Archivio del Tag ‘soldi’
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Autostrade: ma perché cedere ai privati tutti quei miliardi?
Lo Stato italiano incassa il 2,4 per cento netto dei pedaggi autostradali, che peraltro sono in costante aumento e da tempo i più cari d’Europa. Come vengono utilizzati quei soldi di automobilisti e autotrasportatori? La maggior parte dei ricavi al casello, come è noto, vanno a finanziare i guadagni delle società concessionarie (per la maggior parte gruppi privati). Non è un caso che i due principali concessionari (i Benetton e i Gavio) figurino regolarmente tra i Paperoni della Borsa e che stiano facendo, proprio in questi mesi, shopping di società all’estero. Semplificando, potremmo dire che i pedaggi (che ormai sono diventata una vera e proprio tassa occulta e salatissima a carico degli automobilisti) finiscono per finanziare l’espansione dei gruppi privati, le loro acquisizioni, oltre che l’arricchimento personale dei principali azionisti attraverso la distribuzione dei dividendi. Chi deve stabilire se un concessionario come Autostrade per l’Italia, che fa acquisizioni all’estero e distribuisce dividendi molto elevati, gestisce in maniera corretta i soldi dei pedaggi e investe abbastanza per la manutenzione? Spetta al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. E’ quest’ultimo, infatti, che gestisce le concessioni dello Stato.Ed è inspiegabile l’ostinazione con cui negli ultimi anni, sotto la gestione dei precedenti governi, il ministero delle infrastrutture abbia autorizzato aumenti delle tariffe a volte davvero esorbitanti, a tutto vantaggio dei privati, e insieme il prolungamento delle concessioni, anche a fronte di investimenti – da parte dei concessionari – inferiori a quelli previsti dal piano economico e finanziario. Perché permettere di aumentare le tariffe e insieme prolungare la durata della concessione, se il concessionario non fa tutto quello che deve? In alcuni casi (si veda per esempio quello che è successo sulla Livorno-Civitavecchia) il ministero ha sfidato l’Europa, incappando in un deferimento alla Corte di giustizia per violazione del diritto Ue, pur di prolungare, ostinatamente, la concessione al gruppo dei Benetton… Come si è arrivati ad affidare la gestione di questo monopolio a privati come le imprese dei Benetton? Che risultati ha prodotto questa scelta compiuta negli anni Novanta? E’ stato nel 1999, all’epoca delle privatizzazioni, volute dal governo Prodi.Secondo alcuni esperti, per altro, la privatizzazione delle autostrade (la “gallina delle uova d’oro”) fu fatta quando non erano più necessarie dismissioni frettolose per tappare le falle dei conti pubblici, e a condizioni a tutti gli effetti assurde per lo Stato. A guidare le operazioni, come presidente dell’Iri, c’era il professor Gian Maria Gros-Pietro, il quale poi, subito dopo la privatizzazione, è stato assoldato dai Benetton come presidente della loro società di gestione delle Autostrade. Il risultato complessivo di questa operazione è che lo Stato ha ceduto un proprio asset importante senza riuscire a strappare condizioni particolarmente vantaggiose per sé (si poteva imporre un prezzo più alto? O almeno canone più oneroso?) e nemmeno per gli utenti-automobilisti (si potevano imporre condizioni più stringenti per i concessionari? O almeno aumenti limitati?). Di fatto si è permesso che una ricchezza pubblica transitasse nelle tasche di alcuni privati.Che giudizio dare di un sistema in cui i concessionari si arricchiscono con i soldi dei cittadini, gestendo un servizio regolato da un contratto secretato e finanziando giornali e politica che dovrebbero controllarne e regolarne l’operato? Dico non da ora che è un sistema folle, che va completamente scardinato. Spiace che ci siano volute decine e decine di vittime perché il paese si accorgesse di questa assurda anomalia. Ma se vogliamo dare un senso alla tragedia, occorre che il sistema delle concessioni sia profondamente rivisto e modificato, in primo luogo per quanto riguarda i concessionari privati (Benetton, Gavio, Toto) ma anche per i concessionari pubblici (si veda il caso Autobrennero). Ovviamente, mentre si procede alla revisione totale del sistema, sarebbe importante fin da subito procedere con il blocco degli aumenti tariffari (che meraviglia se il prossimo Capodanno fosse il primo della storia “No Aumento Pedaggio”) e dei prolungamenti delle concessioni.(“Autostrade: così una ricchezza pubblica è finita nelle tasche di alcuni privati”, intervista di Mario Giordano sul “Blog delle Stelle” del 19 agosto 2018).Lo Stato italiano incassa il 2,4 per cento netto dei pedaggi autostradali, che peraltro sono in costante aumento e da tempo i più cari d’Europa. Come vengono utilizzati quei soldi di automobilisti e autotrasportatori? La maggior parte dei ricavi al casello, come è noto, vanno a finanziare i guadagni delle società concessionarie (per la maggior parte gruppi privati). Non è un caso che i due principali concessionari (i Benetton e i Gavio) figurino regolarmente tra i Paperoni della Borsa e che stiano facendo, proprio in questi mesi, shopping di società all’estero. Semplificando, potremmo dire che i pedaggi (che ormai sono diventata una vera e proprio tassa occulta e salatissima a carico degli automobilisti) finiscono per finanziare l’espansione dei gruppi privati, le loro acquisizioni, oltre che l’arricchimento personale dei principali azionisti attraverso la distribuzione dei dividendi. Chi deve stabilire se un concessionario come Autostrade per l’Italia, che fa acquisizioni all’estero e distribuisce dividendi molto elevati, gestisce in maniera corretta i soldi dei pedaggi e investe abbastanza per la manutenzione? Spetta al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. E’ quest’ultimo, infatti, che gestisce le concessioni dello Stato.
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Silenzio stampa sulla droga: la strage non è più di moda
Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.Sono migliaia gli episodi di violenza, di minacce, di ricatti per procacciarsi la “signorina” che scorrono come un fiume quotidiano di sangue e di pazzia, e non ci facciamo più caso. Non c’è giorno che io non senta, magari col passaparola, episodi legati alla droga: infanticidi per alterazione mentale, uccisioni brutali di nonni, genitori, zii che non volevano più finanziare il vizio dei loro nipoti scellerati, aggressioni a donne, ex-conviventi, in stati di allucinazione dovuti alla droga, risse mortali davanti e dentro discoteche tra ragazzi in preda a deliri di droga, e potrei continuare… Certe zone, certi luoghi e certe ore sono off limits in tutte le città italiane perché è in corso la sagra dello spaccio, con relativa brutta umanità al seguito e sciame sismico di violenze e abusi. Si sente ogni tanto, a mezza bocca, notizia di partite di droga sequestrate; ma sono solo una piccola parte e solo il segnale di quale movimento, quale giro colossale vi sia dietro. Di tutto questo arriva poco o nulla alla Fabbrica delle Notizie e ai falsificatori di cui sopra, impegnati a denunciare un solo Male sotto mille vesti, il Razzismo.Perché passa sotto silenzio la droga, o si parla solo di qualche episodio ma senza la grancassa mediatica e intellettuale che ne indaga il fenomeno? Perché nella droga il razzismo o il nazionalismo non c’entra ma emerge piuttosto il suo rovescio, confluiscono due piaghe sconvenienti che si devono tacere: da una parte la manovalanza massiccia di migranti, soprattutto neri, nello spacciare e procurare la droga, dall’altro un modello di società libertaria, radical, trasgressiva, anti-proibizionista, che deriva dai piani alti della nostra società, dal nichilismo diffuso e dal cinismo degli imprenditori di morte. Diciamo che sulla droga s’incontra la libertà psichedelica del “tutto è permesso” di matrice sessantottina dove i diritti sconfinano nei desideri e l’accoglienza illimitata di migranti che, per fame ed estraneità al territorio, sono facilmente reclutabili nel racket. I due fattori, shakerati dall’ideologia radical, disegnano la nuova società verso cui andiamo incontro e che ha perso il senso del limite, personale e territoriale, morale e civile.Masse di espiantati, disperati, privi di tutto a disposizione dei racket e dall’altro masse di consumatori, disperati anch’essi, ma benestanti o comunque in grado di mungere soldi, privi di ogni riferimento. La tratta dei pomodori, lo schiavismo nelle campagne, assume – e giustamente – grande rilievo nei media; la tratta della droga, la vendita di morte, invece va in sordina. I caporali nelle campagne sono una brutta bestia ma impallidiscono in confronto ai caporali della droga e ai loro legami con la criminalità organizzata. Sentite mai parlare di campagne contro la droga, di emergenza droga, di educazione civica contro la droga? Macché, solo razzismo, nazismo, sessismo. L’omertà sulla droga e i mali derivati è una forma di complicità mediatica e politica assai grave. È anche un occultamento di cadavere: muore il senso del limite e della realtà e qui si festeggia il mondo global, senza frontiere tra i popoli, tra il bene e il male, tra il lecito e l’illecito. Un’informazione drogata.(Marcello Veneziani, “Silenzio stampa sulla droga”, dal “Tempo” del 14 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.
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Vedrete che i Benetton (Three Eyes) si terranno Autostrade
«Lasciate perdere i complotti basati sui lampi che si vedono durante il crollo del viadotto Morandi: quelle ciance sul web servono solo a non vedere l’unico vero complotto all’origine del disastro di Genova». E cioè: una sciagurata sottovalutazione del rischio, grazie una concessione-omaggio, imbarazzante e piena di parti segrete. Una profezia? «Vedrete che arriverà una telefonata dall’America, e alla fine la concessione ad Autostrade per l’Italia non verrà revocata. Oppure: verrà bandita una nuova gara d’appalto, che sarà facilmente vinta dagli stessi azionisti di Atlantia, Benetton e soci». Affermazioni che, all’indomani della catastrofe di Genova, Gianfranco Carpeoro – avvocato e saggista – affida alla diretta web-streaming condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”, in tandem con Massimo Mazzucco. Ecco il complotto: «Lo sono, nei fatti, tutte le privatizzazioni fatte in Italia negli ultimi 50 anni. Oggi non sapremmo neppure più come gestirle, le autostrade. Dove trovare i soldi per i cantieri urgenti? L’Ue ci impedirebbe di usarli, con la scusa che sforeremmo il budget». I Benetton? «Hanno fatto ben poco, a livello di manutenzione. E non hanno fatto niente per soccorrere i senzatetto, che avevano bisogno di aiuti immediati. Sono avviliti, per l’accaduto? La sera dopo la tragedia erano a una festa, da loro organizzata a Cortina: mangiavano, bevevano e cantavano». Potevano permetterserlo? Eccome: i Benetton, scandisce Carpeoro, sono un ingranaggio del sistema messo in piedi dalla più potente massoneria sovrazionale, vicina ai Clinton e ai Bush.Altro che maglioncini: tra i soci della concessionaria delle autostrade italiane, oltre agli industriali di Treviso, figurano presenze ingombranti come la londinese Hsbc, uno dei maggiori gruppi bancari del mondo, nonché un fondo di Singapore (Gic Private Limited) e la fondazione bancaria della torinese Crt. Ma soprattutto il primo fondo d’investimenti del pianeta, lo statunitense Blackrock di Larry Fink, che – ricorda Carpeoro – Gioele Magaldi nel suo libro “Massoni” collega direttamente alla Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, sinistra superloggia massonica internazionale fondata dai Bush e sospettata di aver ideato la strategia della tensione, prima in Europa e poi nel mondo, reclutando Bin Laden e ispirando la strage dell’11 Settembre a Manhattan. Di che stiamo parlando? «I Benetton fanno parte di quel mondo: vicinissimi a Obama, a Hillary Clinton, alla superloggia “Three Eyes”». In Atlantia, aggiunge Carpeoro, vi sarebbero quote intestate a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Si dice Benetton, ma in realtà i padroni delle nostre autostrade sono tantissimi, e per lo più non italiani, «confermando lo schema delle privatizzazioni italiche». Tra parentesi: «Avete notato che i politici che le promossero – Prodi, D’Alema, Amato – aprirono simultaneamente fior di fondazioni miliardarie? Coincidenze, ovvio».Potrebbe la magistratura congelare i beni dei Benetton? «Certamente, ma anche i giudici tengono famiglia», taglia corto Carpeoro, poco convinto anche della possibilità che il governo Conte possa davvero mantenere la promessa di togliere un osso così ricco alla complessa struttura di potere che – attraverso i Benetton – ha avuto in regalo le austostrade costruite coi soldi degli italiani. Troppo potente, il club, e troppo debole la politica: «Ormai, in Italia, chi è al governo non può decidere quasi niente». La bomba esplosa in Veneto in una sede della Lega vicino a Treviso e l’effrazione domestica suibita dai genitori di Salvini? «Può essere uno strumento di pressione: a Craxi, quando stava per vuotare il sacco sul sistema del finanziamento illegale di cui beneficiavano tutti i partiti, violarono le abitazioni dei figli per indurlo a tacere». Questo, per Carpeoro (e Mazzucco) è il vero “complotto” di Genova: un maxi-regalo ai privati, senza vincoli per gli oneri di manutenzione, a scapito – come si è visto – della sicurezza. Oliviero Toscani rimprovera gli italiani di eccessiva severità verso i Benetton? «Ovvio, è sul loro libro paga: ha mostrato che tutti, in Italia, hanno un prezzo», dichiara Carpeoro. «E ha mostrato che quello è il suo prezzo: per essere inaffidabile, inattendibile e inaccettabile».«Lasciate perdere i complotti basati sui lampi che si vedono durante il crollo del viadotto Morandi: quelle ciance sul web servono solo a non vedere l’unico vero complotto all’origine del disastro di Genova». E cioè: una sciagurata sottovalutazione del rischio, grazie a una concessione-omaggio, imbarazzante e piena di parti segrete. Una profezia? «Vedrete che arriverà una telefonata dall’America, e alla fine la concessione ad Autostrade per l’Italia non verrà revocata. Oppure: verrà bandita una nuova gara, che sarà facilmente vinta dagli stessi azionisti di Atlantia, Benetton e soci». Affermazioni che, all’indomani della catastrofe di Genova, Gianfranco Carpeoro – avvocato e saggista – affida alla diretta web-streaming condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”, in tandem con Massimo Mazzucco. Ecco il complotto: «Lo sono, nei fatti, tutte le privatizzazioni fatte in Italia negli ultimi 50 anni. Oggi non sapremmo neppure più come gestirle, le autostrade. Dove trovare i soldi per i cantieri urgenti? L’Ue ci impedirebbe di usarli, con la scusa che sforeremmo il budget». I Benetton? «Hanno speso ben poco, a livello di manutenzione. E non hanno fatto niente per soccorrere i senzatetto, che avevano bisogno di aiuti immediati. Sono avviliti, per l’accaduto? La sera dopo la tragedia erano a una festa, da loro organizzata a Cortina: mangiavano, bevevano e cantavano». Potevano permetterselo? Eccome: i Benetton, scandisce Carpeoro, sono un ingranaggio del sistema messo in piedi dalla più potente massoneria sovranazionale, vicina ai Clinton e ai Bush.
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Benetton-Spagna grazie ai nostri pedaggi, regalo di D’Alema
«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).Gli imprenditori trevigiani erano partiti molti anni fa con l’abbigliamento a buon mercato, ricorda Fabio Pavesi sul “Fatto Quotidiano”, ma hanno scoperto ben presto che i soldi – quelli veri e tanti – si fanno con i business monopolistici: «Quelli regolati da tariffe e dove la concorrenza sui prezzi, che ha morso sempre di più il tessile-abbigliamento, è del tutto inesistente». Oggi il marchio Benetton è in crisi profonda, mentre i business delle infrastrutture (autostrade e aeroporti, fino alla ristorazione con Autogrill) in cui la famiglia di Ponzano Veneto ha pensato bene di investire alla grande, sfavillano di luce propria. Atlantia, la capofila del gruppo nel settore delle autostrade, ha trovato l’accordo con la Acs di Florentino Perez (patron del Real Madrid) e la sua controllata tedesca Hochtief per “papparsi” la spagnola Abertis, su cui Atlantia aveva lanciato un’Opa da 16 miliardi. Il progetto: una holding in cui proprio Atlantia avrà il 50% del capitale, più un’azione. «Il gruppo dei Benetton entra così in Abertis dal piano superiore. Una mossa che la dice lunga sull’abilità della famiglia di Ponzano Veneto di giocarsi alla grande i suoi investimenti».Del resto, aggiunge Pavesi, il business delle autostrade è da sempre un investimento a prova di rischio, e molto remunerativo.Basta scorrere i numeri di Atlantia che possiede Autostrade per l’Italia, la rete da 3 mila chilometri (solo in Italia) oltre agli Aeroporti di Roma, cui si è aggiunto quello di Nizza, insieme ad altri piccoli scali. La holding infrastrutturale – posseduta al 30% da Edizione, la cassaforte dei Benetton – sforna ogni anno numeri in costante crescita. Nel 2017, Atlantia ha visto i ricavi salire e lambire i 6 miliardi, contro i 5,4 di solo un anno prima. «La crisi economica in Atlantia non si è mai vista. Nel 2010 il fatturato valeva poco meno di 4,5 miliardi. Eppure il traffico sulla rete autostradale negli anni bui era anche diminuito. A far salire in continuazione il fatturato c’è sempre la ciambella di salvataggio delle tariffe. Quelle non scendono mai – scrive il “Fatto” – nemmeno quando l’inflazione va a zero, come è accaduto». E’ il bengodi, per i gestori: lo Stato concede loro di rincarare i pedaggi per coprire gli investimenti. «Anche nel 2017 per Autostrade per l’Italia le tariffe hanno corso di più dell’incremento da volumi di traffico. Ed è proprio Autostrade per l’Italia l’asset più redditizio per l’intera Atlantia. La sola Autostrade ha fatto ricavi per 3,94 miliardi sui 6 miliardi di tutta Atlantia. Pagati costi operativi e del lavoro, Autostrade ha una redditività industriale stratosferica: su 3,94 miliardi di fatturato il margine operativo lordo è di ben 2,45 miliardi. Un livello del 62%. Livelli che pochi raggiungono».Dal 2012 al 2016, continua il “Fatto”, Atlantia ha girato dividendi per la bellezza di 1,5 miliardi. «Una vera “cash machine”, una macchina da soldi che spende sì in investimenti per la manutenzione e ha speso molto per la Variante di Valico, ma con una redditività così elevata si permette il lusso di portare a casa quasi un miliardo di utile netto su 6 miliardi di ricavi. Niente male, per la famiglia veneta, che ha capito già 20 anni fa che quel business era l’affare della vita». Basti pensare, come documenta Mediobanca, che a primavera del 2017 Atlantia ha ceduto due pacchetti del 5% di Autostrade con una plusvalenza di ben 732 milioni. «Ricchi, ricchissimi, un vero tesoro Autostrade/Atlantia per i Benetton». Le perdite del marchio dei maglioni? Fanno solo il solletico – conclude Pavesi – al gruppo che siede sul tesoro delle autostrade italiane, e domani anche di quelle spagnole. Il governo Conte ora annuncia una multa da 150 milioni per il crollo di Genova. Ma la revoca della storica concessione, si apprende, potrebbe costare al paese qualcosa come 20 miliardi. “E’ la privatizzazione, bellezza”. «Durante la grande svendita delle aziende di Stato, costruite con i soldi degli italiani – scrive “VoxNews” – solo comprando e rivendendo dall’Iri la catena Gs, Benetton ha messo a segno una plusvalenza da 4.500 miliardi di vecchie lire. E come nel caso Telecom, di fatto “regalata” all’amico Colaninno, nel 1999 è il governo di Massimo D’Alema a imporre all’Iri di privatizzare le autostrade».Per i Benetton, aggiunge il newsmagazine, si trattava di un grande affare da affiancare a quello di Autogrill, anch’essa acquistata tre anni prima sempre dall’Iri assieme alla catena della grande distribuzione. L’operazione finì nel mirino dell’Antitrust, che chiese ai Benetton di aprire le strade italiane anche ad altri concorrenti della ristorazione. Ma, secondo l’Agcom, il diktat dell’autorità guidata da Giuseppe Tesauro non venne osservato, e per questo nel 2004 i Benetton si beccarono una multa da quasi 16 milioni di euro. «Una puntura di spillo», rispetto alla voragine di miliardi nel frattempo incassati ogni anno. La tragedia di Genova è uno specchio: di neoliberismo privatizzatore si muore. Romperemo i vincoli di bilancio imposti dall’Ue, annuncia Salvini tra le macerie genovesi, pur di mettere in sicurezza la rete nazionale dei trasporti. Ecco il punto: scardinare la consegna del rigore e riconquistare quella sovranità finanziaria che, negli anni della crescita (attraverso il ricorso strategico al debito pubblico) aveva permesso di realizzarle, le infrastrutture che poi il centrosinistra ha svenduto. E’ solo l’inizio di un rivolgimento epocale inevitabile, drammaticamente urgente. D’Alema tace, mentre l’oscuro Orfini accusa Lega e 5 Stelle di ragliare a vanvera. Non una parola di autocritica, dall’ex sinistra che sta assistendo alla sua cancellazione, ingloriosa, dalla storia italiana.«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).
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Salvini: Bruxelles ha sulla coscienza i morti di Genova
«Salvini fa solo demagogia», proclama da Parigi il solito Macron, pensando all’ennesima crisi-migranti (la nave Aquarius “rimbalzata” nel Mediterraneo) poco prima che l’Italia letteralmente si fermi, alla vigilia di ferragosto, di fronte al disastro di Genova: almeno 37 morti sotto le macerie del viadotto Morandi, collassato – pare – per il cedimento (non inatteso) degli “stralli”, i tiranti d’acciaio che reggevano la gigantesca infrastruttura sospesa sul capoluogo ligure. Terrore, caos, emergenza nazionale: il governo Conte, tramite Salvini e Di Maio, annuncia la revoca della concessione ad Autostrade e una multa da 150 milioni, mentre il ministro Toninelli si aspetta le dimissioni dei vertici della società. Emergono notizie purtroppo risapute: l’allarme per la tenuta del viadotto era stato rilanciato più volte, negli ultimi anni. Il problema? Soldi non disponibili per le riparazioni. «Buona parte d’Italia è da mettere in sicurezza», dichiara Salvini, a caldo, davanti alle telecamere. «C’è da metter mano a strade e ponti, autostrade, scuole, argini». Chi ce lo vieta? Ovvio: il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. «Se ci sono vincoli esterni che ci impediscono di spendere soldi (che avremmo) per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade dove viaggiano i nostri lavoratori, sarà il caso di porsi il dubbio se continuare a rispettare questi vincoli o se mettere, davanti a tutto e a tutti, la sicurezza degli italiani».Bingo: il leader della Lega ha centrato il punto. Se ne accorge anche “Bloomberg News”, che sottolinea: «Salvini punta il dito contro l’Ue per i morti a Genova». Commenta Paolo Barnard: «Concordo, ma sono silenti Tria, Conte e soprattutto Giulia Grillo, con oltre 60.000 italiani che muoiono, ogni anno, per le medesime ristrettezze economiche imposte dalla Ue». Ristrettezze «che hanno ucciso anche a Genova». E quindi, aggiunge Barnard, «Matteo Salvini mandi a Bruxelles quei conigli di Conte e Tria con 60.035 morti, non 37». Le dimensioni della catastrofe di Genova sono scioccanti: è crollato uno dei simboli dell’Italia del boom, risalente a mezzo secolo fa. Grandi opere (utili: non come il Tav Torino-Lione) che spinsero il “miracolo italiano”, sostenuto da poderosi investimenti pubblici sotto forma di deficit. Poi l’avvento nel neoliberismo, la fine della Prima Repubblica sotto i colpi di Mani Pulite e la grande stagnazione avviata con la nascita dell’Unione Europea e l’ingresso nell’Eurozona, che ha trasformato il debito pubblico: da leva stragegica per lo sviluppo a vera e propria tragedia nazionale, sotto il ricatto dello spread (la speculazione finanziaria sui titoli di Stato, non più sorretti dalla banca centrale come “prestatore di ultima istanza”).Uno schema evidenziato, in modo spettrale, dal martirio socio-economico della Grecia non più sovrana: prima la sovraesposizione debitoria incoraggiata dagli “stregoni” della Goldman Sachs, tra cui Mario Draghi, e poi – di fronte all’impossibilità di sostenere un maxi-debito non denominato in moneta nazionale, la condanna a ripagarlo per intero, imposta dal Fmi grazie a super-tecnocrati come Carlo Cottarelli. Il crollo del mastodontico viadotto genovese avvicina pericolosamente l’Italia alla Grecia: è un cedimento altamente simbolico, una sinistra premonizione. Certo, la situazione dovrà essere chiarita nei dettagli. Lo stesso Salvini pretende innanzitutto giustizia per i familiari delle vittime e chiede che l’inchiesta avviata dalla magistratura possa fornire indicazioni chiare su chi sono i responsabili di quanto accaduto: «Serve chiarezza, non può esserci un’altra strage senza colpevoli e qui hanno nomi e cognomi ben precisi: qualcuno deve finire in galera», dichiara il ministro dell’interno ai microfoni del Tg4. Ma è meglio risparmiarsi le speculazioni politiche spicciole: «Da ore in rete girano interrogazioni a questa o quella persona, ma non me la prendo con Delrio, perché non fa l’ingegnere nemmeno lui», aggiunge Salvini, evitando di “sparare” sul precedessore di Toninelli.Salvini punta giustamente al bersaglio grosso, Bruxelles: cioè il gran consiglio di tecnocrati non-eletti ai quali il governo gialloverde intende strappare larghe concessioni ai vincoli di bilancio, per poter finanziare Flat Tax e reddito di cittadinanza. Il leader della Lega sembra pronto a far pesare anche i morti di Genova: con più soldi da spendere a deficit, la tragedia si sarebbe evitata. L’inizio della fine, per noi? L’austerity varata da Monti e l’obbligo “criminale” del pareggio di bilancio inserito addirittura nella Costituzione, con il placet di Berlusconi e Bersani. Tra le macerie genovesi crolla anche la “teologia” neoliberista che predica la necessità dei tagli pubblici: l’economista post-keynesiano Nino Galloni ricorda che ogni atto di spesa produce un ritorno, in termini di Pil, anche del 300%. Impugnando lo sfacelo di Genova, l’Italia potrebbe rilanciare la sua sfida, da cui – ormai l’hanno capito tutti – può dipendere il futuro assetto politico dell’intera Europa. Per questo la Merkel tace, e il supermassone filo-vaticano Macron continua a latrare, in modo inaudito, contro il governo per il quale oltre il 60% degli italiani fa apertamente il tifo.«Salvini fa solo demagogia», proclama da Parigi il solito Macron, pensando all’ennesima crisi-migranti (la nave Aquarius “rimbalzata” nel Mediterraneo) poco prima che l’Italia letteralmente si fermi, alla vigilia di ferragosto, di fronte al disastro di Genova: almeno 37 morti sotto le macerie del viadotto Morandi, collassato – pare – per il cedimento (non inatteso) degli “stralli”, i tiranti che reggevano la gigantesca infrastruttura sospesa sul capoluogo ligure. Terrore, caos, emergenza nazionale: il governo Conte, tramite Salvini e Di Maio, annuncia la revoca della concessione ad Autostrade e una multa da 150 milioni, mentre il ministro Toninelli si aspetta le dimissioni dei vertici della società. Emergono notizie purtroppo risapute: l’allarme per la tenuta del viadotto era stato rilanciato più volte, negli ultimi anni. Il problema? Soldi non disponibili per le riparazioni. «Buona parte d’Italia è da mettere in sicurezza», dichiara Salvini, a caldo, davanti alle telecamere. «C’è da metter mano a strade e ponti, autostrade, scuole, argini». Chi ce lo vieta? Ovvio: il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. «Se ci sono vincoli esterni che ci impediscono di spendere soldi (che avremmo) per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade dove viaggiano i nostri lavoratori, sarà il caso di porsi il dubbio se continuare a rispettare questi vincoli o se mettere, davanti a tutto e a tutti, la sicurezza degli italiani».
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Se anche Salvini si piega ai padroni del Tav Torino-Lione
Eresia. Fermare l’ecomostro Torino-Lione è come sostenere, nel 1600, che è la Terra a orbitare attorno al Sole. Se lo tolgano dalla testa, i 5 Stelle: rinunciare alla linea Tav progettata in valle di Susa (perfettamente inutile, secondo 680 tecnici dell’università italiana nonché per l’autorità elvetica che monitora il traffico alpino per conto dell’Ue) è semplicemente impensabile. Lo sostiene anche la Lega di Salvini, sottoposta a prevedibili, smisurate pressioni. A titolo personale, il leader del Carroccio frena i pentastellati e parla, a ruota libera ai microfoni di “Radio 24”, di fanta-penali da 10 miliardi. La tesi salviniana: fermare l’opera sarebbe più costoso che non farla. Peccato che la spesa – fonte, Parigi – si aggirerebbe sui 26 miliardi (stima prudente). E la stessa Commissione Europea fa sapere che l’Italia non rischierebbe una penale né l’esclusione dai finanziamenti per ulteriori progetti infrastrutturali: dovrebbe solo limitarsi a rimborsare le somme già stanziate, attorno al miliardo di euro. Possibile ragionarci sopra, impegnando la politica? No, assolutamente: il Tav Torino-Lione resta materia ideologica, dogma di fede. Religione, e del tipo meno tollerante. Al punto da evocare l’inferno ogni volta che spunta l’ombra di un eretico, salvo rifiutare sempre – in vent’anni – di spiegare, cifre alla mano, a cosa mai servirebbe il tronco ferroviario più inutile della storia, italiana ed europea.Il maledetto Tav valsusino è ormai materia di umorismo anche televisivo: per Enrico Mentana, direttore del Tg de La7, si tratterebbe di una linea “ad alta velocità per le merci”. E’ noto a tutti – forse non a Mentana, né al suo pubblico – che si tratta di un ossimoro piuttosto comico: le merci, per definizione, non possono viaggiare ad alta velcità. Negli Usa, cioè il miglior sistema logistico del pianeta, transitato a 60 miglia orarie: oltre quella soglia si mette a rischio la sicurezza dei convogli. Le merci hanno bisogno di puntualità, non di velocità, ma non c’è caso che i media mainstream – stranamente ignorantissimi, su questo aspetto – ne facciamo menzione. La favola della Torino-Lione come segmento strategico per “merci veloci” è nata quando il progetto iniziale, costruito per trasportare passeggeri, è stato reso obsoleto dall’avvento dei voli low cost. Quanto alle merci, sulla tratta Torino-Lione sono praticamente estinte: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già collega l’Italia alla Francia attraverso la valle di Susa via Traforo del Fréjus (appena riammodernato con 400 milioni di euro) ospita appena il 10% dei convogli che potrebbe veicolare: la sua capacità potrebbe aumentare del 900%.Non ci sono più merci, nel trasporto regionale fra Piemonte e Rhône-Alpes, né ve ne saranno secondo tutte le stime. Ma, anziché sfruttare la linea esistente, si pensa a costruire un inutile doppione, per giunta devastante sul piano finanziario e ambientale. Un boccone ricchissimo, però, per i consorzi che lo costruirebbero. Semplicemente sconcertante, anche se non sorprendente, il tenore della dichiarazioni a reti unificate trasmesse dai media all’indomani del ventilato stop ai cantieri da parte dei 5 Stelle. «Imprenditori sulle barricate», secondo la “Stampa”: gli industriali di Torino, con il presidente Dario Gallina, si dicono «allibiti» perché «bloccare la Tav sarebbe un gesto autolesionistico, una disgrazia». E per quale motivo? Mistero: il giornale, all’allibito Gallina, non lo domanda. Per il presidente di Confindustria Piemonte, Fabio Ravanelli, «le contraddittorie e irrituali dichiarazioni sul futuro della nuova linea Torino-Lione sorprendono e creano estrema inquietudine». Di nuovo: se la sente, l’esimio Ravanelli, di spiegare – ai lettori della “Stampa” – quale sarebbe il motivo di tanta inquietudine?Al quasi-lutto per la quasi-rinuncia all’alta velocità transalpina si associa il presidente di Api Torino, Corrado Alberto, che definisce «assurda, inaccettabile e demenziale» l’ipotesi dello stop ai cantieri. Spiegazioni? Nemmeno l’ombra. E i sindacati? Eccoli: contrari alla rinuncia alla Torino-Lione anche Cisl e Uil, che si schierano con i segretari Annamaria Furlan («Sarebbe una sciagura») e Carmelo Barbagallo («Non possiamo rinunciare»). Tace Susanna Camusso, ma si schierano contro il blocco dei cantieri anche gli edili della Fillea-Cgil. Qualcuno lo trova, il coraggio di spiegare a chi mai servirebbe, davvero, la linea Tav Torino-Lione? Macché. Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino (già a capo della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria) chiede ai leghisti «di insorgere e bloccare questa deriva anti-piemontese, contraria agli interessi del Nord-Ovest e dell’intero paese». Il semi-segretario Pd, Maurizio Martina, parla di «follia che pagherà il paese intero». E Forza Italia? Con Mara Carfagna accusa il Movimento 5 Stelle di «buttare i soldi degli italiani». E per Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, la rinuncia alla Torino-Lione sarebbe «un passo indietro».Questa è l’Italia: un establishment che non ha esitato a criminalizzare la protesta contro la grande opera progettata in valle di Susa, senza mai degnarsi di fornire uno straccio di spiegazione credibile, capace di giustificare tanta tenacia nell’insistere su un maxi-progetto così controverso, ingombrante, costoso e doloroso, per il bilancio nazionale prima ancora che per il territorio. Passi l’insigne statista berlusconiana Mara Carfagna, passino la Meloni e l’ectoplama Maartina; passino i sindacalisti del 2018 di cui nessuno ricorda neppure i nomi; passino i ferrivecchi della Prima Repubblica come Chiamparino, miracolato dalla Seconda Repubblica come sindaco-fenomeno di Torino in mezzo allo sfacelo della partitocrazia di allora; ma il sovranista Salvini non doveva essere un politico di tutt’altra pasta, cioè schierato dalla parte del popolo? Nel suo piccolo, la valle di Susa è diventata un simbolo possibile per un’altra Italia, quella che – ad esempio – ha licenziato il fantasma di Monti e il suo ultimo erede, Matteo Renzi. Proconsoli deboli, agli ordini di poteri fortissimi (come quelli che hanno finora imposto, senza mai spiegazioni, l’afflizione antidemocratica dell’ecomostro Tav). L’Italia che ha tifato per il governo gialloverde ora assiste a uno spettacolo allarmante: davvero anche il nuovo esecutivo si piegherà, come i precedenti, al diktat dei padrini della grande opera, ancora una volta imposta senza motivazioni documentate?Eresia. Fermare l’ecomostro Torino-Lione è come sostenere, nel 1600, che è la Terra a orbitare attorno al Sole. Se lo tolgano dalla testa, i 5 Stelle: rinunciare alla linea Tav progettata in valle di Susa (perfettamente inutile, secondo 680 tecnici dell’università italiana nonché per l’autorità elvetica che monitora il traffico alpino per conto dell’Ue) è semplicemente impensabile. Lo sostiene anche la Lega di Salvini, sottoposta a prevedibili, smisurate pressioni. A titolo personale, il leader del Carroccio frena i pentastellati e parla, a ruota libera ai microfoni di “Radio 24”, di fanta-penali da 10 miliardi. La tesi salviniana: fermare l’opera sarebbe più costoso che farla. Peccato che la spesa – fonte, Parigi – si aggirerebbe sui 26 miliardi (stima prudente). E la stessa Commissione Europea fa sapere che l’Italia non rischierebbe una penale né l’esclusione dai finanziamenti per ulteriori progetti infrastrutturali: dovrebbe solo limitarsi a rimborsare le somme già stanziate, attorno al miliardo di euro. Possibile ragionarci sopra, impegnando la politica? No, assolutamente: il Tav Torino-Lione resta materia ideologica, dogma di fede. Religione, e del tipo meno tollerante. Al punto da evocare l’inferno ogni volta che spunta l’ombra di un eretico, salvo rifiutare sempre – in vent’anni – di spiegare, cifre alla mano, a cosa mai servirebbe il tronco ferroviario più inutile della storia, italiana ed europea.
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I 5 Stelle: rassegnatevi, la Tav Torino-Lione non si farà più
«Quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione, non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani». Le parole di Danilo Toninelli, ministro delle infrastrutture, suonano come campane a morto per il progetto che ha fatto letteralmente impazzire la valle di Susa, scatenando una protesta che si è conquistata un posto importante nell’agenda politica italiana. Sulla scrivania di Giuseppe Conte, scrive la “Stampa”, ora c’è una relazione che il premier ha letto e riletto, «prima di caricarsi anche pubblicamente una decisione che ormai è presa: la Tav non si farà più». Secondo il quotidiano torinese sarebbe scelta quasi obbligata, per il Movimento 5 Stelle, votato in massa dai NoTav. «Erano l’avanguardia territoriale dei grillini contro le grandi opere», scrive Ilario Lombardo, e ora si sentirebbero traditi dalle voci di un possibile ripensamento sulla maxi-opera più controversa d’Europa. Secondo un sondaggio piovuto sul tavolo dei vertici dei 5 Stelle, aggiunge Lombardo sulla “Stampa”, impegni come l’Ilva, la Tav e il Tap potrebbero costare una buona fetta di consenso. «Così, l’alta velocità Torino-Lione verrebbe sacrificata anche per indorare l’ok al Tap, il gasdotto che dovrebbe adagiarsi sulle spiagge pugliesi che è già costato dolenti ferite alla ministra del Sud, la grillina Barbara Lezzi per le forti contestazioni subite».Anche dalla valle di Susa si è alzata la protesta che ha investito Toninelli, appena ha solo accennato alla volontà di «migliorare» la Tav invece di confermare la rinuncia al tunnel. «Luigi Di Maio non può permettersi di liquidare entrambe le promesse elettorali, figlie di campagne identitarie per i grillini», sostiene Lombardo. Il post in cui tre giorni fa Toninelli annunciava un veto su qualsiasi ulteriore firma «ai fini dell’avanzamento dell’opera» è stato un avvertimento e un primo segnale. Rivolto anche all’alleato di governo, la Lega, che invece è stata una grande sostenitrice della Tav. Conte, aggiunge “La Stampa”, sarebbe ormai pronto ad abbracciare il piano di Di Maio e Toninelli, che ha un obiettivo chiaro: «La chiusura della tratta piemontese dell’alta velocità, nascosto dietro a una dichiarazione di intenti più fumosa che parla di “ridiscutere integralmente l’infrastruttura”, esattamente quello che c’è scritto nel contratto di governo, e che per i grillini può essere interpretato anche in maniera radicale». Lo stesso Toninelli, sul “Blog delle Stelle”, non usa però mezzi termini, riguardo al progetto Torino-Lione: «E’ stato enorme lo sperpero di danaro pubblico per favorire i soliti potentati, certe cricche politico-economiche e persino la criminalità organizzata».Impietosa l’analisi del ministro: la parte internazionale della Torino-Lione in teoria dovrebbe costare 9,6 miliardi (il 40% a carico dell’Ue, il 35% a spese Italia e il 25% della Francia), ma già nel 2007 era emerso che il costo vero arriverebbe a 20 miliardi di euro, o addirittura 26 secondo la Corte dei Conti francese, sulla base delle stime del Tesoro di Parigi aggiornate al 2012. Costi folli, per un’opera giudicata inutile: è infatti ormai semi-deserta la linea Torino-Modane che già collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, nonostante il recente ammodernamento del Traforo del Fréjus, costato 400 milioni. Peggio: nel caso della Torino-Lione sarebbero davvero eccessivi gli oneri gravanti sull’Italia, nonostante il nostro paese sia interessato solo da 12,5 chilometri dell’ipotetico traforo internazionale da scavare per 57,5 chilometri sotto il Moncenisio. «Uno degli aspetti più scandalosi sta proprio lì», sottolinea Toninelli: «I nostri governanti del tempo, stiamo parlando dei primissimi anni Duemila, decisero di accollarsi la parte maggiore delle spese per convincere la Francia, che era giustamente riluttante rispetto alla costruzione dell’opera. Anche perché negli ultimi venti anni lo scambio di merci tra Italia e Francia ha avuto una discesa costante». Da neo-ministro, Toninelli accusa: «Mi son trovato a mettere le mani in un verminaio di sprechi, connivenze corruttive, appalti pilotati, varianti in corso d’opera che hanno fatto esplodere i costi negli anni. E’ difficile raddrizzare la barra, ma dobbiamo farlo. Lo dobbiamo ai nostri concittadini e soprattutto alle generazioni future».Scandalosa la gestione dell’alta velocità ferroviaria in Italia: ci costa in media 28 milioni di euro a chilometro contro i 12 milioni della Spagna, i 13 della Germania e i 15 della Francia. Cifra che sale a 33 milioni di euro a chilometro con le linee in via di costruzione. «E’ per questo che abbiamo avviato una seria revisione progettuale su queste infrastrutture», spiega Toninelli: «Non si può più fare a meno di una rigorosa analisi costi-benefici». Rifarsi al “contratto” di governo, scrive il ministro, pensando soprattutto a Salvini, significa «voler ridiscutere integralmente l’infrastruttura, senza preclusioni ideologiche ma senza subire il ricatto che ci piove in testa e che scaturisce dalle scandalose scelte precedenti». Di qui l’intimazione ai tecnocrati: «Nessuno deve azzardarsi a firmare nulla ai fini dell’avanzamento dell’opera, lo considereremmo come un atto ostile: le opere si fanno se servono ai cittadini, non a chi le costruisce». Il progetto Tav Torino-Lione (tuttora solo cartaceo) è nato da un accordo con la Francia ratificato dal Parlamento. Un’intesa che però, secondo Palazzo Chigi e il ministero dei trasporti, può essere stracciato attraverso una legge e un altro voto alle Camere, sempre che la maggioranza regga e la Lega non si sfili.A oltre 15 anni dal tentativo di avvio del primo cantiere a Venaus, letteralmente fermato dalla protesta popolare, i lavori – sul versante italiano – sono ancora limitati alla sola galleria esplorativa di Chiomonte. Secondo i ministri grillini, scrive la “Stampa”, si tratterebbe semplicemente di restituire i fondi all’Europa (800 milioni di euro) senza penali. «I contatti con i francesi sono continui, ma la parte grillina del governo è decisa ad andare avanti anche a costo di scontri diplomatici con Parigi, con conseguente richiesta di risarcimenti». Il “no” definitivo è previsto per il prossimo autunno, tra ottobre e novembre, quando si concluderà l’analisi costi-benefici, inclusi quelli ambientali. «Ma il destino dell’alta velocità piemontese si incrocia anche con la partita delle nomine in corso in queste ore», aggiunge Lombardo sul quotidiano torinese. «Telt, la società responsabile della realizzazione della Torino-Lione, è per il 50% in mano allo Stato francese e per il restante 50% controllata da Ferrovie, i cui vertici sono stati azzerati da Toninelli l’altro ieri». Tra i valsusini prevale la prudenza: riusciranno davvero, i 5 Stelle, a fermare l’inutile ecomostro che ha finora attratto potentissimi interessi economici, politici e finanziari, al punto da apparire impossibile da fermare?«Quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione, non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani». Le parole di Danilo Toninelli, ministro delle infrastrutture, suonano come campane a morto per il progetto che ha fatto letteralmente impazzire la valle di Susa, scatenando una protesta che si è conquistata un posto importante nell’agenda politica italiana. Sulla scrivania di Giuseppe Conte, scrive la “Stampa”, ora c’è una relazione che il premier ha letto e riletto, «prima di caricarsi anche pubblicamente una decisione che ormai è presa: la Tav non si farà più». Secondo il quotidiano torinese sarebbe scelta quasi obbligata, per il Movimento 5 Stelle, votato in massa dai NoTav. «Erano l’avanguardia territoriale dei grillini contro le grandi opere», scrive Ilario Lombardo, e ora si sentirebbero traditi dalle voci di un possibile ripensamento sulla maxi-opera più controversa d’Europa. Secondo un sondaggio piovuto sul tavolo dei vertici dei 5 Stelle, aggiunge Lombardo sulla “Stampa”, impegni come l’Ilva, la Tav e il Tap potrebbero costare una buona fetta di consenso. «Così, l’alta velocità Torino-Lione verrebbe sacrificata anche per indorare l’ok al Tap, il gasdotto che dovrebbe adagiarsi sulle spiagge pugliesi che è già costato dolenti ferite alla ministra del Sud, la grillina Barbara Lezzi per le forti contestazioni subite».
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Il gas non era nervino, il bimbo non era migrante: scrivetelo
Il gas in Siria non era nervino, e il bimbo in lacrime non era un immigrato messicano. Foto-simbolo, veicolate dai media per attaccare Assad e Trump. Ma i giornalisti, si domanda Marcello Foa, non si scusano mai? Certo non con lui, che ha appena querelato “L’Espresso”: il settimanale del gruppo De Benedetti ha scritto che la cassa-fantasma della Lega sarebbe in Svizzera. L’articolo, firmato da Vittorio Malagutti, lascia intendere che proprio Foa, editorialista del “Giornale”, avrebbe avuto un ruolo-chiave in questa misteriosa e sofisticata operazione. «L’articolo è così bislacco e la tesi proposta talmente infondata nelle argomentazioni, nonché colma di fantasiose e diffamanti insinuazioni, da essere semplicemente ridicola», scrive Foa, sul suo blog nella versione online del quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. Protesta Foa: non è stato neppure interpellato dal giornalista de “L’Espresso” che l’ha citato, «violando le più elementari norme del giornalismo d’inchiesta». E questo, aggiunge Foa, «la dice lunga sulla serietà di una testata un tempo autorevole». Se Malagutti avesse telefonato a Foa, scrive l’interessato, «gli avrei detto che il pranzo a Lugano con Steve Bannon, citato nell’inchiesta come episodio fondamentale, era talmente segreto che si è svolto alla presenza, tra gli altri, di Roberto Antonini, un giornalista della televisione svizzera “Rsi” (il quale diede conto pubblicamente dell’evento) e di Danilo Taino del “Corriere della Sera”. Non c’è che dire, un tavolo di loschi congiurati».«Al solo pensiero che si possa fare un’inchiesta con questi criteri a me scappa davvero da ridere», aggiunge Foa. Il famoso articolo de “L’Espresso”? «Giornalisticamente rappresenta il nulla assoluto. Non c’è niente: non una notizia, non un’analisi. Solo illazioni e fantasiose connessioni per tentare di giustificare l’astrusità di un titolo sensazionalistico e intenzionalmente diffamatorio perché non circostanziato». In altre parole: «Giornalismo di bassa lega, robaccia. L’ennesimo sintomo del declino, anzi della decomposizione di una testata un tempo gloriosa», che ormai «si sta liquefacendo da sè, sconfessata dalla maggior parte dei lettori che non legge più “L’Espresso” da tempo». Per contro, secondo Foa, l’articolo «goffamente diffamatorio» del settimanale «evoca, ancora una volta, il concetto di “fake News”, soprattutto di quelle che la grande stampa mainstream diffonde ogni giorno, senza mai avere l’onestà di rettificare i propri errori». Ricordate l’attacco con armi chimiche a Douma, quello che suscitò le ire di Macron e che indusse Trump a sparare un po’ di missili sulla Siria? Nell’aprile scorso, alcuni osservatori – tra cui lo stesso Foa – sollevarono dubbi sull’attendibilità di quelle accuse. Ma quei dubbi «non trovarono spazio sulla stampa, che, in coro, grondava indignazione».Ebbene, la missione d’inchiesta dell’Opac, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, ha appena pubblicato un rapporto da cui risulta che non è stata trovata nessuna traccia di gas nervino a Douma. «Ma come al solito – sottolinea Foa, sul “Giornale” – a dare la notizia con la giusta evidenza sono stati solo blogger e siti alternativi. E come sempre, la grande stampa, salvo rare eccezioni, l’ha ignorata». Dalla Siria agli Stati Uniti: «Chi non si è commosso davanti alla foto straziante del bambino messicano che piange disperato dopo essere stato separato dai genitori? Quell’immagine – ricorda Foa – è diventata il simbolo della protesta contro le misure del governo Trump (e da quest’ultimo poi ritirate). Era troppo bella, troppo emozionante per non essere vera! Peccato che non lo fosse: in realtà è stata scattata durante una manifestazione di protesta a Dallas, il 10 giugno». Le sbarre? «Non erano di una prigione, ma di gabbie simboliche. E il bambino non è mai stato separato dai genitori. Recitava». Ai media, però, «è bastato prendere quello scatto e pubblicarlo decontestualizzato per scatenare l’indignazione internazionale. E ancora una volta solo in pochi hanno denunciato l’inganno, la grande stampa non ha mai rettificato».Proprio alla sistematica manipolazione dell’informazione, Marcello Foa ha dedicato il suo ultimo saggio, “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”. Un lavoro in linea con un altro ottimo lavoro, che Foa segnala: è il saggio Enrica Perucchietti “Fake News. Dalla manipolazione dell’opinione pubblica alla post-verità”, che Foa considera un complemento ai suoi studi, tanto da averne scritto l’introduzione. «Come tutti gli autori davvero controcorrente – dice Foa – l’autrice è affascinata da Orwell e dal suo capolavoro “1984”. In quest’opera tenta, a mio avviso con successo, di rileggere le dinamiche della nostra società alla luce di alcuni concetti fondamentali del grande autore britannico». Non si tratta ovviamente di una banale trasposizione, né di un’inutile e stantia ricostruzione a posteriori: non è una visita in un virtuale museo di Orwell, bensì «un viaggio palpitante e preoccupato nella nostra realtà, che appare agli occhi dell’autrice come geneticamente modificata, mentre mai come ora – soprattutto per chi fa il giornalista – c’è bisogno di autenticità, di aderenza alla realtà, di onestà intellettuale. E il libro della Perucchietti – conclude Foa – rappresenta un ottimo antidoto ai veleni che difformano l’informazione quotidiana».Il gas in Siria non era nervino, e il bimbo in lacrime non era un immigrato messicano “intrappolato” dal governo Usa. Foto-simbolo, veicolate dai media per attaccare Assad e Trump. Ma i giornalisti, si domanda Marcello Foa, non si scusano mai? Certo non con lui, che ha appena querelato “L’Espresso”: il settimanale del gruppo De Benedetti ha scritto che la cassa-fantasma della Lega sarebbe in Svizzera. L’articolo, firmato da Vittorio Malagutti, lascia intendere che proprio Foa, editorialista del “Giornale”, avrebbe avuto un ruolo-chiave in questa misteriosa e sofisticata operazione. «L’articolo è così bislacco e la tesi proposta talmente infondata nelle argomentazioni, nonché colma di fantasiose e diffamanti insinuazioni, da essere semplicemente ridicola», scrive Foa, sul suo blog nella versione online del quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. Foa non è stato neppure interpellato dal giornalista de “L’Espresso” che l’ha citato, «violando le più elementari norme del giornalismo d’inchiesta». E questo, aggiunge, «la dice lunga sulla serietà di una testata un tempo autorevole». Se Malagutti gli avesse telefonato, scrive Foa, «gli avrei detto che il pranzo a Lugano con Steve Bannon, citato nell’inchiesta come episodio fondamentale, era talmente segreto che si è svolto alla presenza, tra gli altri, di Roberto Antonini, un giornalista della televisione svizzera “Rsi” (il quale diede conto pubblicamente dell’evento) e di Danilo Taino del “Corriere della Sera”. Non c’è che dire, un tavolo di loschi congiurati».
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Ma non fuggono dalla fame, gli africani che sbarcano da noi
Gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa sono per lo più (oltre l’80%) giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana. La loro condizione sociale? Non è facile dirlo, perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi. Un paio d’anni fa, in un’intervista, il ministro dei Senegalesi all’Estero ha detto: «Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più». L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici.Ad alimentare questa illusione sono vari fattori. Uno su tutti: i trafficanti, che come è noto gestiscono la gran parte dei viaggi verso l’Europa. Sono loro che rafforzano questa idea, lo fanno ovviamente per procurarsi clienti. È utile sottolineare che il 13 giugno è stato pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) un rapporto dal quale emerge che nel 2016 queste organizzazioni criminali hanno trasportato almeno 2,5 milioni di persone, delle quali quasi 400.000 verso l’Italia, ricavandone in tutto da 5,5 a 7 miliardi di dollari. Il rapporto spiega dettagliatamente come funziona l’avvicinamento ai clienti, l’opera di convincimento, nonché quali sono le varie tariffe. Chi arriva in Europa, per lo più, non fa altro che alimentare verso i propri parenti e amici in Africa l’idea che sia giunto ad un traguardo per cui vale la pena spendere e rischiare. La tendenza è quella di descrivere situazioni positive, anche quando non lo sono, per giustificare la propria scelta. Ma va detto che spesso, in effetti, chi arriva non ha nulla di cui lamentarsi: siccome quasi tutti chiedono e ottengono asilo, almeno nei primi anni godono di un sistema di protezione e di assistenza da far invidia a chi non è ancora partito.Le traversate nel deserto, i campi di detenzione libici, le tragedie nel Mediterraneo: non dovrebbero rappresentare un deterrente nei confronti di chi vuole partire? Il punto è che queste situazioni le conosciamo più noi che loro. L’accesso ai mezzi d’informazione degli africani, anche di coloro che vivono nelle città, è molto limitato. Detto ciò, molti conoscono i rischi e sono disposti ad accettarli, così come non si può escludere che molti altri, magari in un primo momento intenzionati a partire, desistano proprio alla luce di queste tragedie. A tal proposito vorrei sottolineare l’importanza del lavoro di controinformazione che stanno svolgendo alcuni soggetti in Africa. Alcuni governi, così come molte conferenze episcopali africane, si stanno spendendo per spiegare ai giovani quanto costa, quanto si rischia e quanto poco si ottiene, nel lungo periodo, ad emigrare in paesi dove non c’è occupazione né possibilità concreta di integrazione economica e sociale. Stanno svolgendo questo lavoro i governi del Senegal e del Niger – dal 2014 anche quello del Mali, il quale sta facendo una forte propaganda per dimostrare che un paese dal quale emigrano i suoi cittadini più giovani e forti non crescerà mai. E ancora: quello della Sierra Leone, a partire dall’anno scorso e in collaborazione con le autorità religiose, sia cristiane che islamiche. Sono piccoli passi in avanti che incoraggiano i giovani non a fuggire ma a restare, per migliorare il proprio paese.L’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parla di oltre 60 milioni di profughi in generale. Se poi parliamo di rifugiati, ovvero di persone che fuggono all’estero da guerre e persecuzioni, la cifra è di circa 20 milioni. Di questi, soltanto una minoranza esigua arriva in Italia, chiede asilo e lo ottiene: per quantificare, nel 2015 sono stati 3.555, nel 2016 4.940 e nel 2017 6.578. Perché sono così pochi? Perché la maggior parte di chi fugge da una guerra trova asilo appena varca il confine; del resto, la Convenzione di Ginevra prevede che il profugo chieda tempestivamente asilo nel primo paese che ha firmato la Convenzione in cui mette piede. C’è poi un secondo motivo: chi fugge sotto la minaccia di persecuzione e di guerra cerca di rimanere il più vicino a casa perché l’idea è quella di tornarci il prima possibile.Quanto incide sull’emigrazione anche lo sfruttamento delle risorse? C’è il land grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di paesi stranieri o industrie. Sicuramente sono fattori che hanno una loro incidenza. Le responsabilità vanno trovate anzitutto nei governi africani, i quali – per restare al tema del land grabbing – preferiscono vendere le terre ad industrie o a paesi che hanno fame di terre coltivabili (Cina, India, Arabia Saudita) incassando subito del denaro piuttosto che incentivare l’agricoltura locale anche tramite investimenti. L’Africa è ricca di risorse minerarie, penso al cobalto ma soprattutto al petrolio, il quale viene acquistato e pagato dalle compagnie, ma il problema è capire dove vanno a finire i soldi. Nel 2014, su 77 miliardi di dollari che avrebbe dovuto incassare l’ente nazionale del petrolio nigeriano, 14 non sono mai stati depositati. Sono finiti in qualche conto corrente, mentre sarebbero dovuti servire per lo sviluppo sociale del paese. La Nigeria, pur essendo il primo produttore di petrolio del continente, importa il greggio già raffinato dall’estero.L’Africa da oltre 20 anni registra una crescita economica notevole, e in prima fila ci sono i paesi da cui proviene la maggior parte dei migranti, solo che queste risorse vengono dilapidate o se ne giovano poche élite. Al recente Consiglio Europeo, gli Stati si sono impegnati a contribuire ulteriormente al Fondo Ue per l’Africa inviando altri 500 milioni. È un modo per “aiutarli a casa loro” o per alimentare la corruzione? Questi 500 milioni sono un ulteriore quantitativo, che si aggiunge ai miliardi che ogni anno vengono destinati all’Africa dalla cooperazione allo sviluppo di Stati Uniti ed Europa. Infatti quando sento invocare un “Piano Marshall per l’Africa” resto basita, perché di risorse ne vengono già inviate in modo ingente, ma i destinatari, cioè i governi, sono poco affidabili. Un esempio: in Somalia, che è uno dei paesi maggiormente assistiti, la Banca Mondiale qualche anno fa ha dimostrato che ogni 10 dollari che vengono elargiti al governo, 7 spariscono nel nulla.E’ possibile che, dove è forte la presenza del radicalismo islamico, quei soldi che spariscono nel nulla finiscano ad arricchire i gruppi jihadisti? Chi lo sa. Certo è che questi gruppi hanno fonti di reddito molto robuste e sponsor molto potenti. Inoltre sono spesso invischiati in traffici illegali: spaccio di droga, di armi, bracconaggio. Anni fa si è scoperto che gli Al Shabaad della Somalia ottengono circa il 40% dei proventi dalla vendita di zanne di elefante. Considerate che in Kenya c’è un detto: “Oggi è stato ucciso un elefante, domani sarà ucciso un uomo”, proprio per sottolineare la correlazione tra bracconaggio e terrorismo. Una ricerca delle Nazioni Unite rivela che nel 2050 ci sarà un’ulteriore crescita demografica dell’Africa e un declino dell’Occidente. L’immigrazione di massa come fenomeno sempre più ineluttabile? Anzitutto si tratta di proiezioni, non di dati certi. Non è affatto detto che tra trent’anni la situazione rimarrà la stessa di oggi, in termini demografici.Delle buone politiche familiari e un cambio culturale potrebbero invertire la tendenza demografica in Occidente, così come è possibile in primo luogo che la popolazione africana non aumenterà come l’Onu prevede (già si registra una piccola variazione verso il basso rispetto ai pronostici di pochi anni fa) e poi che l’Africa diventi finalmente un continente in grado di svilupparsi e di convincere i propri giovani a non fuggire alimentando i traffici clandestini di migranti. A mio avviso il modus operandi di molte Ong è molto discutibile, perché entrano in contatto diretto con i trafficanti e prevedono il trasbordo quasi in acque territoriali libiche per poi dirigersi verso l’Italia, anche se battono bandiera di un altro Stato e se il porto più vicino sarebbe altrove. Già il precedente governo, con il ministro Minniti, aveva sollevato il problema e aveva pensato di prendere provvedimenti. Il nuovo governo si sta dimostrando solo più determinato, ma l’intento è rimasto quello di far rispettare la sovranità nazionale e le leggi internazionali.Chiudere i porti significa smettere di “restare umani”? L’Europa in generale, ma nello specifico l’Italia, sono molto lontane dalla fase più prospera della loro storia: gli ultimi dati ci parlano di 5 milioni di italiani in povertà assoluta e centinaia di migliaia di italiani emigrano all’estero; l’Italia è 20esima tra i paesi di emigrazione. In questa situazione, è solo giusto impedire a delle persone di raggiungere un paese che può assisterli nel breve periodo, ma che non è in grado di garantire loro un futuro dignitoso. Chi arriva dall’Africa in Italia ha remotissime possibilità di costruirsi una vita: il più delle volte è destinato a vivere di espedienti, a lavorare in nero e in condizioni disumane magari in qualche campo di pomodori oppure ad ingrossare le fila della criminalità organizzata. Chiudere i porti può essere un modo per scoraggiare i viaggi clandestini. È importante che si alimenti il passaparola tra migranti stessi. Esistono tantissime testimonianze di giovani che hanno iniziato il viaggio verso l’Europa ma che non sono riusciti ad arrivare a destinazione, i quali affermano che se lo avessero saputo non avrebbero speso soldi e sprecato anni della propria vita per un’impresa così aleatoria. L’unico modo per scoraggiare questi progetti senza futuro è proprio quello di dimostrare che il viaggio della speranza è un’illusione, che a destinazione non si arriva: e chiudere i porti è il messaggio più netto che possa giungere.(Anna Bono, dichiarazioni rilasciate a Federico Cenci per l’intervista “Bisogna scoraggiare gli africani a emigrare, ecco perché”, pubblicata da “In Terris” l’11 luglio 2018. Africanista dell’università di Torino, la professoressa Bono ha pubblicato importanti studi sul fenomeno dell’immigrazione di origine africana).Gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa sono per lo più (oltre l’80%) giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana. La loro condizione sociale? Non è facile dirlo, perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi. Un paio d’anni fa, in un’intervista, il ministro dei Senegalesi all’Estero ha detto: «Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più». L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici.
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Carpeoro: fermare la Lega, giudici brutali e intellettuali servi
Ora la campagna mediatica contro Salvini coinvolge anche il mondo dello spettacolo, con il discusso appello su “Rolling Stone”? Il problema di fondo è che la cultura italiana è fatta di meretricio intellettuale. Uno firma e fa i girotondi perché “fa bello”, giova alla carriera e giova all’immagine aggregarsi nel politicamente corretto. I cosiddetti artisti e intellettuali italiani hanno voglia di omologazione, hanno voglia di essere branco. Ed è esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere un intellettuale o un artista. Io lo trovo l’esempio della gregarietà del mondo culturale, intellettuale e artistico italiano. Questo è un paese di moralisti, non è un paese di morale. La maggior parte di quelli che fanno la morale agli altri, se vai a guardare a casa loro, scopri che fanno di peggio. A livello nazionale è partita la guerra contro Salvini. Non che la Lega non debba risarcire la somma che è stata stabilita (in primo grado). A ingenerare sospetto è la fretta. Una sentenza di primo grado che condanna un partito a rifondere 49 milioni di euro mi desta un po’ di perplessità per la cifra. Mi sembra un po’ alla carlona il fatto che tutti i rimborsi elettorali debbano essere sostituiti, e mi sembra di ricordare che il merito di quel provvedimento fosse di gran lunga inferiore a queste cifre. Il problema è che è stata resa esecutiva la decisione di primo grado, e che – cosa che non fanno quasi mai – i magistrati hanno deciso di dare a queste esecuzioni delle modalità piuttosto brutali.Che succede, se ad un partito sequestri tutti i conti bancari e anche i rimborsi correnti? Se gli esponenti precedenti della Lega hanno mal disposto dei rimborsi, ciò non significa automaticamente che l’intero partito debba essere ritenuto responsabile. Probabilmente lo stesso partito è una parte lesa nei confronti di costoro. Quindi a me sembra che una vicenda affrontata con questa brutalità e con questa fretta, molto sospetta, voglia mettere in ginocchio il partito della Lega. Da parte mia, non ho alcuna simpatia, per la Lega: se avesse perso le elezioni non ne sarei stato rattristato. Ma il problema è che le ha vinte, e questo oggi sembra quasi una colpa. Come si è visto, il provvedimento giudiziario è stato deciso a pochissima distanza dalla vittoria della Lega, nonostante questa decisione (di primo grado) fosse esecutiva da tempo. Con molto zelo, invece, la magistratura ha deciso di realizzare un esecuzione a tempi di record. Ricordo che la Lega non difese le ragioni del diritto durante Tangentopoli, quando Craxi fu condannato a tempo di record, in un’Italia in cui i processi duravano vent’anni. Questo è dunque un film già visto, che oggi vede la Lega passare da carnefice a vittima. Io non gioisco quando il carnefice diventa vittima, perché per me le vittime sono tutte uguali. E’ il meccanismo che mi preoccupa, il meccanismo per cui uno possa diventare vittima.E’ un meccanismo che interessa tutti, ed è interesse della comunità che un individuo non diventi vittima, qualunque sia l’individuo, perché ognuno deve pagare le sue colpe. Perché eseguire così brutalmente il sequestro dei conti correnti della Lega, immobilizzando l’intero partito? Giustamente Salvini si lamenta, nonostante la tradizione del suo partito non lo legittimi, politicamente. Fa bene Salvini a disegnare uno scenario antidemocratico: si blocca la vita di un partito, che teoricamente dopodomani deve chiudere, perché questo sequestro incombente riguarda tutti i soldi in ingresso – che la Lega non potrà più usare per finanziare la sua legittima attività politica. Questo a me non sembra una cosa saggia, da parte della giustizia. Mi sarebbe semvrato saggio aspettare il terzo grado di giudizio e comunque concordare, dopo il terzo grado, delle forme di rientro economiche per questo partito. In Italia, misure simili sono stati garantite a cani e porci, e invece questi pretendono 49 milioni sull’unghia, dalla Lega, dopo il primo grado di giudizio. Capisco che probabilmente gli scopi sono diversi da quelli della giustizia. Ed è un problema che si ripete, come se la giustizia fosse la foglia di fico dietro cui nascondersi: è ora di riconoscere che in Italia la giustizia è uno strumento, una variabile che incide profondamente sulla politica e sulla vita democratica, e questo a me non piace.Attenzione: far sparire soldi sequestrati dalla magistratura configura un reato, ma presuppone l’accertamento del reato. Se io veramente li ho fatti sparire, quei soldi, tu – magistrato – hai modo di accertarlo, identificando anche i responsabili. Per certi aspetti hai anche la possibilità di scoprire dove sono finiti quei soldi, perché 49 milioni di euro non spariscono con la bacchetta magica. Se veramente sono spariti, sono scomparsi quasi in un’unica soluzione, perché il periodo sospetto è limitato a un tempo ristretto di attività criminosa. In effetti la procura di Genova ha aperto un’inchiesta. Siccome sul conto corrente della Lega non ci sono soldi, sarebbe giusto che – se questa inchiesta portasse alla conclusione che l’attuale dirigenza della Lega ha predisposto un piano criminoso per farli sparire – la giustizia fosse spietata, in questo senso. Il problema però è che tu non puoi darla per scontata, questa teoria, avendo solo aperto un’inchiesta. La giustizia non è fatta solo di leggi, è fatta anche di buon senso. Quindi, prima di immobilizzare un partito che prende milioni di voti, tu devi avere certezze – altrimenti può darsi, effettivamente, che in quel partito i soldi li abbiano fatti sparire i malversatori o che tu abbia sbagliato i conti, paralizzando – solo per i tuoi sospetti – un partito che prende milioni di voti.C’è un evidente problema politico: certi magistrati fanno politica perché sanno che se assumono certe posizioni fanno carriera, col clima che c’è nel Csm, nella Corte Costituzionale e presso tutte le cariche istituzionali. Vorrei che ci fosse meno politica, nella magistratura, altrimenti lo Stato dovrebbe dire: “Sui magistrati non indagano magistrati”. La cosiddetta autogestione e indipendenza delle toghe diventa un valore minore, se i magistrati non sono effettivamente indipendenti, se non sono “terzi”. Perché mi dovrei fidare dell’indipendenza della magistratura come valore teorico se questa non si traduce anche in esercizio pratico? Io credo che se lo Stato “facesse lo Stato” il sistema attuale potrebbe funzionare bene, con qualche piccola modifica. Ma lo Stato fa davvero lo Stato? Noi abbiamo un presidente della Repubblica che ha inciso fortemente (e io sostengo che non poteva farlo) sulla stessa composizione del governo. Abbiamo una situazione in cui lo Stato non fa lo Stato. E perché dovremmo ritenere che la magistratura non abbia ripercussioni da tutto questo? Tant’è vero che Salvini non ha chiesto un colloquio col vicepresidente del Csm, tradizionale vertice operativo dell’organo. Prima di certe iniziative intraprese da Cossiga, il presidente della Repubblica era solo una figura onorifica e simbolica, in qualità di presidente del Csm. Era il vicepresidente a rappresentare il vertice.Ora invece Salvini (giustamente, dal suo punto di vista) ha chiesto un colloquio direttamente al presidente della Repubblica, e non al vicepresidente del Consiglio Superiore. La verità è che abbiamo creato una Costituzione materiale che è diversa dalla Costituzione scritta, che è fatta di stereotipi, di cose che non sono scritte, di forzature fatte passare dando per scontato che quello costruito dai costituenti forse un sistema perfetto e non modificabile, come se i costituenti avessero detto “noi siamo Dio e facciamo le dodici tavole”. Ma i principi “perfetti” per una certa epoca possono rivelarsi imperfetti un’altra epoca. Così oggi rischia di essere bloccato, per via giudiziaria, un partito votato da milioni di italiani. Né mi stupiscono le voci su una possibile resurrezione di Renzi, in un nuovo partito “finanziato da Soros” con la Bonino, Tabacci, la Lorenzin. Gli italiani potrebbero “bersi” la nuova, ipotetica “verginità” di Renzi? E’ possibile, perché gli elettori si accontentano della “verginità” formale, non badano a quella sostanziale. E’ una mentalità italiana che è all’origine anche del successo degli attuali partiti: Lega e 5 Stelle hanno avuto successo facendo agli altri quello che adesso viene fatto a loro. Il successo degli attuali partiti ha le stesse radici, purtroppo, dell’insuccesso degli altri.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” durante la diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube, il 7 luglio 2018).Ora la campagna mediatica contro Salvini coinvolge anche il mondo dello spettacolo, con il discusso appello su “Rolling Stone”? Il problema di fondo è che la cultura italiana è fatta di meretricio intellettuale. Uno firma e fa i girotondi perché “fa bello”, giova alla carriera e giova all’immagine aggregarsi nel politicamente corretto. I cosiddetti artisti e intellettuali italiani hanno voglia di omologazione, hanno voglia di essere branco. Ed è esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere un intellettuale o un artista. Io lo trovo l’esempio della gregarietà del mondo culturale, intellettuale e artistico italiano. Questo è un paese di moralisti, non è un paese di morale. La maggior parte di quelli che fanno la morale agli altri, se vai a guardare a casa loro, scopri che fanno di peggio. A livello nazionale è partita la guerra contro Salvini. Non che la Lega non debba risarcire la somma che è stata stabilita (in primo grado). A ingenerare sospetto è la fretta. Una sentenza di primo grado che condanna un partito a rifondere 49 milioni di euro mi desta un po’ di perplessità per la cifra. Mi sembra un po’ alla carlona il fatto che tutti i rimborsi elettorali debbano essere sostituiti, e mi sembra di ricordare che il merito di quel provvedimento fosse di gran lunga inferiore a queste cifre. Il problema è che è stata resa esecutiva la decisione di primo grado, e che – cosa che non fanno quasi mai – i magistrati hanno deciso di dare a queste esecuzioni delle modalità piuttosto brutali.
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Cremaschi: sono 10 milioni (non 5) i nuovi poveri in Italia
Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.Ma i vertici europei – in guerra tra loro sull’emergenza-migranti, innescata da feroci ingiustizie contro l’Africa e il Medio Oriente – non fanno nulla per le decine di milioni che nella Ue già ci stanno. «I poveri si contano e poi vengono cancellati dall’agenda politica», sottolinea Cremaschi: sono lavoratori, pensionati, precari e disoccupati, donne e giovani. «Sono la parte più sfruttata e oppressa del mondo del lavoro, sono le prime vittime della lotta di classe dall’alto dei ricchi, che più i poveri aumentano, più vedono accrescere i propri patrimoni». I 14 italiani più ricchi – Ferrero, Del Vecchio, Berlusconi, Armani e gli altri – possiedono beni per un ammontare di 107 miliardi di dollari, come ciò che riescono a mettere assieme milioni di poveri. «Il 5% più ricco del paese detiene il 40% della ricchezza nazionale, cioè 4.000 miliardi». I poveri aumentano, aggiunge Cremaschi, «perché i ricchi sono sempre più ricchi, perché la ricchezza si concentra sempre di più in alto e viene espropriata e rapinata in basso». E così, «la diseguaglianza sociale che dilaga senza freni nel nome del libero mercato è la causa dell’enorme incremento della povertà in Italia e in tutta Europa».Il quadro macroeconomico dell’Eurozona è tristemente noto: «Le misure di austerità e di rigore di bilancio, le privatizzazioni, la flessibilità e la precarietà del lavoro, le politiche fiscali di agevolazioni alle imprese e di riduzione delle tasse ai ricchi, i Jobs Act e le Flat Tax che dilagano in tutta Europa, impoveriscono sempre più persone ed arricchiscono sempre di più una piccola minoranza». Se non si combatte la concentrazione della ricchezza non si può ridurre la povertà, conclude Cremaschi, «ma tutti i governi europei, tecnocratici o populisti che siano, di fronte alla sola ipotesi di contrastare la diseguaglianza redistribuendo ricchezza si fermano atterriti». Cremaschi, sostenitore di “Potere al Popolo”, accusa «anche chi ha preso i voti nel nome della lotta contro le élites», in primis lo stesso Salvini. Alla fine, sostiene Cremaschi, il neo-sovranismo «fa proprio l’imbroglio liberista secondo il quale, per redistribuire ricchezza, prima bisogna produrla». E’ la teoria neoliberista dello “sgocciolamento”, in base alla quale «per dare soldi ai poveri, prima bisogna darne ai ricchi». Per questo, insiste l’ex sindacalista Fiom, «vertici europei per la lotta alla povertà non se ne sono mai fatti». In altre parole: «Contro i ricchi nulla si può, nulla si deve fare: e questo è il primo articolo della “Costituzione reale” della Ue».Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.
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Summa Symbolica: conoscere i simboli per sfuggire al Mago
Ecco, arriva il mago e risolve tutto. Si chiama Macron? Libera i francesi dall’Uomo Nero,che in quel caso era una donna, Marine Le Pen – l’unica, peraltro, a denunciare le cause eurocratiche delle sofferenze sociali della nazione. Siamo in Italia e il mago si chiama Matteo Renzi? Ha in mano quei famosi 80 euro, che infatti gli valgono il 40% dei consensi alle europee. Ha poi risolto qualcosa, il mago Renzi? Assolutamente no: infatti, in capo a pochi mesi, l’Harry Potter di Rignano sull’Arno ha dovuto sloggiare dal palazzo, dove oggi altri ipotetici maghi – di diversa scuola – provano a loro volta a convincere l’opinione pubblica con analoghe trovate, sempre nel campo miracoloso del “tutto e subito”. E’ colpa loro, dei maghi? Sì e no, dice Gianfranco Carpeoro, esoterista coltissimo e dotato di un raro talento nel diffondere generosamente il suo sapere anche presso i non addetti, quelli che i massoni – bontà loro – chiamano profani, cioè rimasti fuori dalla porta del tempio dove si tramanda, “da bocca a orecchio”, la cosiddetta conoscenza iniziatica. Non sarebbe ora di farlo uscire dalle segrete stanze, quel benedetto corpus di informazioni e codici? E’ esattamente la missione che si prefigge Carpeoro con la pubblicazione, a puntate, dei volumi di “Summa Symbolica”, primo studio sistematico – destinato a tutti – sulla “scienza dei simboli”.Una disciplina oscura perché non svelata, che persino Umberto Eco – per poterla introdurre in ambito universitario – ha dovuto camuffare, chiamandola “semiotica”. Tuttora, la simbologia non è materia di insegnamento, da nessuna parte: lo è stata, solo per un certo periodo, nell’università statunitense di Princeton, nel New Jersey, da cui – non a caso – transitarono personaggi come Albert Einstein, il presidente americano Thomas Woodrow Wilson e il matematico John Nash, Premio Nobel per l’Economia come gli altri “princetoniani” Paul Krugman e Angus Deaton. Niente di strano, direbbe Michele Proclamato, allievo di Carpeoro ed eminente simbologo italiano, autore di libri straordinari sui “numeri dell’universo” che emergono, sempre gli stessi, dai rosoni delle cattedrali e dagli antichi zodiaci egizi, dai “sigilli ermetici” di Giordano Bruno e dalla fisica di Newton, dalla matematica “metafisica” di Cartesio e dalle opere di Leonardo, di Arcimboldo, di Vitruvio, di Bach e Mozart, e persino dai “cerchi nel grano”. «Se penetri il simbolo e ne impari a cogliere il messaggio, alla fine diventi più intelligente», sostiene Proclamato: «Il linguaggio dei simboli è fondato sull’analogia e stimola la nostra capacità di intuizione. E in fondo, anche ridotto alla sua essenza numerica, racconta sempre la stessa cosa: la dinamica delle emozioni, che mette gli esseri umani in relazione diretta con qualsiasi altra forma di vita, terrestre e celeste».Da Proclamato a Carpeoro, il passo è breve. Entrambi scrivono libri e animano appassionate conferenze. Tutte cose impensabili, vent’anni fa: «All’epoca – sorride Carpeoro – ad ascoltarmi c’era solo mia sorella, più il gestore della sala». Cos’è successo? Deluso dal consumismo e dalla politica post-ideologica, il pubblico ha scoperto la “new age”, «di cui si è prontamente impossessato il potere, quello che oggi sforna guru, corsi e libri che ti spiegano come avere successo, in modo istantaneo, in ogni campo della vita». Carpeoro presidia strade assai meno battute, quelle dei leggendari Rosacroce, regolarmente maltrattati: l’ufficialità nega ostinatamente la loro esistenza storica, mentre associazioni come l’Amorc – di marca statunitense – ne propongono una versione mistico-occultistica. Sono fuori strada, sostiene Carpeoro: la ricerca dei Rosacroce – fratellanza iniziatica “fantasma”, sempre in clandestinità per sfuggire al dominio cattolico – ha ben poco di mistico. Riguarda casomai la metafisica e soprattutto l’estetica, il codice della bellezza: «Attraverso i loro artisti, tra cui i massimi esponenti del Rinascimento italiano, i Rosacroce hanno creato innanzitutto un linguaggio, ben sapendo che soltanto l’estetica può alimentare l’etica, dal momento che ognuno di noi – pur non essendone consapevole – ha dentro di sé quella stessa bellezza che l’artista riproduce, emozionandoci».L’operazione? Sofisticata e decisiva: «Elevare tutto questo alla portata della nostra consapevolezza. Ecco a cosa serve conoscere il linguaggio simbolico: a non subire più il potere del mago». In materia, Carpeoro è categorico: «Siamo pieni di cosiddetti maestri, che rappresentano la nostra schiavitù psicologica. Nessuno può dirsi maestro, tantomeno io, perché ognuno di noi è maestro in qualcosa: insegnamo e impariamo gli uni dagli altri». Ed è quello che il mago, cioè il cattivo maestro, si guarda bene dall’ammettere: finirebbe disoccupato. «In realtà non ci serve nessun maestro», taglia corto Carpeoro. «Tutto quello che dobbiamo sapere è già dentro di noi. Abbiamo già tutto ciò che ci serve, per raggiungere i nostri obiettivi. La domanda, semmai, è questa: siamo proprio sicuri di sapere che cosa vgliamo? Perché in questo sta la libertà: non nel fare quello che si vuole, ma nel sapere di cosa abbiamo davvero bisogno». E questo, assicura Carpeoro, te lo “insegna” proprio il linguaggio dei simboli, i segni ricorrenti che popolano il mondo, spesso in incognito e a nostra insaputa: li subiamo, facendocene condizionare, ma senza coglierne il significato.Il potere – politico, economico, religioso – fa un uso massiccio dei simboli. Perché funzionano? Lo spiega benissimo il primo volume di “Summa Symbolica”: i simboli sono una traduzione degli archetipi, che sono eterni. Si tratta di eventi materiali (fatti) o immateriali (pensieri) che vivono, da sempre, in una dimensione impalpabile, che Carpeoro chiama “memoria ancestrale dell’universo”. «Entrano in contatto diretto con noi soltanto in un modo: attraverso i sogni che facciamo durante il sonno profondo. Sogni che non possiamo ricordare, perché il nostro linguaggio – limitato – non riesce a catturare l’assoluto archetipico». Ci restano due strade: quella del mito, che l’archetipo lo racconta, e quella – parallela – del simbolo, dove l’archetipo viene rappresentato: con un segno, un numero, una parola, un suono, un colore, persino un odore. In base una “legge” identificata dall’esoterista francese René Guénon, il simbolo è un microcosmo che allude a un macrocosmo: il piccolo contiene il grande, non viceversa. «Il simbolo ti interroga, ti costringe a pensare». E il “pensiero” del simbolo – che spinge a domandarsi “perché” – è il contrario esatto del non-pensiero del mago, che ti spiega solo il “come” (che è una semplice conseguenza del “perché”).Secondo Carpeoro, la nostra società – ormai interamente “magica” – ha saltato sistematicamente il “perché”, concentrandosi solo sul “come” (avere successo, fare soldi, conquistare una donna). Ed è proprio su questa nostra debolezza che il mago, anche politico, gioca facile. Traccia sempre lo stesso cerchio, nel quale ti rinchiude. Prima ti astrae dal tuo mondo reale, dettando le sue regole. Si chiama: astrazione. Poi ti ci trasloca mentalmente, nella nuova casa (estrazione). Ti insegna come abitarla (istruzione) ma fa in modo che tu non possa tornare indietro (ostruzione). Quando ti accorgi che hai vissuto in una bolla immaginaria, ormai è troppo tardi (distruzione). Oggi, oltre il 60% dei francesi reputa Macron una specie di cialtrone, deludente e addirittura pericoloso. E’ il finale perfetto di ogni parabola “magica” che si rispetti. Macron è un mago politico di prima grandezza. Viene da un’alta scuola di esoterismo finanziario. Lo conosce, eccome, il linguaggio dei simboli. Il guaio è che, a non conoscerlo affatto, sono le sue “vittime”.Non si sono accorte, dice Carpeoro, della simbologia – non islamica, ma templare – nascosta dietro ai più atroci attentati recenti, da Charlie Hebdo al Bataclan, all’epoca in cui Macron “studiava” da presidente in pectore. Né si sono accorti, i belgi, del terribile significato del doppio attentato di Bruxelles, dove stati colpiti l’aeroporto e la metropolitana. «Il messaggio? Come in Cielo, così in Terra. Che significa: noi siamo Dio». Puro delirio di onnipotenza, scrive Carpeoro nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, in cui svela la natura massonica della “sovragestione” occidentale che ha organizzato, in Europa, la strategia della tensione affidata a servizi segreti deviati e manovalanza islamista targata Isis. Risultato finale: ecco il mago Macron all’Eliseo. Veniva dalla Banca Rothschild, ma è stato presentato come outsider. Cerchio magico: uno slogan imbecille, “En Marche”. Et voilà, il gioco è fatto: il mago getta la maschera e annuncia di voler tagliare un terzo del pubblico impiego, di “tosare” il mitico welfare francese. Gli elettori gridano al tradimento? Troppo tardi: ostruzione, distruzione.Leggere “Summa Symbolica” non basta, ovviamente, per liberarsi dei Macron. Ma forse aiuta a non cadere in trappola così facilmente. Il primo volume, uscito nel 2017, svela il legame che unisce i simboli agli archetipi. Il secondo, da poco in libreria e già ottimamente piazzato nelle classifiche, si addentra in un viaggio affascinante: si parte dalla croce (l’Ankh egizio, il Tau ebraico, la croce cristiana, il Cardo e il Decumano dei romani nonché la “croce laica” di Cartesio) per arrivare al Cerchio, al Quadrato, all’Ottagono. Creazione e distruzione? Ecco la tradizione biblica, quella cristiana e quella islamica. Poi il millenarismo e l’alchimia, per verificare “tutte le volte che il mondo doveva finire”, incluso il mitico 2012 dei Maya. “Summa Symbolica” è un sentiero: tra nascita, vita, morte e resurrezione. Il Natale e Orione, le tante nascite “divine”. Stelle e divinità: Sirio e Iside. Il Cigno: la croce nelle stelle. Carpeoro si interroga sul ruolo archetipico di Thanatos e sulla morte di Mario Monicelli, preconizzata nel film “Brancaleone alle Crociate”. Cinema, arte e letteratura propongono anche i simboli (rosacrociani) della resurrezione, dal Pellicano alla Fenice. E poi ci sono gli schemi simbolici collegati a un archetipo fondamentale, quello dell’eroe, che si riverbera nelle maschere immortali create da Omero e Virgilio.«Dopo l’inatteso e imprevedibile successo della prima parte di quest’opera – scrive l’autore, in premessa – è con comprensibile timore che ci accingiamo alla pubblicazione della seconda, consistente nel primo volume della trattazione degli archetipi». Se infatti era insolita e originale la parte precedente (sulle dinamiche dei simboli e sui metodi d’analisi), questo intero volume dedicato a singoli archetipi di particolare rilievo affronta contesti di maggiore complessità. «Quindi – avverte Carpeoro – sicuramente questa lettura sarà più faticosa. Ma – aggiunge – non ci stancheremo mai di ripetere che la vera ricerca esoterica non può mai essere agevole». In altre parole: «Grande la ricompensa, maggiore è la fatica del percorso per ottenerla». Ovvero: questo libro non è per chi cerca risposte facili. Ovvio, ci vuole impegno: «Se voglio farti apprezzare la buona tavola posso cucinarti un’ottima cena», dice Carpeoro, che è anche gastronomo. «Ma se vuoi imparare a cucinare non c’è alternativa: posso darti istruzioni, ma il lavoro devi farlo tu». Socrate la chiamava: maieutica. Tradotto: meglio se ci arrivi da solo, alle conclusioni.E’ la “scuola”, senza tempo, del simbolo. E può portare molto lontano – fino al centro di se stessi – grazie alla regina delle domande: “perché”. Vanno bene tutte le risposte, concede Carpeoro, purché non siano definitive e non precludano la domanda successiva. Lo sanno bene i vari cercatori di Graal: la meta è il vaggio, il Graal è la ricerca stessa. Lo scopre, con struggente dolcezza, il grande Toma Alistar, musicista nomade, alla fine dei suoi giorni, dopo un’intera esistenza consacrata al vano inseguimento del grande amore della sua vita. Toma Alistar è il protagonista di un film che fece epoca, “I Lautari”, diretto dal moldavo Emil Loteanu, iniziato Rosacroce. La sua missione: commuovere il pubblico, costringedolo a specchiarsi nella purezza archetipica dell’eroe. “Bello di fama e di sventura”, scrive Foscolo di Ulisse. Quella bellezza – che il simbolo si incarica di trasferire intatta, alludendo all’archetipo sovrastante – ha un messaggio per ognuno di noi: ci rende più consapevoli di appartenere a un universo infinito e senza tempo, che frequentiamo soltanto in sogno. Proprio da lì viene il mondo sulle cui tracce si mette in cammino, la preziosa “Summa Symbolica” di Carpeoro.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Summa Symbolica. Istituzioni di studi simbolici e tradizionali. Vol. 2\1: Studi sugli archetipi”, edizioni L’Età dell’Acquario, 334 pagine, 28 euro).Ecco, arriva il mago e risolve tutto. Si chiama Macron? Libera i francesi dall’Uomo Nero, che in quel caso era una donna, Marine Le Pen – l’unica, peraltro, a denunciare le cause eurocratiche delle sofferenze sociali della nazione. Siamo in Italia e il mago si chiama Matteo Renzi? Ha in mano quei famosi 80 euro, che infatti gli valgono il 40% dei consensi alle europee. Ha poi risolto qualcosa, il mago Renzi? Assolutamente no: infatti, in capo a pochi mesi, l’Harry Potter di Rignano sull’Arno ha dovuto sloggiare dal palazzo, dove oggi altri ipotetici maghi – di diversa scuola – provano a loro volta a convincere l’opinione pubblica con analoghe trovate, sempre nel campo miracoloso del “tutto e subito”. E’ colpa loro, dei maghi? Sì e no, dice Gianfranco Carpeoro, esoterista coltissimo e dotato di un raro talento nel diffondere generosamente il suo sapere anche presso i non addetti, quelli che i massoni – bontà loro – chiamano profani, cioè rimasti fuori dalla porta del tempio dove si tramanda, “da bocca a orecchio”, la cosiddetta conoscenza iniziatica. Non sarebbe ora di farlo uscire dalle segrete stanze, quel benedetto corpus di informazioni e codici? E’ esattamente la missione che si prefigge Carpeoro con la pubblicazione, a puntate, dei volumi di “Summa Symbolica”, primo studio sistematico – destinato a tutti – sulla “scienza dei simboli”.