Archivio del Tag ‘soldi’
-
Draghi: ora vi taglio i viveri, così imparate a votare No
«Una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite». Mario Draghi esce allo scoperto: dopo la Brexit e il referendum italiano, avverte che “la ricreazione è finita”. La Bce chiuderà i rubinetti del quantitative easing, esponendo gli Stati al ricatto dello spread, senza più protezioni. Fallita la “carota” (Renzi), si torna al “bastone”: meno soldi per tutti, tranne che per la Germania. Una sfida, frontale, a chi ha votato No – a Renzi, all’Ue. Dal presidente della Bce, scrive “Micromega”, arriva la prima, vera risposta dell’élite sconfitta nelle urne italiane e inglesi. In arrivo lacrime e sangue, se gli Stati non vorranno piegarsi alle “riforme strutturali” volute dal super-potere. Tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della Banca d’Italia, prounciate mentre infuriavano gli anni di piombo: «La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga». E Draghi «non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi», scrive “Micromega”. Al contrario: «Le affila, per fronteggiare la minaccia del populismo».Si tratta di «un vero proprio disegno politico», contenuto nei dettagli operativi illustrati da Draghi nell’ultima riunione del consiglio direttivo della Bce. Un evento solo in apparenza tecnico, avverte “Micromega”, in un’analisi firmata “Raro”. Draghi ha annunciato che l’autorità monetaria proseguirà il programma di acquisto di titoli pubblici, come tutti si aspettavano, oltre la scadenza inizialmente prevista per il marzo prossimo, «ma ha aggiunto un elemento di novità in cui pochi credevano: il flusso di liquidità con cui la banca centrale sta tenendo a bada gli spread inizierà a ridimensionarsi, già a partire da aprile». Ciò significa che «la Bce prefigura, per la prima volta, un progressivo alleggerimento dello stimolo monetario garantito da ormai due anni all’Eurozona». Ed è così che, «mentre politici e governanti europei vengono impietosamente travolti dall’onda anomala del populismo antisistema, l’autorità monetaria si profila come l’unica soggettività politica capace di elaborare una qualche forma di reazione della classe dirigente d’Europa».Dopo due anni relativamente tranquilli, scrive “Micromega”, la progressiva riduzione del sostegno ai titoli di Stato «determinerà, nei prossimi mesi, una minore liquidità del debito pubblico europeo e non potrà che portare con sé un rialzo nei tassi di interesse pagati dai governi della periferia, a discapito della stabilità finanziaria». La Bce ha poi esteso il programma sia sul fronte delle scadenze, includendo titoli a più breve termine (fino ad un anno), che sul fronte dei tassi, rendendosi disponibile all’acquisto di titoli caratterizzati da un rendimento inferiore al già negativo tasso sui depositi presso la banca centrale. «Il significato di queste rifiniture del quantitative easing appare chiaro», osserva “Micromega”: «Dal momento che la stragrande maggioranza dei titoli pubblici con rendimenti negativi è ascrivibile alla Germania, e in particolare alle sue scadenze a breve termine, le modifiche apportate al programma di acquisti perseguono l’obiettivo di assicurare a Berlino una quota consistente della liquidità residua che arriverà nei prossimi mesi. Dunque, proprio mentre procede a ridurre la portata del suo supporto alla generalità dei debiti pubblici europei, l’autorità monetaria mette in chiaro che non sarà la Germania a soffrire di questa minore copertura».Al contrario, come i movimenti di Borsa stanno segnalando in queste ore, si assiste già ad una contrazione del rendimento dei titoli tedeschi a fronte di un leggero rialzo di quelli italiani: «Si riaffaccia, in Europa, il fantasma dello spread, ovverosia l’ampliamento del divario tra il costo del debito pubblico dei paesi centrali e quello dei paesi periferici». Per “Micromega”, dunque, «inizia così ad emergere, dal complesso intreccio delle specifiche tecniche della manovra di politica monetaria appena varata, un dato politico». Corsi e ricorsi: fu proprio sulla scia di un repentino ampliamento degli spread che, ad Atene nel lontano 2009, «si è aperta per l’Europa la stagione dell’austerità». Una fase storica «caratterizzata dall’applicazione simultanea, nei principali paesi europei, del medesimo indirizzo politico: abbattimento dello stato sociale, contrazione dei diritti dei lavoratori e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti». Un indirizzo politico che, «a dispetto del suo marcato carattere antipopolare», di fatto «non ha incontrato alcuna resistenza significativa per quasi cinque anni, grazie soprattutto al clima emergenziale imposto dai mercati attraverso la frusta dello spread».Tuttavia, «gli esiti socialmente disastrosi di questa violenta accelerazione della globalizzazione hanno fatto maturare un rifiuto dell’austerità e delle sue istituzioni», che ha trovato espressione prima in Grecia, nell’estate 2015, dove l’ennesimo programma “lacrime e sangue” è stato rispedito (invano) al mittente con un referendum, poi in Gran Bretagna un anno dopo con la Brexit, e infine in Italia, con la recente bocciatura della riforma costituzionale promossa dal governo. «Dopo cinque lunghi anni di austerità – continua l’analista di “Micromega” – una borghesia impoverita e un esercito di venti milioni di disoccupati hanno iniziato ad alzare la voce: approfittando dei tre grandi referendum popolari, queste vittime del neoliberismo europeo hanno inferto tre durissimi colpi al progetto di integrazione europea». E attenzione: «È esattamente a questo punto della storia che interviene la mossa decisa da Draghi giovedì scorso: la stretta monetaria programmata per i prossimi mesi si configura come la prima, violenta risposta delle élite europee alla marea antisistema che le sta minacciando».Si tratta di una reazione che «rischia di compromettere la stabilità finanziaria dell’Europa», e proprio su questo punto «si misurerà l’intraprendenza della Bce». La stretta monetaria, infatti, «è pensata per aumentare il grado di esposizione dei governi alla disciplina dei mercati: tolta la protezione del quantitative easing, il debito pubblico dei paesi periferici tornerà ad essere pienamente vulnerabile ai venti della speculazione». Nei progetti dell’autorità monetaria, «la pressione esercitata dai mercati attraverso gli spread può riuscire laddove le regole, da Maastricht al Fiscal Compact, hanno fallito: costringere la periferia d’Europa sulla strada delle riforme e dell’austerità senza ulteriori esitazioni, e dunque senza quella prudenza che l’avanzata dei populismi sembra suggerire alla classe politica europeista». Nel promuovere l’austerità attraverso la disciplina degli spread, Draghi «si pone alla testa di quella classe politica e la trascina sul rischioso crinale dello scontro frontale con gli sconfitti della globalizzazione e le loro rivendicazioni». L’impatto, per “Micromega”, «potrebbe trascinare ancora più a fondo l’Europa».«Una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite». Mario Draghi esce allo scoperto: dopo la Brexit e il referendum italiano, avverte che “la ricreazione è finita”. La Bce chiuderà i rubinetti del quantitative easing, esponendo gli Stati al ricatto dello spread, senza più protezioni. Fallita la “carota” (Renzi), si torna al “bastone”: meno soldi per tutti, tranne che per la Germania. Una sfida, frontale, a chi ha votato No – a Renzi, all’Ue. Dal presidente della Bce, scrive “Micromega”, arriva la prima, vera risposta dell’élite sconfitta nelle urne italiane e inglesi. In arrivo lacrime e sangue, se gli Stati non vorranno piegarsi alle “riforme strutturali” volute dal super-potere. Tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della Banca d’Italia, pronunciate mentre infuriavano gli anni di piombo: «La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga». E Draghi «non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi», scrive “Micromega”. Al contrario: «Le affila, per fronteggiare la minaccia del populismo».
-
Il fanta-mondo di Grillo, pieno di giovani finalmente felici
Ispirato, profetico, retorico. E’ il Beppe Grillo della “prima lettera dell’elevato ai 5 Stelle”, alla vigilia di un referendum che i grillini considerano di portata epocale. Il voto potrebbe schiantare Renzi così come Bruxelles e la Bce stanno schiantando l’Italia, ma nei programmi ufficiali dei 5 Stelle non esistono indicazioni esplicite per un Piano-B, una riconversione strutturale e sovranista dell’economia basata sul dosaggio intelligente (e illimitato) del deficit. Ancora una volta, per motivare i suoi, Grillo ricorre a orizzonti quasi metafisici, evitando accuratamente i dettagli: cosa farebbe, davvero, il Movimento 5 Stelle, se fosse chiamato a governare un paese che non ha più capacità di spesa né autonomia di bilancio? Grillo preferisce rivendicare la presunta diversità del suo movimento, attaccando gli avversari: «Proiettano su di noi quello che sono loro, non sopportano la felicità, la gioia del progetto, il fatto che il MoVimento discenda da un comico». Peggio: «Non sopportano idee originali, lo humor», e quindi «odiano la lealtà, la carriera fatta onestamente». Addirittura: «Noi siamo quelli che avrebbero voluto essere, siamo loro da giovani».Grillo definisce i fedeli «gli eredi del mondo che verrà», forti del vantaggio di non avere debiti con nessuno. Il linguaggio del leader si fa letterario, quasi mistico: «Noi siamo i perdenti e anche un po’ poeti. Imparate ad essere perdenti. Fallire nella vita è accedere alla poesia senza bisogno di talento». La sua via, il M5S se la sta costruendo «non con le ideologie», ci mancherebbe, ma «con idee che creano domande». Una su tutte: come rigenerare l’Italia liberandola dal giogo dell’Ue? Macché. La domanda è questa: «Se in una società fondata sul lavoro scompare il lavoro, che società avremo?». Dettaglio: il lavoro sta già scomparendo – e in questa società, non in quella del quarto millennio. «Siamo nell’età dell’informazione e la scuola forma ancora operai e impiegati. Che mondo sarà?», si domanda Grillo, pensoso. Ma ecco il sol dell’avvenire: «Scompariranno gli uffici, compariranno i coworking, il gioco si mischierà al lavoro, e il nostro tempo sarà liberato dal lavoro». Ecco il punto: «Quando nella nostra vita il tempo libero sarà il triplo del lavorato, bisognerà organizzare il tempo liberato».«Una crisi economica può durare 2-3 cicli economici, 3-4 anni. Quando dura da 10 anni siamo di fronte a qualcos’altro: bisogna fermarsi e rifletterci su». Questa dunque la sintesi del Grillo-pensiero, in un’Europa dove gli inglesi hanno votato la Brexit e la Francia vede in pole position la sovranista Marine Le Pen che minaccia l’uscita dall’euro e dall’Ue? Grillo preferisce uno sguardo da sociologo sognante: «I giovani sono sono diventati millennials e hanno cambiato il modo di vivere il presente». Sostiene che «i creativi culturali, i millennials, i giovani d’oggi hanno imparato a vivere negli interstizi della società preparata dai loro genitori e nonni». Ormai «rinviano le scelte economiche definitive come la casa di proprietà, il matrimonio, i figli o più semplicemente l’acquisto dell’auto», ammette. Lo fanno perché sono senza soldi? No, lo fanno «perchè sono interessati a spendere al meglio l’unica risorsa scarsa che hanno a loro disposizione negli anni migliori: il proprio tempo». Per questo «viaggiano in Europa con poche decine di euro», grazie ai voli low-cost, e «girano le grandi città con auto in car sharing, facendo car pooling», e poi «condividono appartamenti per le vacanze, conoscono persone, vivono in modo più sostenibile ed ecologico».Il capo dei 5 Stelle cita il Jobs Act: la traduzione italica dei diktat del sommo potere finanziario per cancellare i diritti del lavoro? No, è solo «la risposta sbagliata a un cambio strutturale del mondo», ovvero «è un modo per precarizzare, per abbassare il costo del lavoro abbassandone il valore». Serve invece «valorizzare l’economia dell’esperienza aumentando il valore del lavoro, senza necessariamente aggravarne il costo». E come? In attesa di risposte, Grillo allunga lo sguardo sul mondo, che «sta cambiando velocemente», e spiega ai suoi che «al posto di aziende petrolifere automobilistiche o finanziarie negli ultimi 30 anni, oggi le prime 5 aziende del mondo per capitalizzazione sono Apple, Alphabet, Microsoft, Amazon e Facebook». YouTube, acquistata per 1,65 miliardi di dollari, aveva 65 dipendenti. Instagram, comprata a 1 miliardo, aveva 13 dipendenti. E così Linkedin e Whatsapp: «Avevano poche decine di dipendenti e sono passate di mano per decine di miliardi di dollari». Da ciò, Grillo deduce che «ci aspetta un futuro dove il mercato non potrà più ricattare nessuno perchè al centro ci sarà l’individuo». Bingo: «Attraverso un reddito di cittadinanza o universale», ognuno «potrà scegliersi il lavoro che ama e non il contrario». Proprio come nelle fiabe.Ispirato, profetico, retorico. E’ il Beppe Grillo della “prima lettera dell’elevato ai 5 Stelle”, alla vigilia di un referendum che i grillini considerano di portata epocale. Il voto potrebbe schiantare Renzi così come Bruxelles e la Bce stanno schiantando l’Italia, ma nei programmi ufficiali dei 5 Stelle non esistono indicazioni esplicite per un Piano-B, una riconversione strutturale e sovranista dell’economia basata sul dosaggio intelligente (e illimitato) del deficit. Ancora una volta, per motivare i suoi, Grillo ricorre a orizzonti quasi metafisici, evitando accuratamente i dettagli: cosa farebbe, davvero, il Movimento 5 Stelle, se fosse chiamato a governare un paese che non ha più capacità di spesa né autonomia di bilancio? Grillo preferisce rivendicare la presunta diversità del suo movimento, attaccando gli avversari: «Proiettano su di noi quello che sono loro, non sopportano la felicità, la gioia del progetto, il fatto che il MoVimento discenda da un comico». Peggio: «Non sopportano idee originali, lo humor», e quindi «odiano la lealtà, la carriera fatta onestamente». Addirittura: «Noi siamo quelli che avrebbero voluto essere, siamo loro da giovani».
-
Trump ha una pistola alla tempia, soccomberà anche lui?
«Qualunque cosa farà Trump sarà sempre un decimo dei danni che avrebbe potuto fare la Clinton», ma il problema ormai è un altro: riuscirà a resistere alle micidiali pressioni cui è già sottoposto dal super-potere che aveva puntato su Hillary? Il neoeletto deve vedersela con il complesso militare-industriale, i neocon, la Cia, il Pentagono: gente che ha liquidato i Kennedy, che ha messo al guinzaglio Obama, che riportò all’ordine persino Bush, lui pure – all’inizio – isolazionalista quanto Trump. Lo scrisse un neocon di razza come Michael Ledeen: «Quando Bush fu eletto, nel 2000, pensava all’America; poi venne l’11 Settembre e da quel momento capì che doveva continuare a occuparsi del mondo intero». Ledeen lo dice chiaramente, facendo capire che furono loro a fargli cambiare idea. «Oggi non serve neppure più eliminare fisicamente un presidente», spiega Massimo Mazzucco: «In genere bastano gli avvertimenti». Come quello, inequivocabile, che un altro neocon come John Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu, ha appena rivolto a Trump: il neopresidente, secondo Bolton, dovrà stare in guardia «contro il terrorismo internazionale e anche il terrorismo interno». Nuovo 11 Settembre in arrivo? O basta la semplice minaccia?«Vedremo quanto Trump saprà resistere a questi “avvertimenti” nemmeno troppo velati», dichiara il regista Massimo Mazzucco, autore di importanti documentari sul maxi-attentato del 2001 che ha cambiato la storia del pianeta, proiettando le guerre americane in ogni continente. Intervenendo a “Border Nights”, trasmissione web-radio condotta da Fabio Frabetti, Mazzucco sostiene che l’elevata vocazione “criminale” di Hillary Clinton rivela la vera natura dei poteri che l’hanno sostenuta, gli stessi che oggi già assediano Trump. La vera colpa della Clinton, agli occhi degli elettori che alla fine si sono rassegnati a votare Trump? «Non solo ha usato il server di casa anziché quello del ministero degli esteri, ma ha anche cancellato 30.000 email per sottrarle all’Fbi, salvo poi andare in televisione a dire, mentendo, di aver messo tutte le email a disposizione delle indagini». Da quelle email, hackerate da Wikileaks, emergono retroscena imbarazzanti: milioni di dollari incamerati dalla Fondazione Clinton in cambio di favori a paesi arabi filo-Isis, concessi da Hillary quando era Segretario di Stato, e in più lo scandalo di Bengasi, con l’uccisione dell’ambasciatore americano, cioè dell’uomo che avrebbe potuto provare il traffico di armi che dalla Libia venivano fatte affluire in Siria, sotto copertura Usa, per rovesciare Assad.Bene per noi europei, se ha vinto Trump: in teoria, avremo meno tensioni e meno guerre. A favore del neoeletto depongono alcuni aspetti rilevanti: «E’ l’unico presidente americano, almeno negli ultimi 50 anni, ad aver vinto una campagna elettorale solamente con i suoi soldi», sottolinea Mazzucco. «Ha speso un centesimo, credo, di quello che ha speso la Clinton, e quindi ha vinto meritatamente, per quello che ha detto». Da qui in poi, però, è possibile che accada di tutto: «Temo che Trump sia talmente inesperto da circordarsi di gente dell’establishment». Sta già accadendo: come capo di gabinetto, posizione fondamentale nel governo americano, Trump ha scelto Reince Priebus, cioè il segretario nazionale del partito repubblicano, «lo stesso partito repubblicano che ha cercato in tutti i modi di far fuori Trump e che adesso cerca di controllarlo attraverso la scelta del suo capo di gabinetto». Altra scelta fondamentale, «passata inosservata ma che si dimosterà molto significativa nel corso del tempo», è il vicepresidente che «gli hanno messo di fianco», Mike Pence: «Non è affatto un governatorino di campagna come sembra, tranquillo e tradizionalista». Al contrario: «E’ un forsennato, feroce, fetente neocon della prima ora».Mike Pence, continua Mazzucco, è l’uomo che nel 2001, subito dopo l’11 Settembre, si occupò di inondare i media con la propaganda del caso-antrace, appena due mesi dopo l’attentato alle Torri. Con “lettere all’antrace” venivano minacciati diversi senatori, «stranamente tutti democratici, e stranamente tutti quelli che chiedevano di fare una commissione senatoriale sull’11 Settembre, che poi infatti non si fece». Fu proprio Pence ad alimentare la teoria che quell’antrace venisse da Saddam Hussein, «perché lui era mandato avanti da neocon come Cheney e Rumsfeld, che avevano bisogno di una scusa per portare la guerra in Iraq». E quando l’Fbi, «in uno strano gesto di onestà», dichiarò che l’antrace non veniva dall’Iraq ma era “scappato” da un laboratorio Usa, lo stesso Pence scrisse una lettera aprerta al ministro giustizia di allora, John Ashcroft, dicendo: “Lo sappiamo tutti che l’antrace è di Saddam”. «Questo – dice Mazzucco – dimostra che Mike Pence non è affatto un tranquillo governatore di campagna, è un mastino da guerra dei neocon. E sono convinto che l’abbiamo messo accanto a Trump proprio per cercare di condizionare la sua politica estera».Donald Trump è davvero isolazionista, «ha capito benissimo che il mondo sta in piedi fin che c’è un equilibrio e ognuno si fa gli affari suoi: Russia, Cina e Stati Uniti. Non si può continuare a andare a invadere dappertutto». Ma se Trump si rivelasse “troppo” isolazionista, cioè non-guerrafondaio, «Mike Pence cercherà sicuramente di condizionare la sua politica estera verso una strategia più aggressiva». Mazzucco è convinto che per Trump sarà durissima: «Se si dimostra sordo nel continuare le strategie imperialistiche in Medio Oriente, o gli sucede qualcosa (e diventa presidente Mike Pence), o comunque in qualche modo riusciranno a convincerlo. Un po’ come convinsero Bush nel 2000, che in campagna elettorale – prima dell’11 Settembre – diceva le stesse cose diTrump: smettere di fare “nation building”, cioè conquistare paesi». Oggi, a preoccupare il Deep State sono i rapporti con Putin: la distensione in programma con Mosca è nelle corde di Trump, a partire dalla Siria: la priorità «non è più abbattere Assad, come voleva Obama, ma abbattere l’Isis, in collaborazione con Putin». Glielo lasceranno fare?Quasi a rassicurare una parte di quei poteri-ombra, Trump lascia capire che – in cambio – abbandonerà i palestinesi al loro destino: ha dichiarato che Gerusalemme sarà proprietà esclusiva di Israele e che gli insediamenti nei Territori Occupati non sono un ostacolo per la pace in Medio Oriente. Un’evidente concessione tattica alla lobby israeliana, che è uno dei poteri schierati con Hillary. Trump sta provando a destreggiarsi, ben sapendo che «difficilmente i veri poteri Usa si rassegneranno a perdere l’egemonia completa sul mondo». Se così fosse, c’è già Bolton a ricordargli che dovrà guardarsi anche dal “terrorismo interno”. La questione è della massima serietà e pericolosità, insiste Mazzucco: «Anche Obama, appena eletto, pensava davvero di potersi ritirare dall’Afghanistan». Forse non sapeva ancora che «le decisioni non le prende il presidente». Ogni mattina, alla Casa Bianca, riceve il briefing del capo dell’Fbi, che lo informa di quello che succede all’interno del paese, e quello del capo della Cia, che gli racconta quello che succede nel resto del mondo. «Quindi è chi controlla quei briefing che, in realtà, fa fare le scelte al presidente».«Se vai da Obama e gli dici: guarda che qui, a meno di mettere 30.000 soldati in più, ci portano via tutto, gli oleodotti, le basi che li controllano e anche le coltivazioni di oppio da cui dipende il traffico mondiale di eroina, che avviene sotto il controllo statunitense, è chiaro che ti trovi un Obama che, dopo aver vinto il Premio Nobel, manda 30.000 soldati in più in Afghanistan a combattere». Ma, appunto, «dipende da quello che gli raccontano i veri poteri», cioè il complesso militare-industriale, il Pentagono, la Cia: «Sono loro che cercheranno di condizionare anche Trump». Aggiunge Mazzucco: «Io al posto di Obama avrei preteso le prove di quanto mi veniva detto, ma è anche vero che le prove si fabbricano in fretta: è facile condizionare un presidente». Non ci riuscirono solo in un caso: quello di Kennedy. Fu «l’ultimo, vero presidente della storia americana». E cercò di smantellare la Cia, «proprio perché aveva capito che era diventato un centro di potere molto più forte della presidenza». Kennedy aveva già avviato lo smantellamento dell’intelligence: «Ha iniziato licenziando il capo della Cia, Allen Dulles, per la storia della Baia dei Porci», lo sgangherato piano per rovesciare Fidel Castro con il disastroso tentativo di invasione di Cuba, affidato a mercenari.Come sappiamo, però, Kennedy «non ha fatto in tempo a finire il lavoro: è stato fatto fuori da un’alleanza tra la Cia e la mafia», ovvero: «La Cia l’ha deciso e la mafia ha fatto l’esecuzione». Curiosamente, aggiunge Mazzucco, nel ruolo più importante della Commissione Warren, incaricata delle indagini ufficiali, il nuovo presidente Lyndon Johnson «ha messo proprio Allen Dulles, cioè l’ex direttore della Cia licenziato da Kennedy». A giudicare chi è fosse stato a uccidere Kennedy misero proprio la principale vittima politica di Kennedy, il “pezzo da novanta” che Jfk era riuscito a far fuori durante la sua presidenza. «I due Kennedy sapevano che sarebbero morti, ma decisero di andare fino in fondo». Due casi più unici che rari: «Non credo ci siano state altre persone così testarde, di fronte agli “avvisi” ricevuti». Bush abbandonò il suo isolazionismo, Obama il suo pacifismo. Di che stoffa è fatto Donald Trump lo vedremo solo adesso. «Visti i precedenti, c’è da temere davvero un attentato “false flag”, un grande “avvertimento” al neopresidente che vorrebbe archiviare la guerra». Ottimismo? In una battuta: forse si può davvero “tifare” per Trump, «se non altro perché non gli hanno ancora dato il Nobel per la Pace».«Qualunque cosa farà Trump sarà sempre un decimo dei danni che avrebbe potuto fare la Clinton», ma il problema ormai è un altro: riuscirà a resistere alle micidiali pressioni cui è già sottoposto dal super-potere che aveva puntato su Hillary? Il neoeletto deve vedersela con il complesso militare-industriale, i neocon, la Cia, il Pentagono: gente che ha liquidato i Kennedy, che ha messo al guinzaglio Obama, che riportò all’ordine persino Bush, lui pure – all’inizio – isolazionalista quanto Trump. Lo scrisse un neocon di razza come Michael Ledeen: «Quando Bush fu eletto, nel 2000, pensava all’America; poi venne l’11 Settembre e da quel momento capì che doveva continuare a occuparsi del mondo intero». Ledeen lo dice chiaramente, facendo capire che furono loro a fargli cambiare idea. «Oggi non serve neppure più eliminare fisicamente un presidente», spiega Massimo Mazzucco: «In genere bastano gli avvertimenti». Come quello, inequivocabile, che un altro neocon come John Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu, ha appena rivolto a Trump: il neopresidente, secondo Bolton, dovrà stare in guardia «contro il terrorismo internazionale e anche il terrorismo interno». Nuovo 11 Settembre in arrivo? O basta la semplice minaccia?
-
Proteste al soldo dell’1%, per deporre Trump (o ucciderlo)
Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo. Milioni di americani in piazza contro di lui? Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto. I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente? Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità. Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media. Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali. Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine». E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.Per Craig Roberts, la colossale manipolazione in corso per tentare di “scippare” a Trump la vittoria è pericolosa, perché mina la tenuta democratica degli Stati Uniti – paese su cui pesano ombre gigantesche, dal coinvolgimento di settori dell’intelligence negli omicidi eccellenti della storia (i Kennedy, Martin Luther King) alle “inspiegabili” falle nella sicurezza in occasione di tutti i grandi attentati, dall’11 Settembre in poi. Tradotto: Donald Trump – chiunque sia davvero, politicamente – non può non sapere di essere in serio pericolo: potrebbe essere travolto dalle proteste o ricattato dagli organizzatori della “rivolta”, affinché accetti di “prendere a bordo” gli uomini-chiave di Hillary. E’ per loro, in ogni caso, che i manifestanti anti-Trump lavorano: alla guida della rivolta ci sono «teppisti prezzolati, pagati dall’oligarchia», proprio come «Washington e il German Marshall Fund pagarono gli studenti di Kiev per contestare il governo ucraino democraticamente eletto al fine di preparare il colpo di Stato». L’organizzazione “Change.org”, secondo Craig Roberts «sta distruggendo la reputazione di tutti i progressisti facendo circolare una petizione per chiedere all’Electoral College di annullare le elezioni».Tutto già visto nel 2014 a Kiev, dove «la paga era abbastanza buona da attirare persone che non erano nemmeno ucraine ma erano pagate per protestare come se lo fossero». Ci risiamo? Per la “Cnn”, moltissimi americani rifiutano di accettare la vittoria di Trump, e così hanno riempito le strade in non meno di 25 città statunitensi, dall’oggi al domani. «Spero che nessuno creda veramente che proteste simultanee in 25 città siano un evento spontaneo», sottolinea Craig Roberts nel suo blog, in un post ripreso da “Megachip”. «Gli stessi slogan e gli stessi simboli, la notte stessa dopo le elezioni? Quali interessi stanno servendo? E, come sempre si chiedevano gli antichi romani, “cui prodest”? C’è solo una risposta: l’oligarchia e solo l’oligarchia ne trae beneficio». La lettura di Roberts: «Trump è una minaccia per l’oligarchia, perché intende fermare la svendita all’estero dei posti di lavoro americani. Questa svendita, santificata come “libero mercato” dagli economisti-spazzatura neoliberisti, è una delle ragioni principali del peggioramento nel XXI secolo della distribuzione del reddito negli Usa».In altre parole, «i soldi che erano pagati come salario e stipendi per la classe media a impiegati dell’industria manifatturiera americana e ai diplomati, sono stati dirottati nelle tasche dell’Uno Percento. Quando le corporation americane spostano la loro produzione di merci e servizi venduti agli americani, nei paesi asiatici come la Cina e l’India, il loro costo in stipendi crolla. I soldi prima pagati come reddito per la classe media diventano invece bonus per gli executive, dividendi e profitti sui capitali per gli azionisti». Risultato: «La scala per la mobilità verso l’alto che ha fatto dell’America la terra delle opportunità è stata smantellata per il solo obiettivo di rendere multimiliardaria una manciata di persone». Inotre, Trump è «una minaccia per l’oligarchia», anche perché «vuole relazioni pacifiche con la Russia». Tutto si spiega: «Per rimpiazzare la tanto profittevole “minaccia sovietica”, l’oligarchia e i loro agenti neocon hanno lavorato incessantemente per creare la “minaccia russa” demonizzando la Russia». Craig Roberts sa di cosa parla: era al governo con Reagan, di cui è stato viceministro del Tesoro. «Abituato a molti decenni di profitti in eccesso dalla profittevole Guerra Fredda, il complesso militare-securitario si arrabbiò quando il presidente Reagan mise fine alla Guerra Fredda. Prima che queste idrovore di contribuenti americani riuscissero a prolungare la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica collassò come risultato del colpo di Stato della destra contro il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov».Al che, continua Craig Roberts, «il complesso militare-securitario e i suoi agenti neocon e sionisti cucinarono allora la “guerra al terrore” per continuare a far fluire i soldi all’Uno Percento. Ma per quanto duramente lavorassero i media “presstitute” per creare la paura del “pericolo musulmano”, persino gli americani indifferenti sapevano che i musulmani non possiedono migliaia di missili intercontinentali con testate termonucleari capaci di distruggere gli interi Stati Uniti in pochi minuti». Non ce l’avevano, i musulmani, «l’Armata Rossa capace di invadere l’Europa in un paio di giorni». Di fatto, i musulmani non avevano neppure bisogno di armate: «I rifugiati dalle guerre scatenate da Washington stanno invadendo l’Europa». Caduta l’Urss, comunque, «la scusa per il trilione di dollari annuale per il complesso militare-industriale non c’era più. Così l’oligarchia creò il “nuovo Hitler” in Russia. Hillary fu il principale agente dell’oligarchia per surriscaldare la nuova Guerra Fredda. Hillary è lo strumento, arricchito dall’oligarchia, il cui lavoro da presidente sarebbe stato quello di proteggere e aumentare il budget da un trilione di dollari al complesso militare-securitario. Con Hillary alla Casa Bianca, il saccheggio dei contribuenti americani, in nome dell’opulenza dell’Uno Percento, sarebbe andato avanti senza ostacoli. Ma se Trump mette fine alla “minaccia russa”, la rendita dell’oligarchia si prende un bel colpo».Inoltre, le proteste contro Trump sono sospette anche per un altro motivo: «Al contrario di Hillary, Obama e George W. Bush, Donald Trump non ha fatto a pezzi e disperso milioni di persone in sette nazioni, mandando milioni di rifugiati delle guerre dell’oligarchia a invadere l’Europa». Trump ha fatto fortuna «senza vendere l’influenza del governo degli Usa ad agenti stranieri, come invece hanno fatto Bill e Hillary». E allora, perché stanno protestando i contestatori? «Sono stati ingaggiati per protestare. Così come i contestatori di Maidan a Kiev erano ingaggiati per protestare dalle Ong finanziate dagli Usa e dalla Germania». In Ucraina, gli Usa riuscirono a infiltrare i loro agenti nel nuovo governo ucraino, così come ha confermato Victoria Nuland, una neocon piazzata al Dipartimento di Stato da Hillary Clinton col proposito di creare un conflitto con la Russia. Dunque, conclude Paul Craig Roberts, l’esplosione della protesta anti-Trump dimostra che l’oligarchia lo teme davvero, anche se «alcuni pensano che Trump sia uno stratagemma dell’oligarchia». Non ha senso: visto l’investimento su Hillary, per gli oligarchi era preferibile «vincere con la propria piattaforma», anziché «installare un presidente con una piattaforma opposta e poi cercare di rivoltarselo», anche perché «un’altra svendita aumenterebbe la rabbia del popolo».La dura verità, però, è che «Trump ha vinto la presidenza, ma l’oligarchia è ancora al potere», e questo «rende difficile ogni riforma». Aggiunge Craig Roberts: Marx comprese dall’esperienza storica un drammatico insegnamento che poi Lenin e Stalin impararono da lui. E cioè: «Il cambiamento non può avere successo se la classe dirigente scalzata è lasciata intatta dopo una rivoluzione contro di essa». Lo dimostra il Sud America: «Ogni rivoluzione degli indigeni ha lasciato senza fastidi la classe dirigente, e ogni rivoluzione è stata sconfitta dalla collusione tra la classe dirigente e Washington», che «ha cospirato con le élite tradizionali per rimuovere i presidenti eletti», come accaduto in Honduras «moltissime volte». Di recente, Washington «ha aiutato le élite a rimuovere le presidentesse dell’Argentina e del Brasile». I presidenti del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia «sono a mezz’aria e probabilmente non sopravvivranno». In più, l’oligarchia «è determinata a mettere le mani su Julian Assange», il fondatore di Wikileaks. «A tal fine Washington intende abbattere il governo dell’Ecuador che, a scorno di Washington, ha dato a Julian Assange asilo politico». Ancora più cruento lo scontro in Venezuela, dove – secondo Craig Roberts – il presidente socialista Hugo Chavez è stato addirittura assassinato. Il suo errore? Aver graziato i golpisti che avevano cospirato contro di lui.«Secondo Marx, Lenin e Stalin, questo è il classico errore per un rivoluzionario: contare sulla buona volontà da parte della classe dirigente scalzata è il modo più sicuro per lasciar sconfiggere la rivoluzione». Secondo Craig Roberts, l’America Latina si è dimostrata incapace di capire questa lezione: le rivoluzioni non possono essere concilianti. Donald Trump? «E’ un uomo d’affari. L’oligarchia gli può permettere l’aura del successo in cambio di nessun cambiamento reale». Intendiamoci: «Trump non è perfetto. Potrebbe fallire da solo. Ma noi lo sosterremo sui suoi due punti del suo programma più importanti: ridurre le tensioni tra le due maggiori potenze nucleari e bloccare la politica di Washington che permette al globalismo di distruggere le prospettive economiche degli americani», insiste Craig Roberts. «La combinazione di un’economia svuotata dal globalismo ed immigrazione è un incubo. Che Trump lo abbia capito è una ragione per sostenerlo». E per temere per la sua incolumità: «Una volta che il presidente Trump sarà delegittimato, sarà facile per l’oligarchia assassinarlo, a meno che l’oligarchia possa nominare e controllare il suo governo». Per ora, comunque, «Trump è il primo candidato per un assassinio».Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo. Decine di migliaia di americani in piazza contro di lui? Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto. I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente? Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità. Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media. Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali. Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine». E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.
-
Se gli americani si liberano dell’élite mafiosa che li domina
Non siete sorpresi che Hillary e le sue puttane della stampa non abbiano incolpato Putin per il fatto che il direttore dell’Fbi Comey ha riaperto il caso delle e-mail della Clinton? Queste hanno hanno messo in gioco la seconda carta a favore di Hillary. Hanno reso Comey il problema. Secondo il senatore Harry Reid e le puttane, non dobbiamo preoccuparci dei crimini di Hillary. Dopotutto, è solo una donna della politica che si sta creando il nido, come gli uomini in politica hanno fatto per anni. Perché tutti questi misogini continuano a tirarla in mezzo? Le puttane lamentano che il presunto crimine commesso da Comey sia molto più importante. Questo odiatore di donne repubblicano ha violato l’Hatch Act dicendo al Congresso che l’investigazione che aveva dichiarato chiusa è stata riaperta. Un’interpretazione molto strana dell’Hatch Act. Durante un’elezione va bene annunciare che il candidato presidente è innocente, ma non è ok dire che è sotto investigazione.Nel luglio 2016 Comey ha violato l’Hatch Act quando, su ordini del corrotto Attorney General di Obama, ha detto che Hillary era pulita. Facendo così, Comey ha usato il prestigio che può dare l’annuncio federale di fine indagini per la violazione dei protocolli di sicurezza da parte della Clinton per spingerla dal punto di vista elettorale. In effetti, la situazione di Hillary nei sondaggi è basata sul fatto che i sondaggisti danno maggior peso ai suoi supporter. È facile creare un favorito se pesi di più alcuni supporter nelle domande elettorali. Se si guarda alle persone che assistono alle apparizioni pubbliche, è chiaro che la popolazione statunitense preferisce Donald Trump, il quale si oppone alla guerra con la Russia e la Cina. La guerra con le potenze nucleari è una grossa parte di queste elezioni. Il problema di Hillary ha messo in difficoltà l’oligarchia statunitense, di cui la Clinton è serva fedele. Cosa faranno se vince Trump? Farà la fine di Jfk, Bob Kennedy, Martin Luther King, George Wallace? Ai posteri l’ardua sentenza. Arriverà un’inserviente di un hotel all’ultimo istante alla stessa maniera con cui le oligarchie si sono sbarazzate di Dominique Strauss-Kahn?Tutte le femministe d’occidente, progressiste e di sinistra, si erano fatte abbindolare dall’ovvia trappola tesa a Strauss-Kahn. Dopo che a Strauss-Kahn è stato impedito di candidarsi all’elezione presidenziale francese e lo si è messo nelle condizioni di dimettersi da presidente del Fmi, le autorità di New York hanno dovuto far cadere tutte le accuse contro di lui. Washington però ha ottenuto il risultato di mettere il suo vassallo Sarkozy all’Eliseo. Ecco come l’oligarchia fa a pezzi quelli che sospetta non servirebbero i suoi interessi. La corrotta ed autoreferenziale oligarchia fa in modo di avere in pugno i governi ed i media, i centri di pensiero e le maggiori università e, ovviamente grazie alle puttane della stampa, le menti degli statunitensi. Il primo interesse degli oligarchi ora è rimettere in sesto Hillary per la corsa alla presidenza, per cui vediamo se riusciranno ancora una volta ad ingannare la popolazione.Mentre siamo in attesa, preoccupiamoci di un’altra questione importante. Il sindacato criminale della Clinton negli ultimi anni del 20° secolo ha permesso a un pugno di mega-corporations di consolidare tutti i media Usa in poche mani. Questo accentramento di potere dell’oligarchia è stato ottenuto nonostante la legge antitrust. Le fusioni nel campo dei media hanno fatto a pezzi la tradizione di media divisi ed indipendenti. Ma all’un percento cosa interessa la legge federale? Nulla. Il potere dell’un percento lo rende immune alla legge. I crimini di Hillary potrebbero costarle le elezioni, ma non andrà in prigione. Non contenta del controllo del 90% dei media, l’oligarchia vuole ancora maggior concentrazione e maggior controllo. Sembra che ce la faranno, grazie al corrotto governo Usa. La Federal Trade Commission dovrebbe rafforzare la legge antitrust. Invece, l’agenzia federale abitualmente viola l’antitrust permettendo concentrazioni a livello di monopolio di interessi economico-finanziari.A causa del fallimento del governo federale nel rafforzare le proprie stesse leggi, ora abbiamo banche “troppo grandi per fallire”, un monopolio incontrollato in Internet e la distruzione dei media indipendenti. Non molto tempo fa c’era un campo dell’economia conosciuto come antitrust. Dottorandi si sono specializzati in questo campo e hanno scritto dissertazioni sul controllo pubblico dei poteri monopolistici. Suppongo che questa branca dell’economia, come gli Stati Uniti della mia gioventù, non esiste più. Rahul Manchanda spiega che «di nuovo un enorme conglomerato mediatico sta per essere assorbito da un altro enorme conglomerato mediatico, per creare un altro gargantuesco outlet dei media, in un nuovo rafforzamento dell’enorme forza, del denaro, della ricchezza, del potere intimidatorio, delle cospirazioni e del controllo», facendo a pezzi la Costituzione ed il Primo Emendamento.(Paul Craig Roberts, “Il popolo americano può sconfiggere l’oligarchia che lo governa?”, da “Counterpunch” del 2 novembre 2016, post tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”. Craig Roberts, economista, è stato viceministro del Tesoro con Reagan nonché “editor” del “Wall Street Journal”; il suo libro “How the Economy Was Lost” è disponibile su “Counterpunch” in formato digitale; il suo ultimo libro è “How America Was Lost”).Non siete sorpresi che Hillary e le sue puttane della stampa non abbiano incolpato Putin per il fatto che il direttore dell’Fbi Comey ha riaperto il caso delle e-mail della Clinton? Queste hanno hanno messo in gioco la seconda carta a favore di Hillary. Hanno reso Comey il problema. Secondo il senatore Harry Reid e le puttane, non dobbiamo preoccuparci dei crimini di Hillary. Dopotutto, è solo una donna della politica che si sta creando il nido, come gli uomini in politica hanno fatto per anni. Perché tutti questi misogini continuano a tirarla in mezzo? Le puttane lamentano che il presunto crimine commesso da Comey sia molto più importante. Questo odiatore di donne repubblicano ha violato l’Hatch Act dicendo al Congresso che l’investigazione che aveva dichiarato chiusa è stata riaperta. Un’interpretazione molto strana dell’Hatch Act. Durante un’elezione va bene annunciare che il candidato presidente è innocente, ma non è ok dire che è sotto investigazione.
-
La festa è finita, tra un po’ useranno l’esercito contro di noi
Signori, si scende: la globalizzazione è finita. Usa e Cina, Nato, Fmi, Ue, Banca Mondiale? Sono in avaria e lo sanno benissimo, anche se ancora non lo ammettono. Il sistema ha le ore contate, perché l’epoca della crescita è tramontata per sempre. Sta montando la marea del malcontento, ovunque, perché a pagare il conto della globalizzazione forzata sono miliardi di persone: così, se vorrà tenersi il potere, questa élite fallimentare dovrà ricorrere sistematicamente alla polizia e all’esercito, archiviando anche la democrazia. Lo sostiene Raúl Ilargi Meijer, analista indipendente, autore di “The Automatic Earth”. «La fine della crescita espone nella sua nudità la stupidità e ignoranza di tutti». Sotto accusa i leader, assolutamente inadeguati. In periodo di crescita, i politici «non devono fare altro che “sedurre” i votanti», vendendo loro la “certezza” di una crescita infinita. In tempi di contrazione, invece, hanno davanti difficoltà ben più sostanziali: «Gli tocca convincere i votanti di essere in grado di minimizzare “le sofferenze delle masse”. Una massa priva di garanzie, alla quale chiaramente nessuno vuol ritrovarsi a fare parte. E lì è proprio difficile “vendersi”».La fine di ogni ciclo di crescita, inevitabilmente, cambia la struttura democratica, avverte Meijer, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. La crisi produrrà nuovi politici, perché, come sostenne Hazel Henderson, «l’economia non è altro che un travestimento della politica». Tradotto: «Da un lato ti trovi la classe al potere che tenta di tenersi stretta al suo potere in declino, producendo falsi numeri positivi a vagonate e sostenendo che comunque non esiste alternativa possibile alla loro (semmai soltanto dosi maggiori della stessa ricetta), e dall’altro lato c’è una vaga affiliazione, nella misura in cui si può parlare di affiliazione, di destra e sinistra, individui e partiti, in grado di subodorare cambiamenti in corso che potranno usare a proprio beneficio». La classe al potere, i partiti tradizionali, inizieranno progressivamente ad estinguersi: «Gli verranno addossate le colpe, e perlopiù meritatamente, per la caduta del sistema economico». Infatti: «Se sei percepito come parte della vecchia guardia, sei fuori». L’ascesa di Trump, Farage e simili è stata molto più veloce di quanto chiunque potesse pensare. «Si nutrono di malcontento, ma sono in grado di farlo soltanto perchè questo malcontento è stato del tutto ignorato dalle classi dominanti».Il che, aggiunge Meijer, ha molto ha che fare con il fatto che tali governanti si sono senza dubbio arricchiti, mentre i “piani bassi” della società sicuramente no. «Inoltre, se il più della gente potesse ancora vantare comode esistenze da classe media, l’ostilità verso migranti e rifugiati sarebbe stata ben minore: e i vari Trump, Wilders, Le Pen o “Alternative für Deutschland” non avrebbero trovato le loro miniere d’oro. La percezione che i nuovi arrivati siano a qualche titolo responsabili per il peggioramento delle condizioni di vita crea terreno fertile per chiunque voglia servirsene». E siccome la sinistra «non tocca l’argomento», la destra «si prende tutto per assenza di concorrenza». Bernie Sanders e Jeremy Corbyn possono anche avere idee coraggiose, in materia di redistribuzione della ricchezza, ma il potere resiste e li ostacola. Così, molta parte della leadership – Hillary Clinton, Theresa May, Sarkozy, la Merkel – sta «orchestrando sagge virate verso destra», avendo sentore che «il potere non emanerà più dal centro». Politici che, conunque, sembrano ormai «destinati a essere spazzati via dal voto popolare».Ben più difficile, innvece, sarà «sbarazzarsi delle organizzazioni transnazionali, come l’Ue o l’Fmi (e molte altre) nonostante rappresentino un progetto fallito». “Bloomberg” certifica l’allarme del Fmi: «La fede nella globalizzazione è ormai a disagio di fronte alle evidenti disparità che crea. Dal voto britannico a favore dell’uscita dalla Ue, a Donald Trump che avanza al grido di “l’America prima di tutto”, aumentano le pressioni per porre un freno e ridurre l’integrazione economica, sempre all’ordine del giorno per Fmi e Banca Mondiale per almeno 70 anni. Alimentata da salari stagnanti e insicurezza lavorativa in costante crescita, la sommossa populista minaccia di gettare definitivamente nella depressione una economia che la dirigente dell’Fmi Christine Lagarde ammette essere già adesso debole e fragile». Attenzione: «La rappresaglia contro la globalizzazione si manifesta in sentimenti nazionalisti accentuati, sfiducia per il mondo esterno e desiderio di maggiore isolamento protezionistico», sostiene Luis Kuijs dell’Oxford Economics di Hong Kong, in passato anche burocrate del Fmi. Per il World Economic Outlook, l’espansione globale è già compromessa: l’economia mondiale sta rallentando.«Posso capire che un voto contro i vari Hollande, Hillary, Cameron costituisca una “rappresaglia contro la globalizzazione”», dice Meijer, a patto però che non venga demonizzato il termine “protezionismo”: «Ogni singola società del pianeta dovrebbe proteggere le sue esigenze di base evitando che finiscano sotto il controllo di stranieri, sia per profitto, sia per potere. Niente di buono può mai venirne dalla cessione di questa facoltà di controllo per nessuna società, assolutamente mai». Sicchè, «non c’è niente di sbagliato nel voler proteggere la propria capacità di controllo sul proprio approvvigionamento idrico, autosussistenza alimentare, garanzia di alloggi sicuri: parliamo di cose che, al contrario, non andrebbero mai negoziate o scambiate sui mercati globali». Chi vorrebbe globalizzare anche quelle? I soliti noti, «i cui comodi ruoli dirigenziali e comodi grassi conti bancari dipendono direttamente nella nostra progressiva perdita di controllo personale sopra le stesse esigenze di base per sopravvivere nella vita». In fondo, «è ciò che accade a ogni organismo che ha raggiunto i limiti della sua crescita: inizia a “nutrirsi dell’ospite”. Che si parli di un tumore, dell’Impero Romano, o dei nostri attuali modelli economici basati sul presupposto della crescita perenne».Trump ha abbaiato contro Messico e Cina, minacciando di innalzare grosse tariffe doganali sulle importazioni da entrambi i paesi. Innervositi dal Brexit, i leader europei «sono coscienti che potrebbe essere solo l’inizio di un terremoto politico che minaccia le vecchie certezze del continente». Il prossimo anno, ricorda Meijer, si voterà in Germania e Francia, le maggiori economie dell’Eurozona, nonchè in Olanda. «In ciascuno di questi paesi le forze anti-establishment stanno guadagnando terreno». Insieme al crescente risentimento verso la Ue da Budapest a Madrid, gli osservatori politici giudicano l’attuale avanzata del “populismo” come la più grande minaccia al blocco-Ue dalla sua creazione, dalle ceneri della Sconda Guerra Mondiale al presente. Per i media mainstream, la categoria “populista” include moltissima gente, «da Trump a Beppe Grillo con tutto ciò che ci sta in mezzo, passando dall’ungherese Orban a Nigel Farage, “Podemos” in Spagna, “Syriza” in Grecia, la Afd tedesca». Movimenti diversissimi tra loro, ma con una cosa in comune: «Protestano contro uno status quo già fallito e in rapido processo di deterioramento, e ricevono massiccio supporto popolare per questa ragione, dal momento che è la gente a portare sulle spalle il peso del fallimento».Né si intravedono avvisaglie di segno positivo: «Probabilmente il più vistoso fatto macroeconomico relativo alle economie avanzate oggi è il permanere di un’anemia della domanda nonostante i bassi tassi d’interesse», scrive l’ex capo-economista dell’Fmi, Olivier Blanchard. Questi esperti, scrive Meijer, dimostrano di aver sentore che qualcosa non torna, ma nessuno possiede risposte. Vi era “accordo sulla globalizzazione prima della crisi”, adesso non esiste più, e questo è tutto. «Immagino l’economia mondiale come qualcosa di simile a un’auto in corsa senza conducente e bloccata su una corsia lenta», ha detto David Stockton, ex burocrate della Fed. «Questa è l’economia globale, non va da nessuna parte e nel frattempo i soldi finiscono facilmente e in fretta», sottolinea Meijer. «In Europa, l’avanzata populista fornisce un potente incentivo ad abbandonare l’austerità per i governi prima delle prossime elezioni, e magari oltre; che una mossa del genere placherà coloro che sono rimasti nel lato perdente della globalizzazione è comunque suscettibile di dubbio».Il consenso alla globalizzazione si basava sulla promessa di maggior crescita economica, ammette Ding Shuang, capo-economista cinese, al Fmi dal 1997 al 2010: «Ma i benefici non sono stati ripartiti equamente, quindi adesso assistiamo a una ondata anti-globalizzazione». Per Meijer, la globalizzazione è già finita. «Non è mai stata intesa da nessuno come distribuzione di nulla, a parte forse di ricchezza tra le mani delle élites e bassi salari per chiunque altro. L’Ue e l’Fmi non hanno ottenuto nulla di quanto avevano promesso, come allo stesso modo non l’hanno fatto i partiti tradizionali, in Usa, Regno Unito, come in Europa in generale. Hanno promesso crescita e la crescita è finita. Avranno ottenuto risultati per i loro padroni ma hanno perso nei confronti di chiunque altro. Il resto è solo aria fritta». E il peggio è che «non si può assolutamente escludere che arriveranno a servirsi dell’esercito e della polizia, che controllano, per tenersi aggrapparti a ciò che hanno: anzi, temo sia qualcosa che succederà di sicuro». Anche perché «la crescita è finita, svanita da un pezzo per farsi sostituire dal debito», e noi «stiamo trascendendo verso uno stadio completamente diverso delle nostre vite, economie, società».Signori, si scende: la globalizzazione è finita. Usa e Cina, Nato, Fmi, Ue, Banca Mondiale? Sono in avaria e lo sanno benissimo, anche se ancora non lo ammettono. Il sistema ha le ore contate, perché l’epoca della crescita è tramontata per sempre. Sta montando la marea del malcontento, ovunque, perché a pagare il conto della globalizzazione forzata sono miliardi di persone: così, se vorrà tenersi il potere, questa élite fallimentare dovrà ricorrere sistematicamente alla polizia e all’esercito, archiviando anche la democrazia. Lo sostiene Raúl Ilargi Meijer, analista indipendente, autore di “The Automatic Earth”. «La fine della crescita espone nella sua nudità la stupidità e ignoranza di tutti». Sotto accusa i leader, assolutamente inadeguati. In periodo di crescita, i politici «non devono fare altro che “sedurre” i votanti», vendendo loro la “certezza” di una crescita infinita. In tempi di contrazione, invece, hanno davanti difficoltà ben più sostanziali: «Gli tocca convincere i votanti di essere in grado di minimizzare “le sofferenze delle masse”. Una massa priva di garanzie, alla quale chiaramente nessuno vuol ritrovarsi a fare parte. E lì è proprio difficile “vendersi”».
-
Riparare l’Italia? Impossibile, se gli Usa non vogliono
Arrivano i nostri e sistemeranno tutto, con riforme dettate dal buon senso? Perfetto, in teoria. In pratica, però, non succede mai. Motivo? Semplice: le soluzoni esistono, ma non ci è permesso adottarle. Da chi? Dalla ristrettissima élite finanziaria che ha in mano il sistema economico. Le cose vanno male (per noi) perché così hanno deciso loro. Inutile illudersi che possa davvero cambiare qualcosa, dice l’avvocato Marco Della Luna, se prima non si stracciano i trattati di sudditanza verso gli Usa e, in Europa, verso la Germania, il vassallo incaricato di frenare – con la crisi indotta – lo sviluppo del vecchio continente, allo scopo di sabotarne la sovranità e quindi la vitalità. Il pericolo, per loro, è sempre lo stesso: la nostra libertà d’azione. «Un ristretto numero di grandi famiglie bancarie, cioè l’establishment angloamericano e poc’altro, detiene nel mondo il potere economico, quindi politico e militare; il suo consenso è indispensabile per ogni significativa riforma in ogni paese dell’area del dollaro. Impone spesso, nel proprio interesse, riforme contrarie all’interesse collettivo, come l’abolizione del Glass Steagal Act, e le mantiene anche dopo che si è manifestata la loro nocività».Un giorno anche questo “impero” crollerà, come tutti gli altri, aggiunge Della Luna nel suo blog. Ma a farlo collassare non saranno certo i ragazzi di “Occupy Wall Street” o del movimento di Grillo. «Siamo inclini ancora oggi a pensare che i policy-makers, i decision-makers, siano tuttora gli Stati, i governi, i parlamenti». Ma in realtà «non lo sono più da molto tempo: essi sono controllati da chi li finanzia, detiene il loro debito, gli fa il rating». Siamo portati a pensare e a promettere: prendiamo la maggioranza assoluta e aggiustiamo le cose per il paese. Ma non funziona così: «I vincoli e i poteri esterni sono ampiamente preponderanti e dettano ciò che puoi e ciò che devi fare, e se non ottemperi ti fanno cadere, mobilitando mass media e giustizia». In piccolo, la falsa partenza della giunta Raggi a Roma dimostra la stessa verità: anche per cambiare le cose in una città non basta avere i voti, «bisogna fare i conti con interessi consolidati appoggiati da ampi settori istituzionali, mediatici e “religiosi”».Sul piano tecnico, continua Della Luna, i metodi per risanare il sistema bancario italiano e per rilanciare l’economia con idonei finanziamenti di ampio respiro sono già disponibili e più volte descritti. Ma, per introdurre riforme importanti, bisogna fare i conti con l’oste: «Chi avanza proposte di riforma di qualche rilevanza, soprattutto in ambiti economico-finanziari, geostrategici, scientifico-tecnologico (soprattutto energetici), dovrebbe preliminarmente verificare se il predetto consenso vi è o non vi è – il cosiddetto “Washington consensus” (e “Berlin consensus”), esponente degli interessi di quell’establishment finanziario-militare-politico che già Dwight Eisenhower indicava come incompatibile con la democrazia e che ancora prima Charles Wright Mills denominò “power elite”». Non se parla mai, «perché discuterne è sgradevole, scabroso». Chi fa proposte di riforma sostanziale dovrebbe prima verificare «quali siano gli spazi di manovra consentiti all’Italia dai vincoli esterni, e in primo luogo dai trattati di pace e relativi protocolli anche riservati, seguiti alla fine della II Guerra Mondiale, e configuranti per l’Italia una sovranità limitata in subordinazione agli Usa».Lo stesso vale per la Germania: «Ogni cancelliere tedesco, prima di assumere il suo ufficio, deve sottoscrivere la “Kanzlerakte”, ossia un impegno di obbedienza alla Casa Bianca». E un protocollo riservato del trattato di pace con gli Usa «attribuisce a questi la “Medienhoheit”, ossia la sovranità sui mass media tedeschi». Ma se la Germania è “previsto” che sia efficiente, per l’Italia le cose cambiano: Della Luna parla di «obblighi verso gli Usa che impongono all’Italia di restare inefficiente in determinati settori e di subire, nascondendolo all’opinione pubblica, prelievi di ricchezza e di altri assets da parte degli Usa o di loro soggetti imprenditoriali. Prelievi che si traducono in tasse e tagli». L’Italia, poi, è costretta a subire «la sistematica violazione delle regole fiscali europee» da parte della Germania, nonché «lo shopping delle sue aziende migliori». Abbiamo «subito passivamente l’attacco ai Btp per imporre il “regime change” nel 2011 con la leva dello spread». E fu il cancelliere Kohl, racconta Della Luna nel saggio “Polli da spennare” (Nexus, 2008) a frenare la riforma italiana dell’efficienza.Piatto forte, comunque, i nostri soldi da versare al sistema finanziario americano: «Negli anni ’90, i governanti italiani – costretti o corrotti – hanno stipulato con primarie banche statunitensi contratti derivati Irs del tipo “banca vince se tassi calano” quando già era determinato che sarebbero calati; quindi l’Italia, il contribuente italiano, sta pagando centinaia di miliardi di perdite su questi contratti, e questi pagamenti chiaramente costituiscono la corresponsione di un tributo alla potenza vincitrice da parte del paese sconfitto e sottomesso». Una pratica turpe, rinnovata «anche grazie all’“Europa”». Per non parlare degli F-35, aerei-rottame, o delle guerre in Iraq, Afghanistan e Libia, «contrarie agli interessi italiani». La prima vittima? Enrico Mattei: «Fu ucciso mentre, come presidente dell’Eni, disturbava il cartello petrolifero angloamericano».L’indurre destabilizzazioni finanziarie, civili e politiche nei vari paesi della loro zona di influenza, a scopo di sottometterli e sfruttarne le risorse, è una prassi costante delle multinazionali americane, come ben illustrato e documentato da uno dei principali esecutori, John Perkins, nel saggio “Confessioni di un sicario dell’economia” (Minimum Fax). Gli Usa sono il peggior “Stato-canaglia” del pianeta? Già, ma «la sua forza imperiale e il suo controllo dell’informazione gli consente di non apparire tale, in superficie». Della Luna indica una direzione di ricerca, quella dei «protocolli riservati annessi ai trattati di pace e relativi al Piano Marshall». Se risulterà che ci sono e che non permettono le progettate riforme, allora è inutile insistere nel portarle avanti, conclude il saggista. Meglio, a quel punto, progettare «una vasta campagna globale di informazione su quei vincoli, sulla loro dannosità, sulla loro iniquità, al fine di contestare la loro validità e compatibilità coi diritti dell’uomo e coi principi democratici», in modo che americani (e tedeschi) scendano dal trono.Arrivano i nostri e sistemeranno tutto, con riforme dettate dal buon senso? Perfetto, in teoria. In pratica, però, non succede mai. Motivo? Semplice: le soluzioni esistono, ma non ci è permesso adottarle. Da chi? Dalla ristrettissima élite finanziaria che ha in mano il sistema economico. Le cose vanno male (per noi) perché così hanno deciso loro. Inutile illudersi che possa davvero cambiare qualcosa, dice l’avvocato Marco Della Luna, se prima non si stracciano i trattati di sudditanza verso gli Usa e, in Europa, verso la Germania, il vassallo incaricato di frenare – con la crisi indotta – lo sviluppo del vecchio continente, allo scopo di sabotarne la sovranità e quindi la vitalità. Il pericolo, per loro, è sempre lo stesso: la nostra libertà d’azione. «Un ristretto numero di grandi famiglie bancarie, cioè l’establishment angloamericano e poc’altro, detiene nel mondo il potere economico, quindi politico e militare; il suo consenso è indispensabile per ogni significativa riforma in ogni paese dell’area del dollaro. Impone spesso, nel proprio interesse, riforme contrarie all’interesse collettivo, come l’abolizione del Glass Steagal Act, e le mantiene anche dopo che si è manifestata la loro nocività».
-
Casinò online: in Italia già bruciati 250 milioni nel 2016
In un mondo dove la moneta ormai da tempo è diventata prevalentemente virtuale e immateriale, di fatto c’è un’economia parallela, una specie di bit coin non dichiarato: quello dei giochi ed in particolare dei casinò on line. Ne sono spuntati a decine. La dimensione dell’uomo o della cinquantenne che vanno nel bar sotto casa per ipnotizzarsi ai colori di slot machine ed al (poco) tintinnare di monete che cadono sta lasciando il posto alla versione dell’uomo in canottiera e mutande che davanti ad un pc sfida una roulette. Spesso sono minorenni a gettarsi nella ricerca di soldi facili, magari dopo aver letto qualche trucchetto che poi si rivela farlocco. Per non parlare poi del boom delle scommesse sportive, con la spietata concorrenza tra le varie società a colpi di quote. Il business continua a dilagare e non a caso in Italia le società di gambling continuano ad investire, e molto. Secondo i dati diffusi da Agimeg a luglio, la spesa dei giocatori è stata di 34,5 milioni di euro, con un +43,8% rispetto all’ano scorso. Fin qui dall’inizio del 2016 sono stati spesi 243,5 milioni di euro.L’italiano, invitato da promozioni, bonus di benvenuto, grafiche sempre più ammalianti spera di fare il colpo del secolo. Il sogno italiano di vincere tanti soldi e di mollare tutto è duro a morire, per questo nel nostro paese si registra uno dei volumi d’affari più alti al mondo nel campo dei giochi, anche online. E questo fa gola alle grandi società estere del settore che non a caso hanno investito tantissimi soldi. Vuoi mettere poi la comodità di fare tutto in casa tua, senza farsi vedere da qualcuno? E la giocata scorre veloce. Inevitabilmente. Con tutto quello comporta. Più è virtuale il denaro più è facile spenderlo, staccato dalla sua materialità e della sua ormai non più esistente consistenza.Per non parlare poi dei casinò online mascherati, come sembrano essere i cosiddetti siti di trading. Qui si fa leva spesso sul cambiare vita, sul trovare il lavoro dei tuoi sogni senza padroni, dove si guadagnano cifre impensabili. Video sponsorizzati su Facebook appaiono all’improvviso con giovani ragazzi testimonial di questo nuovo corso. In realtà sembrano essere più che altro robe alla multilevel spesso legate alle cosiddette opzioni binarie, in cui non si nota molto la differenza rispetto ad un casinò online dove punti sul rosso o sul nero. Almeno lì lo dicono subito e sei consapevole di quello che può attenderti.(“Casinò on line, regno della moneta parallela”, dal sito della web-radio “Border Nights”, agosto 2016).In un mondo dove la moneta ormai da tempo è diventata prevalentemente virtuale e immateriale, di fatto c’è un’economia parallela, una specie di bit coin non dichiarato: quello dei giochi ed in particolare dei casinò on line. Ne sono spuntati a decine. La dimensione dell’uomo o della cinquantenne che vanno nel bar sotto casa per ipnotizzarsi ai colori di slot machine ed al (poco) tintinnare di monete che cadono sta lasciando il posto alla versione dell’uomo in canottiera e mutande che davanti ad un pc sfida una roulette. Spesso sono minorenni a gettarsi nella ricerca di soldi facili, magari dopo aver letto qualche trucchetto che poi si rivela farlocco. Per non parlare poi del boom delle scommesse sportive, con la spietata concorrenza tra le varie società a colpi di quote. Il business continua a dilagare e non a caso in Italia le società di gambling continuano ad investire, e molto. Secondo i dati diffusi da Agimeg a luglio, la spesa dei giocatori è stata di 34,5 milioni di euro, con un +43,8% rispetto all’ano scorso. Fin qui dall’inizio del 2016 sono stati spesi 243,5 milioni di euro.
-
Sulla Luna con Alì, ogni giorno un miracolo di giustizia epica
Forse bisogna essere stati molto giovani negli anni Settanta, o meglio ancora ragazzini, per capire cosa significasse davvero Muhammad Alì. Perché oggi è abbastanza normale che un campione non parli solo di sport, non è consueto però è normale, ma allora no. Alì che diceva all’America: prendetevi tutto, il titolo mondiale dei pesi massimi, i soldi, la libertà, ma non vi prenderete me. E come lo diceva, poi. Faceva solo finta di essere cattivo, cattivissimo, invece era un simpatico sbruffone, era un comico. I bambini gli morivano dietro perché Alì era un eroe dei cartoni, velocissimo e imbattibile, gommoso e immortale. E non aveva la faccia piena di pugni. Era l’amico più grande che ti salva dagli agguati della banda rivale, quella delle case Gescal. Era molto più tamarro di loro ed era un dio. Un dio tamarro. Aveva le nappine che ballavano nelle scarpette, una volta almeno le indossò. E la sua danza era ritmata da quel movimento, le frange andavano su e giù e dovevi deciderti: o guardavi i pugni o guardavi i piedi. Tutto troppo rapido per qualunque occhio.Lo zio lo chiamava ancora Cassius Clay perché non gli riconosceva il valore simbolico, ma lui mica votava comunista come papà. Invece, papà aveva capito bene il senso di quel ciclope furioso e gentile: il signor campione Muhammad Alì aveva mandato a quel paese la guerra del Vietnam e il presidente degli Stati Uniti, e per questo bisognava tifare solo per i suoi guantoni. Erano un segno di libertà per tutti, anche per gli operai di Settimo Torinese e Crotone, Scampia e Taranto, non soltanto per i neri americani e africani. Alì combatteva per tutti gli oppressi: dunque, per una volta si poteva restare alzati la notte e vederlo fare a pugni in tivù contro il nero venduto al potere, cioè Foreman. La prima veglia era stata per lo sbarco sulla Luna. La seconda per Italia-Germania. La terza, per quella battaglia nella giungla. Ecco, per capire davvero chi è morto l’altra notte (morto? ma figuriamoci) bisogna proprio tener conto dello spessore assoluto della storia che si andava vivendo, e raccontando allora.C’erano, in quel tempo memorabile, solo personaggi epici: il comandante Neil Armstrong, Gigi Riva, Pelè e Muhammad Alì. Per forza, poi, da grande ti avrebbero mandato al liceo classico. Altro che Odisseo e Socrate, i grandi della storia noi li vivevamo tutti i giorni, Omero metteva solo le didascalie. Prese un sacco di pugni per cinque round. Il venduto Foreman lo stava gonfiando come una zampogna. Ma lui niente, lui sempre in piedi a pigliare in giro quell’altro. Mi deludi, George. Non sai fare di meglio? Sei diventato debole, amico. Sei stanco? E Foreman picchiava come un pazzo, sprecando così ogni energia. Lo zio però pensava che al prossimo cazzotto ben dato, Alì sarebbe finito al tappeto. Invece papà era sicuro del contrario, i suoi occhi dicevano “stai tranquillo, figlio mio, alla fine i giusti vincono sempre”. All’ottava ripresa, infatti, Mohammad tirò un cartone dell’altro mondo al venduto che vacillò e andò a terra come morto. E Alì lo guardava cadere, stava per colpire ancora Foreman ma non lo fece, trattenne il guantone, sapeva che non ci sarebbe stato bisogno di niente di più, forse non voleva sfigurare il volto del nemico. Con quel pugno fantastico lo aveva già umiliato abbastanza, e si stava riprendendo tutto: il titolo mondiale, la gloria, l’orgoglio, un pezzo del suo passato e l’amore del mondo intero e dell’umanità: tutta, senza eccezioni. A parte lo zio.E poi ci fu quell’altra sera. Aspettavamo l’ultimo tedoforo nello stadio di Atlanta e quando comparve Alì, quando realizzammo che non era una visione mistica ma era invece tutto vero, ci sentimmo esattamente dentro la storia, quella da raccontare più ai nipoti che ai lettori. La torcia tremante nel pugno stretto di Muhammad Alì: eppure nulla era stato più fermo e più nitido, più esatto e definitivo, mai. La mano era la stessa dell’autografo, cinque anni prima. Alì a Torino per una manifestazione dell’Uisp, l’enorme silenzio quando lui entrò nella Reggia di Venaria. Barcollava e taceva. Poi gli misero sotto il naso dei cartoncini da firmare e Alì sedette assorto come un bimbo delle elementari: la mano guidava lentissimamente la penna che solcava la carta come un aratro. Veniva voglia di dirgli “scusi Alì, veramente, ci perdoni, siamo dei coglioni a farle fare questo sforzo immane, è lo stesso, lasci stare, non importa” e invece niente, il trofeo d’inchiostro si andava componendo sul foglio e sta ancora lì, appeso al muro, solo un po’ sbiadito.E poi i libri, certamente. Gli articoli, alcuni bellissimi. Gianni Minà, Emanuela Audisio. E poi “The fight” di Norman Mailer, tradotto chissà perché “La sfida” da Einaudi, un romanzo e non solo un reportage: la penna era la stessa che aveva raccontato il Vietnam e l’epopea dei primi astronauti. Ai ragazzi delle scuole di giornalismo forse basterebbe dare da leggere Mailer. Ecco perché Muhammad Alì è stato, semplicemente, il più grande atleta di tutti i tempi. Non solo per le vittorie, quelle le hanno ottenute anche Coppi e Carl Lewis, Federer e Michael Jordan, Maradona e Nuvolari. Alì è stato il più grande nel rapporto tra immenso ingombro sportivo e gigantesca valenza sociale, umana, culturale e politica. Nessuno come lui, in questo. Ovunque sia lo zio, ora sarà d’accordo pure lui.(Maurizio Crosetti, “Muhammad Ali, quel ciclope furioso e gentile che faceva finta di essere cattivo”, da “La Repubblica” del 4 giugno 2016).Forse bisogna essere stati molto giovani negli anni Settanta, o meglio ancora ragazzini, per capire cosa significasse davvero Muhammad Alì. Perché oggi è abbastanza normale che un campione non parli solo di sport, non è consueto però è normale, ma allora no. Alì che diceva all’America: prendetevi tutto, il titolo mondiale dei pesi massimi, i soldi, la libertà, ma non vi prenderete me. E come lo diceva, poi. Faceva solo finta di essere cattivo, cattivissimo, invece era un simpatico sbruffone, era un comico. I bambini gli morivano dietro perché Alì era un eroe dei cartoni, velocissimo e imbattibile, gommoso e immortale. E non aveva la faccia piena di pugni. Era l’amico più grande che ti salva dagli agguati della banda rivale, quella delle case Gescal. Era molto più tamarro di loro ed era un dio. Un dio tamarro. Aveva le nappine che ballavano nelle scarpette, una volta almeno le indossò. E la sua danza era ritmata da quel movimento, le frange andavano su e giù e dovevi deciderti: o guardavi i pugni o guardavi i piedi. Tutto troppo rapido per qualunque occhio.
-
Progettista: l’F-35 è un bidone, lo abbatte anche un Mig-21
Ho definito l’F-35 un bidone, assolutamente. E’ un bidone. E’ essenzialmente un pessimo aereo, perché è costruito su un’idea stupida. Nel momento in cui provi a progettare un aereo multi-missione, hai già fallito. Nel momento in cui cerchi di costruire un aereo che faccia supporto ravvicinato, combattimenti aria-aria, bombardamenti di interdizione profonda, e che voglia compiere una lista pressoché illimitata di compiti tecnologici, hai già fallito. Non otterrai mai un buon aereo, otterrai un catafalco tecnologico che porterà a un fallimento dietro l’altro. Per fare un esempio, ultimamente i marines hanno sviluppato una passione insensata per gli aerei a decollo verticale, da quando hanno avuto gli Harrier inglesi. Questo rende l’aereo molto tozzo, perché deve ospitare una ventola centrale che spinga l’aria verticalmente, per farlo decollare e atterrare in verticale. Ma con una sezione centrale così grossa ti ritrovi con troppa resistenza aerodinamica. Le ali molto piccole aiutano il decollo verticale, ma impediscono le manovre in combattimento: niente ali, niente virate. Nel duello aereo non ha speranze.Potete star certi che un Mig-21 progettato negli anni ‘50, oppure un vecchio Mirage francese, farebbe fuori in modo impietoso un F-35. Un velivolo da supporto aereo per le truppe? Questo è l’aspetto più ridicolo di tutti, perché per supportare le truppe devi poterti avvicinare molto, devi poter manovrare per riuscire a scoprire bersagli ben camuffati. Devi poter virare a velocità molto bassa. Devi avere una grossa mitragliatrice, come quella che ad esempio ha l’A-10, e devi poter restare nelle vicinanze delle truppe per 4-6 ore. Devi poter gironzolare nella zona, in modo da dargli veramente una copertura per tutta la giornata, fino a quando ce n’è bisogno. Questo è disperatamente impossibile con l’F-35, perché consuma decisamente troppo carburante: ti va bene se riesce a restare in zona per un’ora, un’ora e mezza al massimo. La sua manovrabilità è ridicola: con quell’aereo non si può certo “scendere tra i fili d’erba”, come dicono i piloti, né virare in tempo per individuare un carro armato.Alla velocità in cui deve viaggiare, per via delle ali molto piccole, questo aereo non può manovrare. E non può nemmeno volare lentamente – né dovrebbe farlo, in combattimento, perché si renderebbe vulnerabile. A cosa serve, allora, l’F-35? Assolutamente a niente: è un bidone. E’ anche un pessimo bombardiere. Essendo uno stealth, è progettato per trasportare le bombe al suo interno. Peraltro, va detto che la tecnologia stealth è una fregatura: semplicemente, non funziona. I radar costruiti nel 1942 potrebbero rilevare qualsiasi aereo stealth oggi esistente al mondo – i radar della “battaglia d’Inghilterra”: non che avessero qualcosa di speciale, ma funzionavano sulle onde molto lunghe. Qualunque radar della “battaglia d’Inghilterra” sarebbe in grado di avvistare l’F-35, ma anche l’F-22 e il bombardiere B-2. Qual è allora il compito dell’F-35? Far spendere soldi: questa è la sua unica missione. Serve a fare in modo che il Parlamento Usa mandi dei soldi alla Lockeed. E’ il vero compito dell’aereo.(Pierre Sprey, “L’F-35 è un bidone”, video-intervista pubblicata su YHo definito l’F-35 un bidone, assolutamente. E’ un bidone. E’ essenzialmente un pessimo aereo, perché è costruito su un’idea stupida. Nel momento in cui provi a progettare un aereo multi-missione, hai già fallito. Nel momento in cui cerchi di costruire un aereo che faccia supporto ravvicinato, combattimenti aria-aria, bombardamenti di interdizione profonda, e che voglia compiere una lista pressoché illimitata di compiti tecnologici, hai già fallito. Non otterrai mai un buon aereo, otterrai un catafalco tecnologico che porterà a un fallimento dietro l’altro. Per fare un esempio, ultimamente i marines hanno sviluppato una passione insensata per gli aerei a decollo verticale, da quando hanno avuto gli Harrier inglesi. Questo rende l’aereo molto tozzo, perché deve ospitare una ventola centrale che spinga l’aria verticalmente, per farlo decollare e atterrare in verticale. Ma con una sezione centrale così grossa ti ritrovi con troppa resistenza aerodinamica. Le ali molto piccole aiutano il decollo verticale, ma impediscono le manovre in combattimento: niente ali, niente virate. Nel duello aereo non ha speranze.
-
Usa, elezioni e soldi: chi si compra il futuro presidente
Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?In un’analisi pubblicata da “The AntiMedia” e tradotta da “Come Don Chisciotte”, Anderson denuncia la pratica dilagante del ricorso ai “Super-Pac”, i nuovissimi “comitati di azione politica” costituiti da singoli, aziende e cartelli, con capacità di spesa praticamente illimitata e assolutamente non-trasparente: il candidato non è tenuto a tracciare pubblicamente il denaro ricevuto. «Inutile dire che si tratta di un’elezione in cui la maggior parte dei candidati sono alla ricerca di sostegno da parte dei donatori ricchi invece che dai cittadini che sarebbero chiamati a rappresentare», scrive Anderson. «Ci si sorprenderà nello scoprire chi è stato a donare soldi per il vostro candidato, e come tale contributo possa influenzare le posizioni politiche future». Guida la classifica Jeb Bush, che i sondaggi danno in calo perché “troppo moderato” per gli elettori repubblicani. L’ultimo rampollo della famigerata dinastia presidenziale super-guerrafondaia ha incassato 161 milioni di dollari dalla Golman Sachs, 65 da Neuberger Berman Llc, quasi 44 da Bank of America, 41,5 da Citigroup e quasi 40 da Tenet Healthcare.Secondo i reporter investigativi della Florida, per sostenere Jeb Bush si stanno attivando «signori texani del petrolio, banchieri d’investimento di New York, titolari di aziende sanitarie di Miami e perfino tre ex ambasciatori – due dei quali hanno servito sotto il fratello, l’ex presidente George W. Bush». Totale, 25 contributi da 1 milione di dollari ciascuno. Tre milioni invece sono arrivati da Mike Fernandez, miliardario cubano-americano fondatore di Coral Gables Mbf Healthcare Partners. Poi c’è Hushang Ansary, ambasciatore iraniano negli Stati Uniti dal 1967 al 1969, quindi Richard Kinder, boss della società di oleodotti e gasdotti Kinder Morgan. E Alfred Hoffman, ambasciatore statunitense in Portogallo dal 2005 al 2007, fondatore in Florida della società immobiliare Wci Community. Quindi NextEra Energy, società madre della Florida Power & Light, che fornisce il servizio elettrico a quasi la metà dello Stato. E Julian Robertson Jr., di New York, manager di fondi d’investimento (patrimonio personale di 3,4 miliardi, «ha fatto la sua fortuna investendo in campi da golf e vigneti in Nuova Zelanda»).A parte il corposo sostegno a Jeb, Wall Street pare schierata massicciamente dalla parte di Hillary, finora sempre sostenuta da Citigroup, Goldman Sachs, Dla Piper, Jp Morgan e Morgan Stanley. «Molti dicono che tali alleanze irrevocabilmente la incatenino a suddette istituzioni, rendendola incapace di regnare sopra la corruzione finanziaria di Wall Street», scrive Anderson. Tra gli attuali finanziatori figurano anche Morgan & Morgan, Sullivan & Cromwell, Akin, Gump, Yale University, Latham & Watkins. «E’ anche importante sottolineare che lo studio legale lobbista Akin, Gump, Strauss, Hauer & Feld, che impiega molti dipendenti di Hillary, ha preso le donazioni da due dei più grandi imprenditori delle carceri private, Corrections Corporation of America e Geo Group, con tasse incluse, per un totale di quasi 300.000 dollari». Si chiama “Priority Usa Action” il nuovissimo “Super-Pac” creato per sostenere la Clinton: 25 milioni di dollari in soli tre mesi. I più importanti super-donatori Pac sono George Soros e Steven Spielberg, ma la lista comprende 31 singoli donatori che hanno contribuito più di 200.000 dollari ciascuno. I progressisti contestano alla Clinton il ricorso ai miliardari, ma i sostenitori replicano che non c’è altra strada. Di recente, Hillary ha fatto notizia «abbracciando una tattica per rivelare pubblicamente – cosa che la nuova legge non richiede – i grandi donatori aziendali».Il terzo incomodo, Donald Trump, fa gara a sé: ha ribadito che sarà l’unico finanziatore della sua campagna elettorale e non accetterà donazioni. Secondo “Forbes”, il suo patrimonio ammonta a 4,5 miliardi. Trump assicura che si priverà di 100 milioni per auto-finanziarsi la campagna. Dovrà vedersela innanzitutto col super-finanziato Jeb Bush e gli altri due grandi sfidanti delle primarie, Marco Rubio e Ted Cruz, i cui cognomi ammiccano direttamente all’elettorato “latino”. Sostenuto dai “cubani”, Rubio ha finora raccolto quasi 32 milioni di dollari. Deve ringraziare Goldman Sachs, Steward Health Care, Titan Farms, Florida Cristalli e Oracle. Tra i supporter anche il miliardario Norman Braman e Laura Perlmutter, moglie di Isacco Perlmutter, Ceo di Marvel Entertainment. «La campagna gestita da Rubio è anche dotata di una notevole quantità di “denaro oscuro”», racconta Anderson. «La fonte è una norma su fondi senza scopo di lucro denominata Soluzioni Progettuali Conservatrici, che ha raccolto 15,8 milioni di dollari. Il no-profit, che naturalmente non è tenuto a rivelare i suoi donatori, ha lanciato una massiccia campagna pubblicitaria per attaccare l’accordo coll’Iran del presidente Obama».Altro outsider temibile, anche Ted Cruz ha contestato a Obama l’accordo con l’Iran. In più, si batte per tagliare i fondi a “Planned Parenthood”, i pro-abortisti ufficiali. Tra i suoi sponsor figurano la banca nazionale Woodforest, Morgan Lewis Llp, poi Gibson, Dunn & Crutcher, Pachulski e Stang, la Jennmar Corporation. «La campagna di Ted Cruz ha in realtà quattro “Super-Pac”, tutti finanziati da Robert Mercer, un magnate di Long Island (fondi d’investimento), negazionista del cambiamento climatico», spiega Anderson. «Insieme, hanno raccolto 31 milioni nelle prime quattro settimane della sua campagna». Hanno contribuito la rete politica dei fratelli Koch nonché i miliardari Farris e Dan Wilks, che devono la loro ricchezza al boom del fracking in Texas. Si rivolge invece agli elettori afroamericani il neurochirurgo Ben Carson, l’uomo nuovo dei repubblicani: «Ha sorpreso tutti suggerendo che se George W. Bush avesse iniziato un abbandono del petrolio sulla scia dell’11 Settembre, prendendo l’iniziativa diplomatica piuttosto che quella degli attacchi militari, la nazione poteva essersi evitata una guerra incredibilmente costosa contro il terrore».Con i suoi numeri da sondaggio in aumento, scrive Anderson, molti esperti si chiedono ora se Carson possa essere sfruttato come vicepresidente (di Jeb Bush, ovviamente). Carson è sostenuto da Coca-Cola, West Coast Venture Capital, Trailiner Corp, Ankom Tecnologia, Jea Senior Living. Il “dark money” proviene da “OneVote”, un “Super-Pac” guidato dallo stratega repubblicano Andy Yates, e da un altro cartello, “Run Ben Run”. Recentemente, Carson «ha raddoppiato la retorica anti-musulmana, che sembra aver portato le sue cifre raccolte ancora più in alto, innalzandole a 20 milioni in questo trimestre». Zero trasparenza sui fondi, ma non mancano informazioni indicative: pare che l’84% dei finanziamenti provenga da una folla di micro-donatori, assegni sotto i 500 dollari. Molto differenziato – ed estramamente “etico”, se paragonato agli altri – è il finanziamento di Bernie Sanders, l’unico democratico finora sceso in campo contro la Clinton. Socialista, capace di infiammare i progressisti, è finanziato quasi solo da sindacati, lavoratori, associazioni di categoria. Gli scettici temono che, come Obama, non avrebbe i muscoli necessari a opporsi al vero potere, Wall Street e il complesso militare-industriale.Oltre al libertario indipendente Rand Paul, con appena 3 milioni di dollari in tasca (e quindi ritenuto in procinto di abbandonare la gara), nelle retrovie repubblicane si muovo candidati minori, ancora in corsa, come Chris Christie, data all’1% nei sondaggi eppure forte di un budget di 11 milioni di dollari. Tra i suoi sostenitori figura la Winecup-Gamble, società del Nevada di proprietà dell’ex Ceo di Reebok, Paul Fireman, che ha dato al gruppo un milione di dollari. «Fireman, che vive vicino Boston, prevede un fantasmagorico profitto di 4,6 miliardi dai casinò a Jersey City se gli elettori dello Stato approveranno un emendamento costituzionale per permettere il gioco d’azzardo anche fuori Atlantic City». Altri supporter di Chris Christie sono Stephen Wynn, magnate dei casinò di Las Vegas, Steve Cohen (maganer di hedge funds), l’imperatrice del wrestlig Linda McMahon e la numero uno di Hewlett-Packard, Meg Whitman. Stesso budget (11 milioni) per John Kasich, governatore dell’Ohio, mentre è più povero il portafoglio di Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas (3 milioni), così come quello di Carly Fiorina (1,6 milioni); presidente di Hp ed esponente dell’ultra-destra, la Fiorina è sostenuta dall’ex finanziere d’assalto Tom Perkins nonché da vari campioni della Silicon Valley, come Paul Otellini (già Intel) e Jerry Perenchio (ex Ceo di Univision).«Come potete vedere – conclude Jake Anderson – le elezioni presidenziali 2016 sono, per la maggior parte, una guerra tra donatori aziendali a tutto campo». Secondo l’analista, è importante ricordare che molti di questi “totali” sono già obsoleti, giacchè i team dei candidati possono strategicamente nascondere le quantità donate, grazie alle nuove disposizioni di legge per proteggere la raccolta fondi da qualsiasi legittima curiosità. «Insomma, noi non conosciamo la reale portata del “denaro oscuro”», derivante dal cosiddetto “non profit” e da associazioni imprenditoriali. «Quello che sappiamo è che questa sarà l’elezione più costosa della storia. I fratelli Koch da soli hanno un budget di 889 milioni di dollari. Una volta aggiunto alla spesa prevista dai democratici e dai repubblicani, stiamo parlando di un ticket totale di circa 5 miliardi di dollari».Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?
-
Banche, truffa e ipocrisia. E i morti della strage per la crisi?
Immaginiamo che in una città siano stati tolti i limiti di velocità per le automobili, che siano stati aboliti gli stop agli incroci e messi sul giallo tutto i semafori e che, in nome della velocità di scorrimento del traffico, si diano premi agli automobilisti che corrono di più. In un tale ambiente di pazzi suonerebbe un poco ipocrita il compianto per le vittime degli inevitabili catastrofici incidenti stradali. È ipocrita allo stesso modo il compianto ufficiale per il povero pensionato che si è suicidato, perché derubato dei propri risparmi investiti in obbligazioni subordinate cancellate dal decreto salvabanche. L’ipocrisia per questo suicidio è doppia. In primo luogo perché sembra ignorare le centinaia di piccoli imprenditori, lavoratori, debitori che si sono uccisi in questi anni di crisi e di politiche di austerità. In Italia abbiamo statistiche per tutto, ma pare manchi un dato sulla strage per crisi economica e non è un caso.Si vuole far passare il massacro di persone che non hanno retto al disastro economico e alla precarizzazione delle loro vite e di quelle dei loro cari come una serie di casi individuali. Invece la strage per suicidio economico è un evento collettivo, è il prodotto di una politica frutto di precise scelte e responsabilità, che ne dovrebbero sopportare tutto il peso criminale. In secondo luogo è ipocrita far credere che il povero pensionato sia stato travolto da una scheggia impazzita del sistema. No, è tutto il sistema che è impazzito come la città folle di cui abbiamo scritto all’inizio. Pochi giorni fa il ministro Poletti ha spiegato che sarebbe ora di farla finita con gli orari di lavoro e che sarebbe giusto retribuire i dipendenti a prestazione. Il suo ragionamento, applicato a chi lavora per un istituto di credito, vorrebbe dire che un impiegato per mangiare dovrebbe vendere più obbligazioni insicure che può. E in realtà il sistema sta proprio andando in quella direzione.In questi anni i dipendenti degli istituti di credito son stati sottoposti alla cura della competitività estrema. Molti son stati licenziati e sostituiti con giovani precari e sottopagati. Il Jobs Act ha oliato tutto il nuovo meccanismo. Nelle retribuzione si riduce sempre più la paga fissa, quella che con 16 mensilità faceva del bancario il dipendente più invidiato, mentre si estende quella a cottimo. Cioè prendi i soldi se la tua banca fa tanti contratti speculativi e tu contribuisci con la tua opera al suo successo. Consiglio di leggere cosa scrive un lavoratore bancario, anonimo perché a dire la verità si rischia il posto, sul sito di “clashcityworkers”. I dipendenti delle banche sono soldati della guerra per il profitto e guai a loro se perdono un affare, se un risparmiatore viene preso dai dubbi e rinuncia ad investire i suoi soldi. E anche sui risparmiatori la pressione non è certo piccola.Avete visto le ultime pubblicità delle banche? Su “Radio24” addirittura sono i soldi che parlano e protestano con il loro proprietario perché li tiene congelati in un cassetto, versione neoliberale della parabola dei talenti. Cosa volete che faccia, il pensionato, quando un sorridente impiegato gli sottopone un contratto di 50 pagine in più copie scritte in piccolo piccolo. Si pensa che dica come nei film americani: fermi tutti, voglio il mio avvocato? No, il sistema funziona sulla sottomissione di dipendenti e risparmiatori. E il sistema bancario impone ai dipendenti di vendere prodotti a rischio ai risparmiatori e ai risparmiatori di acquistarli. Le banche sono diventate parte del casinò globale della finanza speculativa, son già passati oltre vent’anni da quando il presidente Clinton cancellò la legge Glass Steagal che separava le banche d’affari dai normali istituti di credito. Oggi i risparmi dei cittadini servono alle banche per partecipare alla speculazione finanziaria globale e quindi i risparmiatori son sempre più destinati a finire come il parco buoi della Borsa.Se va bene a tutti, forse va bene anche a loro, se va male, va male solo a loro. Il sistema funziona così. In Europa 4000 miliardi di euro di danaro pubblico son stati spesi per salvare le banche, che hanno ricominciato a speculare su derivati e porcherie varie come e più di prima. Ora un legge bancaria europea, testata come altre iniquità con i memorandum imposti alla Grecia, impone che i salvataggi delle banche avvengano anche con i soldi dei risparmiatori che di quelle banche si sono fidati. Gli unici che non debbono mai pagare nulla sono i banchieri, ai quali anzi deve essere garantita la possibilità di tornare agli affari come e più di prima. Così i poveri risparmiatori, come i primi cassaintegrati di Pomigliano, finiscono in una società programmaticamente definita “bad company”. Cioè un cattiva compagnia senza futuro dove finiscono i poveri ed i perdenti. Mentre i vincenti, cioè i banchieri e i loro protetti e protettori, van tutti nella nuova società per ricominciare ad attrarre risparmio. Con gli stessi scopi di prima.Immaginatevi se sui contratti di investimento fosse stampato in caratteri giganti: Nuoce gravemente alla salute dei tuoi soldi. Immaginatevi se i dipendenti delle banche non ricevessero più bonus o premi di risultato, ma solo il vecchio salario fisso e soprattutto immaginativi se non rischiassero più il posto per insufficiente vendita di contratti. Immaginatevi poi il controllo o addirittura la proprietà pubblici sul sistema bancario e la separazione degli istituti che giocano al casinò finanziario da quelli ove si mettono i risparmi di una vita e si ricevono i prestiti per la casa. Immaginate insomma un sistema con limiti, controlli divieti veri. Non sentireste subito urlare che si attenta alla libertà dei mercati, che si limita la corsa alla prosperità e si colpisce l’Europa, che si vuole tornare allo statalismo o peggio ancora al socialismo? Così, dopo il pianto per l’ultima, il sistema riprende a macinare vittime come e più di prima, al massimo concedendosi le riflessioni sofferte di qualche banchiere temporaneamente riluttante. Ps: non ho voluto parlare delle famiglie Boschi e Renzi, non perché non pensi grave il loro conflitto d’interessi, ma perché considero anche questo un prodotto (scadente) del sistema impazzito.(Giorgio Cremaschi, “Decreto salvabanche e suicidi economici, quanta ipocrisia!”, da “Micromega” del 14 dicembre 2015).Immaginiamo che in una città siano stati tolti i limiti di velocità per le automobili, che siano stati aboliti gli stop agli incroci e messi sul giallo tutto i semafori e che, in nome della velocità di scorrimento del traffico, si diano premi agli automobilisti che corrono di più. In un tale ambiente di pazzi suonerebbe un poco ipocrita il compianto per le vittime degli inevitabili catastrofici incidenti stradali. È ipocrita allo stesso modo il compianto ufficiale per il povero pensionato che si è suicidato, perché derubato dei propri risparmi investiti in obbligazioni subordinate cancellate dal decreto salvabanche. L’ipocrisia per questo suicidio è doppia. In primo luogo perché sembra ignorare le centinaia di piccoli imprenditori, lavoratori, debitori che si sono uccisi in questi anni di crisi e di politiche di austerità. In Italia abbiamo statistiche per tutto, ma pare manchi un dato sulla strage per crisi economica e non è un caso.