato: «L’obiettivo è quello di arrestare l’avanzata dei “populisti”, relegando il quinquennio di Hollande ad una triste parentesi, e puntando su volti nuovi». Ma ormai, aggiunge Dezzani, la ribellione dell’elettorato è troppo impetuosa per essere incanalata: «Il “filo-russo” François Fillon conquista la candidatura del centro-destra battendo l’esponente dell’establishment, Alain Juppé. Segue quindi una feroce campagna mediatica-giudiziaria per stroncare la corsa di Fillon verso l’Eliseo e lanciare verso il ballottaggio del 7 maggio il centrista e “outisider” Emmanuel Macron, ex-banchiere Rothschild: il calcolo politico si basa sulla convinzione che tutti i voti moderati si coaguleranno attorno all’europeista e filo-atlantico Macron, sancendo così la sconfitta della populista e filo-russa Marine Le Pen».Nella Francia del 2017, però, come nel resto dell’Occidente, i voti “moderati” sono ormai merce rara: «Il malessere diffuso, tre milioni di disoccupati (che salgono a sei considerando i lavoratori iscritti ad un corso di ricollocamento), l’insofferenza generalizzata verso la cricca di privilegiati che ruota attorno all’Eliseo e ai salotti buoni di Parigi, spinge l’elettorato sulle ali estreme dello schieramento politico: la candidatura del centrista Emmanuel Macron, presentato dalla maggior parte dei sondaggi e dei media compiacenti come il presidente in pectore, rischia di sgonfiarsi addirittura al primo turno, schiantandosi contro lo scoglio dell’elettorato». Ferma restando la possibile vittoria di Marine Le Pen, crescono infatti le probabilità che lo sfidante al ballottaggio del 7 maggio non sia l’ex-banchiere di Rothischild, ma il “populista rosso” Jean-Luc Mélenchon: storico esponente dell’ala sinistra del Partito socialista, fondatore del movimento “France insoumise” (la Francia ribelle). «Abile oratore e figura piuttosto carismatica, Mélenchon è la declinazione “giacobina” di Marine Le Pen». Tanti i tratti i comune: tra questi, «l’avversione all’ortodossia finanziaria di Bruxelles, l’intenzione di manovre fiscali espansive in forte deficit, il rifiuto dei dogmi liberisti e l’apertura al protezionismo».In politica estera, Le Pen e Mélenchon condividono anche «l’intenzione di traghettare la Francia fuori dalla Nato», che dimostra «la volontà di riconciliarsi con Mosca superando le varie discrepanze, in primis sulla Siria». Dezzani scommette che sarà Marine Le Pen a uscire vincitrice dal ballottaggio del 7 maggio, sospinta da diversi fattori: la voglia di cancellare la disastrosa presidenza Hollande, la crisi migratoria, l’emergenza-sicurezza nelle città e il vento nazionalista, sempre più forte a livello europeo. «Nelle attuali condizioni in cui versa l’Unione Europea – ragiona Dezzani – è però chiaro che, se dalle urne del 23 aprile dovesse emergere una sfida tra forze anti-sistema di sinistra e di destra, Bruxelles incasserebbe il colpo di grazia anche senza conoscere il verdetto finale delle presidenziali francesi». Si tratta pur sempre di «istituzioni europee così lacerate da assistere inermi alla ribellione degli Stati alla politica migratoria comune, alla puntuale disapplicazione di norme fino a poco tempo fa presentate come ineludibili (Fiscal Compact e bail-in), al tramonto di qualsiasi ulteriore integrazione necessaria a garantire la sopravvivenza dell’euro (in primis la garanzia unica sui depositi)».L’affermazione dei “populisti” Le Pen e Mélenchon al primo turno, continua Dezzani, «sancirebbe la rottura definitiva del motore franco-tedesco da tempo in panne». Rottura che, «aprendo una drammatica faglia nel cuore dell’Europa, porterebbe al collasso finale le già pericolanti istituzioni di Bruxelles». Al che, la dissoluzione dell’Unione Europea e il simultaneo ricollocamento di Parigi su posizioni filo-russe «sarebbero un vero terremoto geopolitico, scuotendo alle fondamenta l’intera architettura politico-militare consolidatasi in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale: le istituzioni di Bruxelles, sinonimo di Ue ma anche di Nato, sono infatti lo strumento con cui l’impero angloamericano ha prima blindato, e poi allargato, la testa di ponte sul continente euroasiatico, conquistata con due guerre mondiali». Scopo strategico del blocco Ue-Nato, infatti, «è attrarre verso l’Atlantico il maggior numero possibile di potenze europee», impedendo «il sorgere di qualsiasi alleanza tra la Russia e l’Europa occidentale». Il terremoto sovranista francese, quindi, stravolgerebbe «la settantennale strategia dell’establishment atlantico sul Vecchio Continente, incentratala sulla cooperazione franco-tedesca con la benedizione di Londra e Washington, e sul progressivo ampliamento verso est delle organizzazioni “transatlantiche”».Si materializzerebbe così il peggior scenario possibile per gli strateghi angloamericani, tratteggiato da Zbigniew Brzezinski nel suo libro “La Grande Scacchiera”, del 1997: vedremmo all’opera «una Francia nazionalista che, oppressa dall’egemonia della Germania schierata su posizioni filo-atlantiche, parte alla riconquista del primato continentale alleandosi con la Russia e riconoscendo a quest’ultima una legittima zona d’influenza nell’Est europeo». Sarebbe, in sostanza, «un patto franco-russo», progettato «per ridimensionare la Germania» e ridimensionare l’egemonia Usa sull’Europa. «Il quadro – aggiunge Dezzani – si farebbe ancora più drammatico per gli strateghi angloamericani se la Francia “nazionalista” non si saldasse soltanto alla Russia, ma al blocco euro-asiatico, che comprende anche la Cina e l’Iran e si irrobustisce giorno dopo giorno: la Francia, anziché lavorare per la caduta di Assad e il puntellamento del regime filo-saudita in Yemen, passerebbe così ad una condizione di neutralità o larvata ostilità nei confronti degli alleati regionali di Washington e Londra, compromettendo ulteriormente l’opera angloamericana di “contenimento” delle potenze euro-asiatiche».Gli Usa a quel punto, «espulsi dalla massa continentale anche grazie alla cooperazione francese, perderebbero automaticamente lo status di superpotenza mondiale». Per Dezzani, stiamo assistendo al manifestarsi di «una doppia minaccia mortale per l’impero angloamericano: il saldarsi della coalizione tra Russia, Cina e Iran, unito al nascere di un’intesa franco-russa». Si tratta di «quattro potenze distinte, unite dalla comune volontà di archiviare l’egemonia degli Usa e dell’oligarchia atlantica, per ridisegnare l’assetto mondiale». Meglio si spiega, quindi, «il clima di elevata tensione internazionale, caratterizzato dal precipitare delle relazioni russo-americane e dai concomitanti venti di guerra in Corea». La posta in gioco, insiste Dezzani, «supera i confini dell’Esagono». La probabile vittoria di Marine Le Pen «è in grado di compromettere ulteriormente la presa angloamericana sull’Europa, a beneficio di Mosca e delle altre potenze continentali». Attenzione: questo scenario «lascia supporre un ulteriore aumento della tensione in vista del ballottaggio del 7 maggio e negli immediati mesi successivi al voto: più la Ue si sfalda e il blocco euroasiatico si ingrossa, maggiori sono i rischi che il sistema internazionale raggiunga il carico i rottura, imprimendo agli eventi quella drammatica svolta che si sarebbe evitata soltanto se Donald Trump avesse mantenuto le promesse neo-isolazioniste della campagna elettorale».La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».
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La Cina è sovrana nella moneta: per questo vincerà sempre
Canton, Shanghai, guardatele, fanno sembrare Ny e Chicago robetta da Sant’Arcangelo di Romagna o Urbino. Si tratta di città che, si badi bene, solo pochi anni or sono erano accumuli di baracche e qualche palazzaccio di cemento. Poi tutti sapete che la Cina nel tempo in cui Usain Bolt corre i 100 metri è diventata la seconda economia del pianeta. Come ho detto e scritto fino ad annoiare me stesso, nulla, neppure un granello di libero mercato che gli idioti come Boldrin, Giannino e Padoan predicano ancora qui – tipo patetici manichini zombie dimenticati sul set di “Thriller” di Michael Jackson nel 1982 – nulla, dicevo, di libero mercato ha sostenuto un’esplosione, inimmaginabile nella storia dell’economia, come quella cinese. Dietro c’è, chiaro e semplice, uno Stato sovrano nella moneta che ha detto ai mercati: “Hey, siamo qui, abbiamo Renminbi con cui ripagarvi all’infinito, li stampiamo noi! Pagheremo poco i lavoratori ma fino a un certo punto, perché poi Pechino li proteggerà sempre (e poi hanno 3.000 miliardi di dollari in valuta estera, se proprio volete stare tranquilli, ma anche se no, non importerebbe)”.Tutto andava bene, per forza. Ma poi ci fu un crollo, in Cina. E indovinate, ma indovinate! quando il crollo è avvenuto? Quando il cosiddetto libero mercato ha infettato la Cina dalla porta di servizio. Ecco la storia. I soliti speculatori privati, cinesi e stranieri, attirati dal Tesoro di Atlantide cinese, si sono messi a prendere in prestito somme immense da finanziatori illegali chiamati “underground margin lenders” su cui Pechino non poteva avere controllo. Tutti ’sti soldi sporchi sono finiti a gonfiare le solite “bolle di Borsa o immobiliari” (stessa storia degli Usa 2000-2007, del Portogallo, dell’Irlanda, della Spagna, dell’Islanda…), e nel 2015 Pechino e tutto l’apparato comunista fino alla Banca Centrale della Cina (Boc) si ritrovano con uno tsunami che non avevano previsto. Crolla la Borsa, nel nord-est del paese sono comparse intere città grandi come Milano con milioni di palazzi costruiti dai privati speculatori e totalmente deserti, banche con insegne grandi come cartelloni di Bruce Springsteen ma dove mai si sedette un singolo impiegato, aeroporti con 14 piste di decollo e intere divisioni dei vigili del fuoco ma dove mai è decollato o decollerà un singolo aereo.Vi chiederete, ma se un governo centrale con moneta sovrana ha potere di fuoco infinito, allora perché Pechino non è intervenuto a finanziare questa Hiroshima creata da ’sti investitori illegali? E non li ha arrestati e ficcati nelle notoriamente non carine carceri cinesi? La risposta è che il governo cinese non è scemo, fa la Mmt. Lui, Pechino, non spreca valuta e tempo per rimediare alla disoccupazione causata dai ladroni del libero mercato. Ha preso la gran parte dei cittadini allora turlupinati dal libero mercato e li ha messi a lavorare nei lavori di Stato. Cioè immense imprese statali che producono e vendono, eccome se vendono. Naturalmente se andate a vedere cosa scrivevano “Bloomberg”, la “Bbc”, il “Wall Street Journal”, o “Reuters”, fra il 2015 e il 2016, ohhh!, ecco: “Il debito pubblico cinese che finanzia la disoccupazione è esploso e porterà Armageddon alla Cina!”. E’ successo per caso? No, no, no. Dai, non perdiamo tempo, la Mmt in questi dettagli non sbaglia mai, la Cina non sbaglia, non sono Giuliano Amato (conato). Non è successo un cazzo. La Cina è ancora lì e anzi…Pechino ha sniffato l’aria al volo, e nel giro di pochi mesi l’immenso apparato comunista ha saputo decidere ciò che per il pollitalici polli di Palazzo Chigi avrebbe richiesto forse un secolo? O due? Pechino in poche settimane ha di nuovo aperto le borse della Boc e ha rifinanziato, attenti, quello che è il più massiccio spostamento d’investimenti della storia umana, cioè dalla fabbrica o dal cantiere che furono la prima ondata di salvezza statale, li ha spostati nella high tech, nella Ai, nei semiconduttori, nei materiali come gli Oleds e i Cobots. E, indovinate? Gli stipendi reali in Cina nel 2106-2017 sono cresciuti del 7% e l’inflazione è allo 0,8%. In Italia sono cresciuti dello 0,3% e l’inflazione è all’1,40%, quasi il doppio della Cina. Certo, la Cina non è il paradiso del lavoro. Interi settori industriali cinesi hanno dovuto chiudere quando l’Europa è collassata sotto il peso dell’economicidio dell’euro, trascinandosi dietro tutto l’Est europeo, che anch’esso come la Ue comprava dalla Cina. Ma un interessante studio della “Bbc” ci dimostra che anche nei casi peggiori, dove i lavoratori cinesi furono costretti dalle crisi occidentali a tornare alle campagne perché licenziati, essi hanno avuto una sopravvivenza familiare degna, inimmaginabile in Italia o in Germania. E sapete perché? Di nuovo: le aziende cinesi arrivano anche nelle province più sperdute, e con prestiti garantiti dalla Boc statale, investono anche sui piccolissimi contadini.Ecco come. Essendo le province più arretrate della Cina, ehm, arretrate, i lavoratori che vi ritornano perché licenziati dalle mega-industrie delle mega-città, possono fiorire semplicemente portando il loro ‘know how’ fra le campagne e in villaggi di mondi sperduti. Creano mini-aziende, esportano mini-tecnologia in edilizia o manifatturiero, ma sono pagati con soldi stampati dalla Boc, mica da Fata Turchina (ditelo a un licenziato delle ceramiche di Faenza se questo gli è possibile, fare mattonelle a Conselice da solo). Ora vi dico una cosa, che non so quanti di voi possano capire, perché bisogna aver girato gli slums del Centro America, dell’Africa, della Siria, come feci io quando potevo, per capirlo. Uno dei fenomeni più abietti della povertà umana è proprio la migrazione dalle campagne alle città, sempre finita appunto in immensi slums di atroce degrado. In Cina il fenomeno è esattamente l’opposto. La migrazione campagnola cinese nelle città, dati della Fao e di Oxfam, ha prodotto in maggioranza (non tutta, ovvio) la più grande esplosione di ricchezza sia per le aziende che per i lavoratori mai vista al mondo. Invece i 130 milioni di pakistani, gli 80 milioni di etiopi, i 901 milioni di indiani ed eserciti di contadini siriani, hanno solo trovato miserie inimmaginabili nella loro città. Perché?La risposta: perché nessuno dei governi sopraccitati – Pakistan, Etiopia, India, Siria – ha mai capito la Mmt, e nessuno di loro ha mai, come la Cina, abbracciato il fantasma (sbraitato in Occidente) del deficit di bilancio per aiutare il loro poveri. La Cina, e la Boc, sì, invece lo hanno fatto. Poi, per carità, Pechino non è retta da Gesù Bambino, per nulla, ma almeno sull’economia sta manovrando da Dio in terra, poche balle, e ora ancora meglio… Siamo sempre con uno Stato a moneta sovrana, la Cina, ok? Può stamparla e investire dove gli pare. Questo Stato – ovvio, sempre la Cina – ha propri esportatori privati, e in genere questi hanno sempre bussato alle porte di Usa e Ue. L’Ue oggi è putrefatta, e gli Usa fanno la retorica Trump del “basta comprare cinese”. Xi-Jinping, leader supremo di Pechino, lo aveva capito da anni, e cosa ha fatto? Ecco: ha sborsato moneta di Stato sovrana e riserve in dollari per rendere sufficientemente ricche le nazioni attorno alla Cina – Laos, Thailandia, Cambogia, Birmania e Australia – affinché queste poi divenissero mercati che comprano cose cinesi. Semplice. Lo Stato usa la sua moneta, che crea dal nulla, per favorire il suo settore privato, di cittadini e aziende (Barnard lo diceva a “La Gabbia”, sul sito, in conferenze, eccetera).Lo hanno per caso fatto quei nazi-tonti della Merkel con la Grecia, col Portogallo o con altri paesi? No, hanno fatto il contrario e ora l’economia tedesca si contrae così, leggete Eurostat: «Il rischio di finire in miseria è aumentato per i lavoratori in 7 Stati Ue su 10. Peggio dell’Italia fa solo la Germania. Tra i lavoratori tedeschi il medesimo rischio è aumentato di oltre 5 punti percentuali». Ma di più! Il Premio Nobel della Pace Aung San Suu Kyi, birmana dissidente e detenuta per decenni, oggi guida il suo paese come ministro nella transizione alla democrazia, e con chi colloquia? Con la moneta sovrana della Cina (be’, magari, Aung, un’occhiata ai diritti umani in Cina, una come te poteva darla…). Ma sapete, i diritti umani senza investimenti e salari sono aria fritta. Credo che Aung faccia bene. Poi la Cina di Mr. Xi “con lo Stato non si scherza un cazzo” Jinping, l’altro giorno ha beccato uno speculatore cinese, un Soros con occhi a mandorla, e ha visto che lucrava troppo. Si chiama Yao Zhenhua, era il padrone di un gigante assicurativo privato cinese chiamato Baoneng. Lo ha preso per il colletto e gli ha letteralmente detto: “Ciccio, tu lucri troppo sui nostri cittadini, ora per 10 anni tu non lavori più. Passi lunghi e ben distesi, ciccio”. E Yao, coda fra le gambe, è in ferie per 10 anni e sta muto. Fine. Ecco cosa può fare una moneta sovrana anche in una zona geoglobale che fino a ieri era letteralmente alla fame, a mangiare radici, ma oggi è la seconda economia del mondo. Domani sarà la prima, con moneta sovrana. Noi Ue? Dai… rileggete tutto.(Paolo Barnard, “La Cina, magari”, dal blog di Barnard del 9 aprile 2017).Canton, Shanghai, guardatele, fanno sembrare Ny e Chicago robetta da Sant’Arcangelo di Romagna o Urbino. Si tratta di città che, si badi bene, solo pochi anni or sono erano accumuli di baracche e qualche palazzaccio di cemento. Poi tutti sapete che la Cina nel tempo in cui Usain Bolt corre i 100 metri è diventata la seconda economia del pianeta. Come ho detto e scritto fino ad annoiare me stesso, nulla, neppure un granello di libero mercato che gli idioti come Boldrin, Giannino e Padoan predicano ancora qui – tipo patetici manichini zombie dimenticati sul set di “Thriller” di Michael Jackson nel 1982 – nulla, dicevo, di libero mercato ha sostenuto un’esplosione, inimmaginabile nella storia dell’economia, come quella cinese. Dietro c’è, chiaro e semplice, uno Stato sovrano nella moneta che ha detto ai mercati: “Hey, siamo qui, abbiamo Renminbi con cui ripagarvi all’infinito, li stampiamo noi! Pagheremo poco i lavoratori ma fino a un certo punto, perché poi Pechino li proteggerà sempre (e poi hanno 3.000 miliardi di dollari in valuta estera, se proprio volete stare tranquilli, ma anche se no, non importerebbe)”.
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Chomsky: ho paura, questa élite vuole ricorrere all’atomica
Donald Trump sa di non avere nessuna speranza di premiare i milioni di elettori che avevano creduto in lui. Per questo gioca l’ultima carta e indossa i panni dello sceriffo: per distrarre il pubblico, bombardando il mondo. Ma il gioco è pericoloso: tra una provocazione e l’altra, con il solito corredo di notizie false come le responsabilità di Assad sull’uso dei gas contro la popolazione siriana, la Russia stavolta potrebbe reagire. Mosca potrebbe sparare per prima i suoi missili a testata atomica contro l’America, prima che sia troppo tardi. Mai, nella sua storia, l’umanità ha corso un pericolo così grande. Lo afferma Noam Chomsky in un’intervista concessa al “Manifesto”, nella quale esprime la massima preoccupazione per i giorni che stiamo vivendo. La sua tesi: l’élite è semplicemente “impazzita”. E il terrore di perdere il potere può spingerla verso la catastrofe nucleare. Gli oligarchi sanno di non avere più alcuna possibilità di recuperare il consenso perduto, come dimostra il fallimento della loro ultima creazione illusionistica, Donald Trump. E allora premono sulla guerra: la vogliono davvero, come unica soluzione per mantenere il controllo totale sull’umanità.Ad aggravare il quadro, aggiunge Chomsky, intervistato da Patricia Lombroso, sarebbe la rottura dello storico equilibrio missilistico tra Usa e Russia, provocata dal colossale programma di riarmo nucleare varato anni fa da Barack Obama. Secondo il grande intellettuale americano, oggi la dotazione balistica degli Stati Uniti sarebbe superiore rispetto a quella di Mosca. E i russi, che sanno di essere minacciati, potrebbero decidere di sferrare per primi un attacco nucleare preventivo, prima che la loro deterrenza venga definitivamente cancellata dall’ipotetica supremazia atomica statunitense. Uno scenario da apocalisse, confermato da un altro acuto analista indipendente come Paul Craig Roberts, secondo cui i russi – che a suo parere non dispongono affatto di un arsenale inferiore a quello americano – potrebbero comunque scegliere di colpire per primi, dato che gli Usa e la Nato li stanno letteralmente assediando, in modo sempre più subdolo, ormai anche alle frontiere della Federazione Russa, sul Baltico e nell’Europa orientale.Altri osservatori, come il francese Thierry Meyssan, sono meno pessimisti: tendono a pensare che Trump stia essenzialmente “facendo teatro”. Per Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’eventuale bluff muscolare di Trump avrebbe lo scopo di illudere (e tacitare, a suon di commesse miliardarie) l’apparato militare-industriale che fa capo al potentissimo clan dei Bush. Lo stesso Carpeoro, tuttavia, non si nasconde la pericolosità del potere oligarchico mondiale ormai pronto a tutto, come dimostra l’auto-terrorismo targato Isis. Sullo sfondo, la situazione allarmante del pianeta: «Gli oligarchi sanno che le risorse terrestri si stanno esaurendo, a cominciare dalle fonti energetiche, e ciascun gruppo sgomita per prepararsi a imporre il suo Piano-B». Lo stesso Giulietto Chiesa teme gli effetti della doppia crisi in atto: la pericolosità di un’America in declino, arginata da Russia e Cina, in un mondo che non sa come affrontare né l’esplosione demografica, né l’incombente catastrofe climatica, che secondo l’Onu sta già innescando esodi mai visti prima, nella storia. Tante angolazioni diverse, molte analisi e una sinistra caratteristica comune: l’assenza di soluzioni, in vista.Nella sua visione, Chomsky si concentra sulla politica estera Usa: «Le aggressioni unilaterali da parte degli Stati Uniti in Siria e in Afghanistan – afferma – sono state preparate a tavolino da questa nuova amministrazione, incurante del crimine commesso, che viola tutte le norme del diritto internazionale». Obiettivo: nient’altro che «uno show rivolto all’opinione pubblica in attesa della promessa “America First”». Dietro la propaganda di Trump, Noam Chomsky vede un «progetto selvaggio di smantellamento, passo dopo passo, dell’intera legislazione federale istituita 70 anni fa per proteggere l’intera popolazione americana dalla logica dei profitti immediati e dalla massima concentrazione del potere». Operazione abilmente nascosta dallo “sceriffo” Trump, che prova a rassicurare gli americani «con questo messaggio diretto: i brillanti risultati conseguiti dai nostri uomini del Pentagono nelle ultime otto settimane sono superiori a quanto conseguito durante gli ultimi otto anni dalla presidenza Obama». E ancora: «Siamo in grado di effettuare operazioni coraggiose. Insomma, ecco il nuovo sceriffo che dimostra di essere l’uomo forte che voi volete. E che ha dato mano libera a chi voleva intraprendere le cosiddette azioni coraggiose. Come quella di sganciare la superbomba in Afghanistan senza aver neppure idea quale territorio abbiamo distrutto, né di quanti civili abbiamo ucciso».Paradossalmente – ma non è una novità – negli Stati Uniti «l’applauso è stato univoco e totale anche da parte dei democratici, visto che in Siria il nuovo sceriffo Trump ha inviato un messaggio alla comunità internazionale per dimostrare che l’America è ancora una superpotenza che sa reagire con la nuova forza dell’“America First”». Passo dopo passo, continua Chomsky, «dietro le quinte viene approvata una legislazione che toglie ogni speranza alla popolazione americana nel rivendicare i benefici di protezione sociale ed economica istituiti 70 anni fa». Per l’insigne linguista, «è questa l’organizzazione di potere più pericolosa nella storia del mondo». Una “cupola” che, «per continuare ad avere più profitti e sempre più potere, è capace anche di usare l’arma nucleare. Sino alla distruzione dell’umanità». Secondo Chomsky, grazie al riarmo nucleare finanziato in silenzio da Obama, oggi «l’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello da strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo». E dato che Mosca non ne è certo all’oscuro, «con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi baltici ai confini della Russia», tutto questo «determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia».Se così stanno le cose, secondo Chomsky, si sono «assottigliati i margini per la sicurezza mondiale» e ci stiamo pericolosamente avvicinando a una catastrofe nucleare provocata dalla “mutual destruction”, la distruzione reciproca. Si è infatti «messa in moto una situazione in base alla quale la Russia, con l’intensificarsi delle provocazioni degli Stati Uniti, possa decidere di sferrare un “preemptive strike”», un colpo preventivo nucleare, «nella speranza di sopravvivere, dal momento in cui non ha più la capacità di un arsenale deterrente». Per Chomsky, «ci troviamo in una situazione gravissima e pericolosa», dove «il rischio è dato dalle reazioni imprevedibili di Trump», sempre più debole sul piano della politica interna, e quindi preoccupatissimo. «Un Trump che, se non sarà in grado di mantenere le promesse di cambio fatte alla “working class” a cui si è riferito in campagna elettorale (e che sarà la prima vittima della sua presidenza), prima o poi seguirà un dilagare di accuse di terrorismo islamico verso gli immigrati per giustificare misure repressive eccezionali e nuovi bandi. Prefabbricando prove di un attacco all’America, tanto da giustificare il ricorso all’arma nucleare». I missili in Siria e la superbomba Moab sganciata in Afghanistan? «Sono l’esemplificazione dell’America di Trump pronta a ritorsioni militari che superano ogni più perversa immaginazione. Un disegno politico che è prassi storica, per questo paese, sin dai tempi della Guerra Fredda».Donald Trump sa di non avere nessuna speranza di premiare i milioni di elettori che avevano creduto in lui. Per questo gioca l’ultima carta e indossa i panni dello sceriffo: per distrarre il pubblico, bombardando il mondo. Ma il gioco è pericoloso: tra una provocazione e l’altra, con il solito corredo di notizie false come le responsabilità di Assad sull’uso dei gas contro la popolazione siriana, la Russia stavolta potrebbe reagire. Mosca potrebbe sparare per prima i suoi missili a testata atomica contro l’America, prima che sia troppo tardi. Mai, nella sua storia, l’umanità ha corso un pericolo così grande. Lo afferma Noam Chomsky in un’intervista concessa al “Manifesto”, nella quale esprime la massima preoccupazione per i giorni che stiamo vivendo. La sua tesi: l’élite è semplicemente “impazzita”. E il terrore di perdere il potere può spingerla verso la catastrofe nucleare. Gli oligarchi sanno di non avere più alcuna possibilità di recuperare il consenso perduto, come dimostra il fallimento della loro ultima creazione illusionistica, Donald Trump. E allora premono sulla guerra: la vogliono davvero, come unica soluzione per mantenere il controllo totale sull’umanità.
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Armi silenziose per guerre tranquille, mentre noi dormiamo
Guardare una città dall’alto è come vedere un grande formicaio, migliaia di persone viaggiano freneticamente senza mai fermarsi a chiedersi perché corrono. Le scadenze, il lavoro e il tempo le tiene prigioniere mentre tutto intorno a loro sembra essere fermo e statico: ognuno di noi vive un mondo, quello ufficiale in cui vige la morale religiosa, la legge dei “buoni” e l’economia del business. In realtà noi siamo intrappolati in un altro mondo, quello ufficioso, in cui la democrazia non esiste più perché il potere lo hanno attribuito alle istituzioni sovranazionali, la libertà è un’illusione perché il controllo dei nostri istinti e dei nostri pensieri è già in atto, e la legge è quella del Governo Mondiale che mediante le sue sfere di controllo gestisce il sistema. La cibernetica è la nuova scienza sociale, è lo schema per controllare i sistemi complessi come quello nostro, in cui il biologico e l’economico si fondono. Un sistema cibernetico equilibrato crea una struttura a celle, in cui gli elementi interagiscono in modo da aumentare il valore della produzione, e ha la grande proprietà dell’autoregolamentazione. In altre parole, è fatto in modo che dopo ogni azione si attivi subito una contro-reazione, un evento che si dirige verso uno scenario crea automaticamente le condizioni per un evento con tendenza inversa che annulla il primo…È un ecosistema vero e proprio, un essere che vive, perché è in grado di far fronte da solo alle situazioni che mettono in discussione la sua esistenza. Sistemi del genere hanno una grande stabilità nel tempo, e possono funzionare bene solo se li guida un codice etico, un obiettivo che sia nell’interesse di tutti gli uomini. Questo tuttavia non sta accadendo, perché l’intero sistema lavora per soddisfare gli interessi di una classe ben più ristretta, degli Illuminati, degli dèi che non permetteranno mai che la scienza liberi il popolo. Ora utilizzano contro le popolazioni inermi delle armi biologiche, spingono gli uomini a non vivere ma a sopravvivere, invece di gettare proiettili mettono catene tramite i data base; invece di inviare soldati, innescano delle bombe tramite dei computer e sotto gli ordini dei vostri generali, che sono i banchieri. Certamente non fanno niente di evidente, perché non vediamo esplosioni oppure danni fisici, ma la nostra vita sociale viene distrutta ogni giorno dal finto progresso. Le masse e il pubblico non potranno mai capire quest’arma e dunque non potrà credere che non siamo realmente attaccati, se non avviene un fatto criminoso reale.Pensate a che fino ha fatto la democrazia: lei non esiste più ma nessuno lo dice. Il margine di azione degli Stati è sempre più ridotto dagli accordi economici internazionali sui quali non è stato chiesto l’opinione dei cittadini del mondo. Una sospensione proclamata della democrazia avrebbe provocato una rivoluzione, e se non è successo è perché è stato deciso di mantenere una democrazia di facciata: i cittadini continuano a votare, i programmi politici di “destra” e di “sinistra” sono gli stessi. Le elezioni, i telegiornali continuano di esistere, ma sono stati svuotati del loro contenuto. Un telegiornale contiene al massimo 2 a 3 minuti di cronaca sui fatti del giorno, mentre il resto sono argomenti di facciata, di reality-show sulla vita quotidiana. Le analisi dei giornalisti specializzati sono state eliminate, e l’informazione passa attraverso la censura, che consiste non nell’omettere le notizie ma nell’annegarle in un diluvio di notizie insignificanti diffuse da una moltitudine di mezzi con contenuto simile in modo che sembra esistere la pluralità e la democrazia.Tutta la finezza della censura moderna risiede nell’assenza di censori. Questi sono stati sostituiti efficacemente dalla “legge del mercato”, che fornisce i mezzi per finanziare il lavoro di inchiesta. Eventi importanti saranno lievemente accennati, e poi affiancati a notizie di inutili, mentre un attentato verrà trattato con reportage sulle strade e tra le persone per esagerare il dramma. Le informazioni vengono presentate con una tale confusione, affiancate tra di loro anche se di diversa importanza, e questo non permette la memorizzazione delle notizie, che rimangono della mente dello spettatore solo se presentate in modo strutturato e catalogato. Una peggiore memorizzazione colpisca la popolazione con l’amnesia, in modo da essere più semplice da manipolare… La manipolazione mediatica è solo uno degli elementi della strategia del “diversivo”, che consiste nel deviare l’attenzione dal pubblico dai problemi importanti, con una marea continua di distrazioni: tenere il pubblico occupato per creare armi silenziose per guerre tranquille. Questa strategia è indispensabile per impedire il pubblico di interessarsi alle conoscenze essenziali della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia, e infine della cibernetica.Per rendere efficace quest’arma silenziosa occorre innanzitutto mantenere il pubblico ignorante dei principi di base della conoscenza. Per creare l’ignoranza, la creatività e le attività mentali sono stati sabotati fornendo dei programmi di educazione di bassa qualità in matematica, logica, di economia. Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella stupidità; fare in modo che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi utilizzati per il suo controllo e la sua schiavitù. La qualità dell’educazione data alle classi inferiori deve essere bassa in modo tale che l’ignoranza isoli le classi inferiori dalle classi superiori; le persone vengono incoraggiate in pubblico a cullarsi nella mediocrità, o nell’essere stupide, volgari e incolte. Alla fine l’individuo si convincerà che lui è il solo responsabile della sua disgrazia, a causa dell’insufficienza della sua intelligenza, delle sue capacità, o dei suoi sforzi. Così, invece, al posto di rivoltarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e si colpevolizza e generando in lui uno stato depressivo che inibisce ogni reazione, dunque nessuna rivoluzione.La regola generale è che c’è un profitto nella confusione; più la confusione è grande, più il profitto è grande: il migliore approccio è di creare dei problemi, e poi di offrire delle soluzioni, con uno schema “problema-reazione-soluzione”. Per fare accettare una misura inaccettabile, basta applicarla progressivamente, in maniera graduale, per una durata di 10 anni; avrebbe provocato una rivoluzione se fosse stata applicata brutalmente. In alternativa, una decisione impopolare per essere accettata deve essere presentata come “dolorosa ma necessaria”, ottenendo in consenso presente per un’applicazione nel futuro: è sempre più facile accettare un sacrificio futuro che non un sacrificio immediato, anche perché si spera sempre che “in futuro tutto andrà meglio”. Pensate all’euro, e riflettete su quello che è stato ieri, quello che è oggi, e vedrete anche cosa sarà domani. Per circuire l’analisi razionale e il senso critico degli individui è sufficiente far leva sul piano emozionale: le porte dell’inconscio degli individui si spalancheranno, e allora potranno essere immesse idee, desideri, paure.Questo, grazie al fatto che conoscono l’individuo meglio di quanto lui possa conoscere se stesso; grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” è giunto ad una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psicologicamente. Il sistema è arrivato a conoscere l’individuo medio meglio di quanto questo non si conosca da sé. Ciò significa che nella maggioranza dei casi, il sistema detiene un più grande controllo ed un più grande potere sugli individui, superiore al potere e al controllo che gli individui hanno su se stessi. Se siete in cerca di una prova, non cercate la risposta al di fuori di voi stessi ma dentro di voi. Chiedetevi come faranno a impiantare le pulci e i chip nel nostro corpo, o meglio, chiedetevi cosa oggi stanno facendo per realizzare l’impianto delle pulci. Stanno nascondendo i trapianti ad uso medico, per diminuire la diffidenza istintiva della gente sull’intrusione della macchina nel corpo, viene promossa la moda dei piercing, per abituare il la gente all’intrusione degli oggetti materiali nel corpo, viene reso obbligatorio il trapianto per l’identificazione degli animali domestici.Potrebbero anche organizzare, o lasciare organizzare, un attentato nucleare in una città occidentale per rendere obbligatori i trapianti di localizzazione e di identificazione per ogni individuo, in nome della “sicurezza” e della “lotta contro il terrorismo”… Pensateci bene, riflettete, non sarebbe tanto assurdo parlare di una città europea, che possiede il nucleare, e ha già subito minacce terroristiche, in un periodo di gravi scontri ideologici tra diverse culture religiose. Tutti nel profondo della loro coscienza sanno che qualcosa non va. Voi lo sapete ma non potete esprimervi, non potrete mai affrontare questo problema intelligentemente, perché è un’arma biologica, che non permetterà che gridiate e chiediate aiuto, perchè non sapete associarvi ad altri per difendervi. Questo veleno è iniettato lentamente fino ad indurre tutti ad adattarsi anche alla sua presenza, per cominciare a tollerare le sue ripercussioni fino a che la pressione psico-economica alienerà la vostra mentre, e quando noi resistere più lentamente vi abbandonerete al suicidio o asseconderete in sistema. Attacca le capacità, le opportunità degli individui della società, la loro mobilità, per manipolali; infetta le vostre fonti di energia sociali e naturali, le vostre forze deboli psichiche, mentali e emozionali. Guardate la vostra vita ed i vostri sacrifici, sarete tutti complottisti…(“Armi silenziose per guerre tranquille”, dal blog “Etelboro” del 20 settembre 2006).Guardare una città dall’alto è come vedere un grande formicaio, migliaia di persone viaggiano freneticamente senza mai fermarsi a chiedersi perché corrono. Le scadenze, il lavoro e il tempo le tiene prigioniere mentre tutto intorno a loro sembra essere fermo e statico: ognuno di noi vive un mondo, quello ufficiale in cui vige la morale religiosa, la legge dei “buoni” e l’economia del business. In realtà noi siamo intrappolati in un altro mondo, quello ufficioso, in cui la democrazia non esiste più perché il potere lo hanno attribuito alle istituzioni sovranazionali, la libertà è un’illusione perché il controllo dei nostri istinti e dei nostri pensieri è già in atto, e la legge è quella del Governo Mondiale che mediante le sue sfere di controllo gestisce il sistema. La cibernetica è la nuova scienza sociale, è lo schema per controllare i sistemi complessi come quello nostro, in cui il biologico e l’economico si fondono. Un sistema cibernetico equilibrato crea una struttura a celle, in cui gli elementi interagiscono in modo da aumentare il valore della produzione, e ha la grande proprietà dell’autoregolamentazione. In altre parole, è fatto in modo che dopo ogni azione si attivi subito una contro-reazione, un evento che si dirige verso uno scenario crea automaticamente le condizioni per un evento con tendenza inversa che annulla il primo…
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Incubo Fema: fronteggiare 6 milioni di ’superstiti’. Da cosa?
Campi di detenzione e soccorso, scorte di sopravvivenza, decine di migliaia di soldati addestrati alla guerra domestica, antisommossa. E poi enormi concentrazioni di mezzi blindati, caricati su treni. E persino bare multiple, per milioni di persone, dislocate negli Usa. Voci che sul web si riconcorrono da anni e si vanno infittendo, come segnala Gabriele Lombardo, che su “Seven Network” parla della Fema, la Federal Emergency Management Agency, e della «mega emergenza, tra campi, bare, scorte, mezzi e altre stanezze», attorno al presunto iper-attivismo della protezione civile americana. Fonti? Esclusivamente «in rete, tra siti governativi, di protesta contro i campi, e notizie che arrivano da tutti i fronti (compresi video che ci mostrano queste zone con riprese aeree)». Fantasie? Incubi? Nel romanzo “La strada”, Cormac McCarthy mette in scena gli ultimi superstiti di un’umanità livida e pericolosa, devastata da una catastrofe apocalittica. Qualcuno si sta preparando a qualcosa di simile? «Ormai – scrive Lombardo – sono anni che sentiamo parlare di campi di concentramento e detenzione, dell’acquisto di bare a sei posti, di intere aree di cimiteri, di razioni liofilizzate a milioni, mezzi speciali. Ma di cosa stiamo parlando, realmente?».La domanda: «Cosa c’è in moto, e a cosa servono tutti questi preparativi ed accantonamenti di materiale? A cosa servono tutti questi campi e l’approvvigionamento di scorte alimentari e di beni di prima necessità, soccorso, sopravvivenza e via discorrendo?». “Seven Network” individua tre tipologie di “campi” sul territorio Usa: «Il primo tipo, in effetti, come dicono le voci complottistiche, sembra un campo di prigionia classico, il secondo sembra un campo di protezione e il terzo sembra addirittura un agglomerato urbano indipendente». Nel campo di primo tipo, «già visto nei “lager”e “gulag” rispettivamente tedeschi e sovietici», l’area è delimitata da cerchi concentrici di filo spinato militare, invalicabile. Nella seconda tipologia, invece, «non ci sono le sporgenze con il filo spinato dal lato interno, cosa che dimostra che è chi sta dentro a dover essere protetto da chi invece sta fuori dal campo». L’ospite, protetto con torrette e postazioni per mitragliatrici, «non viene considerato un possibile fuggitivo-prigioniero o una minaccia». Nel terzo tipo di campi Fema, poi, non ci sono nemmeno recinzioni vere e proprie. Al suo interno, anziché baracche in legno come nei precedenti, si trovano mezzi bianchi, camper e roulotte, oppure case prefabbricate antivento, anche’esse bianche, dotate di ogni comfort e circondate da canali idrici e aree coltivabili.«Negli ultimi due tipi di campi di cui abbiamo parlato, è presente una struttura centrale fortificata che sembra essere costruita per la difesa urbana estrema, e soprattutto nel caso dei campi di protezione (i terzi descritti), la fortificazione interna sembra poter ospitare per giorni molti civili e militari, dove check-point con tanto di ingressi con sbarre rotanti automatizzate e cemento armato ovunque, impediscono l’ingresso a chi non ha permessi per entrare». Per Lombardo, sembra di osservare «un tipico punto di controllo e smistamento persone delle aree a rischio terrorismo, guerra urbana e rivolte armate, come quelli già visti nello Stato d’Israele o dopo le guerre di Afghanistan e Iraq». Deduzione: «È probabile che i tre tipi di campi abbiano tre scopi differenti», come se il governo avesse «preparato vari tipi di piani di emergenza per tipi differenti di situazione». I documenti di emergenza della protezione civile statunitense contemplano «terremoti devastanti, eruzioni vulcaniche cataclismatiche, attacchi terroristici nucleari, epidemie incontrollabili, pandemie globali, guerra chimica e batteriologica, impatto di una grande meteora, multi-impatto meteoritico, mega-tsunami, black-out totale prolungato, militarizzazione del sistema con legge marziale, impiego dell’esercito per disarmo forzato dei civili, e tanto altro ancora».In effetti, aggiunge “Seven Network”, è possibile che in ogni zona degli Stati americani sotto un unico comando abbiano creato strutture differenti sul territorio per diverse situazioni verificabili, «e questo spiegherebbe in buona parte anche l’incredibile dislocamento e concentramento in punti precisi di mezzi militari, di mezzi da escavazione, di gruppi elettrogeni, potabilizzatori di acqua, e molti altri veicoli». Non va dimenticato che negli Usa ci sono altissimi rischi di cataclisma: uragani, inondazioni e tifoni. Dunque, «alcune procedure del Fema, così come alcuni assembramenti di mezzi, potrebbero essere giustificate». A inquietare, ovviamente, sono i numeri: perché tante bare? «Alcune fonti», sempre su web, «parlano di 500.000 bare da 6 posti ciascuno, ovvero contenitori per tre milioni di corpi», mentre «altre fonti» (non precisate) parlano addirittura di 6 milioni di bare “multiple”, cioè riservate a 36 milioni di corpi. Le classiche “fake news”? Un risvolto non verificabile, né confermato da nessuna fonte ufficiale, riguarda le voci del “sequestro”, da parte dell’esercito, di intere aree cimiteriali. Più precise invece le informazioni sulle bare, in materiale plastico, prodotrte dall’azienda Polyguard & Co che si occupa specificatamente di bare “sicure”, asettiche ed ermetiche, al riparo da infiltrazioni di qualsiasi genere.«Un’altra stranezza assurda – aggiunge Lombardo – è l’acquisto da parte di alcuni Stati americani di ghigliottine automatiche; risulta infatti, da documenti, che alcuni Stati ne hanno comprate per un totale di 200 unità, e questo apre scenari sconcertanti ed enigmatici». Altra “stranezza”, «l’acquisto di migliaia di mezzi antisommossa, e l’addestramento da parte del governo Usa di oltre 30.0000 soldati in guerra urbana». Tra le priorità dell’addestramento ci sarebbero «l’irruzione in casa, il blocco di persone in fuga, il disarmo con uso della forza dei civili, l’abbattimento di persone che minacciano i militari o altri civili con armi, le irruzioni elicotteristiche su circuito urbano e in mezzo al traffico autostradale, il trasporto e la scorta di gruppi di civili con mezzi blindati e treni speciali, l’uso di munizioni ad ogiva forata». “Seven Network” riferisce di esercitazioni a Houston e Los Angeles, dove «gli elicotteri hanno terrorizzato le persone bloccate in autostrada durante un’esercitazione sparando munizioni a salve», nei primi mesi del 2013. «In questi episodi, si simulava un’incursione sopra i civili incolonnati e bloccati in autostrada».Altre esercitazioni si sarebbero svolte «in città degli Stati del Sud», dove i militari in assetto antiterrorismo «irrompevano in abitazioni civili per snidare uomini armati che facevano resistenza». Poi c’è la grande concentrazione di mezzi, cresciuta a dismisura sotto la presidenza Obama: «Le testimonianze di persone che hanno parlato attraverso i media o principalmente divulgato informazioni in rete attraverso foto e video, hanno largamente dimostrato la presenza di mezzi militari antisommossa non solo statunitensi ma anche di altre nazioni in molte città americane, di mezzi militari da difesa e combattimento schierati nel deserto del Nevada e in quello della California, di intere caserme e aree adiacenti a quelle metropolitane». Si parla di «quantità incredibili di pale meccaniche, gruppi elettrogeni, camion da trasporto materiali, ruspe, potabilizzatori d’acqua, mezzi per il monitoraggio dell’inquinamento, per le telecomunicazioni satellitari e tanti altri tipi di velivoli strani ed inconsueti». Quanto all’accumulo di provviste, si stima possa servire a milioni di persone, con anche «kit medici, acqua potabile, coperte termiche, cibo in scatola», il tutto destinato a “superstiti”.Secondo Lombardo, «i campi Fema possono ospitare 42-48 milioni di persone, le bare e le sepolture della stessa agenzia ne possono ospitare 6-36 milioni a seconda del reale numero, le scorte di sopravvivenza sono calcolate per 6 milioni di superstiti, quelle di cibo se consideriamo i 10 giorni di razionamento a persona (tre pasti giornalieri ciascuno come specificato proprio dall’ente governativo) abbiamo pasti per più di 6 milioni di superstiti». Lombardo considera “gonfiato” il numero di persone ospitabili nei campi: «Considerando la quantità di campi presenti negli Stati Uniti e la loro grandezza, e non per ultimo il numero approssimativo di strutture al loro interno, possiamo certamente scendere a circa 6 milioni di persone». E quindi: 6 milioni di superstiti, reclusi-ospiti-protetti, da sfamare e da seppellire? «Sarà solo una teoria strampalata oppure è una concreta possibilità?».Campi di detenzione e soccorso, scorte di sopravvivenza, decine di migliaia di soldati addestrati alla guerra domestica, antisommossa. E poi enormi concentrazioni di mezzi blindati, caricati su treni. E persino bare multiple, per milioni di persone, dislocate negli Usa. Voci che sul web si riconcorrono da anni e si vanno infittendo, come segnala Gabriele Lombardo, che su “Seven Network” parla della Fema, la Federal Emergency Management Agency, e della «mega emergenza, tra campi, bare, scorte, mezzi e altre stranezze», attorno al presunto iper-attivismo della protezione civile americana. Fonti? Esclusivamente «in rete, tra siti governativi, di protesta contro i campi, e notizie che arrivano da tutti i fronti (compresi video che ci mostrano queste zone con riprese aeree)». Fantasie? Incubi? Nel romanzo “La strada”, Cormac McCarthy mette in scena gli ultimi superstiti di un’umanità livida e pericolosa, devastata da una catastrofe apocalittica. Qualcuno si sta preparando a qualcosa di simile? «Ormai – scrive Lombardo – sono anni che sentiamo parlare di campi di concentramento e detenzione, dell’acquisto di bare a sei posti, di intere aree di cimiteri, di razioni liofilizzate a milioni, mezzi speciali. Ma di cosa stiamo parlando, realmente?».
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Mishra: l’età della rabbia, nell’Occidente senza più futuro
Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.Alla fine il vincitore nella Storia è uno sterile concetto di bonario Illuminismo. Nella norma, avrebbero dovuto prevalere il razionalismo, l’umanesimo, l’universalismo e la democrazia liberale. Ma sarebbe stato «chiaramente troppo sconcertante», scrive Mishra, «riconoscere che la politica totalitaria abbia cristallizzato le correnti ideologiche (razzismo scientifico, razionalismo sciovinista, imperialismo, tecnicismo, politica estetizzata, ingegnerie sociali)» che già scuotevano l’Europa alla fine del 19 ° secolo. Quindi, evocando T.S. Eliot, per poter inquadrare «quel mezzo sguardo all’indietro, sopra la spalla, verso il terrore primivito» che alla fine ha condotto all’Ovest contro il Resto del Mondo, dobbiamo tornare ai precursori. “Distruggi il palazzo di cristallo”. Prendete Pushkin, “Eugene Onegin”, «il primo di molti ‘uomini superflui’ della narrativa russa», con il suo cappello Bolivar, che tiene stretti a sé una statua di Napoleone e un ritratto di Byron, come la Russia, che tenta di recuperare il suo ritardo con l’Occidente, «gioventù senza radici, prodotto di massa con una concezione quasi “byroniana” di libertà, gonfiata ulteriormente dal romanticismo tedesco».I migliori critici dell’Illuminismo dovevano per forza essere tedeschi o russi, in ritardo nella modernità politico-economica. Dostoevsky: la società dominata dalla guerra di tutti contro tutti, dove la maggioranza era condannata a perdere. Due anni prima di pubblicare il sorprendente “Memorie dal Sottosuolo” Dostoevskij, durante il suo viaggio in Europa occidentale, aveva già osservato una società dominata da una guerra di tutti contro tutti, dove la maggior parte era condannata a perdere. A Londra, nel 1862, al Salone Internazionale al Crystal Palace, Dostoevskij ebbe un’illuminazione («E ti arriva un’idea colossale…che il trionfo e la vittoria erano lì. Quasi inizi a temere qualcosa»). Per quanto stupito, Dostoevskij fu molto acuto nell’osservare quanto la civiltà materialista si nutrisse non solo del suo proprio fascino, ma anche della sua potenza militare e marittima.La letteratura russa finì con il cristallizzare il crimine casuale come il paradigma dell’individualità che assapora l’identità e afferma la propria volontà (che poi ritroviamo nel 20° secolo nell’icona beat William Burroughs, il quale sosteneva che sparare a caso sulla folla fosse per lui il massimo del brivido). La pista era aperta: le orde di “mendicanti dissoluti” (Beggars Banquet) potevano iniziare a bombardare il Crystal Palace – anche se, ci ricorda Mishra, «gli intellettuali al Cairo, a Calcutta, a Tokyo e a Shanghai leggevano Jeremy Bentham, Adam Smith, Thomas Paine, Herbert Spencer e John Stuart Mill», per comprendere il segreto in eterna espansione della borghesia capitalistica. E questo dopo che Rousseau, nel 1749, aveva posto la prima pietra della rivolta moderna contro la modernità, ora ridotta in mille schegge, in un deserto di echi contrastanti, mentre ritroviamo il Crystal Palace riflesso in mille ghetti luccicanti in tutto il mondo.“Illuminato: sei morto”. Mishra attribuisce l’idea del suo libro a Nietzsche che commentava l’epica querelle tra l’invidioso plebeo Rousseau e il sereno aristocratico Voltaire – il quale salutò la London Stock Exchange, quando divenne pienamente operativa, come una realizzazione secolare dell’armonia sociale. Ma alla fine fu Nietzsche che si oppose in maniera esemplare, come feroce detrattore sia del capitalismo liberale che del socialismo, rendendo l’allettante promessa di Zarathustra un magnetico Santo Graal agli occhi dei bolscevichi (Lenin, tuttavia, lo detestava), della sinistra di Lu Xun in Cina, dei fascisti, degli anarchici, delle femministe e delle orde di esteti scontenti. Mishra ci ricorda anche come «gli antimperialisti asiatici e i baroni ladroni americani hanno attinto a piene mani da Herbert Spencer, il primo pensatore veramente globale», che dopo aver letto Darwin coniò il mantra della “sopravvivenza del più adatto”. Nietzsche fu l’ultimo cartografo del Risentimento. Max Weber inquadrò profeticamente il mondo moderno come una “gabbia di ferro” da cui può sfuggire solo un leader carismatico. E l’icona anarchica Michail Bakunin, da parte sua, nel 1869 aveva già concettualizzato il “rivoluzionario” come colui che recide «ogni legame con l’ordine sociale e con l’intero mondo civilizzato… Lui è il suo nemico più spietato e continua ad esistere per un unico scopo: distruggerlo».Sfuggendo all’Incubo della Storia del Modernista Supremo James Joyce – dalla gabbia di ferro della modernità, appunto – è scoppiata in modo incontrollato e ben al di fuori dei confini dell’Europa una secessione militante viscerale, «da una civiltà fondata sul progresso graduale controllato da fiduciari liberal-democratici». Ideologie anche radicalmente contrarie sono comunque sorte in simbiosi dal vortice culturale del tardo 19° secolo, dal fondamentalismo islamico al sionismo, dal nazionalismo indù al bolscevismo, dal nazismo al fascismo e al rinnovato imperialismo. Non solo la seconda guerra mondiale, ma anche l’attuale finale di partita è stato brillantemente visualizzato nel 1930 dal tragico Walter Benjamin, quando già metteva in guardia contro l’auto-alienazione del genere umano, finalmente in grado di «provare nella propria distruzione il massimo piacere estetico possibile». Gli jihadisti di oggi in streaming fai-da-te non sono altro che la sua versione pop, mentre l’Isis tenta di proporsi come negazione estrema delle miserie della modernità (neo-liberale).“L’era del Risentimento”. Tessendo flussi coloriti di politica e di impollinazioni incrociate letterarie, Mishra si prende il suo tempo per impostare la scena del Grande Dibattito tra quelle masse del mondo in via di sviluppo – la cui esistenza è stata etichettata dall’Occidente Atlantista («storie di violenza ancora largamente riconosciuta») e dalle élite della modernità liquida (Bauman) che hanno ceduto alla quella selezionata parte del mondo a cui si attribuiscono, dopo l’Illuminismo, le più grandi scoperte e innovazioni scientifiche, filosofiche, artistiche e letterarie. Questo va ben al di là di un semplice dibattito tra Est e Ovest. Non riusciremo a comprendere l’attuale guerra civile globale, questo «mix intenso di invidia e senso di umiliazione ed impotenza» post-modernista, e post-verità, se non tentiamo di «smantellare l’architettura concettuale e intellettuale dell’Occidente vincitore nella storia», che deriva dalla storia ipertrionfalista dei successi americani. Anche al culmine della guerra fredda, il teologo statunitense Reinhold Niebuhr si beffava dei «tiepidi fanatici della civiltà occidentale» e della loro fede cieca nel fatto che ogni società è destinata ad evolversi come hanno fatto, a volte, una manciata di paesi occidentali. E questo – ironia! – mentre il culto liberale internazionalista del progresso scimmiottava platealmente il sogno marxista della rivoluzione internazionale.(Pepe Escobar, “L’erà della rabbia”, da “Asia Times” del 4 febbraio 2017, tradotto da “Skoncertata63” per “Come Don Chisciotte”).Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.
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La gang dell’euro, associazione a delinquere per derubarci
La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i paesi del nord ed un’altra per i paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea. In realtà i tedeschi sono scontenti dell’Ue perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti Piigs. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei paesi Ue più in difficoltà e il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.Ma ciò non accadrà, poiché l’Ue non era affatto nata per favorire l’integrazione economica dell’Europa. Gli interessi erano soltanto finanziari e militari. La deflazione causata dall’euro rende più forti i creditori nei confronti dei debitori, e quindi va a favore delle multinazionali finanziarie. Gli Usa sono stati determinanti nella nascita dell’euro e nella sua conservazione, poiché l’euro consente di compattare in funzione anti-russa paesi che, come l’Italia, rischiavano di farsi risucchiare economicamente nell’orbita della Russia. Sino a qualche anno fa gli Usa erano disposti a pagare il prezzo salato che l’euro comportava in termini di depressione dell’economia mondiale. Pare che non siano più disposti oggi, dato che le merci tedesche hanno invaso il mercato statunitense a causa della sottovalutazione dell’euro rispetto all’effettivo potenziale dell’economia della Germania. D’altro canto il presunto “disimpegno” americano in Europa potrebbe davvero cambiare qualcosa? E’ vero che gli Usa non sono riusciti a mettere Putin all’angolo, che i costi dei loro impegni militari sono mostruosi, ma sembra esserci la necessità di una riorganizzazione della gerarchia internazionale senza la quale il “protezionismo coloniale” avrebbe qualche difficoltà.Senza una ostentazione di forza militare da parte degli Usa, altri paesi potrebbero rispondere a loro volta col protezionismo. Certo è che l’Ue e l’euro sarebbero travolti non tanto dai dazi ma da una svalutazione del dollaro che, per ora, non è arrivata. Non sarebbe comunque la prima volta che gli Usa distruggono ciò che essi stessi hanno creato perché non gli fa più comodo. Nel 1919 il presidente Usa, Woodrow Wilson, impose la nascita della Jugoslavia per impedire all’Italia il controllo del Mare Adriatico. Per sostenere la sua posizione Wilson non esitò ad accusare l’Italia di imperialismo (per la serie del bue che dice cornuto all’asino). La stessa Jugoslavia negli anni ‘90 è stata poi distrutta dagli Usa in concerto con la Germania e, grazie ad una notevole manipolazione mediatica, anche le “sinistre radicali” furono indotte a plaudire al “risveglio etnico” che dissolveva stati che erano apparsi prima inamovibili.Pur collocata dagli Usa sul maggiore scranno della Ue, la Germania non ha mai mostrato di credere realmente in questa costruzione. Nel 2003 tramontava l’illusione del governo francese di poter usare l’euro per acquistare direttamente materie prime sui mercati internazionali, poiché l’invasione Usa dell’Iraq servì appunto a punire Saddam Hussein per il fatto che vendeva petrolio in cambio di euro invece che di dollari. Nello stesso 2003 il governo tedesco lanciò il piano Hartz per ridurre i salari in Germania. Il governo tedesco non si accontentava quindi del vantaggio che l’euro consentiva alle merci tedesche, ma apiva addirittura una corsa a comprimere il costo del lavoro in modo da accumulare il maggior surplus commerciale possibile. Ciò indica che i governi tedeschi non hanno mai creduto alla sopravvivenza dell’Ue e dell’euro; e che l’Ue e l’euro, nati come armi da guerra contro la Russia, venivano usati dalla Germania anche per deindustrializzare il suo principale concorrente commerciale, cioè l’Italia, non a caso bersaglio preferito della Commissione Europea.La Germania non deve neanche affannarsi più di tanto per raggiungere il suo scopo, poiché ci pensa la lobby dello spread. La moneta “unica” è infatti un inganno. La moneta è composta di banconote e di debito pubblico, cioè di titoli del Tesoro: nel caso dell’euro le banconote sono controllate dalla Banca Centrale Europea, mentre i titoli del Tesoro sono ancora emessi dagli Stati, che però pagano interessi diversi. In questa tenaglia è stata stritolata la Grecia e si può stritolare l’Italia. Risulta quindi fuori luogo la sorpresa suscitata dalla minaccia della Commissione Europea di mettere l’Italia in procedura d’infrazione per il famoso “zero virgola due”. La Brexit e “CialTrump” non hanno per niente indotto Juncker e colleghi a maggiore prudenza e buonsenso poiché la Commissione Europea, e l’apparato che la supporta, non si pongono affatto problemi di sopravvivenza dell’Ue, ma ragionano esclusivamente in base agli interessi della lobby dello spread, cioè la lobby di finanzieri internazionali che esige alti interessi sul debito pubblico da paesi che sono ancora in grado di pagarli, come l’Italia.L’Unione Europea è un allevamento di lobbisti e costituisce il paradiso delle porte girevoli tra cariche pubbliche e carriere nel privato, e il tutto è rigorosamente documentato da tempo, con dovizia di dettagli. La porta girevole che ha portato l’ex presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso, alla dirigenza di Goldman Sachs dovrebbe costituire una preoccupazione urgente per tutti gli “europeisti”, i quali insistono invece a distrarci con voli pindarici. Ma gli europeisti non esistono, i lobbisti invece esistono, eccome. La delegittimazione delle istituzioni europee è tale che oggi la vera domanda che tutti si pongono è in quali multinazionali finanziarie concluderanno felicemente la loro carriera gli autori della lettera dello “zero virgola due”, Juncker e Moscovici. A proposito di lobbisti mascherati, ci si è chiesti da più parti come si collochi l’ultima sortita del Super-Buffone di Francoforte in questo contesto di sfaldamento dell’Ue. Mario Draghi farnetica di trecentoquaranta miliardi di euro di tangente da versare per permettere all’Italia di uscire dall’euro, quando ormai sarebbe evidente che è l’euro che sta uscendo dall’Europa.La farneticazione del presidente della Bce contiene comunque un messaggio recondito, e cioè che la vita dell’euro dovrà perpetuarsi oltre la sua morte, con una scia di ulteriori sacrifici da imporre a lavoratori e risparmiatori. La risposta immediata a Draghi dovrebbe essere quella di sottrarre il debito pubblico ai cosiddetti “mercati” (cioè la lobby dello spread) per usare i titoli del Tesoro solo all’interno, per effettuare i pagamenti della pubblica amministrazione e per mettere al sicuro il risparmio delle famiglie. Si tratta di una vecchia proposta, ripresa qualche giorno fa – non si sa quanto seriamente – anche dalla Lega. A rendere improbabile una tale misura di autonomia finanziaria non sono soltanto gli enormi rischi personali di chi dovrebbe adottarla, ma anche il fatto che lo spread e l’austerità si avvalgono di una lobby interna, tutta italiana, che lucra sugli alti interessi del debito pubblico, sul credito al consumo (e sul relativo recupero crediti), sul caporalato istituzionalizzato, sulle privatizzazioni e sull’intermediazione per la svendita all’estero dei patrimoni immobiliari.(“Dopo i sacrifici per entrare nell’euro e i sacrifici per restare nell’euro, i sacrifici per uscire dall’euro”, dal blog Anarchismo.Comidad del 9 febbraio 2017).La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i paesi del nord ed un’altra per i paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea. In realtà i tedeschi sono scontenti dell’Ue perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti Piigs. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei paesi Ue più in difficoltà e il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.
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Tarchi: un altro mondo è impossibile, dicono. E ci crediamo
Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, e sgretolate le fondamenta dell’apparente opposizione tra destra e sinistra, si pensò a un progetto che all’individualismo contrapponesse «la solidarietà organica, la promozione dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli». Al posto del «cosmopolitismo omogeneizzante», l’elogio delle «identità plurali» e della diversità culturale. E al dominio dell’economia sulla politica si opponeva il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali, e di “qualità della vita”. Stop al «culto delle forme istituzionali», meglio «la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere». Scrive Tarchi: «Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni». La realtà è nuda: «Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune».Al bipolarismo Usa-Urss, che «aveva fondato un condominio sul pianeta», si è sostituita «una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo», verso «un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto». E i guasti «provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo» sono stati «moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale». Conseguenza immediata: l’esplosione dei flussi migratori di massa. Un fenomeno che esalta i cantori delle “società multietniche” capaci di dissolvere le “barriere” identitarie, «in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici».Ancora: «La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda». E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo, che Tarchi considera «ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento», di fatto «ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto “sbagliato” del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione».In questo scoraggiante panorama, aggiunge l’analista, gli ex “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé, a cominciare da «alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell’editoria», che nel volgere di pochi anni «si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell’accettato modello occidentale». Un tragitto comodo, «date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione». Percorso analogo, anche se «più accidentato», quello delle «molto più esigue truppe» del perimetro “di destra”, ansionse di «cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità», a costo di abbandonare la “diversità” coltivata per decenni.Tarchi parla di un inglorioso «ripiegamento convergente, da sinistra e da destra», verso il “centro” liberale che ha «fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico». Per l’intellettuale fiorentino, è stato «l’avvio di un’era della rassegnazione». Ovvero: «Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana». Ma anche «rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi».Rassegnazione: pensare che, «in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male». E, soprattutto, «rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento». E’ per questo, scrive Tarchi, che – a sinistra come a destra – anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, «pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose». Ed ecco che «prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente».Criticare l’americanismo? «E’ passato di moda». Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un’ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo? «Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo», come «indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano». Tutto questo, ormai, «sa di litania risaputa». Sconveniente e inutile anche «prendersela con la Nato, con l’Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato». E così, «dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato». Il panorama è piatto: «Non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano, faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate».Scommettere sulla legittimità del cosiddetto populismo? Lo scenario è fosco: crisi economica, calo demografico e invecchiamento della popolazione, con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici. E poi l’immigrazione, l’avvento “spaesante” dell’universo telematico. E ancora: la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nei meno istruiti, nei più anziani, nei soggetti deboli (cioè nella maggioranza) un clima di inquietudine, «di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti», per dirla con Ernesto Galli della Loggia). Ma, obietta Tarchi, quelle stesse tendenze che spaventerebbero «una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto», sono invece accolte con favore dai “forti”, «i giovani, gli istruiti». Il vero problema? E’ che «quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli». Peggio ancora: «Nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall’ideologia liberale. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine».Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».
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Una famiglia greca su 2 campa della pensione di un parente
Tagli a sangue la spesa pubblica, imponi tasse folli, elimini la moneta sovrana. E ottieni, esattamente, la Grecia: dove, si apprende, un cittadino su due sopravvive, lottando contro la fame, solo grazie alla piccola pensione percepita da un membro della famiglia. E’ la fotografia perfetta del rigore “germanico” imposto all’Europa con la moneta unica, che impedisce allo Stato di proteggere la comunità nazionale e promuovere investimenti vitali per il lavoro. Gli ultimi dati su Atene sono spaventatosi. Li pubblica “Keep Talking Greece”, in un aggiornamento sulla situazione finanziaria dei nuclei familiari in Grecia. «Quasi la metà delle famiglie vive della sola pensione di un familiare, i tre quarti hanno subìto un peggioramento delle proprie condizioni economiche, e quasi altrettanti si aspettano ulteriori peggioramenti nell’anno in corso, a testimonianza di un paese che ha perso ogni speranza nel futuro», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto il report statistico, secondo cui, appunto, «la metà dei nuclei familiari in Grecia dichiara che l’unica fonte di reddito di cui dispone è la pensione di un membro della famiglia».Secondo il sondaggio, condotto a novembre 2016 dall’associazione piccole imprese (Ime Gsevee) su un campione di mille nuclei familiari distribuiti in tutto il paese, il 49,2% delle famiglie non ha alcuna altra fonte di reddito, a parte la (piccola) pensione di un familiare. I greci sono letteralmente allo stremo: tre su quattro hanno «subìto un declino significativo del proprio reddito nel corso dell’anno 2016». Dati impietosi: il 37,1 % dei nuclei familiari dice di vivere con meno 10.000 euro all’anno; il 37,9 % campa del proprio magro salario, e il 9 % dipende principalmente dai redditi provenienti da attività commerciali. Attenzione: un nucleo familiare su tre ha almeno un componente della famiglia disoccupato, ciò significa una stima di 1,1 milioni di famiglie. E i disoccupati di lungo periodo contano per il il 73,3 % di tutti i senza lavoro. Se il lavoro c’è, è poca cosa: il 22,4 % dei nuclei familiari ha un componente occupato della famiglia che guadagna meno del salario mensile minimo, pari a 586 euro lordi. Intanto, in una famiglia ogni dieci, un parente ha già lasciato il paese. E il futuro è nero: il 73,5 % degli intervistati si aspetta un peggioramento ulteriore della propria situazione finanziaria, fra tasse arretrate che non potrà pagare e mutui bancari troppo salati.Il report suggerisce che «La crisi finanziaria di lungo periodo, la cui vittima principale è la classe media, non sta portando solo a un ulteriore declino dei redditi e a un ampliamento delle disuguaglianze, ma minaccia apertamente la coesione sociale». In compenso i conti pubblici sarebbero in via di risanamento? Certo, come nel vecchio adagio “l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto”. «La cosiddetta terapia, che consiste nel continuo aumento delle tasse, dirette e indirette, può anche portare a un avanzo fiscale primario, ma questo – sintetizzano gli autori del report – non si riflette in alcun beneficio per i contribuenti in termini di qualche forma di servizio pubblico, e anzi al tempo stesso viene ridotta la spesa per la sanità e l’istruzione». Questo è l’orrore su cui si specchia, in Grecia, l’Europa delle élite oggi affidata all’ordoliberismo della Merkel: strangolato lo Stato, a sua volta costretto a strangolare i cittadini (più tasse, meno servizi vitali), l’imposizione dell’euro si manifesta per quello che è: un’operazione senza anestesia, inflitta a un’Europa senza futuro. Pagano tutti, a cominciare dai più deboli.Tagli a sangue la spesa pubblica, imponi tasse folli, elimini la moneta sovrana. E ottieni, esattamente, la Grecia: dove, si apprende, un cittadino su due sopravvive, lottando contro la fame, solo grazie alla piccola pensione percepita da un membro della famiglia. E’ la fotografia perfetta del rigore “germanico” imposto all’Europa con la moneta unica, che impedisce allo Stato di proteggere la comunità nazionale e promuovere investimenti vitali per il lavoro. Gli ultimi dati su Atene sono spaventatosi. Li pubblica “Keep Talking Greece”, in un aggiornamento sulla situazione finanziaria dei nuclei familiari in Grecia. «Quasi la metà delle famiglie vive della sola pensione di un familiare, i tre quarti hanno subìto un peggioramento delle proprie condizioni economiche, e quasi altrettanti si aspettano ulteriori peggioramenti nell’anno in corso, a testimonianza di un paese che ha perso ogni speranza nel futuro», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto il report statistico, secondo cui, appunto, «la metà dei nuclei familiari in Grecia dichiara che l’unica fonte di reddito di cui dispone è la pensione di un membro della famiglia».
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Più crisi, meno democrazia: l’élite “deve” sottometterci
Non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane «non rallenterà gli sforzi delle élites per de-democratizzare il sistema politico», dal quale «decenni di controrivoluzione liberal-liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia». Al contrario, sostiene Carlo Formenti, gli sforzi in questa direzione si moltiplicheranno «perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza». Già dopo il referendum, nel giro di qualche giorno, «questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme». Per Formenti, la tesi che i “nemici della democrazia” difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: «Visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi”sono destinate a durare, non resta che modificare le regole del sistema politico in modo tale da poterlo governare a prescindere dal fatto che esso ottenga il consenso – e un riconoscimento di legittimità – da parte della maggioranza dei cittadini».L’ipotesi di combattere le cause dell’impoverimento di massa e della disuguaglianza, scrive Formenti su “Micromega”, non viene nemmeno presa in considerazione, «quasi si trattasse di fenomeni “naturali”». Meglio dunque ricorrere al comodo fantasma del “populismo”, «termine che continua a essere usato in modo propagandistico, senza alcuno sforzo di analisi politologica e senza compiere distinzioni ideologiche, mischiando nello stesso calderone Trump e Sanders, Maduro e Marine Le Pen, Podemos e la Lega, l’M5S e i neonazi tedeschi». Se tale è lo scenario, tanto vale ridurre ulteriormente gli spazi di democrazia, cambiando le regole, in modo da rendere superflua l’approvazione popolare. Un esempio, dice Formenti, viene dal “New York Times”, dove Eduardo Porter auspica leggi speciali e riforme che diano più potere al governo, «dopo essersi chiesto se globalizzazione, mutamenti demografici e rivoluzione culturale abbiano eroso il consenso del popolo americano nei confronti della “democrazia del libero mercato”, al punto da indurlo a votare per un uomo come Trump (Sanders non è nemmeno citato!), che ha fatto campagna sostenendo che il sistema serve gli interessi di un’élite cosmopolita contro quelli della gente comune».Porter, «bontà sua», ammette che «il popolo ha molte ragioni per lamentarsi», ma poi «conclude incongruamente che il vero motivo del successo populista non sta in queste ragioni, bensì nei difetti del sistema elettorale (!?)», quindi conclude «citando i suggerimenti di riforme orientate a garantire la “governabilità” offerti da alcuni solerti politologi». Stessa musica sul “Corriere della Sera” del 4 gennaio, dove Michele Salvati «ribadisce che sì, la vita della maggioranza dei cittadini è grama e tale resterà a lungo» per cui, appurato che «le “leggi” dell’economia non ammettono deroghe e che dunque occorrerà in ogni caso farle digerire al popolo», a tale scopo «servirà comunque “riformare” la Costituzione». Il compito si è rivelato impossibile per un’unica forza politica? E allora «non resta che lavorare alla costruzione di una grande coalizione “anti populista” che abbia la maggioranza necessaria per compiere le riforme senza che poi debbano essere sottoposte a referendum».Sempre sul “Corriere”, Gustavo Ghidini rilancia con forza «l’imprescindibile esigenza di “normalizzare” la comunicazione online». Gli argomenti sono i soliti: combattere le bufale, gli incitamenti all’odio, l’uso di termini offensivi e “politicamente scorretti”. E’ evidente, scrive Formenti, come «il senso di queste e altre definizioni possa essere opportunamente dilatato per colpire ben altri bersagli, come la libertà di opinione ed espressione, ed è altrettanto evidente come questa crociata sia, non casualmente, iniziata subito dopo che sondaggisti e studiosi di comunicazione hanno accusato Internet di avere favorito i successi elettorali “populisti”, bypassando un sistema dei media mainstream sempre più blindato a sostegno del pensiero unico liberal-liberista e delle forze politiche che ne incarnano gli interessi». Insomma: per Formenti «la grande controffensiva è iniziata, ed è destinata a farsi più feroce a mano a mano che l’insofferenza dei cittadini nei confronti delle élites si farà più forte, fino a generare (si spera) una domanda esplicita di rottura sistemica».Non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane «non rallenterà gli sforzi delle élites per de-democratizzare il sistema politico», dal quale «decenni di controrivoluzione liberal-liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia». Al contrario, sostiene Carlo Formenti, gli sforzi in questa direzione si moltiplicheranno «perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza». Già dopo il referendum, nel giro di qualche giorno, «questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme». Per Formenti, la tesi che i “nemici della democrazia” difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: «Visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi”sono destinate a durare, non resta che modificare le regole del sistema politico in modo tale da poterlo governare a prescindere dal fatto che esso ottenga il consenso – e un riconoscimento di legittimità – da parte della maggioranza dei cittadini».
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Sta sparendo il buio: in pericolo salute, animali e piante
Tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita una falena attirata dalle luci fuori casa andare a sbattere senza alcun timore contro una lampadina. Questo istinto è lo stesso che le guida a volare in circolo quando sono presenti le luci naturali di stelle e luna e che le fa rimbalzare sulle fonti luminose. L’inquinamento luminoso è un fenomeno che disturba i flussi migratori, i rituali di accoppiamento, la caccia e molti altri processi essenziali per la vita di piante, insetti e animali. Alcune fra le 450 specie di uccelli presenti nel Nord America utilizzano la luna e le stelle per orientarsi durante le proprie migrazioni notturne. Gli scienziati hanno documentato incidenti nei quali interi stormi di uccelli sono andati a sbattere contro degli edifici illuminati delle città. Ne sono morti decine di migliaia in una singola notte. Gli effetti negativi dell’inquinamento luminoso vengono subiti da animali migratori volanti, di terra o acquatici. Per esempio, i pattern migratori del salmone sono correlati al sole. Secondo quanto riscontrato in una ricerca citata dall’International Dark-Sky Association, nel momento in cui il salmone viene esposto a luce artificiale, tali pattern divengono irregolari.Alcuni alberi sono sensibili alla durata del giorno poiché questa determina i loro ritmi stagionali. Ma, nel momento in cui la luce artificiale estende la loro esposizione a una fonte luminosa, queste specie cambiano modalità di fioritura, di germoglio e di perdita delle foglie. Uno degli effetti più gravi, secondo William R. Chaney del Dipartimento delle risorse forestali e naturali dell’università Purdue, è che la luce artificiale «promuove la crescita continua degli alberi e pertanto impedisce loro di sviluppare l’inattività che permette di sopravvivere al rigore dell’inverno». Circa 4 americani su 5 non possono vedere la Via Lattea. Più del 99 percento degli americani vive sotto un cielo considerato inquinato. Ma, sebbene l’inquinamento luminoso sia molto diffuso nel paese, gli Stati Uniti non sono presenti nella lista stilata dagli scienziati di Harvard nella quale sono inserite le 20 nazioni più inquinate in questo senso. Tra i paesi del G20, gli Stati Uniti si trovano al nono posto.Per quanto riguarda il corpo umano, l’inquinamento luminoso interferisce con la produzione di melatonina durante la notte. L’esposizione alla luce nelle ore notturne è risultata correlare con molte malattie fra cui diabete, obesità, cancro al seno e alla prostata. Come se non bastasse, secondo l’International Dark-Sky Association la quantità di luce utilizzata ogni anno per illuminare le strade e i parcheggi disseminati nel paese è superiore a quella utilizzata nella città di New York in due anni. Più del 50 percento della luce viene sprecata perché non adeguatamente direzionata. Sebbene illuminare le strade sembri essere una misura necessaria per la sicurezza, Chaney ricorda che «molte aree ad alta concentrazione di traffico sono così intensamente illuminate che la visibilità viene disturbata dal riverbero prodotto dalla poca schermatura degli impianti».(Tara Macisaac, “L’inquinamento luminoso danneggia natura, salute e portafoglio”, da “Epoch Times”, ripreso da “La Crepa nel Muro” l’11 gennaio 2017).Tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita una falena attirata dalle luci fuori casa andare a sbattere senza alcun timore contro una lampadina. Questo istinto è lo stesso che le guida a volare in circolo quando sono presenti le luci naturali di stelle e luna e che le fa rimbalzare sulle fonti luminose. L’inquinamento luminoso è un fenomeno che disturba i flussi migratori, i rituali di accoppiamento, la caccia e molti altri processi essenziali per la vita di piante, insetti e animali. Alcune fra le 450 specie di uccelli presenti nel Nord America utilizzano la luna e le stelle per orientarsi durante le proprie migrazioni notturne. Gli scienziati hanno documentato incidenti nei quali interi stormi di uccelli sono andati a sbattere contro degli edifici illuminati delle città. Ne sono morti decine di migliaia in una singola notte. Gli effetti negativi dell’inquinamento luminoso vengono subiti da animali migratori volanti, di terra o acquatici. Per esempio, i pattern migratori del salmone sono correlati al sole. Secondo quanto riscontrato in una ricerca citata dall’International Dark-Sky Association, nel momento in cui il salmone viene esposto a luce artificiale, tali pattern divengono irregolari.