Archivio del Tag ‘sociologia’
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Gli orrori della globalizzazione e il silenzio degli intellettuali
Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.«La crisi finanziaria, imprevista e imprevedibile, è curata con costanti iniezioni di liquidità (come se fosse quella di ottanta anni fa) che però hanno effetti sui sintomi ma non sulle ragioni del male oscuro», scrive Giannuli sul suo blog. «Le rivolte arabe, anch’esse impreviste, segnalano una interdipendenza stretta fra crisi economica e dinamiche socio-culturali che sfugge alle capacità di gestione della comunità internazionale». In più, «lo sviluppo cinese ha mutato i rapporti di forza esistenti ma porta con sé problemi insospettati». Questo, continua lo storico, determina un profondo disorientamento soprattutto (ma non solo) nelle classi dirigenti, «che si trovano ad affrontare problemi a un livello di complessità incomparabilmente maggiore del passato, e questo disorientamento sta già producendo effetti molto negativi sul piano delle decisioni: è lo shock da globalizzazione, il fenomeno più rilevante della nostra epoca che si impone al centro dell’attenzione di storici, sociologi, economisti, politologi».Almeno per quel che riguarda l’Occidente, secondo Giannuli, lo shock sembra determinare tre fenomeni: la paralisi dei decisori, la paura dei governati e l’afasia degli intellettuali. «I decisori appaiono sempre più indecisi sul da farsi, tanto sul fianco finanziario (dove l’unica cosa che riescono a decidere è l’inondazione di liquidità, che fa guadagnare tempo ma non cura la crisi), quanto sul piano delle relazioni internazionali (e le esitazioni americane su Iran, Siria e Califfato ne sono una testimonianza, non meno che il pantano ucraino da quale nessuno sa come uscire)». Di fronte a un corso dei fatti, che Giannuli reputa «del tutto imprevisto», e non frutto di pianificazione da parte di una ristrettissima élite, come invece suggerisce Gioele Magaldi nel libro “Massoni”, che svela il ruolo occulto delle “Ur-Lodges”, le superlogge internazionali del massimo potere mondiale, i decisori (tanto politici quanto finanziari) «reagiscono schierandosi a difesa dell’esistente e senza chiedersi se le patologie socio-economiche in atto non siano un prodotto di quel sistema che rifiutano costantemente di mettere in discussione».Dai governanti “rassegnati” alla globalizzazione autoritaria, senza più alternative politiche, si passa ai governati, «cui era stato promesso che la globalizzazione sarebbe stato un cammino fiorito». I cittadini, scrive Giannuli, «assistono impotenti al crollo di queste aspettative, al peggioramento delle loro condizioni di vita, e avvertono sempre più la paura del futuro». Che è, al tempo stesso, «paura dei diversi che giungono dal sud del mondo e che si pensa minaccino posti di lavoro e identità culturale, paura della crisi che erode risparmi e getta nella disoccupazione, paura della concorrenza delle merci straniere che tagliano l’erba sotto i piedi alle nostre aziende, paura di un fisco sempre più vorace che programmaticamente non colpisce più i grandi capitali volati nei paradisi finanziari ma si accanisce sui ceti medi». E ancora: «Paura del terrorismo, delle epidemie, di tutto». E su questo paesaggio «impera il chiassoso silenzio degli intellettuali, che parlano di tutto senza dir nulla». Infatti, «una critica della globalizzazione e dei modi con cui si è realizzata e va avanti è tentata solo da pochissimi», i quali però vengono «spinti ai margini» e restano «privi, in gran parte, di accesso alle tribune massmediatiche». Secondo Giannuli, «c’è una sottile vendetta della storia che punisce chi aveva imposto il “pensiero unico”: democrazia liberale (o quel che si pensava fosse tale) e liberismo economico erano l’unica forma di pensiero legittimata», a scapito di «tutte le altre correnti di pensiero, pure interne al mondo occidentale».Per il politologo dell’ateneo milanese, «la resa senza condizioni della socialdemocrazia ha segnato la riduzione dello spazio politico: tutto il resto ne era espulso». E così, «il rullo compressore della finanza, attraverso gli opportuni finanziamenti, la direzione dei mass media, il controllo dell’industria culturale, la colonizzazione delle facoltà, persino l’uso calibrato del Premio Nobel, tutto è stato usato per imporre questa dittatura culturale. E gli intellettuali – in grande maggioranza – si sono adattati gioiosamente a questo stato di cose, rinunciando ad ogni residuo spirito critico». Oggi, nel momento della crisi, i decisori – non meno che i governati – di fatto «non trovano le parole per capire quel che sta accadendo, e non sanno riconoscere la crisi in atto». E questo, conclude Giannuli, «accade perché dal fronte degli studiosi, dei “tecnici”, di quelli che dovrebbero illuminarli, viene solo un confuso starnazzare che non dice nulla. E’ questa la rumorosa afasia degli intellettuali», peraltro “incanalati” nel mainstream dai tempi del manifesto “La crisi della democrazia”, promosso dalla Commissione Trilaterale: propaganda conculcata negli atenei e nei media anxche attraverso la poderosa macchina dei think-tanks, come l’Aspen Institute, che recluta intellettuali di fama. Il Verbo è sempre lo stesso: il Mercato deve vincere sullo Stato. La democrazia sociale? Rottamata. Il vero potere è finito nelle mani di pochissimi, come nel feudalesimo medievale. E paga legioni di intellettuali perché non dicano la verità e non raccontino quello che sta davvero succedendo.Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.
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Carne da macello, il libro dell’orrore del subdolo Jobs Act
Trasportava ogni giorno, per i grigi corridoi della banca, un carrello carico di oggetti di cancelleria. E lo faceva piangendo sommessamente, porgendo le penne, i quaderni, le gomme, i fogli richiesti da quelli che erano stati i suoi colleghi, almeno fino a quando la banca non aveva deciso, per “ragioni di riorganizzazione interna”, di sottrarlo ai compiti di impiegato addetto alla gestione dei flussi contabili e di assegnarlo alle nuove mansioni di riordino e consegna dei materiali e degli strumenti di lavoro, quasi un “cartolaio ambulante”. Ormai svuotato da mesi di umiliazione personale e professionale, impossibilitato a ricollocarsi sul mercato per la progressiva perdita della propria qualificazione, aveva deciso di ottenere giustizia invocando i principi dell’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori: nessuno può essere adibito a mansioni lavorative inferiori rispetto a quelle di assunzione, né può vedersi diminuita la retribuzione; ogni patto o accordo contrario è nullo, anche se sottoscritto con il consenso dello stesso lavoratore.Quella che alcuni anni fa era stata una vertenza a lieto fine, con il risarcimento per il “lavoratore carrellista” degli ingenti danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e la reintegra nelle originaria mansioni, oggi è soltanto un malinconico ricordo. L’approvazione dell’articolo 55 dello “Schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 183 del 10 dicembre 2014” infatti, con l’introduzione nell’articolo 2103 della possibilità di assegnare unilateralmente il lavoratore “a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore” nel vago e generico caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali”, addivenendo anche alla decurtazione degli “elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”, ha ufficialmente cancellato con un tratto di penna decenni di civiltà del lavoro, riportandolo a condizioni addirittura anteriori all’approvazione del codice civile del 1942.Partiamo proprio da questo punto, per capire la “modernità regressiva” dell’ultima riforma introdotta dal Jobs Act. Addirittura nella versione originaria dell’articolo 2103, approvata nel 1942 con il codice civile (siamo dunque ancora sotto l’egida di un ormai decadente regime fascista), il legislatore prevedeva la possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore, subordinata tuttavia ad un doppio limite rappresentato dalla “irriducibilità della retribuzione” e dalla necessità di mantenere la “posizione sostanziale”. Ne sono derivate, nella prassi giurisprudenziale, rigide interpretazioni che hanno spesso censurato i demansionamenti unilaterali che si sostanziavano non solo in un oggettivo mutamento del contenuto professionale dell’attività lavorativa, ma anche in alterazioni soggettive del prestigio sociale, del prestigio morale e della dignità professionale del lavoratore.L’apice della civiltà del lavoro, come testè accennato, si è raggiunto con l’introduzione dell’articolo 13 da parte dello Statuto dei Lavoratori (legge 300 del 1970) che, nel novellare l’articolo 2013 imponendo il principio della irriducibilità delle mansioni e della retribuzione lavorativa, ha perseguito due fini di rilievo costituzionale: il primo, relativo allo scopo dell’attività lavorativa, che deve sostanziarsi non solo nella finalità produttiva, ma anche nell’accrescimento professionale del lavoratore, così come prescritto dall’articolo 35, 2° comma della Costituzione, secondo il cui disposto la Repubblica “cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”. Il secondo, naturalmente connesso con il primo, inerisce alla dignità del lavoratore e della persona stessa: il lavoro infatti, oltre che strumento di affrancamento dal bisogno, è anche e soprattutto espressione e realizzazione della personalità del lavoratore, la cui realizzazione professionale ne è al contempo la sintesi ed il punto di arrivo. Naturale, dunque, il legame individuato dalla giurisprudenza tra il divieto di demansionamento dell’articolo 2103 e i diritti fondamentali garantiti dall’articolo 2 della Costituzione.La modifica contenuta nello schema di decreto approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri del 20 febbraio, al contrario, proprio in ragione degli amplissimi poteri conferiti al datore di lavoro, pare trarre ispirazione da un modello imprenditoriale diffuso qualche secolo fa, agli albori della prima rivoluzione industriale o, se si vuole richiamare i “tempi moderni”, agli standard lavorativi cinesi. E’ opportuno premettere come questa norma, a differenza del contratto “a tutele crescenti”, si applichi a tutti i lavoratori, iniettando il veleno di una flessibilità liquida anche ai rapporti di lavoro in corso. Questa autentica rivoluzione del lavoro, dunque, si sostanzia – come vedremo – in una universale liquefazione del lavoro, che coinvolge tanto i nuovi quanto i vecchi assunti. L’ulteriore lettura del “nuovo” articolo 2103, tuttavia, lascia senza parole. Il meccanismo principale è esposto nel secondo comma: il datore di lavoro, adducendo una qualsivoglia “modifica degli assetti organizzativi aziendali” che “incidono sulla posizione del lavoratore”, può assegnarlo a mansioni “appartenenti al livello di inquadramento inferiore”.Via libera dunque alla possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore, con l’accortezza di “travestire” il provvedimento con una delle molteplici e possibili ragioni organizzative aziendali: il lavoratore, dunque, potrà anche precipitare dai vertici ai piedi della scala delle mansioni, non essendo in nessun modo reperibile nel testo della norma il riferimento ad un livello immediatamente inferiore, ma solo ad un generico “livello inferiore”. Ovviamente, se alle mansioni di precedente assegnazione erano legate delle speciali indennità (quali, ad esempio, l’indennità di maneggio del denaro o indennità relative ad altri rischi), queste saranno eliminate con le nuove mansioni inferiori: semaforo verde, dunque, anche alla riducibilità della retribuzione. Il menù predisposto per imprenditori particolarmente voraci si arricchisce di un’ulteriore scelta à la carte: la riduzione integrale della retribuzione al nuovo livello della mansione inferiore, nel caso in cui il demansionamento sia frutto di un “accordo” tra le parti, giustificato dall’ “interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione”, dall’ “acquisizione di una diversa professionalità” o dal “miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore”.Siamo al trionfo dell’ipocrisia legale; appare sarcasticamente beffardo il riferimento all’interesse del lavoratore all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita operato dalla norma, considerando che gli accordi in questione comporterebbero in concreto una doppia perdita: di professionalità, tarpata da mansioni dequalificanti, e di retribuzione, ridotta ai nuovi inferiori livelli. Di più ed oltre, questi accordi di demansionamento lungi dall’essere frutto della “spontanea volontà delle parti”, potrebbero essere oggetto di una pressante coazione, che coinvolgerebbe soprattutto i lavoratori “a tutele crescenti” privi dello scudo dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e sotto la spada di Damocle del licenziamento a indennizzo ridotto. Ma vi è qualcosa di ben più grave, che sembra motivato più da ragioni vendicative che da motivazioni tecnico-produttive, quasi fossero i lavoratori i colpevoli della devastante crisi economica.Si tratta del comma terzo, che è opportuno riportare per intero, al fine di comprenderne tutta la sua gravità: “Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. Vediamone le possibili implicazioni. La norma implicitamente dice, in modo apparentemente neutro, che in caso di mutamento unilaterale delle mansioni, il datore di lavoro può anche omettere l’obbligo di formazione del dipendente alle nuove mansioni: in questo caso, l’assegnazione alle mansioni – ad esempio – inferiori sarà comunque valida e legittima, ed il lavoratore – di conseguenza – dovrà proseguire nello svolgimento delle nuove prestazioni lavorative, anche senza la dovuta formazione. E’ l’attacco diretto – e subdolo – alla sicurezza del lavoro, al principio consolidato per cui la formazione e l’addestramento specifico del lavoratore in caso di trasferimento o cambiamento di mansioni (articolo 37, comma 4, decreto legge 81/2008, “Codice della sicurezza”) è il primo strumento di prevenzione degli infortuni sul lavoro.Le conseguenze di questa abominevole disciplina sono tanto semplici da comprendere quanto agghiaccianti: il prestatore di lavoro che venisse preposto a nuove mansioni e che, ad esempio, dovesse passare dalla scrivania all’utilizzo di un macchinario della catena di montaggio, potrà essere preposto anche senza alcuna specifica formazione all’utilizzo della macchina. L’adibizione, comunque, sarà valida, con la conseguenza che il lavoratore sarà obbligato a svolgere le nuove prestazioni lavorative e ad utilizzare il macchinario senza alcuna specifica cognizione: come dire, a suo rischio e pericolo. Con la correlativa, possibile responsabilità disciplinare e risarcitoria diretta del lavoratore per gli eventuali errori compiuti nello svolgimento della nuova prestazione lavorativa e che provocassero, ad esempio, un danno aziendale. E se il lavoratore destinatario del mutamento di mansioni dovesse essere vittima di un infortunio a causa dell’assenza di specifica formazione?E’ molto probabile che, in caso di richiesta di risarcimento dei danni da parte del lavoratore, il datore di lavoro si difenderà sostenendo la legittimità della propria condotta e rifiutando qualsivoglia responsabilità risarcitoria, confortato dal sigillo di legge per cui “il mancato adempimento non determina comunque nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. Interpretazione assolutamente plausibile in assenza di altre specificazioni in merito alle conseguenze sulla sicurezza lavorativa che il legislatore delegato, colpevolmente, ha omesso. Stiamo dunque parlando della clamorosa e palese violazione del principio cardine del diritto del lavoro, contenuto nel noto articolo 2087 (rubricato “tutela delle condizioni di lavoro”), secondo il cui disposto “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Il lavoratore non vale più neanche il prezzo di un costo di formazione e di addestramento: è ormai diventato solo “carne da macello”.Del resto, che la liberalizzazione di fatto delle condotte demansionanti sia il punto di arrivo del processo di “merficicazione” del lavoro e dei lavoratori è desumibile anche dalla considerazione che, con il rinnovato articolo 2103, si conferisce il formale visto di “legalità” a comportamenti che decenni di studi di sociologia del lavoro – oltre che di pronunce giurisprudenziali – hanno definito sia come espressione del cosiddetto “mobbing”, sia come generatori di danni esistenziali, biologici e professionali nella sfera dei lavoratori vittime di tali condotte. Realtà concreta e realtà normativa si allontanano definitivamente, portando al cortocircuito della giustizia. Gli apologeti della “modernità lavorativa” certamente canteranno l’inno alla flessibilità nella gestione lavorativa e all’ormai raggiunta produttività, anticamera della “crescita”; uno sguardo meno ideologico alla viva realtà del lavoro, al contrario, evidenzierebbe come alla base di questa nuova disciplina non vi possa essere nessuna esigenza economico-produttiva, poiché vanificata dalla creazione di lavoratori dequalificati, trasformati in mere “pedine”, scarnificati della propria professionalità e, dunque, tutt’altro che produttivi.Al contrario, sottese all’approvazione di questa norma – che costituisce l’autentico architrave della “riforma del lavoro” – vi sono ragioni politiche: di una politica che parla le parole della nuova Costituzione materiale (o Controcostituzione), in cui il nuovo articolo 2103 è la leva per lo scardinamento di fatto dell’articolo 1 della Costituzione, ove la dignità del lavoro è schiacciata sotto il tallone delle esigenze produttive di impresa e delle ferree ed ineluttabili leggi neoliberiste di mercato. Di fronte a questo sconfortante panorama, dinanzi alla definitiva eclissi del valore fondante e formante della Repubblica, non puo’ non tornare alla mente il severo monito del nichilismo giuridico che, con uno sguardo intriso di dolente realismo, individua nel “valore il principio sostenuto dalla volontà più forte ed efficace. Carte Costituzionali ed altre solenni dichiarazioni sempre contengono norme, poste dalla volontà umana, e quindi trasgredibili modificabili revocabili. Nulla sfugge alla distruttiva temporalità dell’uomo”. Nemmeno la laica sacralità della “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, oseremmo aggiungere.(Domenico Tambasco, “Il Jobs Act e i lavoratori carne da macello”, da “Micromega” del 23 febbraio 2015).Trasportava ogni giorno, per i grigi corridoi della banca, un carrello carico di oggetti di cancelleria. E lo faceva piangendo sommessamente, porgendo le penne, i quaderni, le gomme, i fogli richiesti da quelli che erano stati i suoi colleghi, almeno fino a quando la banca non aveva deciso, per “ragioni di riorganizzazione interna”, di sottrarlo ai compiti di impiegato addetto alla gestione dei flussi contabili e di assegnarlo alle nuove mansioni di riordino e consegna dei materiali e degli strumenti di lavoro, quasi un “cartolaio ambulante”. Ormai svuotato da mesi di umiliazione personale e professionale, impossibilitato a ricollocarsi sul mercato per la progressiva perdita della propria qualificazione, aveva deciso di ottenere giustizia invocando i principi dell’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori: nessuno può essere adibito a mansioni lavorative inferiori rispetto a quelle di assunzione, né può vedersi diminuita la retribuzione; ogni patto o accordo contrario è nullo, anche se sottoscritto con il consenso dello stesso lavoratore.
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Ma il povero renziano Baricco non può capire Houllebecq
Nella repubblica delle lettere ha prodotto qualche trapestio la stroncatura di “Sottomissione”, l’ultimo discusso libro di Michel Houellebecq, a opera di Alessandro Baricco. Con tutto il rispetto, che Baricco stronchi Houllebecq è l’ultimo dei problemi: è come se un barboncino tentasse di azzannare un lupo. Solo, non vorrei che domani, in qualche cartoleria francese, Houellebecq trovasse, immediatamente tradotta, la stroncatura di Baricco, e – cattivo com’è – ci massacrasse definitivamente il nostro maggiore scrittore renziano. Anche per questo, e non solo perché “Sottomissione” merita davvero di essere preso maggiormente sul serio, provvedo personalmente a un massacro preventivo di Baricco. Voglio dire, molto meglio che lo faccia io, che sono infinitamente meno cattivo di Houellebecq. “Sottomissione” è uscito in Francia mercoledì 7 gennaio, preceduto da un infernale battage pubblicitario; l’anno scorso, d’altronde, Houellebecq ha avuto una sovraesposizione mediatica senza precedenti, soprattutto dopo che il premio Goncourt 2010, assegnatogli per il suo libro meno acre, “La carta e il territorio”, aveva fatto pensare che gli sarebbe bastato rabbonirsi un po’ per puntare addirittura al Nobel.Per fortuna, invece, Houellebecq ha scritto “Sottomissione”, che rinvia sin dal titolo al film del regista olandese Theo van Gogh, assassinato da un islamista nel 2004: roba forte, dunque, anche senza il successivo macello di “Charlie Hebdo”. La traduzione italiana, uscita a tambur battente, ha esaurito subito la prima edizione, e la stroncatura di Baricco, intitolata “L’inutile lezione del professore”, è uscita su “Repubblica” il 20 gennaio, quand’era già tardi per impedire il successo del libro, per giunta perfidamente accostata alla recensione di un libro di Giuliano Amato. È inutile girarci attorno: di “Sottomissione”, Baricco non ha capito nulla. Del resto, potrebbe mai un intellettuale da salotto capire quel che passa per la testa di un predatore? L’esordio è solenne: «Se ancora esiste una pratica che si chiama letteratura – scandisce Baricco – non sono poi molti gli scrittori che vi si dedicano con risultati memorabili: per quel che ne capisco io, uno è Houellebecq». Con queste poche righe trasudanti ammirazione, però, l’inventore di “Holden – Scuola di Storytelling & Performing Arts”, il più costoso Dams italiano – prende due granchi con una sola frase.Primo granchio: c’è un fottio di buona letteratura in giro, persino i libri di Baricco non sono poi così male, a parte titoli come “Castelli di rabbia” (1991) che produrrebbe rabbia vera se non producesse costernazione. Ma la gran parte è letteratura d’intrattenimento, questo è il problema, e Houllebecq è tutt’altra cosa. Secondo granchio: Baricco pensa ancora alla Letteratura con la elle maiuscola, al Grande Romanzo Ottocentesco. Subito dopo, infatti, scrive che “Sottomissione” non attinge a quei livelli, limitandosi a cucire insieme «un romanzetto di fantapolitica, un racconto dedicato al mesto declino umano di un accademico parigino e un saggio su J. K Huysmans». Ora, come spiegare a uno scrittore d’intrattenimento che la letteratura più viva di quest’inizio millennio è proprio quella à la Houellebecq, che contamina romanzo, saggistica, reportage, dossier scientifico, e molte altre cose ancora? È, per citare i primi due titoli che mi vengono in mente, “Limonov” (2012) di Emmanuel Carrère, o il “Progetto Kraus” (2014) di Jonathan Franzen.Lo stesso Baricco, in “Castelli di rabbia”, cerca di fare qualcosa del genere, senza riuscirci. “Sottomissione”, invece, ci riesce perfettamente, direi con disinvoltura: vogliamo trattarlo come un «romanzetto di fantapolitica» solo per questo? Il terzo granchio è aver perso completamente di vista, a differenza dei critici d’Oltralpe, il tono satirico, paradossale, di tutta l’operazione. Come può essere sfuggito a uno scrittore, benché da salotto, che “Sottomissione” è un capolavoro dell’humour nero, nel solco di André Breton, autore che oltretutto cita? Come si fa a non capire che tutta la storia dell’islamizzazione della Francia, lungi dall’essere «una boutade buona per ravvivare una cena con dei colleghi», come crede Baricco, è un apologo sulla perdita d’identità francese ed europea, perdita che rende disponibili a votare il “Front National” o a convertirsi all’islamismo, indifferentemente, pur di ridarsi un’anima conservando il confort? Lo scrive Philippe Lançon su “Libération” del 3-4 gennaio: «L’humour è buona educazione per disperati – o maleducazione, come più vi piace».Nel libro c’è una tale quantità di battute politicamente scorrette, soprattutto sulle donne, che mi limito a citarne una, quasi inevitabile, sul presidente francese in carica. A proposito di François Hollande, “Sottomissione” si esprime con la seguente tranquilla ferocia: «Alla fine di due quinquennati catastrofici, con una rielezione dovuta solo alla strategia miserabile di favorire l’ascesa del Fronte nazionale, il presidente uscente aveva praticamente rinunciato a esprimersi, e la maggior parte dei media sembrava averne addirittura dimenticato l’esistenza. Quando, sulla soglia dell’Eliseo, davanti a una sparuta dozzina di giornalisti, si presentò come “l’ultimo baluardo dell’ordine repubblicano”, ci fu qualche risata, breve ma inequivocabile» (p. 101). Ve l’immaginate Baricco che scrive una cosa così, non dico del suo idolo Renzi, ma di Graziano Delrio?Houellebecq qualifica il politico francese di centrosinistra François Bayrou come «l’uomo politico ideale per incarnare l’umanesimo», incontrando «una certa popolarità nell’elettorato cattolico, che si sente rassicurato dalla sua idiozia» (p. 131). A proposito di umanesimo, la sua bestia nera, Houellebecq scrive che la sola parola «mi metteva una leggera voglia di vomitare» (p. 213). Ora, cosa può capire di tutto questo Baricco, che confonde l’ironia con la propria, finta, trasandatezza subalpina, a base di «robe», «quella cosa lì», «per quel che ne capisco io»? Ma sì, quella specie di understatement che tanto impressiona gli aspiranti romanzieri di “Holden”, lasciandogli credere che il loro guru, da un momento all’altro, potrebbe stupirli con effetti speciali. Io ho consultato persino Wikiquote, e mi permetto di disilluderli: gli effetti speciali non arrivano mai.Il quarto granchio di Baricco, sul quale il titolista di “Repubblica” ha fatto il titolo, riguarda «quello che sembra essere […] il vero nervo centrale del libro e in definitiva la sua ragion d’essere: il racconto dello strisciante declino, grottesco e rancoroso, di un cattedratico di mezza età». Senza accorgersi che il protagonista si chiama François, come se uno, in Italia, si chiamasse Italiano, lo stroncatore conclude che «difficilmente [un protagonista del genere] può assurgere a personaggio memorabile». Il granchio è condiviso con Bifo Berardi, il quale però, in una lunga recensione pubblicata online, molto più acutamente suggerisce: «Il dolore di cui [Houllebecq] parla in tutti i suoi romanzi non è solo il suo personale dolore, ma la chiave attraverso cui raccontare un’epoca». Ovvio: i traumi esibiti, la depressione, la paura della morte, sono solo le lenti attraverso cui Houellebecq guarda il meticoloso naufragio di una civiltà.Quinto e ultimo granchio – per ora: ma si attendono repliche – la totale ignoranza da parte di Baricco della metafisica di Houellebecq: che è poi ciò che rende i suoi libri così spiazzanti, così sgradevoli per le anime belle, ma anche così contagiosamente umoristici. Sulla base delle proprie esperienze personali, chirurgicamente raccontate nel suo libro migliore, “Le particelle elementari” (1998), Houellebecq ritiene questo nostro universo, retto dalle leggi darwiniane della selezione naturale, lo scherzo di un creatore malvagio, o mostruosamente stupido: una di quelle divinità dementi che affollano gli incubi di Howard Philip Lovecraft, uno dei suoi autori di culto. La vita degli umani segue le leggi dettate da questo semidio gnostico: soffrire, riprodursi e, appunto, sottomettersi alla necessità.Di sottomissione Houllebecq parla già in una delle pagine più hard delle “Particelle elementari”, dove descrive le angherie subite da ragazzo nel collegio, o piuttosto nella fossa dei serpenti, dove lo avevano parcheggiato i genitori dopo la loro separazione. Tutte le società animali, scriveva allora, compresa la società umana, «si reggono su un sistema di dominazione basato sulla forza relativa dei loro membri». Nel suo solito modo puntuale e disturbante, dunque, Houllebecq concludeva già allora che «l’animale più debole ha la possibilità di evitare il combattimento adottando una posizione di sottomissione (assunzione di stazione supina, esposizione dell’ano)» (p. 47 della trad. it., corsivo nel testo).Bene, anzi male, ma fatto sta che “Sottomissione” applica questa metafisica, desolante però esatta, alla situazione odierna della Francia, ma si potrebbe pure dire, contraddicendo anche qui Baricco, dell’Europa, se non della cultura occidentale in genere. Perché non ditemi che l’Italia è messa meglio della Francia, o che la nostra università pubblica non rischia, prima o poi, di essere rasa al suolo come quella francese nella finzione letteraria, o che le nostre povere vite sono molto più esaltanti della vita dell’accademico François. Chiaro che il protagonista di “Sottomissione”, alla fine, sia ridotto a convertirsi all’Islam: e neppure per ridare senso alla propria vita – espressione che a Houllebecq non produrrebbe neppure un sorriso di compatimento, ma il vomito, direttamente – bensì per avere una moglie, anzi tre, che finalmente lo accudiscano, come non avrebbe mai fatto, a credergli, la sua mamma snaturata.Ma tutto questo potrebbe sembrare semplicemente penoso, o palloso, come direbbe lo stesso Houllebecq, e non renderebbe giustizia all’assoluta godibilità del libro: che fa proprio ridere, da scompisciarsi, se solo uno sa coglierne l’ironia paradossale, e qua e là abissale, come sarebbe stato troppo pretendere dal malcapitato Baricco. Già che ci sono, anzi, mi permetto di rinviare al capolavoro di Houellebecq, “Le particelle elementari”, per suggerire un’interpretazione psicologica, sociologica, oserei dire antropologica, dell’incomprensione di Baricco. Il libro del 1998, come ho già detto, ha pagine autobiografiche tremende, che se fossero scritte da un altro lo farebbero semplicemente chiudere per non riaprirlo mai più. Eppure, o forse proprio per questo – se vi siete annotati la definizione dell’humour come buona o cattiva educazione per disperati – ha anche, nel capitolo terzo della parte seconda, alcune delle pagine più esilaranti della letteratura contemporanea.Succede che il co-protagonista delle “Particelle elementari”, Bruno, praticamente un maniaco sessuale, fa una disperata vacanza in un campeggio alternativo, sempre con il chiodo fisso di rimorchiare, ma con l’alibi, fornito dai sagaci gestori, di fare esperienze culturali estreme, dal massaggio erotico a tutte le varianti dello yoga sino alle più sofisticate forme di misticismo. In questa sorta di Disneyland dell’immaginario tipico della sinistra anni Settanta, che ha in realtà sdoganato l’individualismo e l’edonismo reaganiano degli Ottanta, per non parlare degli sputtanamenti ancora successivi, il nostro co-protagonista sceglie, fra i tanti a disposizione, anche un corso di scrittura creativa, tipo “Holden”. Solo che, trattandosi pur sempre di un alter ego di Houellebecq, non riesce a resistere dallo sfornare, su richiesta, questo distico indimenticabile: “I tassisti sono proprio dei froci / non ce n’è uno che si fermi agli incroci”.Ora, ditemi pure che Houellebecq e io, indifferentemente, siamo degli irresponsabili, dei goliardi, degli psicolabili: ma io non riesco a smettere di ridere, convulsamente, da quando ho letto questi versi la prima volta. E siccome penso che il riso, come ci hanno insegnato quelli di “Charlie Hebdo”, sia la sola religione per la quale vale la pena di vivere, e persino di morire, aggiungo solo una minuscola considerazione conclusiva. Altro che scrittura creativa e letteratura d’intrattenimento: se finalmente la gente si abitua alla buona letteratura, quella che fa semplicemente ridere e piangere, una risata le seppellirà.(Mauro Barberis, “Massacro preventivo, su Baricco critico di Houllebecq”, da “Micromega” dell’11 febbraio 2015. Il libro: Michel Houllebecq, “Sottomissione”, Bompiani, 252 pagine, euro 17,50).Nella repubblica delle lettere ha prodotto qualche trapestio la stroncatura di “Sottomissione”, l’ultimo discusso libro di Michel Houellebecq, a opera di Alessandro Baricco. Con tutto il rispetto, che Baricco stronchi Houllebecq è l’ultimo dei problemi: è come se un barboncino tentasse di azzannare un lupo. Solo, non vorrei che domani, in qualche cartoleria francese, Houellebecq trovasse, immediatamente tradotta, la stroncatura di Baricco, e – cattivo com’è – ci massacrasse definitivamente il nostro maggiore scrittore renziano. Anche per questo, e non solo perché “Sottomissione” merita davvero di essere preso maggiormente sul serio, provvedo personalmente a un massacro preventivo di Baricco. Voglio dire, molto meglio che lo faccia io, che sono infinitamente meno cattivo di Houellebecq. “Sottomissione” è uscito in Francia mercoledì 7 gennaio, preceduto da un infernale battage pubblicitario; l’anno scorso, d’altronde, Houellebecq ha avuto una sovraesposizione mediatica senza precedenti, soprattutto dopo che il premio Goncourt 2010, assegnatogli per il suo libro meno acre, “La carta e il territorio”, aveva fatto pensare che gli sarebbe bastato rabbonirsi un po’ per puntare addirittura al Nobel.
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Un solo Duce al comando, l’Italia è tornata alla monarchia
Matteo Renzi, il rottamatore che non ha bisogno di chiedere consenso, tanto meno di essere eletto dal popolo (infatti non è mai stato parlamentare, ma dà comandi ai parlamentari), si sceglie e impone in Parlamento il presidente della Repubblica, che invece dovrebbe rappresentare e garantire tutti, super partes. Facendolo, tradisce il Patto del Nazareno (che d’ora in poi potrà chiamarsi Patto del Giuda), e forma la sua terza maggiorana parlamentare, in perfetto stile africano. Adesso anche il presidente della Repubblica è un nominato. Un nominato del primo ministro, ratificato da un Parlamento di nominati, eletto con una legge elettorale già dichiarata incostituzionale una Corte di cui era membro lo stesso Mattarella! Ovviamente non potrà, quindi, svolgere una funzione di controllo e contrappeso rispetto al capo del governo. Questa è la componente sostanziale. Ma c’è anche la componente del metodo, che in materia costituzionale è sostanza: Renzi lo ha scelto unilateralmente e ha comunicato il nome della sua scelta all’ultimo momento persino al suo partito.Non si potrebbe immaginare qualcosa che sia più di parte di questo. Per giunta, è chiaro che Renzi ha scelto lui perché non minaccia, sia in Italia che all’estero, di contendere a lui la scena e alla Germania l’egemonia imperialista. A questo punto, che sia una figura politica e umana decente, presentabile, è secondario. In generale, la vicenda dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica evidenzia l’assurdità dell’assetto costituzionale presente, e ancora di più l’assetto costituzionale che risulterà dalla riforma elettorale congiunta la riforma del Senato: un assetto in cui un organo squisitamente di parte, parte politica, cioè il segretario del partito di maggioranza, non solo nomina direttamente o indirettamente i deputati e senatori, ma nomina persino il capo dello Stato che dovrebbe controllare e controbilanciare. È come se il premier britannico nominasse il re o la regina. L’assurdo nonpotrà mai essere legittimo, nemmeno se imposto con la legge costituzionale. Vedremo presto se Mattarella asseconderà questo processo eversivo della Costituzione.La divisione dei poteri dello Stato sembrava un principio cardine, scontato oramai e indiscutibile, indispensabile ai fini della legittimità dello Stato, un’acquisizione definitiva e irreversibile della democrazia occidentale; ma evidentemente non era così, almeno in Italia: con le riforme del Senato e della legge elettorale, il nostro premier è riuscito a rovesciare il lavoro di Montesquieu, a ritornare a una struttura statuale come prima della Rivoluzione Francese. Ora infatti il premier unisce in sé il potere esecutivo, il potere legislativo e un’ampia parte del potere di controllo. Inoltre, non vi sono contrappesi indipendenti da lui al suo strapotere. La tesi fondamentale esposta da Montesquieu nel suo celebre trattato “Lo spirito delle leggi”, pubblicato nel 1748, è che può dirsi libero solo quell’ordinamento in cui nessun governante possa abusare del potere a lui affidato. Per prevenire tale abuso, occorrono contrappesi e controlli; occorre che “il potere arresti il potere”, cioè che i tre poteri fondamentali siano affidati a persone od organi differenti, in modo che ciascuno di essi possa impedire all’altro di esorbitare dai suoi limiti e debordare in tirannia.La riunione di questi poteri nelle medesime mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché annullerebbe quella “bilancia dei poteri” che costituisce l’unica salvaguardia o “garanzia” costituzionale in cui risiede la libertà effettiva. «Il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente»: è partendo da questa considerazione, che Montesquieu elabora la teoria della separazione dei poteri. Per evitare che si conculchi la libertà dei cittadini, il potere legislativo e quello esecutivo non possono mai essere accentrati in un’unica persona od organo costituzionale. Tecnicamente, perciò, Renzi ha restaurato l’ancien régime, lo Stato assolutista pre-rivoluzione francese. Infatti con le sue riforme il premier domina il partito e ne forma le liste elettorali; domina la Camera con un terzo circa dei suffragi; domina l’ordine del giorno dei lavori; domina il Senato; sceglie il capo dello Stato; nomina direttamente cinque membri della Corte Costituzionale e cinque attraverso il capo dello Stato; nomina o sceglie i capi delle commissioni di garanzia e delle authorities; da ultimo, quasi dimenticavo, presiede il Consiglio dei ministri. E gestisce molte altre cose. Si è fatto controllore di se stesso. Questo intendo dire quando affermo che è stato superato il principio della divisione dei poteri dello Stato.In ciò, Renzi batte Mussolini, perché l’espansione dei poteri del Duce incontrava la limitazione data dalla presenza del re a capo dello Stato, il quale non era scelto ovviamente dal Duce, ed era al di sopra del suo raggio d’azione, tanto è vero che il Re lo fece arrestare nel 1943. Rispetto a questo, Renzi è più simile a Hitler, perché anche in Germania non c’era la monarchia, quindi il cancelliere potè riunire nelle sue mani tutti i poteri. L’abolizione della separazione dei poteri dello Stato è un salto costituzionale tanto lungo e radicale quanto sarebbe il salto per passare alla legge islamica, alla shariya. Eppure, chi si accorge di tale salto? Il popolo è scusato, dato che le stime ufficiali rilevano un 47% di analfabetismo funzionale e solo un 18% capace di capire testi un po’ complessi, figuriamoci Montesquieu. Ma dove sono i liberali, i democratici, i costituzionalisti, i filosofi, i politici, gli intellettuali, quelli che hanno ampio accesso ai mass media e che fino a ieri si riempivano la bocca di antifascismo, Costituzione, Resistenza, garanzie?Dove sono i fieri magistrati che dimostravano con la Costituzione sotto il braccio togato? Perché tacciono di fronte alla concentrazione dei poteri in un’unica persona, di fronte all’abolizione dei controlli e dei bilanciamenti? Perché non insorgono come facevano in passato per molto, molto meno? Se non ora, quando, vostro onore? O sono cambiati gli ordini di scuderia? Forse voi, maliziosi lettori, pensate che i suddetti signori siano tutti diretti sul carro del vincitore, alla mensa del principe. Ma che male ci sarebbe, a questo punto? I poteri forti, la cosiddetta Europa del Bilderberg e di altri simili organismi, hanno capito che le inveterate caratteristiche sociologiche italiane non consentono il risanamento morale, la legalità e l’efficienza. Non provano nemmeno a metterci le mani. Si sono convinti che per governare e spremere questo paese ci vuole invece proprio il suo autoctono, tradizionale regime buro-partitocratico, con i suoi poteri collegati. Attraverso Renzi e Berlusconi, uniti da un patto sottobanco e di convenienza, forse comprendente la soluzione di problemi giudiziari, lo hanno perfezionato, stabilizzato, costituzionalizzato, ponendo tutto nelle mani del segretario del partito forte, controllore di se stesso. “Honni soit qui a mal de panse. Adieu, Montesquieu: Vive le renzien régime!”.(Marco Della Luna, “Renzi rottama Montesquieu e nomina Mattarella”, dal blog di Della Luna del 29 gennaio 2015).Matteo Renzi, il rottamatore che non ha bisogno di chiedere consenso, tanto meno di essere eletto dal popolo (infatti non è mai stato parlamentare, ma dà comandi ai parlamentari), si sceglie e impone in Parlamento il presidente della Repubblica, che invece dovrebbe rappresentare e garantire tutti, super partes. Facendolo, tradisce il Patto del Nazareno (che d’ora in poi potrà chiamarsi Patto del Giuda), e forma la sua terza maggiorana parlamentare, in perfetto stile africano. Adesso anche il presidente della Repubblica è un nominato. Un nominato del primo ministro, ratificato da un Parlamento di nominati, eletto con una legge elettorale già dichiarata incostituzionale una Corte di cui era membro lo stesso Mattarella! Ovviamente non potrà, quindi, svolgere una funzione di controllo e contrappeso rispetto al capo del governo. Questa è la componente sostanziale. Ma c’è anche la componente del metodo, che in materia costituzionale è sostanza: Renzi lo ha scelto unilateralmente e ha comunicato il nome della sua scelta all’ultimo momento persino al suo partito.
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Ziegler: privatizzano il mondo, e la sinistra dov’è finita?
«Marx è ancora attuale, anche se aveva torto su una cosa: fino alla fine, rimase convinto che la deprivazione materiale sarebbe durata molto a lungo. Tuttavia, oggi saremmo in grado di provvedere al sostentamento di 12 miliardi di esseri umani». A parte questo errore, gli strumenti analitici che Marx ha fornito per comprendere il capitalismo finanziario «sono ancora applicabili e ci permettono di capire meglio come funziona». Parola di Jean Ziegler, autore de “La privatizzazione del mondo”. «Il mio libro – spiega – va inteso come una sorta di arma nella lotta della nuova società civile globale». Siamo in pericolo, ma c’è chi se n’è accorto. Ziegler cita il World Social Forum di Tunisi nel 2013 con 15.000 persone riunite a discutere alternative al capitalismo globale. «Si tratta di un esercito di resistenza formato da gruppi che combattono su una serie di fronti: il Movimento Internazionale dei Contadini contro l’espropriazione delle terre, Attac contro la mancanza di regolamentazioni nei mercati finanziari, Greenpeace per la protezione ambientale, Amnesty International per il rispetto dei diritti umani, e il secondo più grande sindacato tedesco, Ig Metall, così come i sindacati austriaci, contro il Ttip», il Trattato Transatlantico tra Usa e Ue.I sostenitori del Ttip – cioè Washington e la Commissione Europea – hanno presentato l’accordo come fosse una rivoluzione che creerà centinaia di milioni di posti di lavoro all’interno di un mercato comune transatlantico. «Stupidaggini: se passa il Ttip, tutti gli standard europei e ciò che si era ottenuto in termini di protezioni sociali, ambientali e della salute, rischiano di scomparire». Autorevolissimo sociologo e antropologo, membro del Consiglio dell’Onu per i diritti umani, lo svizzero Ziegler – intervistato da “Voxeurop” – lancia l’allarme: sotto quali condizioni verranno creati i posti di lavoro promessi dal Ttip? «Non c’è alcuna ragione per essere ottimisti: il “dialogo sul commercio”, iniziato nel 2005 tra le 70 maggiori società multinazionali e il Dipartimento americano per il commercio, ha portato al progetto del Ttip, che è stato negoziato in totale segretezza fino al 2013». Attenzione: «Non c’è un solo deputato di un singolo Parlamento nazionale o del Parlamento Europeo che sappia esattamente quanto sia ampio il mandato assegnato a coloro che stanno negoziando il Ttip da parte dell’Ue».Tradotto in termini semplici, «le multinazionali vogliono essere liberate da qualsiasi costrizione che sia posta alla massimizzazione dei loro profitti, come ad esempio la scandenza dei brevetti, che vorrebbero prolungare». Pericolo: «Nel campo della salute, dell’ambiente e della sicurezza alimentare, ciò significa l’abolizione delle normative europee», anche perché «la clausola-chiave dell’accordo stabilisce un tribunale arbitrale per risolvere le controversie, con giudici stabiliti dalle parti, e senza la possibilità di appello di fronte ad un tribunale nazionale». Sarebbe la fine dello Stato di diritto, della legislazione europea e di quelle nazionali. «Se questo accordo verrà firmato, se il Parlamento Europeo lo approva, se il 28 Parlamenti dei paesi membri lo ratificano e se esso entra in vigore, allora le multinazionali potranno sporgere denuncia contro qualsiasi Stato sovrano prenda delle decisioni contrarie ai loro interessi o ai loro desideri. In breve, se il Ttip viene applicato, darebbe alle multinazionali la corda per strangolare le politiche economiche e finanziarie decise a livello nazionale». Senza più poter intervenire con le loro leggi, gli Stati nazionali – già ampiamente scavalcati dall’Ue, retta da un’élite di non-eletti – verrebbero definitivamente annullati.«La giungla si sta espandendo anche in Europa, minacciando il principio di legalità e le conquiste sociali», afferma Ziegler. «In Spagna il 18,2% dei bambini sotto i dieci anni sono costantemente e seriamente malnutriti. In Inghilterra e a Berlino ci sono esempi di sindacati degli insegnanti che organizzano raccolte di generi alimentari per i bambini che patiscono la fame». Letteralmente: «La democrazia in Europa potrebbe scomparire. Sarebbe l’Armageddon per i democratici se non si svegliano in fretta». Chi dovrebbe sentire i campanelli d’allarme? «Sarebbe il ruolo tradizionale della sinistra politica, ma la sinistra in Europa è priva di idee», accusa il sociologo. «Non succede più che i movimenti socialisti e i loro intellettuali forniscano ai lavoratori i necessari strumenti di analisi, di percezione e comprensione del mondo. L’integrazione dei lavoratori europei all’interno della strategia definita dal progetto imperialista ha ucciso la teoria e la pratica della solidarietà con le classi subalterne del terzo mondo. La violenza inflitta oggi contro i lavoratori viene percepita come “normale”, come un’inevitabile e intriseca parte del capitale». Si cancellano storiche conquiste sociali, mentre dilaga la xenofobia e cresce l’estrema destra. C’è un modo per contrastare questa recrudescenza? «La coscienza nazionale. La nazione appartiene a quelli che aderiscono al contratto nazionale e che rispettano le leggi della Repubblica». Purché, appunto, la Repubblica non sia cancellata. E possa ancora emanare leggi democratiche.«Marx è ancora attuale, anche se aveva torto su una cosa: fino alla fine, rimase convinto che la deprivazione materiale sarebbe durata molto a lungo. Tuttavia, oggi saremmo in grado di provvedere al sostentamento di 12 miliardi di esseri umani». A parte questo errore, gli strumenti analitici che Marx ha fornito per comprendere il capitalismo finanziario «sono ancora applicabili e ci permettono di capire meglio come funziona». Parola di Jean Ziegler, autore de “La privatizzazione del mondo”. «Il mio libro – spiega – va inteso come una sorta di arma nella lotta della nuova società civile globale». Siamo in pericolo, ma c’è chi se n’è accorto. Ziegler cita il World Social Forum di Tunisi nel 2013 con 15.000 persone riunite a discutere alternative al capitalismo globale. «Si tratta di un esercito di resistenza formato da gruppi che combattono su una serie di fronti: il Movimento Internazionale dei Contadini contro l’espropriazione delle terre, Attac contro la mancanza di regolamentazioni nei mercati finanziari, Greenpeace per la protezione ambientale, Amnesty International per il rispetto dei diritti umani, e il secondo più grande sindacato tedesco, Ig Metall, così come i sindacati austriaci, contro il Ttip», il Trattato Transatlantico tra Usa e Ue.
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Walking Dead, zombie cannibali: siamo carne da macello
Conosco molte persone che non hanno nessun interesse a guardare la televisione perché il 99% dei programmi è spazzatura o propaganda politica da parte del governo. Solo l’1% propone le tematiche più profonde e gli stati d’animo presenti nella nostra società. Gli show televisivi come “Breaking Bad”, “Game of Thrones” e “The Walking Dead” riflettono lo stato d’animo deprimente dell’incalzante “Fourth Turning”. In aprile ho scritto uno dei miei articoli più pessimisti, intitolato “Welcome to Terminus”, benvenuti a Terminus, riguardo alla fine della quarta serie di “Walking Dead”. In sintesi argomentavo che ci stiamo avvicinando alla fine del mondo e che il mondo stesso diventerà odioso. Nei sei brevi mesi da quando ho scritto questo deprimente articolo, abbiamo visto nei video di YouTube uomini decapitati da parte di terroristi di cui non si sapeva nemmeno l’esistenza a inizio anno. È stata messa in piedi alla buona una banda di 30.000 terroristi musulmani che usa le armi militari americane fornite per combattere Assad in Siria e sottratte dalle forze armate irachene quando hanno tagliato la corda e sono scappate via; sono stati in grado di sconfiggere 600.000 combattenti iracheni e curdi che avevano l’appoggio da parte della grandiosa forza aerea americana.La Siria, l’Iraq, la Libia e l’Afghanistan crollano verso una guerra religiosa senza fine. Abbiamo addirittura passeggeri aerei che spariscono misteriosamente in Asia senza lasciare traccia. La Crimea si è staccata dall’Ucraina per appartenere alla Russia ed è stato messo in moto un piano da parte delle potenze occidentali per punire la Russia. L’America supporta e pianifica un rovesciamento da parte di un governo eletto democraticamente in Ucraina. Abbiamo assistito al “false flag” dell’abbattimento di un aereo di linea sopra l’Ucraina da parte del governo ucraino, del quale vengono accusati la Russia e Putin da Obama e dai suoi complici europei. Le agenzie di media portavoce americane hanno ignorato l’occultamento delle trasmissioni di controllo mancanti, le registrazioni della scatola nera e gli indizi evidenti della morte di centinaia di persone innocenti per mano di politici europei. Israele e Hamas hanno ripreso la loro infinita guerra religiosa a Gaza causando migliaia di vittime e distruzione.L’Inghilterra intimorita dalla guerra e dalle minacce finanziare a stento si accorge della secessione della Scozia. La Catalogna continua a premere per un voto di secessione per lasciare la Spagna. Proteste violente sono scoppiate in Spagna, Italia, Francia e anche in Svezia. Turbolenze, proteste e rivolte in Brasile, Venezuela, Argentina e in Messico sono germogliate a causa della rabbia per la corruzione politica, per l’inflazione e per un generale malfunzionamento dell’economia. Si è alzato un polverone tra Cina e Giappone e i giovani di Hong Kong sono scesi in piazza a protestare per la scarsa democrazia concessa dalla Cina nelle elezioni. L’economia mondiale, che subisce il venir meno dello stimolo da parte della banca centrale, sta tornando in una fase di recessione con Germania, Cina e Stati Uniti che si uniscono al declino economico del resto del mondo. E ora, in Africa occidentale scoppia l’Ebola che si è già sparsa in tutto il mondo con la previsione di un’epidemia che potrebbe portare il pianeta in un caos completo.Quello che sta succedendo nel mondo reale rende lo zombie distopico di “Walking Dead” un essere quasi bizzarro. Con un uso brillante del simbolismo e dell’arte figurativa, gli autori di questo show catturano il mondo nella sua essenza violenta, caotica, inumana, deprimente e brutale come il periodo di crisi “Fourth Turning” nel quale siamo entrati nel 2008 e che si intensifica di giorno in giorno. C’è una buona ragione per cui il primo episodio della quinta stagione ha stabilito il record di ascolti nella storia della Tv via cavo. La serie sta chiaramente prendendo a piene mani dallo stato d’animo che pervade la massa. Prima, nell’ultimo episodio della serie precedente, ci si rende conto che Terminus è diventato un centro di produzione gestito dai cannibali. La linea di confine tra vittime e criminali, tra preda e cacciatore, tra male e bene, tra follia e sanità mentale, tra morale e immorale ha contorni sfumati e indefiniti. Tutto diventa relativo, nel mondo post-apocalittico di “Walking Dead”.Vedere i cannibali di Wall Street andarsene indenni dopo aver divorato il sistema economico mondiale nel 2008 con i loro calcoli finanziari fraudolenti, vedere i politici corrotti arricchitisi buttando coloro-che-pagano-le-tasse sotto un autobus, le forze di polizia calpestare il Quarto Emendamento, la Nsa sorvegliare ogni cittadino americano, una banca centrale privata arricchire i suoi azionisti facendo transitare migliaia di miliardi nelle loro camere blindate, un presidente calpestare la Costituzione emanando ordini che scavalcano gli altri rami del governo e ancora miliardi di frodi, fiscali e del welfare, dai ghetti urbani fino alle suite-attico di New York; tutto ciò ha convinto gran parte degli americani che tutto sia relativo e che niente importi davvero nel nostro mondo distopico e corrotto. Giusto e sbagliato non contano più. La morale è un concetto antico. La fedeltà alla Costituzione è una consuetudine fuori moda. La nostra società inneggia e accetta il paradigma dell’homo homini lupus. O lo zombie che mangia qualsiasi cosa, nel caso di “Walking Dead”.La comunità Terminus ricorda il campo di concentramento nel film Shindler’s List. Ci sono addirittura vagoni per i prigionieri, cancelli con filo spinato, guardie armate e un numero infinito di attrezzature per “processare” i prigionieri. Un fitto fumo nero impregna l’aria. C’è una stanza piena della refurtiva ben impilata, orsacchiotti, orologi, vestiti di tutto tranne le otturazioni d’oro. La precisione e l’attenzione al dettaglio tanto cara ai nazi si riflettono nel metodo professionale con cui gli amministratori di Terminus stanno per divorare le loro prede. La raccapricciante efficienza e l’ambiente antisettico dell’impianto di preparazione evocano il ricordo delle camere a gas dell’Olocausto. La scena iniziale quando Rick, Daryl, Glenn e Bob sono in mezzo a un gruppo di uomini in fila pronti per essere sventrati come maiali, attorno a una mangiatoia in attesa che venga raccolto il loro sangue, può essere a buon diritto una delle scene più terribili mai messa in onda sulla Tv via cavo.Il modo freddo e spietato in cui i prigionieri (la carne da macello) sono allineati di fronte a un’inossidabile mangiatoia d’acciaio è sconcertante e agghiacciante. Le vittime sono colpite con una mazza da baseball e le loro gole vengono squarciate da uomini con tute protettive. Non sono diventati altro che carne pronta per essere macellata e consumata dai cannibali di Terminus. In un’ altra parte dell’impianto di “macellazione” si vedono essere umani appesi a dei ganci esattamente come pezzi di carne. Gareth, il leader di Terminus, supervisiona l’operazione come un perfetto amministratore delegato, rimproverando i macellai per non essere arrivati alla quota stabilita e per non aver seguito le procedure standard. Situazione non molto diversa da come vengono gestite le grandi aziende oggigiorno. L’altra affascinante similitudine tra il distopico “incubo del volere” rappresentato in Terminus e il nostro moderno distopico “regno dell’eccesso” è l’uso di una pubblicità falsa e una propaganda che induce i consumatori in trappola.La loro versione dei cartelloni pubblicitari era compensata da messaggi scritti a mano della serie “Un rifugio per tutti”, “Una comunità per tutti” e “Coloro che arrivano sopravvivono”. I cannibali di Terminus si sarebbero trovati benissimo in Madison Avenue con gli artisti Spinart meglio pagati, i divulgatori e le puttane per gli oligarchi delle banche. I cartelli lungo le rotaie e le trasmissioni radio da parte di un call center mostrano la business efficiency con cui i cannibali conducono le loro vittime al macello. È la stessa tecnica utilizzata dagli apostoli di Edward Bernays per manipolare in maniera consapevole e intelligente le abitudini, le opinioni, i gusti, le idee e le azioni delle masse per poterle controllare in ciò che comprano e nelle decisioni di voto e per sostenere le loro regole. Gli uomini invisibili che costituiscono il “governo invisibile” prediligono la tecnica di mantenere il bestiame docile, fedele e ignorante dato che lo porteranno al macello.Il governo e l’assenza di governo sono il torbido retroscena di come e perché gli Stati Uniti siano finiti nel mondo infetto di “Walking Dead”. Questo episodio fornisce alcuni indizi su come i laboratori del governo producano virus come armi da usare contro non meglio definiti nemici. L’insinuazione che traspare nel racconto è che il governo abbia in qualche modo perso il controllo del virus e che la conseguente pandemia abbia distrutto il mondo moderno lasciando i sopravvissuti a combattere contro gli zombie per il poco che è rimasto. Il governo federale ha causato il collasso della società ed è assente ed introvabile nel momento in cui bisogna ricostruire la nazione. Non è chiaro come l’apocalisse finisca, ma si può immaginare che inizi con paura, la quale porta al panico, al caos, al crollo economico, a uno sconvolgimento violento, alla guerra, a un totale collasso dell’autorità e del controllo da parte del governo. Si può leggere dell’ironia nel fatto che la paura che l’Ebola diventi un’epidemia pandemica coincide con un’inevitabile implosione economica, con le guerre che risuonano in Medio Oriente, con le violente proteste in tutto il mondo, e con la fiducia nell’autorità dei governi che crolla in un solo momento.“Walking Dead” ha intenzionalmente o meno catturato l’essenza della nostra epoca turbolenta. Quando si affrontano circostanze disperate, o si fa tutto il possibile per sopravvivere o si accetta sommessamente il proprio destino e si muore. Gareth e la sua schiera di cannibali sono nella stessa situazione, così come Rick e i suoi, ma sono riusciti in qualche modo a cambiare la situazione dei loro carcerieri. Nella comunità di Gareth la sopravvivenza del più forte era secondo il motto “o sei il macellaio o sei carne da macello”. L’essere umano reagisce in modi diversi a una forte pressione e alle situazioni di minaccia che capitano nella vita. Alcune persone vengono annientate e diventano dei mostri, come Gareth. Alcuni vengono annientati e perdono la testa. Altre, come Rick e Carol, mettono insieme una grande forza interiore per fare tutto il possibile per sopravvivere cercando di mantenere il loro buon senso. Altri si convertono in ciechi sostenitori di un leader forte senza mettere in discussione la morale, la legalità e il buon senso di quello che sono chiamati a fare. La linea tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che è necessario e non necessario, tra la vendetta e la giustizia, tra il macellaio e la carne da macello appare sfumato in un mondo senza regole, governo e norme accettate.Credo che l’analogia del macellaio e della carne da macello sia purtroppo un valido memo del mondo nel quale stiamo vivendo. Nel mondo di “Walking Dead” gli individui devono scegliere tra il macellaio o la carne da macello. È un mondo darwiniano costituito da coloro che uccidono e da coloro che vengono uccisi. Gli individui solidali con valori e obiettivi comuni formano una comunità e cercano di portare un ordine nel mondo caotico in cui vivono. La comunità di Westbury, presieduta dal governatore e la comunità di Terminus, diretta da Gareth, sono fondate sul male e alla fine sono distrutte. La comunità di Rick è costituita da guerrieri liberi che fanno il necessario per sopravvivere, ma controllano la loro umanità, dignità e il loro desiderio di creare un mondo migliore. Il mondo nel quale viviamo oggi potrebbe non essere brutale come quello di “Walking Dead”; e anche se il confine tra la realtà e la finzione è spesso indefinibile quando si sfogliano i giornali, quello tra macellaio e carne da macello è chiaro.I governanti eletti e non eletti dello Stato sono i macellai, sono coloro che spediscono fuori dal paese i giovani a morire per compagnie di petrolio e trafficanti d’armi, coloro che impoveriscono il popolo attraverso l’inflazione e il controllo sulla moneta e allo stesso tempo si arricchiscono attraverso il completo controllo della politica, della finanza, della giustizia e dei sistemi economici. Questa classe dirigente, o governo invisibile come lo descrive Bernays, è dedito al proprio arricchimento e alla perpetuazione. Il suo scopo, le risorse finanziarie, e la ricchezza globale lo pongono di per sé dalla parte dei predatori. La gente comune rappresenta la carne da macello. Ci stanno tenendo buoni con un’incessante propaganda da parte dei media principali; i messaggi pubblicitari su Madison Avenue; siamo nutriti con dati economici filtrati, aggiustati, manipolati da parte delle agenzie statali; un infinito rifornimento di iGadgets e altre distrazioni elettroniche; l’educazione statale organizzata per mantenerci ignoranti; 24 ore al giorno, 7 giorni su 7 di reality show su seicento canali diversi per tenerci occupati; cibo tossico e industriale per tenerci obesi e mansueti; e una scorta infinita sull’indebitamento di Wall Street per tenerci intrappolati nelle nostre stesse ali senza speranza di scappare. Lo Stato macellaio ha mantenuto il controllo per decadi, ma stiamo entrando in una nuova era.Il libro “The Fourth Turning” fa capire che i ruoli sono cambiati e questa volta tocca ai macellai. Un po’ di bestiame da macello si sta svegliando dallo stupore. Riescono a vedere il sangue delle scritte nelle mura del macello. Chiunque non stia vedendo un cambiamento drammatico nel proprio stato o è uno zombie senza coscienza o un funzionario dello Stato. Le bravate finanziarie della classe alta non si stanno rivelando altro che un schema Ponzi costruito sulle fondamenta del debito e sostenuto da delusione e ignoranza. Quando the House of Cards crollerà in futuro, il gioco cambierà. Quando le persone non avranno più niente da perdere, andranno fuori di testa. I macellai diventeranno la carne da macello. Non ci sarà riparo per questi uomini del male. Il loro regno del male verrà spazzato via in un turbinio di castigo morte e distruzione. Ciò potrebbe anche rendere “The Walking Dead” una passeggiata nel parco, a confronto.(“Benvenuti a Terminus”, intervento pubblicato il 16 ottobre 2014 da “The Burning Platform”, blog gestito da Jim Quinn, e tradotto da “Come Don Chisciotte”; ripetuti i riferimenti al libro “The Fourth Turning”, dei sociologi William Strauss e Neil Howe).Conosco molte persone che non hanno nessun interesse a guardare la televisione perché il 99% dei programmi è spazzatura o propaganda politica da parte del governo. Solo l’1% propone le tematiche più profonde e gli stati d’animo presenti nella nostra società. Gli show televisivi come “Breaking Bad”, “Game of Thrones” e “The Walking Dead” riflettono lo stato d’animo deprimente dell’incalzante “Fourth Turning”. In aprile ho scritto uno dei miei articoli più pessimisti, intitolato “Welcome to Terminus”, benvenuti a Terminus, riguardo alla fine della quarta serie di “Walking Dead”. In sintesi argomentavo che ci stiamo avvicinando alla fine del mondo e che il mondo stesso diventerà odioso. Nei sei brevi mesi da quando ho scritto questo deprimente articolo, abbiamo visto nei video di YouTube uomini decapitati da parte di terroristi di cui non si sapeva nemmeno l’esistenza a inizio anno. È stata messa in piedi alla buona una banda di 30.000 terroristi musulmani che usa le armi militari americane fornite per combattere Assad in Siria e sottratte dalle forze armate irachene quando hanno tagliato la corda e sono scappate via; sono stati in grado di sconfiggere 600.000 combattenti iracheni e curdi che avevano l’appoggio da parte della grandiosa forza aerea americana.
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Magaldi: chi ha ucciso i nostri eroi, per dominare il pianeta
Tu chiamala, se vuoi, massoneria. Il che, per i libri di storia, significa al massimo Risorgimento, cioè lotta illuminista contro l’oscurantismo vaticano e l’assolutismo monarchico. Per la stampa italiana del dopoguerra, la connotazione della “libera muratoria” è quasi sempre negativa: Licio Gelli e la P2, Berlusconi, opache trame e comitati d’affari. La fratellanza in grembiulino? Sempre elusiva, quindi fatalmente relegata nel ghetto narrativo della controinformazione, il cosiddetto complottismo che impazza sul web da quando la grande crisi sta minacciando miliardi di esseri umani. Le avvisaglie di quella che alcuni chiamano Terza Guerra Mondiale fanno da sfondo alle fragorose devastazioni dell’altra guerra, già in atto, da parte dell’élite tecno-finanziaria contro il 99% dell’umanità, i non eletti, i cittadini da retrocedere al rango di plebe a cui togliere i diritti democratici conquistati nei decenni del benessere, in virtù della poderosa combinazione messa in campo da Roosevelt e Keynes: economia per tutti, grazie al gigantesco investimento dello Stato, spesa pubblica in forma di deficit positivo. Tutto cancellato, come sappiamo, dagli oligarchi del rigore neoliberista e dai loro politici, economisti, propagandisti. Ma che c’entrano le logge?La massoneria è esattamente l’anello mancante, risponde Gioele Magaldi, “gran maestro” del Grande Oriente Democratico, affiliato alla “Thomas Paine”, super-loggia internazionale progressista nata a metà dell’800 negli Stati Uniti per allevare le migliori menti dell’economia democratica. Missione: coniugare sviluppo e benessere diffuso, ricchezza e giustizia, prosperità e diritti, secondo l’ispirazione del socialismo liberale che affonda le sue remote radici nella Rivoluzione Francese. Un orizzonte emblematizzato dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata all’Onu sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale per volere della “libera muratrice” Eleanor Roosevelt. “Massoni, società a responsabilità illimitata”, clamorosa operazione editoriale firmata da Chiarelettere, si propone di squarciare il velo di segretezza che ha finora coperto e protetto il “back office” del vero potere, sempre bifronte: da una parte la “fratellanza bianca”, illuminata e democratica, e dall’altra i potentissimi antagonisti neo-feudali, supremi manovratori dell’élite oligarchica che oggi ha preso il sopravvento e da decenni ricatta il mondo con l’arma finale della finanza.Un’analisi radicale, quella di Magaldi, che si scosta dai toni apocalittici del “cospirazionismo” anti-sistema, anche perché innanzitutto ribadisce il ruolo-chiave del capitalismo nell’affermazione della modernità. In più – e qui sta la novità dirompente – Magaldi offre una rilettura interamente massonica della storia recente, sostenendo che in tutti i passaggi decisivi delle maggiori vicende internazionali c’era sempre un convitato di pietra, rimasto nell’ombra. Ad ogni grande evento che ha segnato il nostro passato – questa è la tesi – non corrispondono soltanto aspirazioni di popoli, correnti e partiti, dinamiche economiche e condizioni geopolitiche, ma anche persone in carne e ossa. Nomi e cognomi, individui responsabili di decisioni precise, di acuminate strategie affidate a singoli attori. In questo modo, sempre secondo Magaldi (che ha “blindato” archivi e testimonianze, da esibire all’occorrenza), nel retrobottega del massimo potere si sono prima confrontate e poi affrontate, senza risparmio di colpi, due opposte visioni del mondo, una democratica e l’altra oligarchica, nutrita cioè di autentico spirito aristocratico – quello di chi pensa che il popolo, semplicemente, non sia in grado di governarsi da solo. Due “fratellanze”, dunque, accomunate dalla medesima attitudine iniziatico-esoterica, ma profondamente divergenti nella concezione politica e quindi negli obiettivi da raggiungere.Il “filtro” massonico che Magaldi applica alla sua sorprendente rilettura dell’intera storia del Novecento – l’anello mancante, appunto – contribuisce a illuminare la profondità dell’origine di alcuni eventi, senza peraltro distorcene mai la verità storica accertata, né il senso politico generale, comunemente condiviso e acquisito. E’ una sorta di avvertimento, ai lettori ma anche agli storici: attenti, le cose sono andate così anche perché, oltre alle dinamiche socio-economiche da voi evidenziate, ci sono state riunioni cruciali, scelte e decisioni precise, tutte assunte – nella più totate segretezza – da uomini potentissimi, il cui ruolo emerge solo ora, per la prima volta, grazie agli sterminati elenchi presenti nelle 650 pagine di “Massoni”, che peraltro si conclude con uno stupefacente dibattito tra super-adepti progressisti e confratelli antagonisti “pentiti”, spaventati dalle conseguenze “golpiste” della globalizzazione neoliberista imposta a mano armata.Annunciato come il primo di una lunga serie, imbottita di rivelazioni esplosive, il libro è anche un dichiarato atto di guerra infra-massonico, contro le lobby avversarie: un guanto di sfida rivolto prima di tutto agli iniziati neo-aristocratici. Un’arma pubblica, per indebolire il fronte dei grandi oligarchi, i boss della privatizzazione universale, il cui club esclusivo – secondo Magaldi – è rappresentato da storiche super-logge onnipotenti come la “Three Eyes”, di cui farebbero parte personaggi come Kissinger, Brzezisnki, Mario Draghi e i titani di Wall Street. E naturalmente i Rotschild e i Rockefeller, cioè gli stessi che, attraverso la super-loggia dei “tre occhi”, hanno fondato il corrispettivo organismo paramassonico con “tre lati”, la famigerata Trilateral Commission, cupola dell’élite mondiale da cui diffondere il verbo neoliberista, la “morte” dello Stato che deve far posto al mercato, i diktat della destra economica che eredita il memorandum di Lewis Powell e lo sviluppa nella “Crisi della democrazia”, il saggio di Samuel Huntington, Michel Crozier e Joji Watanuki, secondo cui curare la democrazia con altra democrazia è folle, sarebbe come «tentare di spegnere un incendio gettando benzina sul fuoco». Basta democrazia, la ricreazione è finita.Il cuore del libro è concentrato sul punto di svolta della nostra storia del dopoguerra, cioè la fine degli anni ‘60 e l’avvento dei piani neo-aristocratici per fermare l’onda lunga della democrazia che, abbattuto il nazifascismo, aveva ricostruito l’Europa inaugurando la stagione irripetibile del boom economico, con l’inedito benessere per le classi popolari e la nuova frontiera civile incarnata dal welfare. Il mainstream, allora, era quello tracciato dal “fratello” Frankin Delano Roosevelt sulla base della strategia politico-economica del “fratello” John Maynard Keynes: se lo Stato fa spesa pubblica e deficit positivo, l’economia prospera e ne beneficiano tutti. Dottrina tradotta in pratica, in Europa, dal “fratello” George Marshall. Keynesismo “di sinistra”, certo, “ma anche massonico”, aggiunge Magaldi, preoccupato di “dare a Cesare”. Impossibile, insiste, trascurare questo dettaglio: tutti i grandi protagonisti del progressismo del dopoguerra erano affiliati a “Ur-Lodges” di sinistra, come la “Thomas Paine”. Organismi ultra-riservati, e per questo mai finiti al posto giusto nei libri di storia. Eppure, importantissimi. E spesso decisivi, nella loro funzione di suprema diplomazia, molto al di sopra degli esecutori nazionali, governi e partiti.La grande battaglia rievocata da “Massoni”, tutta giocata dietro le quinte ben prima che i fatti diventassero cronaca e poi storia, secondo Magaldi comincia con la scomparsa di Angelo Roncalli, il “Papa buono”, lo straordinario riformatore sociale del Concilio Vaticano II. Magaldi racconta che pure Giovanni XXIII era un “fratello”, associato a una prestigiosa super-loggia progressista in Turchia e poi a un cenacolo rosacrociano in Francia. Sincretismo, dunque: apertura a diverse tradizioni spirituali, per far convergere energia (sapienza) verso il progresso dell’umanità. Poco dopo, la tragica morte di John Fitzgerald Kennedy, l’uomo con troppi nemici. Chi l’ha ucciso? Quasi impossibile stabilirlo. Ma una cosa sembra ormai certa: Jfk era d’accordo con Khrushev per smilitarizzare il pianeta e quindi mettere fine alla guerra fredda entro il 1970. Dopo l’omicidio di Dallas, racconta Magaldi, le “Ur-Lodges” progressiste puntarono su un ticket formidabile: Bob Kennedy alla Casa Bianca con al suo fianco Martin Luther King, forse spendibile addiritttura per la vicepresidenza. Quello, sostiene l’autore di “Massoni”, è stato il momento fatale in cui abbiamo perso tutti: da allora, la democrazia sociale non ha fatto che perdere rovinosamente terreno, in tutto il mondo. Come sarebbe oggi il pianeta se l’America fosse stata governata da Robert Kennedy e da Martin Luther King?Il doppio omicidio dei due campioni dei diritti democratici scatena la guerra dei sospetti nel “back office” del supremo potere: da allora, democratici e neo-aristocratici scendono ufficialmente in guerra. Vincono i secondi: l’America va sempre più a destra, fa la guerra in Vietnam e poi afferma il neoliberismo definitivo con Reagan, mentre in Gran Bretagna è già stata costruita l’affermazione della “sorella” Margaret Thatcher. Nel frattempo, la “guerra coperta” è andata avanti senza risparmio. Prima il golpe dei colonnelli in Grecia, secondo Magaldi un test per saggiare la capacità di resistenza democratica in Europa di fronte a un’involuzione neofascista (Atene come possibile battistrada per abolire la democrazia anche in altri paesi europei). Poi, in risposta, la “rivoluzione dei garofani” in Portogallo, fatta scattare nel 1974 – non a caso il 25 aprile, come monito ai complottisti neo-feudali (il solito Kissinger) che cospiravano contro la democrazia italiana.Magaldi infatti accredita pienamente almeno tre tentativi di golpe in Italia, due affidati a Junio Valerio Borghese e uno a Edgardo Sogno, sistematicamente sventati dalla “fratellanza bianca”, coordinata dal sociologo e premio Pulitzer Arthur Schlesinger Jr,. infaticabile combattente e anima delle “Ur-Lodges” democratiche. Di fronte al fallimento del golpismo italiano, il cartello mondiale guidato dalla “Tree Eyes” allenta la presa sull’Europa e si concentra sul Sud America: l’Operazione Condor comincia dal Cile (omicidio Allende) e poi trasforma l’Argentina nell’inferno della giunta militare. Intorbidita ulteriormente da una scissione all’interno dell’ala destra (alla “Three Eyes” che puntava su George Bush senior si oppone la “White Eagle”, che riesce a imporre Reagan alla Casa Bianca), la “guerra segreta” finisce di colpo nel 1981, con due attentati cruenti ma non letali, contro il neo-presidente e contro il Papa. Reagan viene ferito gravemente. Un complotto ordito dalla super-loggia dei “tre occhi”? Poco dopo, la stessa sorte tocca al pontefice polacco, il cui massimo sponsor era stato Brzezinski, uno dei massimi leader della “Three Eyes”.Il terrorista turco Alì Agca ha sparato a Wojtyla alle ore 17,17 precise. Per Magaldi, è un indizio decisivo, sempre trascurato dagli investigatori: il 1717 è l’anno di rifondazione della massoneria, dunque si tratta di una “firma” inequivocabile. Ovvero: sarebbero stati i super-fratelli della “White Eagle” a “vendicare” l’attentato a Reagan, “avvertendo” Brzezisnki. Di lì a poco, sarebbe sbocciata la grande tregua sottoscritta con lo storico manifesto “United Freemasons for Globalization”, includente persino i “fratelli” dell’Urss e della Cina comunista, anch’essi collegati alle “Ur-Lodges” del super-potere mondiale, in vista di epocali trasformazioni: la perestrojka di Gorbaciov e le riforme capitaliste di Deng Xiaoping. Una storia che procede in modo lineare, fino al punto di non-ritorno: l’11 Settembre. Il super-attentato del 2001 dà il via alla “guerra infinita”, patrocinata dai nuovi campioni delle super-logge dell’ultradestra: Tony Blair, George W. Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Colin Powell, Nicolas Sarkozy. Tutti “fratelli”, assicura Magaldi, firmando la sua sconcertante contro-storia (massonica) delle tragedie che costellano l’attualità di oggi. Aprite gli occhi, raccomanda il “gran maestro” italiano: quello che vi sta accadendo era previsto nei dettagli, è stato deciso a tavolino, e il piano è stato eseguito con spietata precisione. Ma, in quei circoli super-segreti, non tutti erano d’accordo. E ora, finalmente, dopo quarant’anni di incontrastato dominio autoritario, ci sarà una controffensiva democratica, di cui il libro è parte integrante.(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Tu chiamala, se vuoi, massoneria. Il che, per i libri di storia, significa soprattutto Risorgimento, cioè lotta illuminista contro l’oscurantismo vaticano e l’assolutismo monarchico. Per la stampa italiana degli ultimi decenni, la connotazione della “libera muratoria” è quasi sempre negativa: Licio Gelli e la P2, Berlusconi, opache trame e comitati d’affari. La fratellanza in grembiulino? Sempre elusiva, quindi fatalmente relegata nel ghetto narrativo della controinformazione, il cosiddetto complottismo che ora impazza sul web da quando la grande crisi sta minacciando miliardi di esseri umani. Le avvisaglie di quella che alcuni chiamano Terza Guerra Mondiale fanno da sfondo alle fragorose devastazioni dell’altra guerra, già in atto, da parte dell’élite tecno-finanziaria contro il 99% dell’umanità, i non eletti, i cittadini da retrocedere al rango di plebe a cui togliere i diritti democratici conquistati nei decenni del benessere, in virtù della poderosa combinazione messa in campo da Roosevelt e Keynes: economia per tutti, grazie al gigantesco investimento dello Stato, spesa pubblica in forma di deficit positivo. Tutto cancellato, come sappiamo, dagli oligarchi del rigore neoliberista e dai loro politici, economisti, propagandisti. Ma che c’entrano le logge?
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Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.
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Foa: Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?
Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.Poi c’è stata la fase in cui i media rincorrevano Grillo e ne parlavano male, ma il leader del M5S usò molto abilmente questa popolarità indotta, usando le tv, che erano costrette a trasmettere i suoi interventi, pur continuando a delegittimare e a criticare pesantemente le tv. Il fatto di negarsi ai talk show faceva salire le sue quotazioni mediatiche. Grillo e Casaleggio, come scrissi più volte su questo blog, furono bravissimi nel cavalcare l’onda. Risultato: una copertura mediatica fantastica, in cui alla mobilitazione tramite la Rete si aggiunse l’effetto propagatorio di radio, giornali e soprattutto tv che permise al M5S di raggiungere il 25% alle elezioni di inizio 2013. Ma poi sono iniziati i guai. Un leader accorto deve sapere quando è il momento di togliere il piede dall’acceleratore, quando la capacità di gestione deve prevalere sulla costruzione del successo. Bisogna saper cambiare i toni, mantenendo la tensione ideale tra i militanti della base; occorre perseguire obiettivi di lungo periodo mantenendo alta l’attenzione nel breve, partecipando ai dibattiti d’attualità ma senza farsi travolgere, dunque tenendo sempre ben presente a quale pubblico ci si rivolge e cosa bisogna dire per ampliare il consenso.E’ un’arte quasi scientifica che presuppone self control, un partito ben inquadrato, squadre compatte, capacità di modulare i toni, analisi sociologiche mirate, capacità di programmazione. E invece Grillo ha fatto l’opposto. Ha continuano a gridare come quando non aveva il 25% dei consensi, non ha costruito una classe dirigente capace di assecondarlo; non solo: ha perso chiaramente la testa procedendo a espulsioni che hanno spaventato e definitivamente allontanato la stragrande maggioranza dell’elettorato. Deputati e senatori si sono dimostrati inadeguati, un gruppo eterogeneo e piuttosto modesto; certo non una squadra compatta. Aggiungete gli sbandamenti nella comunicazione, con l’improvviso e mal motivato sdoganamento delle apparizioni in tv, che ha disorientato i suoi sostenitori, o i trattamenti riservati al portavoce Claudio Messora e le giravolte programmatiche, tra cui senz’altro la più clamorosa quella sull’euro, e il quadro è completo.Insomma abbiamo assistito a un processo di auto-distruzione che verosimilmente è irreversibile. Sarei meravigliato se Grillo riuscisse a recuperare il consenso perduto, mentre il rischio che finisca come Di Pietro o Vendola è sempre più concreto. E ora capisco perché l’establishment lo abbia lasciato scorrazzare, anche nei momenti in cui la spinta dei grillino sembrava irresistibile. Evidentemente speculava sull’incapacità di Grillo e Casaleggio di trasformarsi in forza politica consolidata. Sapeva che i due si sarebbero fatti del male da soli. E ha avuto ragione. E’ la stessa strategia – condita da attacchi alla personalità, peraltro iniziati subito dopo la vittoria della Lega in Emilia Romagna – che l’establishment riserverà all’unico politico in grado di raccogliere e raggruppare l’ampio popolo degli scontenti: Matteo Salvini. Chissà se il leader della Lega avrà la forza, il coraggio e soprattutto la saggezza di non commettere gli stessi errori di Grillo.(Marcello Foa, “Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 30 novembre 2014).Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.
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La rivoluzione digitale cancella il lavoro: rassegnatevi
Qualche giorno fa, Alessandro Gilioli ha pubblicato sul suo blog un commento alla recente intervista che uno dei due fondatori di Google, Larry Page, ha rilasciato al “Financial Times”. Il nodo evidenziato da Gilioli riguarda l’opinione, sempre più diffusa e ancorata a dati di fatto, secondo cui i progressi nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale sarebbero destinati a generare una contrazione irreversibile e permanente dell’occupazione, non solo fra i lavoratori che svolgono mansioni esecutive, ma anche, se non soprattutto, fra i cosiddetti lavoratori della conoscenza. Siamo abituati a sentir contestare tale tesi da quanti ricordando che tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, dopo aver generato temporanei cali occupazionali, hanno puntualmente creato le condizioni per il loro riassorbimento; ma l’argomento che recita “è sempre andata così, quindi andrà così anche questa volta” non convince: sia perché smentito (almeno per ora) dai fatti, sia perché ignora le radicali differenze fra la rivoluzione digitale e le precedenti rivoluzioni tecnologiche.Ma torniamo a Page e Gilioli. Il secondo sottolinea come il primo ripeta più volte, nel corso dell’intervista, la frase «you can’t wish it away», come dire: le cose stanno così, vi piaccia o meno, né cambieranno. «Temo che abbia ragione», ammette a malincuore Gilioli – parere che condivido, così come condivido il fastidio per l’indifferenza manifestata da Page nei confronti degli “effetti collaterali” del tecnocapitalismo digitale. Nutro invece qualche dubbio sull’analisi di Gilioli in merito alle due possibili modalità di fronteggiare il fenomeno: la prima di destra, la seconda di sinistra. Possiamo non fare nulla, limitandoci a subire passivamente quanto succede e anzi sfruttandolo per diminuire l’uguaglianza, scrive, e questa è la risposta di destra. Fin qui l’accordo è totale. Oppure possiamo cercare di capire quanto accade e provare a governarlo politicamente e democraticamente, ridistribuendo ricchezze, lavoro e tempo libero, e questa è la risposta di sinistra. Qui invece dissento, perché sono convinto che disponiamo di analisi già sufficientemente ampie, approfondite e dettagliate di quanto accade per capire che non è più possibile governarlo politicamente e democraticamente, perlomeno nel senso che la sinistra tradizionale attribuisce a questi due concetti.Mi spiego facendo riferimento ad un autore, Colin Crouch, di cui mi sono qui recentemente occupato: Crouch – al pari di Ulrik Beck, Pierre Rosanvallon, Thomas Piketty e altri pensatori neo-socialdemocratici – prende lucidamente atto della mutazione postdemocratica che il tecnocapitalismo finanziarizzato ha indotto nei nostri sistemi politici, trasformandoli in oligarchie dominate dagli interessi dei soggetti che sfruttano le “leggi” del mercato e della tecnica per aumentare la disuguaglianza (la formula “diminuire l‘uguaglianza”, citata poco sopra, suona eufemistica), dopodiché (come gli altri autori citati) vede quale unica soluzione il rilancio di strategie riformiste simili a quelle evocate da Gilioli. Ebbene, io penso che questa sia oggi un’utopia impraticabile, e che la sola risposta di sinistra all’orrore che ci viene incontro sia tornare a immaginare se e come sia possibile una rottura radicale di sistema. Ma qui, purtroppo – a meno di non abbandonarsi a velleitari “insurrezionalismi” – l’analisi del che fare è assai più debole di quella sull’impatto socioeconomico del capitalismo alla Larry Page.(Carlo Formenti, “Se la rivoluzione digitale cancella il lavoro”, da “Micromega” del 10 novembre 2014).Qualche giorno fa, Alessandro Gilioli ha pubblicato sul suo blog un commento alla recente intervista che uno dei due fondatori di Google, Larry Page, ha rilasciato al “Financial Times”. Il nodo evidenziato da Gilioli riguarda l’opinione, sempre più diffusa e ancorata a dati di fatto, secondo cui i progressi nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale sarebbero destinati a generare una contrazione irreversibile e permanente dell’occupazione, non solo fra i lavoratori che svolgono mansioni esecutive, ma anche, se non soprattutto, fra i cosiddetti lavoratori della conoscenza. Siamo abituati a sentir contestare tale tesi da quanti ricordando che tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, dopo aver generato temporanei cali occupazionali, hanno puntualmente creato le condizioni per il loro riassorbimento; ma l’argomento che recita “è sempre andata così, quindi andrà così anche questa volta” non convince: sia perché smentito (almeno per ora) dai fatti, sia perché ignora le radicali differenze fra la rivoluzione digitale e le precedenti rivoluzioni tecnologiche.
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Gli scienziati: folle Ue, taglia la ricerca e suicida il futuro
I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.Hanno scelto di ignorare che la ricerca non segue cicli politici; che a lungo termine, l’investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti potrebbero essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni per maturare; che, se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno avere gli strumenti per affrontare le sfide di domani. Invece, hanno seguito politiche cicliche d’investimento in R&S con un unico obiettivo in mente: abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul potenziale d’innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l’Europa.Hanno scelto di ignorare che l’investimento pubblico in R&S è un attrattore d’investimenti privati; che in uno “Stato innovatore” come gli Stati Uniti più della metà della crescita economica è avvenuta grazie all’innovazione, che ha radici nella ricerca di base finanziata dal governo federale. Invece, essi mantengono l’irrealistica aspettativa che l’aumento della spesa in R&S necessaria per raggiungere l’obiettivo della Strategia di Lisbona del 3% del Pil sarà raggiunto grazie al solo settore privato, mentre l’investimento pubblico in R&S viene ridotto. Una scelta in netto contrasto con il significativo calo del numero di aziende innovative in alcuni di questi paesi e con la prevalenza di aziende a dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, senza alcuna capacità d’innovazione.Hanno scelto di ignorare il tempo e le risorse necessarie per formare ricercatori. Al contrario, facendosi schermo della direttiva europea mirante la riduzione del personale nel settore pubblico, hanno imposto agli istituti di ricerca e alle università pubbliche drastici tagli nel reclutamento che, insieme alla mancanza di opportunità nel settore privato, stanno innescando una “fuga di cervelli” dal Sud al Nord dell’Europa e al di fuori del continente stesso. Questo si traduce in un’irreversibile perdita d’investimenti e aggrava il divario in R&S tra gli Stati membri. Scoraggiati dalla mancanza di opportunità e dall’incertezza derivante dalla concatenazione di contratti a breve termine, molti scienziati stanno pensando di abbandonare la ricerca, incamminandosi lungo quella che, per sua natura, è una via senza ritorno. Invece di diminuire il deficit, questo esodo contribuisce a crearne uno nuovo: un deficit nella tecnologia, nell’innovazione e nella scoperta scientifica a livello europeo.Hanno scelto di ignorare che la ricerca applicata non è altro che l’applicazione della ricerca di base e non è limitata a quelle ricerche con un impatto di mercato a breve termine, come alcuni politici sembrano credere. Invece, a livello nazionale ed europeo c’è una forte pressione per concentrarsi sui prodotti commercializzabili che non sono altro che i frutti che pendono dai rami più bassi dell’ intricato albero della ricerca: anche se alcuni dei suoi semi possono germinare in nuove scoperte fondamentali, affossando la ricerca di base si stanno lentamente uccidendone le radici. Hanno scelto di ignorare come funziona il processo scientifico; che la ricerca richiede sperimentazione e che non tutti gli esperimenti avranno successo; che l’eccellenza è la punta di un iceberg che galleggia solo grazie alla gran massa di ghiaccio sommerso. Invece, la politica scientifica a livello nazionale ed europeo si è spostata verso il finanziamento di un numero sempre più limitato di gruppi di ricerca ben affermati, rendendo impossibile la diversificazione di cui avremmo bisogno per affrontare le sfide della società di domani. Inoltre, questo approccio basato sull’eccellenza sta aumentando il divario nella R&S tra gli Stati membri, poiché un piccolo numero di istituti di ricerca ben finanziati sta sistematicamente reclutando questo piccolo e selezionato gruppo di vincitori di finanziamenti.Hanno scelto di ignorare la sinergia critica tra ricerca e istruzione. Anzi, hanno reciso il finanziamento della ricerca per le università pubbliche, abbassandone la qualità complessiva e minacciandone il ruolo di soggetti atti a favorire lo sviluppo di pari opportunità. E soprattutto, hanno scelto di ignorare il fatto che la ricerca non ha solo il compito di essere funzionale all’economia, ma anche di incrementare la conoscenza e il benessere sociale, anche per coloro che non hanno le risorse per pagarlo. Hanno scelto di ignorare tutto questo, ma noi siamo determinati a ricordarglielo perché la loro ignoranza può costare il nostro futuro. Come ricercatori e come cittadini, formiamo una rete internazionale per promuovere lo scambio d’informazioni e di proposte. Ci stiamo impegnando in una serie d’iniziative a livello nazionale ed europeo per opporci fermamente alla distruzione sistematica delle infrastrutture di R&S nazionali e per contribuire alla costruzione di un’Europa sociale costruita dal basso. Sollecitiamo gli scienziati e tutti i cittadini a difendere questa posizione con noi. Non c’è altra possibilità. Lo dobbiamo ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli.(“Senza ricerca non si esce dalla crisi”: l’appello, ripreso da “Micromega”, è stato lanciato da importanti scienziati europei come Amaya Moro-Martín, astrofisico dello “Space Telescope Science Institute di Baltimora”, Usa, nonché di “EuroScience” di Strasburgo e del Digna, per la Spagna; Gilles Mirambeau, virologo Hiv della Sorbona di Parigi oltre che dell’Idipbas di Barcellona e di “EuroScience”; Rosario Mauritti, sociologo dell’Iscte e del Cies-Iul di Lisbona; Sebastian Raupach, fisico tedesco; Jennifer Rohn, biologa cellulare dell’University College di Londra; Francesco Sylos Labini, fisico del Centro Enrico Fermi e del Cnr di Roma; Varvara Trachana, biologa cellulare dell’Università di Thessaly a Larissa, Grecia; Alain Trautmann, immunologo e oncologo del Cnrs e dell’Institut Cochin di Parigi; Patrick Lemaire, embriologo del Cnrs e dell’Università di Montpellier).I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.
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Perché i palestinesi devono sparire dalla faccia della terra
La sociologia delle relazioni etniche/razziali identifica 3 tipi distinti di strutture razziste, ossia le relazioni strutturali tra i gruppi dominanti e le minoranze. Una è quella che è stata chiamata delle “minoranze di intermediari”. In questa struttura, il gruppo minoritario ha una relazione di mediazione tra il dominante e i gruppi subordinati. Questa è stata storicamente l’esperienza dei commercianti cinesi d’oltremare in Asia, dei libanesi e siriani nell’Africa occidentale, degli indiani nell’est Africa, dei meticci in Sudafrica e degli ebrei in Europa. Quando le “minoranze di intermediari” perdono la loro funzione mano a mano che cambiano le strutture, possono essere assorbite dal nuovo ordine o possono diventare capri espiatori, o addirittura subire un genocidio. Gli ebrei occuparono storicamente questo ruolo di “minoranza di intermediari” nell’Europa feudale e nel capitalismo in nuce. La struttura dell’Europa feudale assegnò agli ebrei certe funzioni vitali per l’espansione della società feudale europea. Queste includevano la gestione del commercio a lunga distanza e il prestito di denaro.Queste attività furono vietate dalla Chiesa cattolica e non erano parte normale delle relazioni tra padrone-servo nel cuore del feudalesimo; nonostante ciò erano vitali per il mantenimento del sistema. Quando il capitalismo si sviluppè nei secoli XIX e XX, nuovi gruppi capitalisti assunsero le funzioni di commercio e bancarie, perciò il ruolo degli ebrei risultò superfluo per le nuove classi dominanti. Come risultato gli ebrei in Europa soffrirono intense pressioni mano a mano che il capitalismo si sviluppava e sporadicamente soffrirono il genocidio, come capro espiatorio delle difficoltà del capitalismo, la perdita del loro ruolo economico che prima era vitale, la crisi mondiale del 1930, l’ideologia e il programma nazista. Un secondo tipo di struttura razzista è quella che chiamiamo “il supersfruttamento e/o la disorganizzazione della classe operaia”. Questa è una situazione nella quale il settore razziale subordinato e oppresso dentro la classe sfruttata occupa i gradini più bassi dell’economia e della società, in particolare dentro una classe operaia razziale o etnicamente stratificata. Il concetto chiave qui è che il lavoro del gruppo subordinato (i loro corpi, la loro esistenza) è necessario per il sistema dominante, anche se il gruppo sperimenta emarginazione culturale e sociale e la privazione dei diritti politici.Questa fu l’esperienza storica schiavista degli afroamericani in Usa, così come quella degli irlandesi in Inghilterra, dei latini attualmente in Usa, degli indios Maya in Guatemala, degli africani in Sudafrica sotto l’apartheid e così successivamente. Questi gruppi sono con frequenza subordinati sociali, culturali e politici sia che questo sia di fatto o per legge. Rappresentano il settore dei supersfruttati e discriminati, lavorativamente, razzialmente e etnicamente divisi e situati nelle classi popolari. Questa fu l’esperienza dei palestinesi nell’economia politica israeliana fino a poco tempo fa e nelle circostanze uniche di Israele e della Palestina nel XX secolo. La struttura razzista finale è l’esclusione e l’appropriazione delle risorse naturali. Questa è una situazione nella quale il gruppo dominante necessita delle risorse del gruppo subordinato, ma non del loro lavoro (né dei loro corpi, né della loro esistenza fisica). Questa è la struttura razzista che più facilmente conduce a un genocidio.Fu l’esperienza dei nativi americani nell’America del nord. I gruppi dominanti necessitavano della loro terra, però non del loro lavoro o dei loro corpi, dato che gli schiavi africani e gli europei già offrivano la mano d’opera necessaria per il nuovo sistema, e pertanto furono vittime del genocidio. E’ stata l’esperienza dei gruppi indigeni dell’Amazzonia. Lì furono scoperte, nella loro terra, nuove e enormi risorse minerarie e energetiche. E nondimeno e letteralmente, anche se non sono necessari, questi indigeni interpongono i loro corpi nel cammino del capitale verso le risorse. Per questo attualmente ci sono pressioni per riattivare il genocidio. Questa è la situazione più recente che gli afroamericani affrontano negli Usa. Molti afroamericani passarono dallo stare nel settore dei supersfruttati della classe operaia all’emarginazione quando i datori di lavoro cambiarono la mano d’opera sfruttata afroamericana per quella degli immigranti latini che diventarono i supersfruttati. Come gli afrostatunitensi, in quantità significativa, diventarono strutturalmente emarginati; sono oggetto di una crescente privazione dei loro diritti, di criminalizzazione, della falsa “guerra contro le droghe”, della incarcerazione di massa e del terrore della polizia e dello Stato. Sono visti dal sistema come necessari per controllare una popolazione non necessaria e ribelle.Allora, come i nativi americani prima di loro (e a differenza dei sudafricani neri) i corpi palestinesi non sono più necessari e semplicemente stanno intralciando lo Stato sionista, i gruppi dirigenti, i coloni e gli aspiranti coloni che necessitano delle risorse palestinesi, specificamente la terra, però non dei palestinesi. In verità, anche se i lavoratori palestinesi vengono eliminati dall’economia israeliana, migliaia di palestinesi di Cisgiordania ancora lavorano in Israele. Gli immigrati ebrei russi e altri che sostituirono la mano d’opera palestinese in Israele nella decade dei ‘90 continuarono negli anni seguenti confidando nel proprio privilegio razziale per entrare nella classe media israeliana, dato che non vogliono occupare posti di lavoro relazionati con gli arabi. Così successe che gli africani, gli asiatici e altri immigranti del Sud globalizzato continuarono ad arrivare in Israele. Questo cambio di direzione volta a farli divenire “l’umanità in eccesso” sembra essere più avanzato per gli abitanti di Gaza, che rimangono bloccati e relegati nel campo di concentramento nel quale Gaza si è convertita. I palestinesi di Gaza appaiono come il primo gruppo che affronta il tormento del genocidio.I sionisti e i difensori di Israele considerano come una grande offesa qualsiasi analogia tra i nazisti e le azioni dello stato di Israele, inclusa l’accusa di genocidio, in parte a causa del fatto che l’olocausto ebreo è utilizzato dallo Stato di Israele e del progetto politico sionista come meccanismo di legittimazione; perciò parlare di queste analogie significa rivelare il discorso di legittimazione israeliano. E’ cruciale indicare ciò, perché questo discorso è arrivato poco a poco a legittimare le politiche o le proposte israeliane in corso, che dimostrano una similitudine ogni volta più allarmante con altri esempi storici di genocidio. Il notevole storico israeliano Benny Morris, professore dell’università Ben Gurion del Negev, che si identifica strettamente con Israele, concesse una lunga intervista al periodico “Haaretz” nel 2004, dove si riferiva al genocidio dei nativi americani al riguardo di ciò che sono oggi gli Stati Uniti d’America con il fine di suggerire che il genocidio può essere accettabile. Disse nell’intervista: «Anche la grande democrazia statunitense non poté essere creata senza l’annichilazione degli indios. Ci sono casi nei quali il bene finale globale giustifica atti aggressivi e crudeli che si commettono nel corso della storia».Successivamente, fece un richiamo alla pulizia etnica dei palestinesi, dicendo: «Bisogna costruire per loro qualcosa di simile a una gabbia. So che suona terribile. E’ realmente crudele. Però non c’è altra opzione. C’è un animale selvaggio che bisogna rinchiudere in un modo o nell’altro». Le opinioni di Morris non rappresentano il consenso dentro Israele, molto meno nell’ambito internazionale e ci sono varie divisioni, punti di tensione e contraddizioni tra i gruppi di potere israeliani e transnazionali. C’è anche un crescente movimento mondiale di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (Bds) che fa pressione sui gruppi dominanti per arrivare a un accordo che difenda i loro propri interessi economici. Questo è un momento imprevedibile. Ci siano o no pressioni strutturali in favore del genocidio, in realtà la materializzazione del progetto di genocidio dipenderà dalla congiuntura storica della crisi, dalle condizioni politiche e ideologiche che fanno del genocidio una possibilità e un agente dello Stato con i mezzi e la volontà per attuarlo. Visibilmente a Gaza è già cominciato un genocidio al rallentatore, dove ci sono stati assedi israeliani per mesi ogni pochi anni che mietono migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di profughi e tutta la popolazione privata delle condizioni basilari di vita, con l’eclatante appoggio pubblico israeliano che appoggia queste campagne. Queste condizioni generali necessarie a un progetto di genocidio sono lontane dal materializzarsi, però certamente in questo momento si stanno infiltrando. Tocca alla comunità internazionale lottare a fianco dei palestinesi e degli israeliani decenti per evitare tale risultato.(William Robinson, “La sociologia del razzismo e del genocidio, da Ferguson ai Territori Occupati”, estratto dall’articolo “L’economia politica dell’apartheid israeliano e lo spettro del genocidio”, pubblicato da “Truth-Out” il 19 agosto 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”. Robinson è professore di sociologia, studi globali e latinoamericani nell’università di California a Santa Barbara. Il suo libro più recente è “Il capitalismo globale e la crisi dell’umanità”).La sociologia delle relazioni etniche/razziali identifica 3 tipi distinti di strutture razziste, ossia le relazioni strutturali tra i gruppi dominanti e le minoranze. Una è quella che è stata chiamata delle “minoranze di intermediari”. In questa struttura, il gruppo minoritario ha una relazione di mediazione tra il dominante e i gruppi subordinati. Questa è stata storicamente l’esperienza dei commercianti cinesi d’oltremare in Asia, dei libanesi e siriani nell’Africa occidentale, degli indiani nell’est Africa, dei meticci in Sudafrica e degli ebrei in Europa. Quando le “minoranze di intermediari” perdono la loro funzione mano a mano che cambiano le strutture, possono essere assorbite dal nuovo ordine o possono diventare capri espiatori, o addirittura subire un genocidio. Gli ebrei occuparono storicamente questo ruolo di “minoranza di intermediari” nell’Europa feudale e nel capitalismo in nuce. La struttura dell’Europa feudale assegnò agli ebrei certe funzioni vitali per l’espansione della società feudale europea. Queste includevano la gestione del commercio a lunga distanza e il prestito di denaro.