Archivio del Tag ‘società’
-
Castells: grazie a Internet, la libertà non è più utopia
Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.Lo spiega in un dialogo con Tomás Ibañez, a cui dobbiamo un ottimo “elogio del relativismo” pubblicato da Elèuthera nel 2012 (”Il libero pensiero”). Elèuthera ora ripropone anche questo botta e risposta informale, pubblicato in Spagna nel 2006. Titolo: “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”. Un libretto agile. Più che altro un’introduzione al tema. In cui si sostiene che l’era digitale ha creato le condizioni perché l’anarchismo (lui lo definisce “neoanarchismo”) e il pensiero libertario tornassero d’attualità. «Nella società attuale esiste un’esigenza di libertà» che va al di là dell’ideologia o delle battaglie condotte dai nuovi movimenti “alteromondisti”. E’ una questione empirica e strutturale. Ha a che vedere con la possibilità di costituire facilmente «reti di relazioni tra individualità», quindi non più individui atomizzati che subiscono passivamente il mercato anonimo e la comunicazione di massa.I movimenti si auto-organizzano e a volte riescono a darsi strutture autonome senza gerarchie stabilite, che lavorano in una sorta di assemblea permanente (una delle pratiche utopiche tipiche del pensiero anarchico). D’altra parte oggi è «la stessa struttura produttiva a richiedere, per essere più efficiente di prima, un funzionamento basato su strutture organizzative non gerarchizzate». Sta cambiando anche il modello di sviluppo, nel quale si intravvedono «modalità e relazioni che si allontanano dalle posizioni propriamente capitaliste e che si avvicinano al libertarismo». Nei tempi in cui viviamo, lo Stato, contro cui ha tradizionalmente lottato l’anarchismo, è diventato uno “strumento di dominio secondario”. La battaglia si è spostata sul piano della produzione e diffusione delle idee.E’ vero che le tecnologie informatiche non sono in grado di «promuovere, di per sé, un cambiamento sociale positivo», anche perché consentono alle autorità di avere un controllo senza precedenti sugli individui e le reti che li uniscono. Ma è pur vero che si tratta di “tecnologie di libertà” malleabili, flessibili: sono insomma un’occasione senza precedenti. Attraverso Internet ti possono sorvegliare, certo, ma potevano farlo anche prima, la differenza è che ora, grazie a Internet (a un suo utilizzo consapevole) «anche tu li puoi sorvegliare». Molto utile la postfazione di Andrea Staid, che mette i puntini sulle “i” e aggiorna il dialogo ai tempi (recentissimi) delle cosiddette “wikirivolte”, i nuovi movimenti insurrezionali che hanno spazzato via dittature longeve «nel più completo stupore delle democrazie occidentali».Non c’è rivoluzione che non abbia sfruttato il medium dell’epoca (una citazione di Foucault ci ricorda la funzione rivoluzionaria dei discorsi di Khomeini diffusi sotto forma di audiocassette) e quindi anche i social media possono essere uno strumento importante. Ma non potranno mai sostituire «la condivisione fisica delle emozioni» che avviene nelle strade e nelle piazze. Staid avverte: «Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che sarà la rete a salvarci… Non basterà Internet per risolvere il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali, sulla terra. La mutazione culturale libertaria deve essere in grado di penetrare nelle reti di rapporti reali fra esseri umani». Insomma, la cara vecchia battaglia per “decostruire il dominio”». Una cosa è certa: il pensiero libertario (l’anarchismo) non può che essere pluralista, “in divenire” e anti-dogmatico, si deve nutrire di una “concezione relativista critica”, quindi deve essere in grado di adattarsi ai contesti e alle circostanze, soprattutto oggi, in un’epoca in cui, come dice Castells, «il nodo problematico che caratterizza la società rimanda all’idea di libertà», che non può essere solo quella dell’individuo ma la «libertà di tutti».(Fabrizio Tassi, “Tecnologie di libertà”, da “Micromega” dell’11 marzo 2014. Il libro: Manuel Castells e Tomàs Ibañez, “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”, Eléuthera, 67 pagine, 7 euro).Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.
-
Goldman Sachs, il super-potere che fa il lavoro di Dio
Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.Questo ha inevitabilmente incrementato la malnutrizione e scatenato rivolte popolari in molti paesi in via di sviluppo. Nel 2008, la banca di Wall Street ha contribuito al crollo dell’economia mondiale attraverso la diffusione dei mutui tossici sub-prime e le scommesse contro le “collateralized debt obligations”. È importante ricordare inoltre che la Goldman Sachs è stata riconosciuta colpevole da un punto di vista penale per le attività di “insider trading” nello stato della California. Nel 2009, la banca americana ha contribuito a creare alcune delle condizioni della crisi nell’Eurozona, aiutando ad esempio il governo della Grecia a “cucinare” e mascherare i dati sul debito pubblico nazionale tra gli anni 1998 e 2009. La metafora “Goldman Sachs, macchina delle crisi” sembra chiarita ora, ma perché parlare anche di “governo del mondo”?Dall’inizio degli anni ‘80, dopo l’avvento della finanziarizzazione neoliberista, la Goldman Sachs ha aumentato in modo esponenziale il suo potere politico. Le ingenti quantità di ricchezza accumulate attraverso l’uso e l’abuso dei derivati sono state in parte investite in finanziamenti di campagne elettorali e attività di lobby. La Goldman Sachs è poi riuscita, grazie al sistema delle “porte girevoli”, a piazzare alcuni dei suoi uomini migliori in posizioni politiche di rilievo nei governi degli Stati Uniti e in Europa. Tra gli ex banchieri della Goldman Sachs, che hanno ricoperto cariche politiche importanti negli Stati Uniti, ricordiamo Henry Paulson, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Bush figlio, Robert Rubin, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Clinton, Timothy Geithner ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Obama, Mark Patterson, ex capo del personale al segretario al Tesoro e Stephen Friedman, ex presidente della Federal Reserve Bank di New York.Tra i leader di Goldman Sachs che hanno occupato importanti cariche di governo in Europa, ricordiamo invece Mario Draghi, attuale capo della Banca Centrale Europea (Bce), Mario Monti, ex primo ministro d’Italia, Otmar Issing, ex membro del consiglio della Bundesbank e della Bce, Karelvan Miert, ex commissario alla concorrenza dell’Unione Europea, Antonio Borges, ex capo del Fondo Monetario internazionale (Fmi), Lucas Papademos, ex primo ministro della Grecia e Peter Sutherland, ex procuratore generale d’Irlanda. Non male, vero? L’assunzione di alte cariche istituzionali da parte di ex dirigenti della Goldman Sachs non è tuttavia evidenza sufficiente per dire che “governa il mondo.”C’è dell’altro, però. Oltre a contribuire a generare crisi mondiali, aiutare politici a vincere le elezioni, fare lobby per ottenere favori fiscali e piazzare i suoi uomini negli uffici governativi che dovrebbero disciplinare le attività speculative, la Goldman Sachs si permette pure il lusso di suggerire ricette economiche ai governi. Provate a pensare alle riforme adottate negli Stati Uniti e in Europa negli anni successivi il collasso della Lehman Brothers. Prima c’è stato il salvataggio delle banche “troppo-grandi-per-fallire” con circa 12 trilioni di dollari di denaro pubblico (il Prodotto Interno Lordo del mondo è di circa 70 trilioni di dollari). Poi, sono arrivate le riforme finanziarie all’acqua di rose che hanno evitato di regolare i circa 600 trilioni di dollari di derivati che hanno messo in ginocchio l’economia. Infine, sono state adottate le famose politiche di austerità. Ma chi ha guadagnato da queste riforme?A pensar male si fa presto, ma sentite cos’ha scritto John Williamson, ideologo delle politiche di deregolamentazione finanziaria neoliberista del Consenso di Washington: «I tempi peggiori (come le crisi economiche) danno luogo alle migliori opportunità per chi comprende la necessità di fondamentali riforme economiche». Poi ha aggiunto: «Ci si dovrà chiedere se, concettualmente, potrebbe avere un senso pensare di provocare una crisi deliberatamente… in modo da spaventare tutti ad accettare questi cambiamenti». Qualche tempo fa, un giornalista ha chiesto a Lloyd Blankfein, amministratore delegato della Goldman Sachs, se fosse giusto imporre dei limiti ai compensi dei suoi top manager. Il banchiere ha risposto che «mettere un limite alla loro ambizione sarebbe sbagliato perché i banchieri adempiono un compito fondamentale nella società: fanno il lavoro di Dio».(Roberto De Vogli, “Goldman Sachs, la macchina delle crisi che fa il lavoro di Dio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 14 marzo 2014).Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.
-
Barnard: hanno vinto loro, non osiamo più ribellarci
Alcuni anni fa ebbi uno scontro con Noam Chomsky, fu un lungo scambio che Noam stesso alimentò, piuttosto inusuale per lui, che è uno degli intellettuali più impegnati al mondo, e che ultimamente s’impegna ancor di più freneticamente per motivi che conosco, ma che non posso divulgare. La sostanza dello scontro erano le chance di riuscita di qualsiasi movimento di protesta, di lotta, di impegno oggi, a fronte dell’immane potere e diffusione del Vero Potere. La sua tesi era questa: la Storia ha sempre portato mutamenti per il meglio, oggi stiamo incommensurabilmente meglio di secoli fa, e non vedo perché questo processo non debba continuare. Basta non demordere. E, in ogni caso, io mi attengo alla cosiddetta “scommessa di Pascal”, secondo cui far nulla significa perdere di certo, tanto vale fare qualcosa. La mia tesi era questa: se un processo (di miglioramento) è sempre esistito, non significa che continuerà ad esistere.
-
Democrazia: perché è essenziale mantenere il Senato
I compiti del Parlamento possono essere svolti bene e conformemente ai principi costituzionali solo se il Parlamento si compone di due camere: la Camera della governabilità e il Senato delle garanzie. In una repubblica parlamentare, il Parlamento ha due generi di funzioni: assicurare governi stabili e fare le leggi in tempi brevi; rappresentare in modo eguale tutti i cittadini, eleggere gli organi di garanzia (capo dello Stato, giudici costituzionali, autorità di controllo), aggiornare la Costituzione, etc. Questi due generi di funzioni non possono essere svolti da un’unica camera, perché il primo tipo di funzioni esige una camera con maggioranza certa e stabile, che è ottenibile solamente limitando la rappresentatività mediante soglie di sbarramento e premi di maggioranza, cioè limitando la sua capacità di rappresentare il corpo elettorale in modo corrispondente alla sua realtà, capacità che invece è l’essenza e il presupposto del secondo genere di funzioni, cioè della legittimazione democratica.Mediante due camere, è possibile, però, soddisfare entrambe le suddette esigenze, conciliare cioè governance e rappresentatività: basta riformare una camera in modo che soddisfi la prima esigenza e svolga bene il primo insieme di funzioni, e riformare l’altra in modo che soddisfi la seconda esigenza e svolga bene le funzioni corrispondenti a questa esigenza. Esattamente come noi conformiamo e usiamo il cucchiaio in modo diverso dalla forchetta, perché abbiamo bisogno di due funzioni diverse: il primo serve per i cibi liquidi e semiliquidi, la seconda per quelli solidi. Noi usiamo quindi due posate diverse, ciascuna adatta al suo scopo, e non cerchiamo di fare un’unica posata che combini i denti della forchetta col cavo del cucchiaio: sarebbe illogico, perché la monoposata farebbe male sia l’una cosa che l’altra.Propongo quindi di mantenere le due camere attuali, riformandole come segue (in linea di principio), e inserendo la riforma nella Costituzione. La Camera della governabilità e della legislazione: viene eletta ogni 4 anni con sistema maggioritario e premio di maggioranza assegnato mediante ballottaggio. Ha la funzione di votare la fiducia o sfiducia al governo, di votare le leggi ordinarie, comprese le leggi-delega e le conversione dei decreti-legge. Può essere sciolta dal Capo dello Stato. Il Senato della rappresentanza e delle garanzie: viene eletto ogni 5 anni con sistema proporzionale puro, su base regionale. Non può essere sciolto. Ha le funzioni di eleggere e mettere in stato di accusa e giudicare il capo dello Stato, di istituire le commissioni di inchiesta; di eleggere i magistrati della Consulta, i membri del Consiglio Superiore della Magistratura, i dirigenti delle autorità di sorveglianza sulla televisione di Stato, sulla Borsa e le banche, etc.; di fare le leggi costituzionali e di modifica della Costituzione, nonché le leggi in materia di cittadinanza, di elezioni popolari, e interessanti la sovranità nazionale; di decidere sulle questioni circa l’eleggibilità e la decadenza dei membri di ambo le camere.L’Italicum è invece illogico e incostituzionale, una vera porcheria dal punto di vista tecnico-giuridico, perché – a tacer d’altro: a)lascia senza rappresentanza milioni di elettori, nullificando i loro voti (mi riferisco a quelli che votano per partiti che non supereranno la soglia); b) nel caso di coalizioni in cui alcuni partiti minori non superino la soglia per eleggere loro candidati, trasferisce al partito forte della coalizione i voti dati a quei candidati; c) in tal modo non solo vi sono, oltre a voti nullificati, pure voti che pesano più di altri (anche per effetto del premio di maggioranza) e voti che vanno a candidati di altri partiti e a cui non erano destinati, senza un criterio di logica e prevedibilità. L’Italicum fa decisamente pensare a una volontà “europeista” e mercatista di sopprimere gli ultimi ambiti di partecipazione della società al proprio governo.(Marco Della Luna, “Bisogna mantenere il Senato”, dal sito di Della Luna del 7 marzo 2014).I compiti del Parlamento possono essere svolti bene e conformemente ai principi costituzionali solo se il Parlamento si compone di due camere: la Camera della governabilità e il Senato delle garanzie. In una repubblica parlamentare, il Parlamento ha due generi di funzioni: assicurare governi stabili e fare le leggi in tempi brevi; rappresentare in modo eguale tutti i cittadini, eleggere gli organi di garanzia (capo dello Stato, giudici costituzionali, autorità di controllo), aggiornare la Costituzione, etc. Questi due generi di funzioni non possono essere svolti da un’unica camera, perché il primo tipo di funzioni esige una camera con maggioranza certa e stabile, che è ottenibile solamente limitando la rappresentatività mediante soglie di sbarramento e premi di maggioranza, cioè limitando la sua capacità di rappresentare il corpo elettorale in modo corrispondente alla sua realtà, capacità che invece è l’essenza e il presupposto del secondo genere di funzioni, cioè della legittimazione democratica. -
Revelli: temo Renzi, pericoloso funambolo dilettante
L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del Governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.Tutto, come in una grande matrioska dal volto di roditore. Cosicché davvero, se fallisce, cade tutto: finisce il Pd, si scioglie il Parlamento, si commissaria il Paese, si accelera la dissoluzione sociale… Motivo per cui, appunto, non resta che “sperare”. Sperare a prescindere. Contro l’evidenza, che ci dice che così non può farcela. Renzi non ha né le competenze, né l’autorevolezza, né la forza politica (ha seminato troppi cadaveri nella sua marcia forzata), per fare questo “miracolo”. Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione, ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale socialista intorno, oltre che il partito nel pugno. Di Berlusconi ha lo stile da istrione e la ciarlataneria che piace a molti italiani, ma non il capitale monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche compartecipazione mafiosa) assicuravano. Punta su un’unica risorsa: il mito della velocità.Mito marinettiano (un po’ frusto per la verità, un secolo più tardi). E problematico per uno che vanta tra i principali supporter quello che dello slow ha fatto un brand, sia pur rispetto al food… Come nel caso della nuova tecnologia usata in America per produrre idrocarburi frantumando gli strati scistosi, anche Matteo Renzi pratica il fracking, generando energia dalla frantumazione di tutto ciò che gli sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin qui, e dalla macchina dello Stato. Ma come gli ambientalisti ci spiegano che il fracking inquina le falde, così il renzismo rischia di inquinare il nostro spazio pubblico. Accelerando non la soluzione, ma la crisi stessa. Rischiando di lasciarci – dopo aver fagocitato tutto – “nudi alla meta”. Per questo è così necessario, e così pressante, costruire uscite di sicurezza. Piani di emergenza (e di evacuazione). Alternative politiche in cui i naufraghi possano approdare. Noi, che siamo prudenti e predichiamo il “principio di responsabilità!” di cui parla Hans Jonas, lavoriamo a questo.(Marco Revelli, “Il renzismo come esorcismo”, dal sito “Lista Tsipras” del 24 febbraio 2014).L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.
-
Una testa, un voto: solo nel proporzionale c’è democrazia
Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.Nell’unica occasione in cui nel Regno d’Italia si votò con il proporzionale, imposto nel 1919 dalla situazione postbellica, dall’ingresso forzato delle masse nella vita dello Stato e voluto anche dall’unico presidente del consiglio che si fosse autodefinito “democratico”, Francesco Saverio Nitti, il mondo rivelato da quelle elezioni sovvertiva tutte le raffigurazioni ufficiali e usuali. Era un’Italia in cui socialisti e cattolici erano la maggioranza del paese, e i liberali una minoranza. Contro quel mondo venne mossa una guerra dura e spietata, sanguinosa, e la conquista del proporzionale venne presto schiacciata. Ma va ricordato che nelle elezioni del 1924 con la fascistissima legge Acerbo entrarono comunque in Parlamento il Psu con 5,90% e 24 deputati, il Psi, 5,03%, 22 deputati e il Pcd’I, col 3,74% e 19 deputati. Ai reazionari seri importava prendere a tutti i costi il premio di maggioranza (con le buone e soprattutto con le cattive) ma non c’erano le soglie di sbarramento all’8% o al 12% del bipolarismo straccione del nostro tempo.Dal 1945, con la conquista della democrazia e del suffragio realmente universale (maschile e femminile) il proporzionale divenne il naturale metodo di formazione del Parlamento. Non si trova indicato nella Costituzione perché implicito nella Costituzione stessa e nei suoi principi ispiratori. L’unico tentativo di stravolgere la democrazia parlamentare fu l’approvazione nel 1952 della “legge truffa”, definita tale per tre motivi: 1) non voleva assicurare governabilità, ma spadroneggiamento, perché andava a chi aveva già raggiunto la maggioranza assoluta; 2) era possibile da conseguire solo per il blocco di centro, perché le opposizioni socialcomuniste e fasciste non avrebbero mai potuto coalizzarsi; 3) e soprattutto dava un premio spropositato che consentiva alla maggioranza di cambiare la Costituzione a suo piacimento. Fallito di misura quel tentativo, sulla civiltà del proporzionale si è retta la Repubblica italiana nell’epoca delle sue maggiori conquiste sociali, civili, culturali.Preparata da una lunghissima campagna rivolta all’opinione pubblica e da una vera e propria demonizzazione della democrazia parlamentare, nel 1993 la forma della Repubblica è stata cambiata surrettiziamente attraverso un referendum demagogico che minava alla base la struttura della nostra democrazia. Da allora i voti dei cittadini non valgono tutti allo stesso modo. Il maggioritario ha scardinato il principio della rivoluzione francese “una testa, un voto”. Il popolo è stato convinto di eleggere direttamente un governo e un premier, nella “Costituzione reale” che si è sovrapposta alla Costituzione scritta. E’ una convinzione profondamente radicata, dopo vent’anni di maggioritario, di ideologia o addirittura di “religione” ad esso espirate. Un popolo di sudditi pensa che la democrazia consista nell’investire di un potere quasi assoluto un caudillo.Tutti hanno potuto constatare il crollo verticale di credibilità e di rappresentanza che la politica ha vissuto negli ultimi vent’anni. Eppure persistono leggende radicatissime che demonizzano la “prima Repubblica”. C’erano troppi partiti, si dice. Erano mediamente sette: nulla a che fare con gli oltre quaranta raggruppamenti censiti all’epoca dei governi di Silvio Berlusconi. C’erano piccoli partiti, si dice. C’era qualche piccolo partito, dignitoso e pieno di storia, come il partito repubblicano di La Malfa: nulla a che fare con gli “amici di Mastella”, i “responsabili” di Scilipoti e via dicendo. Cambiavano troppi governi, si dice, vero, ma si dimentica la sostanziale continuità di un sistema politico che ha avuto pochissime svolte nell’arco della sua esistenza. Se si fosse voluto veramente ovviare a questo problema si poteva inserire in Costituzione il principio della sfiducia costruttiva, che garantisce la stabilità della più solida democrazia europea, quella tedesca, che era – con molte differenze – anche la più vicina al nostro ordinamento.E a proposito di sistema tedesco, va ricordato come, nel suo totale analfabetismo istituzionale, Matteo Renzi abbia dichiarato più volte che è inconcepibile che la Merkel pur avendo vinto le elezioni sia stata costretta a fare “inciuci” con le opposizioni. Ma si chiama democrazia parlamentare, non è la “Ruota della Fortuna”, per governare devi avere una maggioranza in Parlamento, e anche prima delle ultime elezioni la Merkel non aveva la maggioranza assoluta ma governava assieme ai liberali, ora scomparsi dal Parlamento. E non è vero che “in tutto il mondo” la minoranza che prende un voto in più delle altre si prende tutto il cucuzzaro, come ritiene il politico di Rignano sull’Arno: questa assurdità esisteva solo nel nostro sistema elettorale che la Corte ha dichiarato incostituzionale.Oggi dalla fossa biologica del maggioritario si levano voci preoccupate di opinionisti che ammoniscono a non tornare nella “palude del proporzionale”. L’ideologia del maggioritario, con l’invocazione di maggiore governabilità a scapito della rappresentanza, ricorda ormai un alcolizzato all’ultimo stadio che invoca sempre più alcool di pessima qualità invece di provare a disintossicarsi. Si usa dire, anche a sinistra, che il proporzionale renderebbe obbligatorie le larghe intese. Non è affatto vero: perché un sistema elettorale comporta scelte diverse da parte degli elettori, come si vide nell’Italia del 1919 (e come, in negativo, abbiamo visto nell’Italia del 1994), e un voto libero da assilli e ricatti di voto “utile” o coartato può finalmente rispecchiare il paese reale e dargli rappresentanza. Certo questo sistema richiederebbe comunque intese come è nella normalità della democrazia parlamentare, e richiederebbe capacità di far politica, di trovare mediazioni, di dare rappresentanza alla complessità della società.Temo che qui si aprirebbe una battaglia molto difficile, soprattutto a sinistra, dove la droga maggioritaria ha fatto perdere completamente la cognizione della realtà e dei rapporti di forza. Non riguarda solo il Pd, nato con una “vocazione maggioritaria” (che in genere è servita a creare maggioranze altrui), ma anche i cespuglietti subalterni che non sarebbero in grado di superare il quorum ma conducono vita parassitaria in simbiosi con l’organismo del partito maggiore. Basare tutte le obiezioni alla legge elettorale sul tema delle preferenze (una particolarità italiana che non esiste in quasi nessun paese europeo) rivela una debole ipocrisia, laddove sono in gioco temi molto più seri e gravi: rappresentanza della società, pluralismo politico, la stessa sopravvivenza di una democrazia parlamentare e costituzionale. Ma qui viene a galla l’equivoco che ha accompagnato tutte le mobilitazioni dell’autoproclamata “società civile” contro il Porcellum, che non si sono mosse contro lo stravolgimento della rappresentanza e il maggioritario in sé, ma in nome del ritorno al collegio uninominale dei notabili e degli accordi preventivi tra piccoli e grandi partiti. Ed è incredibile che oggi in Italia la battaglia di civiltà del proporzionale sia affidata al solo Beppe Grillo.Bisogna che qualcuno cominci a dire che non accetterà la legittimità di governi di minoranza, che i premi di maggioranza sono un furto di rappresentanza, che una legge elettorale che trasforma una minoranza in maggioranza è comunque una truffa, qualunque nomignolo latino si voglia dare a questo sopruso. I due partiti che si mettono d’accordo per spartirsi il Parlamento ed escludere milioni di cittadini dalla rappresentanza mettono assieme soltanto il 45% dei voti espressi: non possono pretendere di ritagliarsi un sistema elettorale su misura che escluda il resto del paese. Andiamo verso tempi difficilissimi, forse drammatici, per tutta l’Europa e anche e soprattutto per il nostro paese.Abbiamo bisogno di istituzioni che rappresentino tutti i cittadini, che non escludano nessuno, che riattivino un tessuto di solidarietà che è stato lacerato negli ultimi decenni. Abbiamo bisogno di veri partiti e non di comitati elettorali o formazioni personali, abbiamo bisogno di vera politica dopo vent’anni di ubriacature dell’antipolitica. Una legge elettorale l’abbiamo già, ed è quella disegnata dalla Corte Costituzionale. Chiamiamola Perfectum se è obbligatorio un nome latino. Si sciolgano le Camere e si vada a votare con quella: avremo un Parlamento che rispecchia realmente il paese e che sarà l’unico legittimato a cambiare la Costituzione, nelle forme previste dalla Costituzione stessa.(Gianpasquale Santomassimo, “Elogio del proporzionale”, da “Il Manifesto” del 29 gennaio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.
-
De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
-
«Cari terroristi, sparate direttamente a noi No-Tav»
Cari (si fa per dire) terroristi, chi vorreste prendere per i fondelli? Ce l’avete per caso coi No-Tav, cioè i valsusini che hanno raccolto quasi 300.000 euro in sole tre settimane per sostenere la loro battaglia legale contro l’ecomostro chiamato Torino-Lione? Pensate davvero che qualcuno possa credere che chi si rivolge al popolo italiano per difendersi in tribunale, alla luce del sole, poi vada in giro di notte a piazzare bombe o magari a progettare attentati e omicidi? E’ questo il senso dell’appello “Condannateci tutti”, firmato da alcuni esponenti No-Tav all’indomani della strana rivendicazione con la quale la fantomatica sigla “Noa – nuclei operativi armati” pretenderebbe di parlare a nome dei No-Tav, addirittura promettendo di eliminare fisicamente i responsabili della repressione contro la protesta della valle di Susa. Ridicolo il solo pensare che il movimento No-Tav possa “convertirsi alla lotta armata”, proprio mentre mobilita l’opinione pubblica italiana per avere sostegno legale.I firmatari si rivolgono direttamente agli autori della lettera recapitata all’Ansa: «“Misteriosi” Noa, abbiamo appena letto il vostro comunicato, uscito con grande puntualità a tre giorni esatti dalla mobilitazione del 22 febbraio che il movimento No-Tav ha sollecitato in tutta Italia per ribadire la più ferma opposizione allo spreco di denaro pubblico secondo la logica delle grandi opere inutili». Intanto, «non capiamo come mai il movimento dovrebbe convertirsi alla lotta armata se già così, per il solo sospetto di aver causato l’incendio di un compressore, abbiamo quattro amici in carcere da mesi da mesi con l’accusa di terrorismo. Poi non capiamo come qualcuno possa ancora credere alla favola dei No-Tav terroristi quando abbiamo appena dimostrato, con una colossale raccolta fondi spontanea e solidale, a oggi di oltre 285mila € (raccolti in tempi di crisi durissima e in sole tre settimane), di voler ottemperare legalmente agli obblighi derivanti dalla condanna (che pure riteniamo profondamente ingiusta) inflitta a tre di noi nella causa intentataci da Ltf. A chi vi state rivolgendo, dunque?».«Il movimento No-Tav non ha orecchie per ascoltare questo genere di provocazioni», scrivono Eleonora Ponte, Claudio Giorno, Roberta Vair, Alberto Fiorentini, Paola Martignetti, Roberto Perdoncin, Chiara Sasso, Lisa Ariemma, Valerio Colombaroli, Valeria Longo, Cristina Bruno, Daniele Forte, Claudio Piacenza, Loredana Bellone e Mario Solara. «Il movimento è da sempre non violento e ha dimostrato di essere talmente forte da non aver bisogno di armi: abbiamo già dalla nostra la forza della ragione. E siamo tanti, sempre di più». I presunti “terroristi” che si firmano “Noa”? Sono proprio «fuori strada». Oppure, è una strada «che è stata loro indicata, come al solito», da chi vuole criminalizzare i No-Tav: «Il vostro vero obiettivo siamo noi. Ma il giochetto non funziona più. E’ vecchio, ormai».E ancora: «Cercate dei facili obiettivi? E perchè allora mettere di mezzo persone importanti che hanno anche la scorta? E che poi magari si spaventano davvero? Dovreste cominciare col colpire noi, siamo No-Tav e quindi obiettivi facilissimi. Niente scorta, qualcuno di noi non ha nemmeno più l’auto». «Non potremo darvi la soddisfazione di spaventarci – concludono i firmatari – perchè molti No-Tav, come dimostrano da 25 anni, non hanno paura di niente. Trovano solo che la stupidità dei più forti e arroganti sia estremamente fastidiosa, oltreché inutile. Noi le nostre energie le stiamo spendendo tutte per un’altra idea di società, economia, politica. Restiamo attesa di un vostro riscontro (condanna)».Cari (si fa per dire) terroristi, chi vorreste prendere per i fondelli? Ce l’avete per caso coi No-Tav, cioè i valsusini che hanno raccolto quasi 300.000 euro in sole tre settimane per sostenere la loro battaglia legale contro l’ecomostro chiamato Torino-Lione? Pensate davvero che qualcuno possa credere che chi si rivolge al popolo italiano per difendersi in tribunale, alla luce del sole, poi vada in giro di notte a piazzare bombe o magari a progettare attentati e omicidi? E’ questo il senso dell’appello “Condannateci tutti”, firmato da alcuni esponenti No-Tav all’indomani della strana rivendicazione con la quale la fantomatica sigla “Noa – nuclei operativi armati” pretenderebbe di parlare a nome dei No-Tav, addirittura promettendo di eliminare fisicamente i responsabili della repressione contro la protesta della valle di Susa. Ridicolo il solo pensare che il movimento No-Tav possa sposare il terrorismo, proprio mentre mobilita l’opinione pubblica italiana per avere sostegno legale.
-
2016, fine della democrazia: il privilegio sarà legge
Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.Se sarà approvato il Trattato Transatlatico, avverte Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, niente fermerà più l’appetito privatizzatore dei “padroni dell’universo”, specie nei settori di maggior interesse strategico: brevetti medici e fonti fossili di energia. Un sogno, a quel punto, concepire politiche di lotta all’inquinamento e per la protezione del clima terrestre. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata», che giù oggi ricatta molti Stati, dal Canada alla Germania. Il grande business lavora per eliminare le leggi statali per far posto a quella degli affari. Attualmente, negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali. Ognuna di esse, dice Wallach, «può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”». Peggio ancora per gli europei: sono addirittura 14.400 le compagnie statunitensi dislocate nell’Unione Europea, con una rete di 50.800 filiali. «In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici».L’aspetto più inquietante del “cantiere” del Trattato, un dispositivo destinato – se approvato – a sconvolgere la vita democratica di tutto l’Occidente – è la sua massima segretezza: la stampa è stata espressamente invitata a starsene alla larga. Si tratta di un ordinamento decisamente eversivo: il grande business si prepara ad emanare i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e politici compiacenti del Congresso e della Commissione Europea, ma ormai alla luce del sole, trasformando addirittura in legge il privilegio di una minoranza, contro la stragrande maggioranza della popolazione. L’autonomia istituzionale dello Stato? Completamente aggirata, disabilitata, in ogni settore: dalla protezione dell’ambiente a quello sanitario, dalle pensioni alla finanza, dai contratti di lavoro alla gestione dei beni comuni primari, come l’acqua potabile. Si avvicina la “grande privatizzazione definitiva” del mondo occidentale.Sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali. E ancora: libertà del web, protezione della privacy, cultura e diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato», scrive Lori Wallach. Rispetto al Trattato Transatlantico, le condizioni-capestro oggi imposte dal Wto sono considerate “soft”. A decidere su tutto saranno tribunali speciali, formati da avvocati d’affari che si baseranno sulle “leggi” della Banca Mondiale. Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro». Neppure la fantasia di Orwell era arrivata a tanto. Eppure, è esattamente l’incubo che ci sta aspettando, se nessuno lo fermerà. Ed è inutile farsi illusioni: per ora, del “mostro” non parla nessuno. Non una parola, ovviamente, dalle comparse della politica, e neppure da giornali e televisioni. La grande minaccia si sta avvicinando indisturbata, all’insaputa di tutti.Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.
-
Piccola antologia ignobile: così parlarono i padri dell’Ue
«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Così parlava Romano Prodi nel lontano 2001, precisamente il 4 dicembre, intervistato dal “Financial Times”. Dunque “sapeva”, Prodi, che l’euro avrebbe generato “una crisi”. La memorabile sortita dell’ex premier italiano, ex consulente di Goldman Sachs e ovviamente ex presidente della Commissione Europea, fa parte del florilegio presentato da “Megachip” alla voce: piccola antologia di “democrazia europea”. «Dunque per fare “passi avanti” l’Europa ha bisogno di devastare la società, avvilire la cultura, generare disoccupazione di massa, far suicidare imprenditori e lavoratori, gettare nello sconforto e nella disperazione milioni di giovani e produrre miseria».Sul metodo generalmente adottato dalla Troika – il terrorismo economico – è illuminante l’ammissione di un altro supremo eurocrate, il francese Jean-Claude Juncker, già presidente dell’Eurogruppo: «Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno». Non è fantascienza, non è letteratura horror. Sono parole – reali – dei grandi decisori europei, quelli che decretano le misure da cui deriva il supplizio socio-economico al quale siamo sottoposti. In altre parole, stando alle rivelazioni di Juncker, crimini contro l’umanità. I leader europei, dice l’italiano Giuliano Amato il 12 luglio 2007 a “Eu Observer”, hanno deciso che il Trattato Lisbona «avrebbe dovuto essere illeggibile». Questo perché, «se fosse stato comprensibile, ci sarebbero state ragioni per sottoporlo a referendum». Quindi gli eurocrati «si sentono più al sicuro con la cosa illeggibile», testualmente. Obiettivo, appunto, «evitare pericolosi referendum».Lo sa bene l’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, che al “Telegraph” del 9 aprile 2013 dichiara: «Sapevo che non avrei mai potuto vincere un referendum in Germania. Avremmo perso il referendum sull’introduzione dell’euro. Questo è abbastanza chiaro. Avrei perso sette a tre. Nel caso dell’euro sono stato come un dittatore». Dopotutto, «l’Europa non nasce da un movimento democratico», come ammette già nel 1999 il super-tecnocrate ed ex ministro prodiano Tommaso Padoa Schioppa. L’attuale Unione Europea ha un’origine chiaramente eversiva: «E’ nata seguendo un metodo che potremmo definire con il termine di dispotismo illuminato». La costruzione europea? «E’ una rivoluzione», dice Padoa Schioppa a “Commentaire”, «anche se i rivoluzionari non sono dei cospiratori pallidi e magri, ma degli impiegati, dei funzionari, dei banchieri e dei professori», che al «polo del consenso popolare» preferiscono ovviamente «quello della leadership».Per un altro padre fondatore dell’Ue, il monarchico Jacques Attali, trasformatosi in “socialista” alla corte di François Mitterrad, l’euro non fu certo creato per la gioia della “plebaglia europea”. Il 24 gennaio 2011 rivela: «Abbiamo minuziosamente “dimenticato” di includere l’articolo per uscire da Maastricht». Contratto unico al mondo: senza clausola di rescissione. Attali ha avuto «il privilegio» di far parte del gruppo ristretto incaricato di stendere le prime bozze. «Ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne sia impossibile», ammette. «Abbiamo attentamente “dimenticato” di scrivere l’articolo che permetta di uscirne». Niente da aggiungere? «Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti».Chiude la rassegna dell’orrore il professor Mario Monti, il 22 febbraio 2001 all’università Luiss, al convegno “finanza: comportamenti, regole istituzioni”. «Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, crisi gravi, per fare passi avanti», dice il futuro capo del “governo tecnico” incaricato da Napolitano. «I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario». In quattro parole, Monti espone la “filosofia del ricatto” che è la prassi sostanziale dei gangster al governo di Bruxelles: si provvede a terremotare un paese, per poi (Prodi docet) imporre la “soluzione” già pronta nel cassetto. «È chiaro che il potere politico – ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale – possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c’è una crisi in atto visibile, conclamata». La benedetta crisi, progettata a tavolino. Minacce, ricatti, menzogne, truffe. Un campionario inesauribile.«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Così parlava Romano Prodi nel lontano 2001, precisamente il 4 dicembre, intervistato dal “Financial Times”. Dunque “sapeva”, Prodi, che l’euro avrebbe generato “una crisi”. La memorabile sortita dell’ex premier italiano, ex consulente di Goldman Sachs e ovviamente ex presidente della Commissione Europea, fa parte del florilegio presentato da “Megachip” alla voce: piccola antologia di “democrazia europea”. «Dunque per fare “passi avanti” l’Europa ha bisogno di devastare la società, avvilire la cultura, generare disoccupazione di massa, far suicidare imprenditori e lavoratori, gettare nello sconforto e nella disperazione milioni di giovani e produrre miseria».
-
Via il cash, così la finanza ci controllerà al centesimo
Nuove tecnologie minacciano di concentrare un potere assoluto nelle mani di pochi privilegiati, «gli stessi individui e le stesse organizzazioni che hanno già ripetutamente tradito la fiducia di chinque abbia voluto credere in loro». La Hsbc, la terza banca per importanza nel mondo, è stata scelta dai trafficanti di droga e di armi e dai gruppi terroristici di tutto il mondo per riciclare denaro. Di recente, la Hsbc è finita sui giornali per aver limitato gli importi che i clienti possono prelevare dai loro conti correnti (ed è stata costretta a fare retromarcia) mentre, informa la Bbc, la banca non ha «creato gli stessi problemi nell’onorare trasferimenti elettronici: da questo si può ragionevolmente supporre che il problema è il denaro contante in mano al cliente, non la disponibilità di denaro». Questo, scrive “Raging Bullshit”, è solo «l’ultimo episodio di quel grande assalto che la grande finanza e i governi dei paesi più potenti stanno portando contro tutte le transazioni in contanti».Per anni, aggiunge il blog in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, i governi hanno cercato tagliare le operazioni in contanti. Negli Usa, qualsiasi azienda o persona che incassi 10.000 dollari “cash” per una vendita, deve presentare un “Form 8300”. Le banche inoltre devono segnalare tutte le operazioni di cassa che superino questo limite. Stesse procedure valgono anche in Europa, dove le parti sono tenute a spiegare da dove proviene il denaro. Nel 2013, il governo francese ha reso queste norme ancora più restrittive, con nuovi controlli sulle transazioni in contanti abbassando il limite 3.000 a soli 1.000 euro, come del resto anche in Italia. Le ragioni di queste misure sono evidenti: «In un momento in cui la maggior parte dei paesi sta lottando per tenere a freno la spesa pubblica – per non parlare degli interessi sempre più insostenibili sul debito pubblico – i governi si stanno freneticamente guardando intorno per cercare qualsiasi cosa di valore che si possa rubare o depredare. E quando si tratta di avidità i governi, soprattutto durante un momento di acuta crisi fiscale, come quello attuale, non conoscono limiti».Come dice Patrick Henningsen, del Center for Research on Globalization, «il sogno di sempre di tutte le élite di tecnocrati e collettivisti, sarebbe riuscire ad eliminare dall’economia sia il “denaro in contanti semi-irregolare” che il mercato nero, per massimizzare e controllare completamente i mercati. Se riuscissero a farci arrivare a una società senza contanti, sarebbero molto vicini ad aver raggiunto il completo controllo sulla vita di ogni singolo individuo». Protesta un cliente londinese della Hsbc: «Ho un conto in questa banca da 28 anni, mi conoscono tutti. Non dovrebbero chiedermi spiegazioni sul perché io voglia ritirare il mio denaro. Non è denaro loro, è denaro mio». Per tanti versi, aggiunge “Raging Bullshit”, il denaro in contanti offre ai cittadini l’ultimo rifugio rimasto alla propria privacy e serve a mantenere l’anonimato in un mercato sempre più invischiato in una rete di controllo mondiale. «Se si comincia con i collegamenti incrociati globali su tutto quello che si muove nel mondo finanziario, i governi saranno in grado di tener traccia di ogni centesimo che si guadagna, che si spende e che si risparmia».Gli stessi governi che hanno varato misure per limitare l’uso del contante sono gli stessi che spingono per far utilizzare forme alternative di denaro, come il “mobile money” (denaro digitale) che può essere completamente tracciato. Finora, la crescita della moneta che “viaggia per telefono” è avvenuta soprattutto nell’Africa sub-sahariana, dove alcuni dei settori finanziari più sottosviluppati hanno fornito il banco di prova ideale per la sperimentazione di progetti sul denaro telefonico. Secondo il “Mobile Africa Report 2011”, gli utenti africani della telefonia mobile sono oltre 500 milioni. Un sondaggio citato dall’“Economist” e condotto da tre colossi mondiali – la Fondazione Gates, la Banca Mondiale e la Gallup World Poll – rivela che esistono 20 paesi nel mondo dove più del 10% degli adulti afferma di aver fatto transazioni con il “mobile-money” durante il 2011 – e tra questi, 15 sono in Africa. In Kenya, Sudan e Gabon almeno metà degli adulti ha mosso denaro per telefono.Il principale operatore di telefonia mobile in Kenya, Safaricom (società ora controllata da Vodafone), vanta oltre 14,7 milioni di utenti che usano M-Pesa, la piattaforma di “mobile-money”. «Questo significa che oltre il 36,75% della popolazione del Kenya ha un conto di deposito in M-Pesa – senza considerare gli utenti che hanno conti dello stesso genere su altre reti telefoniche. I movimenti di fondi trasferiti da M-Pesa ormai arrivano ad uno sconcertante 25% del Pil del paese». Da quando è stato introdotto questo sistema per trasferire denaro, in Africa si è assistito ad un cambiamento paradigmatico nei metodi delle transazioni finanziarie. Non mancano gli aspetti postivi: «Il denaro movimentato per telefono ha permesso a molte persone, con una istruzione elementare o senza nessuna istruzione, di avere accesso per la prima volta ai servizi finanziari. Ha anche contribuito a colmare il divario tra il settore bancario e non bancario, consentendo a molte persone di ricevere rimesse bancarie dai familiari all’estero, cosa essenziale per far crescere una nuova generazione di africani».C’è però anche il lato oscuro del “mobile money”, come riporta il sito africano di tecnologia “Humanipo.com”: «Più viene utilizzato, più i clienti si espongono a nuove generazioni di truffatori». Esempio: «Ci sono stati recenti casi di raggiro condotti con sms fasulli, che sembravano essere inviati automaticamente da fornitori di telefonia mobile, banche o altre istituzioni finanziarie». Vittime del raggiro: gli abbonati che usano il “mobile money”. La stessa Safaricom ha dimostrato che il 65% dei casi collegati a frodi telefoniche provenivano dalle carceri. Ma il problema non è solo africano: «Nel Regno Unito le autorità di controllo finanziario hanno avvertito che si verificano frodi prodotte da un software dannoso, come se si avesse un “dito grosso” che causa errori di stile e blocchi del sistema, e che può mettere sotto minaccia chi utilizza i servizi di mobile banking». Il rischio maggiore «resta il sistema stesso di alternativa digitale ai soldi in contanti». A oscurare i vantaggi del “mobile-money” è «il suo enorme potenziale di concentrazione del potere finanziario», consuderati «gli abusi e i conflitti di interesse che sta provocando».Il vero problema, aggiunge “Raging Bullshit”, è che a dominare il mercato del denaro digitale saranno «le stesse istituzioni – come la Hsbc, ad esempio – che hanno già infranto praticamente ogni regola», in materia di servizi finanziari. «Saranno gli stessi che hanno già manipolato le regole di ogni mercato esistente, che hanno mercificato e finanziarizzato praticamente qualsiasi risorsa naturale di valore su questo pianeta». Gli stessi che, sulla scia della crisi finanziaria da loro provocata, «hanno estorto miliardi di dollari dalle tasche dei propri clienti e miliardi di dollari da quelle dei contribuenti». Come fidarsi, d’altra parte, dei nostri governi? Scott Shay, presidente della Signature Bank, su “Cnbc” scrive che il governo Usa sta «diventando molto esperto nel togliere denaro ai cittadini», per poi “spiegare” loro che è in atto una “decadenza civile”. «A peggiorare ancora le cose, c’è un drammatico consolidamento che è avvenuto in tutto il sistema bancario, che ha reso più facile al governo l’acquisizione delle informazioni, dovendo controllare un minor numero di punti di accesso».Ad esempio, Jp Morgan, una delle più grandi e potenti banche d’America, ha raggiunto la stessa dimensione che hanno, tutte insieme, oltre 3.000 banche più piccole. Motivo per cui le prime quattro banche americane controllano circa il 60% di tutti i depositi bancari Usa. «Grazie soprattutto alle rivelazioni di Edward Snowden, siamo riusciti a sapere che il governo americano sta approfittando delle prodezze compiute dai servizi della Nsa e della manipolazione dei big-data in un modo spaventosamente pericoloso». Eppure, aggiunge “Raging Bullshit”, noi «continuiamo ad camminare come dei sonnambuli, quasi come degli zombie, e ci stiamo pericolosamente avvicinando ad una società che potrà vivere senza contanti». In cambio di qualche piccola convenienza immediata, «siamo disposti a concedere ai nostri governi e alle grandi banche “too-big-to fail” (ma anche “tanto-grasse-da-scoppiare”) la possibilità di controllare completamente ogni nostra singola transazione quotidiana. E mentre ci sembra di vedere nelle valute virtuali, come il Bitcoin, qualcosa di vicino ad un antidoto contro questo scenario, anche queste possibili alternative – come dice Shay – sono soggette a continuo monitoraggio e possono essere regolamentate in modo che si limiti o addirittura si metta fine alla loro possibile utilità».Nuove tecnologie minacciano di concentrare un potere assoluto nelle mani di pochi privilegiati, «gli stessi individui e le stesse organizzazioni che hanno già ripetutamente tradito la fiducia di chinque abbia voluto credere in loro». La Hsbc, la terza banca per importanza nel mondo, è stata scelta dai trafficanti di droga e di armi e dai gruppi terroristici di tutto il mondo per riciclare denaro. Di recente, la Hsbc è finita sui giornali per aver limitato gli importi che i clienti possono prelevare dai loro conti correnti (ed è stata costretta a fare retromarcia) mentre, informa la Bbc, la banca non ha «creato gli stessi problemi nell’onorare trasferimenti elettronici: da questo si può ragionevolmente supporre che il problema è il denaro contante in mano al cliente, non la disponibilità di denaro». Questo, scrive “Raging Bullshit”, è solo «l’ultimo episodio di quel grande assalto che la grande finanza e i governi dei paesi più potenti stanno portando contro tutte le transazioni in contanti».
-
Chomsky: padroni dell’umanità, hanno ucciso l’Europa
Si credono i padroni dell’umanità, e purtroppo lo stanno diventando: la politica democratica ha cessato di resistere loro, spianando la strada alla dittatura incondizionata dei poteri forti, economici e finanziari, che ormai dettano le condizioni della nostra vita pubblica. Parola di Noam Chomsky, considerato il maggior linguista vivente, autore del capolavoro “Il linguaggio e la mente”. A 86 anni, il professore statunitense dimostra una lucidità di pensiero e di visione che non lascia spazio a dubbi. Nessuna illusione: «Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è il neoliberismo», dice Chomsky, in Italia per il Festival delle Scienze di Roma, gennaio 2014. Il titolo dell’ultima raccolta di testi inediti tradotti in italiano è estremamente esplicito: loro, gli oligarchi globali, signori delle multinazionali e grandi banche d’affari, sono “I padroni dell’umanità”.«La democrazia in Italia è scomparsa quando è andato al governo Mario Monti, designato dai burocrati seduti a Bruxelles, non dagli elettori», afferma Chomsky. In generale, come risporta il newsmagazine “Contropiano”, per Chomsky «le democrazie europee sono al collasso totale, indipendentemente dal colore politico dei governi che si succedono al potere». Sono “finite”, le democrazie del vecchio continente – Italia, Francia, Germania, Spagna – perché le loro sorti «sono decise da burocrati e dirigenti non eletti, che stanno seduti a Bruxelles». Decide tutto la Commissione Europea, che non è tenuta a rispondere al Parlamento Europeo regolarmente eletto. Puro autoritarismo neo-feudale: «Questa rotta è la distruzione delle democrazie in Europa e le conseguenze sono dittature».Per Chomsky, il neoliberismo che domina la dottrina tecnocratica di Bruxelles è ormai un pericolo planetario. Il fanatismo del “libero mercato” come via naturale per un’economia sana poggia su dogma bugiardo e clamorosamente smentito: senza il supporto pubblico (in termini di welfare e di emissione monetaria) nessuna economia privata può davvero svilupparsi. Oggi il neoliberismo si configura come «un grande attacco alle popolazioni mondiali», addirittura «il più grande attacco mai avvenuto da quarant’anni a questa parte». Desolante il silenzio dell’informazione, che coinvolge gli stessi “new media”: la loro tendenza è quella di «sospingere gli utenti verso una visione del mondo più ristretta». In modo sempre più automatico, «le persone sono attratte verso quei nuovi media che fanno eco alle loro stesse vedute», quelle cioè dei “padroni dell’umanità”.Si credono i padroni dell’umanità, e purtroppo lo stanno diventando: la politica democratica ha cessato di resistere loro, spianando la strada alla dittatura incondizionata dei poteri forti, economici e finanziari, che ormai dettano le condizioni della nostra vita pubblica. Parola di Noam Chomsky, considerato il maggior linguista vivente, autore del capolavoro “Il linguaggio e la mente”. A 86 anni, il professore statunitense dimostra una lucidità di pensiero e di visione che non lascia spazio a dubbi. Nessuna illusione: «Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è il neoliberismo», dice Chomsky, in Italia per il Festival delle Scienze di Roma, gennaio 2014. Il titolo dell’ultima raccolta di testi inediti tradotti in italiano è estremamente esplicito: loro, gli oligarchi globali, signori delle multinazionali e grandi banche d’affari, sono “I padroni dell’umanità”.