Archivio del Tag ‘sistema’
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Renzi, ovvero: la sinistra fa ciò che la destra minaccia
«La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».Lo stile è tutto, scrive d’Orsi su “Micromega”, e la smart-politics del giovinotto in camicia bianca, «che mangia e distribuisce coni-gelato, che si rovescia in testa secchiate d’acqua», tra «battute che oscillano dalla noncuranza ostentata alla minaccia neppur velata», dicono molto del contenuto della sua politica, tradotta nell’“agenda” – quella dei 100 giorni, poi dei 1.000 giorni e infine chissà, «dell’intero millennio, una volta realizzata la base di questa orrenda “nuova Italia” che costui vorrebbe costruire». Una Italia forgiata a colpi di tweet lunghi 140 caratteri, un paese che deve archiviare “la cultura del piagnisteo”. Ostentato e reiterato ottimismo di facciata: anche in questo, il giovin Matteo si rivela berlusconiano. E l’insistenza sul tasto “ridurremo le tasse” – proprio mentre la pressione fiscale aumenta – è nel cuore della politica degli annunci, da Silvio a Matteo. «Tutti ricorderanno come nei mesi scorsi il Nostro abbia ripetutamente irriso i gufi, coloro che “frenano”, mentre una della sue fedelissime, la più nota delle bionde Renzi-girls, è diventata celebre per la battuta contro i “professoroni”, immancabile segnale di ogni forma di cultura parafascista».Qualsivoglia accenno di dissenso, continua d’Orsi, «viene bollato per tradimento del progetto patriottico: siamo alla campagna contro i “disfattisti” che in seno alla Prima Guerra Mondiale ne fu uno dei portati più nefasti». Il fascismo storico? «Fu la più tragica delle sue conseguenze». Ma non usa solo il tasto imperioso, il nuovo astro della politica nazionale: «Pretende di sommare la sagacia politica di un Cavour e la temerarietà di un Garibaldi, il decisionismo di Craxi e il battutismo di Berlusconi, per realizzare il suo “sogno”, parola che ricorre spesso nell’eloquio del Capo». Retorica combinata «con un beffardo sarcasmo da quattro soldi, che riesce a raggiungere vette inquietanti, da piccolo duce». Siamo passati dal volgare «Fassina chi?», rivolto al suo compagno di partito nonché membro di governo, all’irridente «brrr…, che paura!», in risposta alle riserve espresse dall’Anm, l’associazione nazionale magistrati, sul progetto di “riforma della giustizia”. Brr… che paura? «Suona semplicemente mussoliniano».«Dietro il simpatico ragazzo tutto pepe – continua d’Orsi – affiora nei momenti cruciali il bulletto di quartiere, con ambizioni smodate». Messaggio chiaro: a nessuno sarà permesso di ostacolare la sua irresistibile marcia. «Il governo va avanti», ripete. «Non ci lasciamo intimidire», dice, rivolto alle proteste degli agenti di polizia. «Non ci fermeranno». «Nelle orecchie risuona il famigerato “Noi tireremo diritto”», scrive d’Orsi. «In questo stile che rivela la peggiore eredità di Craxi e di Berlusconi fuse insieme, ma immessa nel corpo della forza politica che era stata la principale avversaria dell’uno come dell’altro, ciò a cui stiamo assistendo è un processo di evidenza purtroppo chiarissima: ciò che il barzellettiere di Arcore, con la sua piacioseria grottesca, con le pacche sulle spalle (maschili) e quelle sui culi (femminili) aveva annunciato, per un ventennio, senza riuscire ad attuarlo in nulla (salvo la “riforma Gelmini”, che infatti ha distrutto il sistema universitario), è finalmente in corso d’opera, grazie al suo avversario politico, che, in effetti, ha con lui concordato ogni punto sostanziale del programma».Patto del Nazareno: «Un programma di devastazione dell’impianto istituzionale della democrazia italiana e del welfare state, che è poi il cuore della “postdemocrazia”: il punto centrale di ogni disegno di “cambiamento”». Tradotto: «Eliminare garanzie, sottrarre diritti, ridurre margini di azione a chi la pensa diversamente, confinare in ghetti le residue opposizioni, e soprattutto togliere di mezzo quel fastidioso ostacolo che è la Costituzione repubblicana». E quindi: «Lavoro, scuola, giustizia, infrastrutture, difesa, cultura, politica estera». Il programma del governo Renzi? «E’ solo l’aggiornamento e lo sviluppo del programma degli esecutivi precedenti, da Berlusconi ai pallidi governi Monti-Letta». Proprio vero, allora: “La sinistra (italiana) fa ciò che la destra minaccia”. «Dal che si ha l’estrema, mesta conferma che il Pd oggi è una forza politica organicamente di destra», chiosa d’Orsi. Quindi, bisogna sapere che «qualsiasi ipotesi di politica alternativa» non può più pensare a un dialogo con quello che fu “il partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer”. Alternativa radicale? Buio pesto: nel passato recente c’è solo «la vicenda desolante della “Lista Tsipras”», ennesimo “voto inutile” in memoria della sinistra che fu.«La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».
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Cercasi leader che ci porti in salvo, lontano dall’euro
Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».Ormai è chiaro a tutti: l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato «un escamotage inventato dalle classi dirigenti nazionali per tentare di vincolare l’economia italiana a quella europea, di riportare a bada l’inflazione e i sindacati, e di domare il lavoro e la spesa pubblica». Risultato: l’economia precipita, la comunità nazionale vacilla e gli Stati sono completamente in balia della speculazione internazionale, visto che non possono più emettere moneta e si finanziano solo attraverso la cessione di titoli di Stato, con la mediazione monopolistica del sistema bancario privato. «Purtroppo l’Unione Europea è ormai fondata soprattutto sulla moneta unica, sull’euro che divide», scrive Grazzini su “Micromega”. «E la Ue ha abbandonato ogni prospettiva di cooperazione e di benessere sociale». Diciamoci la verità: «Gli Stati Uniti d’Europa – invocati in Italia da un ampio ed eterogeneo schieramento, da Matteo Renzi a Giorgio Squinzi, da Nichi Vendola a Barbara Spinelli – sono solo una chimera, e sotto l’ombrello dell’euro-marco e dell’egemonia tedesca sarebbero comunque un vero e proprio incubo».Il problema, continua Grazzini, è che una moneta unica per 18 paesi estremamente diversi sul piano competitivo – inflazione, tecnologie, costo del lavoro – è un vero e proprio «insulto al buon senso». L’euro-marco? «E’ una moneta troppo forte e soprattutto troppo rigida, una moneta straniera, una trappola che provoca crisi non solo perché è scioccamente unica (e quindi rigida) ma perché è costruita su istituzioni e politiche monetarie intrinsecamente deflattive, modellate a somiglianza del marco e della Bundesbank». Così, la moneta unica nata dichiaratamente per unire l’Europa «è diventata lo strumento principe di una politica neo-coloniale che le élite finanziarie e industriali tedesche e dei paesi del nord Europa conducono per egemonizzare l’Europa». Impedendo le svalutazioni competitive ai paesi deboli e la rivalutazione monetaria dei paesi forti, la moneta della Bce ha favorito solo la Germania, che ha potuto esportare manufatti e capitali in tutti i paesi europei, indebolendoli e indebitandoli. Poi, i deficit commerciali dei paesi deboli hanno generato i debiti verso i paesi forti. E i paesi creditori dettano legge.I trattati europei imposti dalla Germania – da Maastricht in poi (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) sono sempre più soffocanti. Più che governare, la Troika regna e scavalca i Parlamenti eletti. E’ un disegno neo-feudale, perfettamente realizzato, per moltiplificare i profitti dell’élite finanziaria al prezzo della devastazione dei sistemi economici, sociali e produttivi. Si va avanti a suon di diktat: via i diritti del lavoro, tagli al welfare, tassazione folle. E la democrazia è ormai un ricordo. «La Germania non abbandonerà queste politiche recessive e suicide – dice Grazzini – semplicemente perché le convengono e perché l’ideologia monetarista è connaturata alla Bundesbank». Niente illusioni: «Non ci sarà alcuna solidarietà o cooperazione europea, e nemmeno flessibilità. Con questo euro non usciremo dalla crisi, anche se la Bce ogni tanto concede un po’ di ossigeno per non soffocare del tutto la moribonda economia europea. La stagnazione-recessione potrebbe proseguire, provocando gravi crisi sociali fino a riportare l’Europa a un equilibrio economico assestato al livello più basso – con la rovina del welfare, del lavoro e dei paesi e delle regioni deboli – o potrebbe deflagrare in una nuova disastrosa crisi finanziaria europea e globale».Come uscire dalla trappola? Secondo Emiliano Brancaccio, dopo la svalutazione iniziale causata dall’abbandono dell’euro, i lavoratori potrebbero recuperare i loro salari in pochi anni. Addio Bce? «Cambierà tutto se la rottura dell’euro sarà in qualche maniera concordata con la Ue e con la Germania o se invece sarà del tutto unilaterale», sostiene Grazzini, «e se la mossa italiana avrà in qualche modo il consenso o anche solo la neutralità delle potenze globali o regionali extraeuropee, come gli Usa, la Cina, la Russia (e le grandi potenze private, le banche d’affari come Jp Morgan e Goldman Sachs e i fondi speculativi) o se invece le grandi potenze saranno contrarie». E’ chiaro che l’Italia, come potenza industriale e manifatturiera con vocazione esportatrice, «potrebbe più di altri paesi beneficiare dall’uscita dall’euro e dalla conseguente svalutazione della sua ritrovata moneta nazionale». Il momento sarebbe propizio: oggi il bilancio statale è in attivo e la bilancia commerciale è in sostanziale pareggio, quindi il nostro paese non avrebbe bisogno dell’aiuto di nessuno, né della Bce né della finanza internazionale.A pesare è l’ingombro del peso storico del deficit, «2300 miliardi di euro di debito pubblico verso l’estero». Oggi, in mancanza di moneta sovrana, lo si potrebbe finanziare solo «con le tasse dei cittadini o con i tagli di spesa», due strade che, come si vede, conducono nel vicolo cieco della depressione cronica. Tutto cambierebbe, invece, se si disponesse della nuova lira: «Senza il peso del debito pubblico verso l’estero – che è stato emesso secondo le leggi italiane e che quindi potrebbe essere riconvertito abbastanza facilmente e legalmente in moneta nazionale – non ci sarebbe bisogno di aumentare il deficit: e nessuno proporrebbe di aumentare le tasse o di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica nazionale, che è minore della media europea», osserva Grazzini. Con la svalutazione della nuova lira, secondo Alberto Bagnai, l’economia diventerebbe più competitiva, gli investimenti e la produzione riprenderebbero, così come l’occupazione. Alla fine anche i redditi da lavoro aumenterebbero, dopo la svalutazione iniziale. «In questo senso, l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro ristrutturando i debiti verso l’estero avrebbe un senso economico apparentemente positivo».In più, aggiunge Grazzini, «la svalutazione della lira non sarebbe una disgrazia o un fatto vergognoso, come molti economisti anche di sinistra ci dicono: infatti tutti i paesi – Usa, Giappone, Cina – stanno svalutando la loro moneta per recuperare competitività sul piano internazionale e crescita sul fronte nazionale». Quindi, «la svalutazione non è un peccato di cui vergognarsi: è solo un riallineamento dei prezzi verso l’estero». Secondo Grazzini, però, è sbagliato limitarsi al profilo economico e finanziario sottovalutando quello politico internazionale: «Nessun modello econometrico e quantitativo potrebbe stabilire che cosa succederà realmente se un paese come l’Italia, o anche solo un paese più piccolo come la Grecia, uscisse dell’euro». La moneta della Bce «rappresenta all’incirca un quarto delle valute di riserva mondiali, per un valore complessivo pari a oltre 2.000 miliardi, cioè al 25% del totale delle valute di riserva, mentre il dollaro è al 60% circa». Per questo, «molti Stati hanno un preminente interesse economico a salvaguardare l’euro», la cui drastica svalutazione o rottura comporterebbe «sconvolgimenti tellurici per quanto riguarda le riserve valutarie di Stati come Cina, Russia, Giappone, India e Brasile».Inoltre, agli Usa converrebbe «mantenere l’euro come moneta internazionale debole, cioè come improbabile alternativa al suo dollaro», cioè al dollaro che gli Stati Uniti possono «stampare all’infinito per pagare i loro debiti e comprare ciò che vogliono nel mondo». Vivecersa, sempre secondo Grazzini, Washington appoggerebbe la fine dell’euro per motivi geopolitici, «per esempio per punire la Germania e l’Europa se si avvicinassero troppo alla Russia». Purtroppo, però, la sensazione è che sia Wall Street che la Casa Bianca puntino sulla sopravvivenza dell’Eurozona, calcolando che l’euro impiegherà ancora qualche anno prima di completare la distruzione definitiva dell’economia europea. Pessime notizie, dunque, perché «l’euro non conviene all’Italia, né alle sue industrie, né alle sue banche, né ai lavoratori né al ceto medio, né al sud né al nord», sottolinea Grazzini. «E’ convenuto solo alle multinazionali finanziarie e industriali per eliminare i rischi di cambio. Ma ora è una gabbia anche per le imprese medio-grandi, perché impedisce la crescita».In più, una volta entrati nella moneta unica «è molto difficile uscirne senza danni e senza sofferenze, proprio perché l’euro è una valuta di riserva mondiale e non una moneta nazionale qualsiasi». Per Grazzini, una rottura unilaterale è rischiosa: «Se l’Italia si trovasse contro tutti gli Stati e tutta la finanza europea e mondiale, l’uscita unilaterale provocherebbe prevedibilmente una svalutazione a catena e un disastro nazionale (e globale) difficilmente valutabile e recuperabile». Peggio: «La tragedia è che attualmente non sembrano esserci via di uscita», perché «le scelte alternative sono comunque tragiche». Infatti, «se da una parte l’uscita unilaterale appare difficilmente proponibile, dall’altra – rimanendo nella prigione dell’euro-marco – la condizione europea e italiana peggiorerà a causa del Fiscal Compact». Questo sarebbe dunque il paradiso europeo profetizzato dai vari Prodi, Visco, Bassanini, Padoa-Schioppa. Non uno dei dirigenti decisivi del centrosinistra italiano, responsabile della consegna del paese alla sciagura dell’Eurozona, ha finora pronunciato una sola parola di autocritica.Se la politica tace, per Grazzini c’è solo da sperare nel blackout: «Prima o poi il sistema dell’euro-marco imploderà, perché è intrinsecamente insostenibile a causa della sua assoluta inefficienza economica e dei pesantissimi costi sociali e politici che comporta». Tutto è possibile, però: persino che l’euro «sopravviva con il sostegno della finanza internazionale», o che «gli Stati europei si adeguino alla rovina economica e alla subordinazione economica e politica imposte dall’egemonia tedesca». Difficile, però, che i paesi sopportino a lungo questa situazione: «Nonostante la stupefacente inettitudine di François Hollande, perfino una parte dei socialisti francesi – che certamente non brillano per acume e progressismo ma appaiono piuttosto propensi al suicidio elettorale – hanno cominciato a reagire dopo il successo travolgente dell’antieuro partito del Front National». Anche le potenze extraeuropee sono preoccupate del possibile contagio derivante dalla malattia europea, e la speculazione è sempre in agguato: prima o poi la finanza anglosassone «interverrà per trarre profitto dai conflitti tra i diversi Stati europei in modo da affossare la moneta unica».E’ certo che la crisi si prolungherà perché i paesi europei non crescono, la disoccupazione aumenta e i debiti pubblici continuano a crescere. Se poi i paesi del sud Europa – Francia e Italia – riuscissero ad allentare i vincoli imposti dalle regole Ue, allora la stessa Germania potrebbe abbandonare l’euro e ritornare al marco per difendere la forza della sua moneta. Secondo Grazzini, «la sinistra italiana ed europea dovrebbe battersi fin da ora per una rottura concordata dell’euro in modo da minimizzare i danni e permettere ai popoli e ai governi democraticamente eletti di perseguire una via di uscita dalla crisi». Ma forse Grazzini ha in mente una sinistra immaginaria: quella italiana ed europea è esattamente la forza che più di ogni altra ha collaborato al disegno eurocratico, antidemocratico e anti-sovranista. In Germania la riforma Harz contro i sindacati è stata condotta dalla Spd di Schroeder, in Gran Bretagna i lavoratori sono stati “sistemati” dai laburisti di Blair. E in Italia, liquidati i partiti della Prima Repubblica, le principali riforme strutturali contro il lavoro e la sovranità nazionale sono state progettate e realizzate da Ciampi, Prodi e D’Alema.Oggi, Grazzini riconosce che se si resta nell’euro si sprofonda nella crisi. E per uscire dalla moneta unica nel modo meno doloroso possibile è necessario «ricreare una banca centrale nazionale responsabile verso il governo e il Parlamento», una Banca d’Italia «in grado di sostenere una politica espansiva, ovvero di comprare i titoli del debito pubblico nazionale». Va ricordato che a disabilitare Bankitalia come “prestatore di ultima istanza” non fu certo il bieco Berlusconi, all’epoca non ancora “sceso in campo”, ma furono il governatore Carlo Azeglio Ciampi e il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente di quella sinistra Dc che mirava – insieme ai politici del futuro centrosinistra – a consegnare a Bruxelles la cassaforte del paese, per sottrarla alla nomenklatura dei Craxi, degli Andreotti e dei Forlani. A più di trent’anni dal “misfatto” del 1981, oggi si ammette che solo una banca centrale in grado di emettere moneta sovrana potrebbe finanziare il governo e gli investimenti produttivi, sostenere la spesa pubblica strategica, controllare i movimenti di capitali, convogliare il risparmio nazionale verso lo sviluppo del paese.Per Grazzini, «bisognerebbe copiare l’esperienza dei paesi emergenti, come Cina e Brasile, che mantengono vincoli forti sulla finanza e la valuta ma incentivano gli investimenti industriali esteri». E attenzione: «Bisognerebbe nazionalizzare – anche con difficili misure di prestito forzoso – il debito pubblico, in modo che la nazione sia indebitata quasi esclusivamente con se stessa (come il Giappone, che ha il più alto debito al mondo ma lo sostiene perché è debito interno)». Il problema maggiore, aggiunge Grazzini, verrebbe però dal debito privato pagabile solo in euro, e soprattutto dal debito estero delle grandi banche. Dunque, «occorrerebbe nazionalizzare le maggiori banche anche per rilanciare il credito verso le piccole e medie aziende». Di pari passo, «per proteggere i salari e gli stipendi e rilanciare la domanda interna bisognerebbe ripristinare meccanismi analoghi alla scala mobile e agganciare automaticamente i salari all’inflazione e alla crescita della produttività».Un percorso impervio, tenendo conto del personale politico italiano: partiti e leader sono stati completamente “colonizzati” dal capitale finanziario straniero, da cui dipende la protezione delle loro carriere. La parola chiave, dunque, è democrazia: solo nuove leve e nuovi politici, non ancora presenti sulla scena odierna, potrebbero progettare l’uscita dall’euro mettendo a punto innanzitutto una politica di alleanze internazionali, «non solo con gli altri paesi del sud Europa e la Francia, ma anche con le banche centrali dei paesi extraeuropei». Servirebbe anche «una moneta comune (ma non più unica, come l’euro) contro la speculazione internazionale», come l’euro-bancor proposto da Keynes «come moneta comune europea da fare valere verso il dollaro e le altre valute internazionali».Qualcuno lo vede, un governo italiano in grado di compiere questi difficili passi? «Non solo non esiste attualmente – ammette Grazzini – ma è molto dubbio che esisterà mai». Un governo anti-euro, cioè di salvezza nazionale, «dovrebbe avere un grande consenso sociale, la capacità di imporre sacrifici temporanei ai ceti medi e soprattutto vincoli stretti ai settori privilegiati. Dovrebbe essere autonomo dalle élite dei potenti e dall’alta finanza e avere l’appoggio di gran parte della società civile e dei sindacati». Abbiamo una sola certezza: così non si può andare avanti. «Non è possibile che le politiche economiche vengano decise a Berlino, Francoforte, Bruxelles e Washington. I governi nazionali, come quello di Matteo Renzi, agiscono sempre più sotto dettatura».Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».
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La premiata macelleria Fmi propone di tagliare le pensioni
«Ottenere risparmi significativi sarebbe difficile senza intervenire sulla grande spesa pensionistica». Parola di Christine Lagarde, la “comare secca” del Fmi. Quando parla la Signora con la Falce, generalmente si mette male – malissimo, in questo caso, per i pensionati italiani, cui sono rivolte le attenzioni della temutissima presidente del Fondo Monetario, che ora “consiglia” al bravo Renzi di accelerare le sue “coraggiose riforme” cominciando proprio da una vigorosa tosatura dell’Inps. Non è la prima volta che il Fmi punta il dito contro gli assegni pensionistici del Belpaese: l’élite tecno-finanziaria non tollera che la spesa sociale sia gonfiata dalle pensioni pubbliche, che del resto fanno “concorrenza” alle assicurazioni pensionistiche private, uno dei maggiori rami del grande business finanziario. Così, dopo gli schiaffoni dell’Ocse, Matteo Renzi deve incassare quelli della super-cupola diretta dalla Lagarde, che ha rivisto al ribasso le stime sul Pil italiano nel 2014, indicando una contrazione dello 0,1%.Il sistema-Italia è entrato in agonia dopo Maastricht, con l’adesione all’euro e la conseguente introduzione dell’austerity europea di marca tedesca, che predica il taglio drastico dello Stato. Nonostante ciò, la Troika – di cui il Fmi è una colonna – propone esattamente la stessa “cura” che sta uccidendo il paziente, ovvero il taglio ulteriore della spesa pubblica, quello che “ammazza” i consumi e quindi l’occupazione, il Pil, il gettito fiscale, la capacità di sostenere l’economia nazionale. Con grande enfasi, i tecnocrati del Fmi fingono addirittura di stupirsi per le dimensioni del disastro, da essi essi progettato e generato con la contrazione progressiva dell’investimento pubblico: si parla apertamente di «rischi che restano ancorati al ribasso» e della «possibilità di stagnazione e bassa inflazione», come riporta il blog “Vox Populi”. «Nell’analisi degli esperti di Washington, la crescita è destinata a rimanere attorno all’1% fino a tutto il 2019: le stime sono infatti per un +1,3% nel 2016, un +1,2% nel 2017, un +1% nel 2018 e un +1% nel 2019. Poi, cattive notizie anche sulla disoccupazione».Quest’anno, la mancanza di lavoro salirà ai massimi dal dopoguerra, secondo le previsioni del Fondo Monetario: si arriverà al 12,6% rispetto al 12,2% del 2013. «La disoccupazione, inoltre, per il Fmi è destinata a restare a due cifre fino al 2017». In altre parole quello che abbiamo di fronte è «uno scenario pessimo, che potrebbe anche essere rivisto ulteriormente al ribasso», prima della fine di ottobre: lo ha spiegato senza peli sulla lingua Kenneth Kang, capo della missione annuale del Fmi in Italia. Di fatto non ci sono speranze, perché nessuna forza politica denuncia le cause della catastrofe. Senza un Piano-B, basato sull’unico rimedio possibile – l’interventismo diretto dello Stato, in barba al cappio dell’Ue – il bollettino clinico resterà quello di oggi, nutrito di un lessico che appare sempre più di natura psichiatrica, più che economica. Tutto sta crollando, e ancora si vaneggia di crescita del Pil, anziché dell’occupazione, in un mondo globalizzato nel quale l’Occidente fa sempre più fatica a piazzare le sue merci. L’Europa, poi, non ha più neppure il margine fisiologico di oscillazione della moneta: privatizzata anche quella, dalle stesse “istituzioni” che oggi propongono a Renzi di massacrare i pensionati italiani.«Ottenere risparmi significativi sarebbe difficile senza intervenire sulla grande spesa pensionistica». Parola di Christine Lagarde, la “comare secca” del Fmi. Quando parla la Signora con la Falce, generalmente si mette male – malissimo, in questo caso, per i pensionati italiani, cui sono rivolte le attenzioni della temutissima presidente del Fondo Monetario, che ora “consiglia” al bravo Renzi di accelerare le sue “coraggiose riforme” cominciando proprio da una vigorosa tosatura dell’Inps. Non è la prima volta che il Fmi punta il dito contro gli assegni pensionistici del Belpaese: l’élite tecno-finanziaria non tollera che la spesa sociale sia gonfiata dalle pensioni pubbliche, che del resto fanno “concorrenza” alle assicurazioni pensionistiche private, uno dei maggiori rami del grande business finanziario. Così, dopo gli schiaffoni dell’Ocse, Matteo Renzi deve incassare quelli della super-cupola diretta dalla Lagarde, che ha rivisto al ribasso le stime sul Pil italiano nel 2014, indicando una contrazione dello 0,1%.
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Oggi teorie cospirative, domani verità: lo dice la storia
Forse, la prima vera operazione “false flag” dell’epoca moderna fu “l’incidente di Gleiwitz”, provocato dai nazisti nel 1939 vicino alla frontiera orientale: indossate le uniformi dell’esercito polacco, unità delle SS attaccarono una stazione radio tedesca per poi dare la colpa alla Polonia. Durante il blitz, le SS trasmisero un breve messaggio di propaganda in polacco. Poi uccisero dei prigionieri di un campo di concentramento vestiti con uniformi polacche e li lasciarono sulla scena, per far apparire l’incidente come un atto di aggressione progettato da Varsavia. Il giorno successivo, quando la Germania invase il paese confinante dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, Hitler citò l’episodio come uno dei pretesti. Nove giorni prima dell’incidente, Hitler aveva detto ai suoi generali: «Provvederò a un casus belli per la propaganda. La sua credibilità non ha importanza. Al vincitore non verrà chiesto se ha detto la verità». Anche se il termine “teoria del complotto” è diventato un dispregiativo usato contro chiunque metta in discussione la versione ufficiale degli eventi, innumerevoli esempi in tutta la storia delle cospirazioni hanno confermato i peggiori sospetti.«L’idea che i governi e le agenzie di intelligence svolgano atti di terrorismo sotto falsa bandiera è stata a lungo derisa dai media del sistema come una teoria della cospirazione, nonostante ci sia una pletora di casi storicamente documentati». Paul Joseph Watson e Alex Jones ne citano almeno dieci, famosi o famosissimi. Come l’Operarazione Ajax, che nel 1953 rovesciò il governo di Mohammed Mossadeq in Iran. La Cia ha ammesso il proprio ruolo nel golpe solo dopo mezzo secolo, nel 2013. Bilancio dell’attività terroristica: almeno 300 civili uccisi. Altra clamorosa “false flag”, lo scontro navale dell’estate del 1964 nel Golfo del Tonchino, che fornì il pretesto per la guerra del Vietnam. Peccato che nessuno sparò mai un solo colpo di cannone contro la flotta statunitense. Eppure, il 4 agosto 1964, il presidente Lyndon Johnson andò in televisione e disse al paese che il Vietnam del Nord aveva attaccato delle navi americane: «I ripetuti atti di violenza contro le forze armate degli Stati Uniti devono ricevere una risposta», dichiarò.Il Congresso approvò subito la Risoluzione del Golfo del Tonchino, che fornì a Johnson l’autorità per condurre operazioni militari contro il Vietnam del Nord. Nel 1969, oltre 500.000 soldati stavano già combattendo nel sud-est asiatico. «Johnson e il suo segretario alla difesa, Robert McNamara, avevano ingannato il Congresso e il popolo americano», scrivono Watson e Jones in un post su “Infowars”, tradotto da “Come Don Chisciotte”. «In realtà, il Vietnam del Nord non aveva attaccato la Uss Maddox, come il Pentagono aveva sostenuto, e la “prova inequivocabile” di un “non provocato” secondo attacco contro la nave da guerra degli Stati Uniti era uno stratagemma». Interamente all’insegna della “false flag” fu l’Operazione Gladio, cioè «il terrore sponsorizzato dallo Stato e imputato alla sinistra». In piena guerra fredda, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Cia e la britannica Mi6 collaborarono assieme alla Nato nell’Operazione Gladio per creare un esercito clandestino, o “stay behind”, al fine di combattere il comunismo nel caso di una invasione sovietica dell’Europa occidentale. Ben presto, però, la rete difensiva anti-Urss si trasformò in un esercito terrorista incaricato di intimidire l’opinione pubblica dell’Europa occidentale.«Gladio – precisano Watson e Jones – trascese rapidamente la sua missione originaria e divenne una rete terroristica segreta composta da milizie di destra, elementi della criminalità organizzata, agenti provocatori e unità militari segrete». Le forze armate “stay behind” erano attive in Francia, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia, Germania, e Svizzera. La “strategia della tensione”, quella che straziò l’Italia per due decenni, «venne progettata per far figurare i gruppi politici di sinistra europei come terroristici e per spaventare la popolazione, inducendola così a votare per governi autoritari». Dalla bomba di piazza Fontana a quella dell’Italicus, dai misteri del sequestro Moro (eseguito dalle Brigate Rosse ma “assistito” da una rete invisibile di protezione, anche all’insaputa degli stessi brigatisti), fino alla strage della stazione di Bologna: un retroterra torbido, popolato da servizi segreti molto opachi, infiltrati da organismi come la P2 di Licio Gelli, potente loggia massonica “deviata”, in collaborazione con gruppi neofascisti (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale), impiegati come manovalanza per le stragi. In ultima analisi, rilevano Watson e Jones, l’Operazione Gladio «ha causato la morte di centinaia di persone in tutta Europa». Secondo Vincenzo Vinciguerra, ex terrorista di Gladio all’ergastolo per l’assassinio di un poliziotto, la ragione di “stay behind” era semplice: l’organizzazione era stata progettata «per costringere la gente, i cittadini italiani, a pretendere dallo Stato maggiore sicurezza. Questa è la logica politica che sta dietro tutte le stragi e gli attentati che restano impuniti, perché lo Stato non può condannare se stesso o dichiararsi responsabile di quanto è accaduto».Alla guerra segreta contro il regime comunista di Fidel Castro a Cuba appartiene invece l’Operazione Northwood: nell’ambito dell’Operazione Mangusta della Cia, «lo stato maggiore Usa propose all’unanimità di realizzare azioni terroristiche sponsorizzate dallo Stato all’interno degli Stati Uniti». Il piano, aggiungono Watson e Jones, «prevedeva l’abbattimento di aerei americani dirottati, l’affondamento di navi americane e l’uccisione di cittadini americani, a colpi di arma da fuoco, per le strade di Washington». Lo scandaloso piano «includeva anche lo scenario di un disastro alla Nasa, che prevedeva la morte dell’astronauta John Glenn». Il presidente John Fitzgerald Kennedy, ancora vacillante dopo l’imbarazzante fallimento della Cia per l’invasione di Cuba alla Baia dei Porci, «respinse il piano nel marzo del 1962». E pochi mesi dopo, lo stesso Kennedy «negò all’autore del piano, il generale Lyman Lemnitzer, un secondo mandato come militare di rango più alto della nazione». Poco dopo, nel novembre del 1963, Kennedy fu assassinato a Dallas, in Texas.Si chiama invece “Fast and Furious” l’operazione in cui «il governo Obama ha fornito armi ai signori messicani della droga con l’apparente scopo di seguirne le tracce al fine di distruggere le gang». Secondo Watson e Jones, «era in realtà parte di un piano cospirativo per demonizzare il secondo emendamento», cioè il diritto del cittadino americano di portare armi. I documenti ottenuti da “Cbs News” nel dicembre 2011 dimostrano che gli agenti speciali dell’Atf avevano discusso su come avrebbero potuto collegare le armi coinvolte nelle violenze in Messico ai negozianti di armi degli Stati Uniti, al fine di far approvare normative più restrittive sul controllo delle armi. Una fonte della polizia ha detto a “Cbs News” che le email indicano che l’Atf ha “montato” il caso, come parte di una manovra politica: «È come se l’Atf avesse creato o incrementato il problema, in modo da poter essere proprio lei a fornire la soluzione». Quanto alla droga, i narcos non sono solo messicani o colombiani: la stessa Cia «è stata implicata in operazioni di traffico di droga in tutto il mondo, anche a livello nazionale, in particolare durante l’affare Iran-Contras».«Con la benedizione della Cia», i miliziani che dall’Honduras contrastavano i guerriglieri di dinistra del Salvador e del Nicaragua «contrabbandarono negli Stati Uniti cocaina che venne poi distribuita come droga di prima qualità a Los Angeles, e i cui profitti furono poi versati ai Contras». Michael Ruppert, allora agente della polizia di Los Angeles, ha anche testimoniato di aveva assistito al traffico di droga della Cia. «I boss della droga messicani, come Jesus Vicente Zambada Niebla, hanno perfino dichiarato pubblicamente di esser stati ingaggiati dal governo Usa per operazioni di traffico di droga». Per Watson e Jones, «c’è un voluminoso corpo di prove che conferma che la Cia e i giganti bancari degli Stati Uniti sono i maggiori players in un commercio mondiale di droga del valore di centinaia di miliardi di dollari l’anno», come confermano anche le informazioni pubblicate da svariati osservatori, tra cui Gary Webb, su autorevoli blog d’inchiesta come “Prison Planet”. Banchieri e droga? Sì, e anche sigarette: secondo la Bbc, le aziende americane del tabacco sono state “prese con le mani nel sacco” nell’ingegnerizzare deliberatamente le “bionde”, additivandole con prodotti chimici che ne incrementano artificialmente la dipendenza. Per Clive Bates, direttore di “Ash” (Action on Smoking and Health), la scoperta ha messo alla luce «uno scandalo in cui le aziende del tabacco deliberatamente utilizzano additivi per rendere i loro dannosi prodotti ancora peggiori».Poi c’è lo sterminato capitolo dello spionaggio, fino alla sorveglianza di massa dell’National Security Agency. «Negli anni ‘90, quando gli attivisti anti-sorveglianza e i personaggi dei media stavano mettendo in guardia sulla vasta operazione di spionaggio della Nsa, vennero trattati come teorici paranoici della cospirazione», riordano Watson e Jones. «Ben più di un decennio prima delle rivelazioni di Snowden», l’agenzia di intelligence «era impegnata a intercettare e registrare tutte le comunicazioni elettroniche di tutto il mondo nel quadro del programma “Echelon”». Sorveglianza globale: “Echelon” era in grado di intercettare «ogni chiamata internazionale via telefono, fa, e-mail o trasmissione radio del pianeta». Nel 1999, il governo australiano ha ammesso di farvi parte, assieme a Stati Uniti e Gran Bretagna. In cabina di regia, già allora, c’era la Nsa. Un dossier del Parlamento Europeo risalente al 2001 afferma: «In Europa, tutte le comunicazioni e-mail, telefono e fax sono regolarmente intercettate», dall’agenzia smascherata da Snowden.Vastissimo, infine, il capitolo delle morti in apparenza accidentali. Non è solo cinema: nell’arsenale degli 007, anche il “dardo invisibile” che provoca l’infarto cardiaco. Ne parlò il Senato degli Usa già nel 1975, durante una testimonianza sulle attività illegali della Cia: «Fu rivelato che l’agenzia aveva sviluppato un’arma a dardi che causa un attacco di cuore». Nella prima udienza televisiva, svolta nella sala Caucus del Senato, intervenne Frank Church, senatore dell’Idaho e presidente della commissione d’inchiesta sul caso Watergate. «Church mostrò una pistola a dardi velenosi della Cia, rivelando così che la commissione era venuta a conoscenza del fatto che l’agenzia aveva violato un ordine presidenziale diretto, conservando uno stock di tossine di molluschi che sarebbe stato sufficiente a uccidere migliaia di persone», come conferma ancora oggi una pagina web del sito ufficiale del Senato statunitense. Il veleno penetra nel sangue e provoca l’arresto cardiaco. Al massimo, la vittima percepisce il fastidio di una puntura di zanzara. Veleno micidiale e invisibile: tutto ciò che resta è un puntino rosso sulla pelle. «Una volta che il danno è fatto, il veleno denatura rapidamente, in modo che nell’autopsia è molto improbabile rilevare che l’infarto è stato provocato da qualcosa di diverso da cause naturali».Forse, la prima vera operazione “false flag” dell’epoca moderna fu “l’incidente di Gleiwitz”, provocato dai nazisti nel 1939 vicino alla frontiera orientale: indossate le uniformi dell’esercito polacco, unità delle SS attaccarono una stazione radio tedesca per poi dare la colpa alla Polonia. Durante il blitz, le SS trasmisero un breve messaggio di propaganda in polacco. Poi uccisero dei prigionieri di un campo di concentramento vestiti con uniformi polacche e li lasciarono sulla scena, per far apparire l’incidente come un atto di aggressione progettato da Varsavia. Il giorno successivo, quando la Germania invase il paese confinante dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, Hitler citò l’episodio come uno dei pretesti. Nove giorni prima dell’incidente, Hitler aveva detto ai suoi generali: «Provvederò a un casus belli per la propaganda. La sua credibilità non ha importanza. Al vincitore non verrà chiesto se ha detto la verità». Anche se il termine “teoria del complotto” è diventato un dispregiativo usato contro chiunque metta in discussione la versione ufficiale degli eventi, innumerevoli esempi in tutta la storia delle cospirazioni hanno confermato i peggiori sospetti.
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Ripresa Usa? Tutte bugie: le statistiche sono truccate
Ci raccontano che l’America di Obama ha superato la crisi del 2008 crescendo del 4,6% all’anno? Falso: ricalcolando i dati senza i filtri convenzionali delle statistiche, dice Giuseppe Masala, scopriamo che anche gli Usa sono in recessione costante: il loro prodotto interno lordo arretra ogni anno di oltre ol 2%. Idem l’occupazione: un’analisi accurata rivela che dal 2007 gli Stati Uniti hanno creato oltre un milione di posti di lavoro, ma al tempo stesso hanno espulso dalla forza lavoro oltre 13 milioni di individui. «Veramente troppi per credere che si siano tutti ritirati dal mercato perché diventati milionari e dunque possano godersi la vita in qualche isola caraibica per ricchi». Il trucco? Negli Usa, resta ufficialmente “disoccupato” solo chi ha perso il lavoro e ne cerca un altro nelle successive quattro settimane. Trascorse le quali, l’ex lavoratore semplicemente scompare dai radar: non viene più conteggiato in nessuna statistica.«Molti commentatori si esercitano nell’illustrazione della tesi secondo la quale gli Usa sarebbero usciti dalle secche della crisi esplosa nel 2008 grazie a una politica monetaria molto più lungimirante di quella europea», scrive Masala su “Zeroconsensus”. Le cifre ufficiali raccontano che la disoccupazione di sarebbe ridotta al 5,9%, mentre il Pil avanzerebbe a vele spiegate verso il 5% su base annua. L’errore ottico? Sta nei cosiddetti “filtri”, come il cosiddetto U3 che calcola solo i disoccupati ufficiali, quelli che si mettono subito alla ricerca di un nuovo lavoro e trascura tutti gli altri. «L’esclusione dall’insieme dei disoccupati – come è facilmente intuibile – comporta anche l’esclusione dall’insieme delle persone che vanno a formare la cosiddetta forza lavoro e dunque la base sulla quale viene calcolata la percentuale dei disoccupati. Infatti, secondo le fonti ufficiali come il “Federal Boureau of Labor Statistics”, «la forza lavoro americana continua a restringersi». Molto più credibile, rileva Masala, l’ipotesi che il “filtro” utilizzato sia a maglie troppo strette, e quindi «non adatto a descrivere la profondità della crisi sociale americana».Anche le vere stime sul Pil smentiscono «i corifei della bruciante “ripartenza” americana». Infondato, per “Zeroconsensus”, l’incremento del 4,6%: «La crescita del Pil annuale per raggiungere questo dato deve essere costante e uniforme per tutto l’anno. Infatti questa cifra è calcolata prendendo il dato calcolato sul trimestre precedente e moltiplicato per 4 (quattro sono i trimestri in un anno). Dunque una crescita sul trimestre precedente dell’1,15% diventa del 4,6% una volta annualizzata (ripeto, nell’ipotesi assolutamente non credibile che nei seguenti tre trimestri la crescita sia costante e uniforme). Non basta. Se andiamo a vedere cosa accadde nel trimestre precedente vediamo che il dato diventa ancora più bizzarro e incredibile. Infatti nel secondo trimestre del 2014 la crescita americana non è stata una crescita, ma una decrescita: -2,9% annuo. In altri termini, il Pil del primo trimestre Usa (calcolato a sua volta sul Pil del quarto trimestre del 2013) era pari a -0,725%, che moltiplicato a sua volta per quattro era pari – appunto – a -2,9%».«Chiunque può comprendere che un calcolo del Pil di questo genere è un puro gioco di prestigio», aggiunge Masala. Le innovazioni sul metodo di calcolo del Pil (Sec 2010) non riguardano solo la facoltà di introdurre nel computo lo spaccio di droga, la prostituzione e il contrabbando, ma anche la riclassificazione delle spese in ricerca e sviluppo, nonché le spese militari (che passano da “consumi intermedi” a “investimenti fissi”) e una nuova definizione di “scambi con l’estero”. Solo a quel punto – cioè inserendo fatturato criminale e guerra, e spacciando le spese per investimenti – si può arrivare a un incremento teorico del 3%. Pura distorsione ottica: «Sembra di essere di fronte ad una enorme manipolazione dei dati, al fine di far credere che il sistema Usa (e dunque la sua peculiare forma di capitalismo) sia in buona salute quando in realtà ha ancora di fronte a sé un enorme crisi tutta da risolvere». Citazione manzoniana: «“Troncare, sopire e manipolare”, direbbe oggi il Conte Zio». Tutto questo, probabimente, contribisce a spiegare anche la gigantesca proiezione degli Usa verso quella che i più pessimisti chiamano Terza Guerra Mondiale.Ci raccontano che l’America di Obama ha superato la crisi del 2008 crescendo del 4,6% all’anno? Falso: ricalcolando i dati senza i filtri convenzionali delle statistiche, dice Giuseppe Masala, scopriamo che anche gli Usa sono in recessione costante: il loro prodotto interno lordo arretra ogni anno di oltre ol 2%. Idem l’occupazione: un’analisi accurata rivela che dal 2007 gli Stati Uniti hanno creato oltre un milione di posti di lavoro, ma al tempo stesso hanno espulso dalla forza lavoro oltre 13 milioni di individui. «Veramente troppi per credere che si siano tutti ritirati dal mercato perché diventati milionari e dunque possano godersi la vita in qualche isola caraibica per ricchi». Il trucco? Negli Usa, resta ufficialmente “disoccupato” solo chi ha perso il lavoro e ne cerca un altro nelle successive quattro settimane. Trascorse le quali, l’ex lavoratore semplicemente scompare dai radar: non viene più conteggiato in nessuna statistica.
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Hollande molla la Merkel solo per vendere la Francia al Ttip
Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».Lo ha appena ammesso anche il principe Saud bin Faysal, ministro degli esteri saudita. Si attendono anche «atti di destabilizzazione in territorio russo», mentre quelli in Cina «sono già iniziati a tenaglia». Era difficile prevederlo? Proprio per nulla, scrive Pagliani su “Megachip”, ricordando il suo romanzo “Il punto fisso” (Mimesis), che prevedeva «l’inizio della deglobalizzazione». Dunque Hollande si agita e la Merkel sta a guardare perplessa e preoccupata? «La Germania è entrata in difficoltà e fa fatica a mantenere la barra europea di una politica di austerity. Dapprima le risultava vantaggiosa, ma ha infine iniziato a segare l’albero su cui era seduta, come era facilmente prevedibile». Lezione: «La sua strategia di resistere ai piani imperial-finanziari anglosassoni per via economico-finanziaria era destinata a fallire dopo aver procurato disastri politici, economici, sociali e umani impressionanti». Infine, «ci sono le difficoltà, più che ovvie, di tutti i governanti europei, che straparlano di nuovo sviluppo e di “riforme” (leggi “massacri sociali”)». In realtà «cercano, letteralmente, di barcamenarsi per non finire troppo presto nella pattumiera della storia, loro inevitabile destinazione».Di fronte alle nuove insofferenze di Hollande, secondo Pagliani, le «basi missilistiche finanziarie di New York» reagiranno «solo quanto basta per estorcere le “riforme”», dopodiché «Renzi seguirà Hollande e infine Draghi porterà gli affondi finali contro la Germania». Vero obiettivo? Confluire, docili, sotto l’ala del Ttip, il Trattato Transatlantico negoziato in segreto dalle multinazionali Usa per riscrivere le regole del business con l’Europa secondo gli interessi atlantici. «Lo “Sblocca Italia” anticipa le richieste del Ttip». Esito inevitabile, «a meno che intervengano i Brics con mosse finanziarie oggi difficili da prevedere». Da Monti in poi, passando per Draghi, Hollande e Obama, secondo Pagliani è stata condotta una “fronda” anti-tedesca «paradossalmente sotto la bandiera dell’austerity stessa». Infatti, quel conflitto «non escludeva l’utilizzo della crisi per “normalizzare” la società (una strategia che a Monti è sempre stata a cuore), cioè appiattirla in vista del disperato e disperante tentativo di estrarre tutto il plusvalore possibile e saccheggiare i beni comuni».Ora la sinistra esulta per la “ribellione” all’austerità e indica il “socialista” Hollande come esempio positivo, colui che ha avuto il coraggio di dire di no? Sarà solo «una vera e propria “rivoluzione colorata” anti-austerity e anti-tedesca, quel tipo di rivoluzione che più eccita le sinistre, incuranti dei “forti” che stanno dietro di esse». E il resto del mondo – cioè i sei miliardi su sette? «I paesi Brics, al contrario della Germania, hanno invece capito che possono parlare di Nuova Banca di Sviluppo e magari di Bancor (la soluzione per la moneta internazionale proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata per questioni di potenza dagli Usa) solo se si è muniti adeguatamente di forze armate e di bombe atomiche. Questa è l’orrenda verità». D’altra, continua Pagliani, parte il “gold dollar standard” era nato da una guerra mondiale ed è stato confermato da due città incenerite dalle bombe atomiche, «che del gold-dollar standard sono state l’ostia della prima comunione: poi c’è chi crede che l’economia sia l’unica cosa che conti nel capitalismo!». Sempre secondo Pagliani, «l’imbelle rivoluzione colorata contro l’austerity imposta dalla Germania ha come scopo non unico, ma principale, quello di passare da un parziale a un totale infeudamento della Ue nelle politiche neoimperiali e di deglobalizzazione statunitensi».Le politiche di austerità sono un disastro? Certo, «ma è anche un disastro pensare che politiche “keynesiane” sic et simpliciter riportino all’age d’or del Dopoguerra». Non sarà così: «La Bce che compra titoli di Stato non è la Banca d’Italia degli anni Cinquanta che compra il debito italiano. E neppure se lo facesse oggi una rinata Banca d’Italia. Nemmeno lontanamente. Non sarebbe più una politica monetaria dopo un conflitto mondiale, all’ombra di una stabilità imperiale, in una fase di enorme espansione in presenza di un fortissimo movimento operaio. Sarebbe – ammesso che si possa realizzare – una politica obbligata da uno stato incipiente di guerra e nel pieno di una crisi e di un caos sistemici. Una politica dovuta al fatto che i mercati stanno dividendosi in aree geopolitico-economiche contrapposte». I profitti di una volta? «Semplicemente non ci sono più», perché ormai la coperta si è accorciata. La Germania? «E’ contraria alle linee di Draghi. Ma fino a quando si potrà opporre se sarà costretta ad adeguarsi agli embarghi e le sanzioni contro l’Est che le imporrà la Superpotenza che la occupa con 179 basi militari? Senza mercati di sbocco, che fine farà il suo famoso e famigerato mercantilismo?».Il timore di Pagliani è che la politica keynesiana, «che in molti, con speranza, vedono profilarsi all’orizzonte», di fatto «non sarà capace di riportare indietro le lancette della storia». Ovvero: «Non sarà in grado né di fermare l’impoverimento della società né di indurre un ribilanciamento della ricchezza». Dalla tragedia dell’euro, per esempio, ci si può affrancare «solo in una cornice politica nazionale e internazionale totalmente nuova». Previsioni: crisi nera, ancora e sempre, magari intrerrotta da «ripresine a singhiozzo», incapaci di invertire la rotta. «Se nuovo sviluppo capitalistico ci sarà in Occidente, ci sarà solo dopo una fase conclamata di guerra mondiale che inevitabilmente ne preparerà una quarta, a meno che non riduca fin da subito la Terra all’età della pietra», conclude Pagliani. «Oppure bisognerà cambiare registro, a livello internazionale: sul modo sociale ed ecologico di produrre e di consumare e quindi – e soprattutto – sui rapporti di potere, internazionali e nazionali».Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».
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Caro Renzi, niente ripresa con moneta presa a credito
«Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?Domanda: come mai lo Stato stringe la cinghia ormai da diversi anni, anche se da un paio d’anni beneficia di bassi rendimenti sul suo debito pubblico e per giunta realizza costanti aumenti del gettito tributario? Come mai, nonostante questo, il debito pubblico continua a crescere? Quali sono le voci di spesa che lo gonfiano? Della Luna cita l’impegno per l’assistenza dei migranti, le spese per le indennità di disoccupazione, «generosamente concesse per mettere una toppa (che può reggere solo nel breve termine) alla scelta di lasciar costantemente aumentare la disoccupazione per effetto della deindustrializzazione e della desertificazione economica, frutto della indiscriminata apertura delle frontiere commerciali nonché del blocco dell’aggiustamento dei cambi». Che ne dice, Renzi? Spieghi, almeno, «come in questa situazione si possa “rilanciare” abolendo l’elettività del Senato e dei consigli provinciali, nonché di quel poco che resta dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (già sostanzialmente svuotato da Monti), o con la ventitreesima riforma del processo civile in 23 anni, o togliendo ai magistrati qualche settimana di vacanze».Al punto in cui siamo arrivati, aggiunge Della Luna, l’unico modo per fermare il disastro in tempi brevi – cioè far ritornare la fiducia azzerata e le imprese fuggite, e far davvero ripartire l’economia nazionale, «affrancandosi dai soldi che dovrebbero arrivare dall’estero» – sarebbe che lo Stato, «con l’Eurozona se ci sta, senza se non ci sta», si mettesse a stampare moneta senza indebitarsi. Emissione di moneta sovrana, dunque, «per far lavorare la gente e le imprese, per fare gli investimenti utili a innescare gli investimenti privati e la domanda interna, nonché per dimezzare la pressione fiscale e contributiva subito». Libera moneta, senza più debiti col mercato finanziario. Viceversa, nessuna soluzione funzionerà: «Chiunque dica di voler rimettere in corsa il paese senza fare ciò, non merita alcuna fiducia, ma calci nel sedere, perché o è un bugiardo o è uno stolto».«Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?
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Cremaschi: divorzi dal Pd, o per la Cgil è finita
In una intervista a “Il Manifesto”, Sergio Cofferati sottolinea la differenza tra la mobilitazione da lui guidata, con successo, nel 2002 contro il tentativo di Berlusconi di colpire l’articolo 18 e quella promossa oggi dalla Cgil. Allora si univano opposizione sociale e opposizione politica. Oggi, dice Cofferati, bisogna mobilitare il popolo del centrosinistra contro chi lo rappresenta al governo. È vero, ma così non si sottolinea solo una difficoltà ma una contraddizione. Il collateralismo tra Cgil e Pd è un dato di fatto, e che esso sia avvenuto soprattutto tra il gruppo dirigente sindacale e l’attuale minoranza di quel partito non cambia la sostanza. Anzi la aggrava, perché dà spazio al qualunquismo di potere di Renzi e della sua banda. Quando l’attuale minoranza del Pd era maggioranza e sosteneva il governo Monti, la Cgil ha lasciato passare la più feroce controriforma delle pensioni d’Europa e la prima gravissima modifica dell’articolo 18. È stato infatti il governo dei tecnici, con il consenso di Cgil, Cisl e Uil, ad aprire la via alla sostituzione della “reintegra” con il risarcimento monetario nel caso di licenziamento ingiustificato.E già abbiamo centinaia di licenziamenti che il giudice ha riconosciuto come ingiusti, che nel passato avrebbero avuto come conseguenza il ritorno del lavoratore colpito nel suo posto di lavoro, e che invece oggi si concludono con un po’ di soldi che non compensano certo un futuro di disoccupazione. È chiaro che Renzi vuole andare oltre, abolendo sostanzialmente la “reintegra” e soprattutto, come ha più volte dichiarato, togliendo ogni ruolo ai giudici – che per lui, come per ogni reazionario, non debbono più ingerirsi nel rapporto tra impresa lavoratore: lì ci deve essere solo il mercato, non il diritto. Susanna Camusso ha colto la gravità dei propositi del segretario del Pd capo di governo, ma cerca di chiudere un portone che ha lasciato spalancare. Se la Cgil avesse lottato sul serio contro Monti e la riforma Fornero delle pensioni, e allora c’ erano tra i lavoratori consenso e forza sufficienti, oggi non subirebbe impaurita gli sberleffi di Renzi, e soprattutto sarebbero i lavoratori a reagire.L’abilità manipolatrice permette invece al presidente del Consiglio di esercitare una operazione in totale malafede, ma non per questo poco efficace. Il capo del governo mette assieme il dilagante scontento in tutto il mondo del lavoro verso la passività di Cgil, Cisl e Uil, che per me è sacrosanto, con la vandea reazionaria di chi sostiene che il sindacato ha rovinato l’Italia. Lo può fare perché la Cgil, soprattutto in questi anni di crisi, si è ritirata dal conflitto per paura di perderlo. Così Renzi accusa di essere fermi agli anni ‘70 gruppi dirigenti sindacali che per primi hanno messo in discussione le pratiche e la cultura di quel decennio e che per primi in ogni riunione premettono: non siamo più negli anni ‘70! Sergio Cofferati probabilmente ricorderà che in un congresso della Cgil di quasi venti anni fa con Claudio Sabattini fu posta la necessità della totale indipendenza della Cgil dal quadro politico. Quella scelta non fu fatta e ora il collateralismo da condizione di sopravvivenza diventa un danno.Renzi può vantarsi: noi con la Cgil non c’entriamo niente, anzi, ma Susanna Camusso non può rompere con il Pd. Se lo facesse, per i promotori del Jobs Act sarebbe un colpo ben più duro che quello di uno sciopero generale. Ma ripeto, con l’attuale intreccio tra sistema politico e sistema sindacale, che percorre tutto il paese, Camusso non potrebbe dire basta con il Pd neppure se lo volesse. Ma la questione non è solo di rapporti politici. Ancora una volta la Cgil deve verificare che il patto tra i produttori, cioè quell’accordo tra i rappresentanti delle forze produttive con il quale condizionare la politica che il gruppo dirigente sindacale persegue da anni, quell’accordo non esiste. Dalla Confindustria alle banche alle cooperative, tutto il sistema delle imprese ha mollato la Cgil e si è schierato con Renzi. Cisl e Uil, naturalmente, han fatto lo stesso. Eppure solo il 10 gennaio di quest’anno si era firmato un testo sulla rappresentanza, per me liberticida, che veniva presentato come il nuovo avvio della stagione delle regole.Anche sul merito dei provvedimenti del governo, la Cgil non riesce ad avere una posizione senza contraddizioni. Come si fa ad accreditare la positività del contratto a tutele crescenti, quando è chiaro che con esso passa il principio che si è a termine in ogni istante del rapporto lavorativo, perché in ogni momento si può essere licenziati ingiustamente e mandati casa? Anche la Fiom qui ha preso una cantonata. Non credo che si possa davvero lottare contro la svolta reazionaria di Renzi, ispirata da Draghi e Marchionne, con il peso di tutte queste contraddizioni sulle spalle. Non credo che si possa ottenere un risultato restando in continuità con un modello sindacale che ha accumulato solo sconfitte. Renzi fa il gradasso e prende in giro la Cgil perché conta di aver sempre di fronte il solito sindacato rassegnato al meno peggio. O i sindacati, la Cgil, cambiano rapidamente e nella direzione esattamente opposta a quella seguita negli ultimi trenta anni, rompendo con il Pd e con il sistema di potere che sostiene il governo, oppure sarà un’altra terribile sconfitta. Che ricadrà tutta sulle condizioni di un mondo del lavoro che già sta precipitando verso i livelli più bassi d’Europa.(Giorgio Cremaschi, “Perché questa Cgil non ce la può fare con Renzi”, da “Micromega” del 1° ottobre 2014).In una intervista a “Il Manifesto”, Sergio Cofferati sottolinea la differenza tra la mobilitazione da lui guidata, con successo, nel 2002 contro il tentativo di Berlusconi di colpire l’articolo 18 e quella promossa oggi dalla Cgil. Allora si univano opposizione sociale e opposizione politica. Oggi, dice Cofferati, bisogna mobilitare il popolo del centrosinistra contro chi lo rappresenta al governo. È vero, ma così non si sottolinea solo una difficoltà ma una contraddizione. Il collateralismo tra Cgil e Pd è un dato di fatto, e che esso sia avvenuto soprattutto tra il gruppo dirigente sindacale e l’attuale minoranza di quel partito non cambia la sostanza. Anzi la aggrava, perché dà spazio al qualunquismo di potere di Renzi e della sua banda. Quando l’attuale minoranza del Pd era maggioranza e sosteneva il governo Monti, la Cgil ha lasciato passare la più feroce controriforma delle pensioni d’Europa e la prima gravissima modifica dell’articolo 18. È stato infatti il governo dei tecnici, con il consenso di Cgil, Cisl e Uil, ad aprire la via alla sostituzione della “reintegra” con il risarcimento monetario nel caso di licenziamento ingiustificato.
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Di finanza si muore: ed ecco la bolla finale della Bce
Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.«Negli ultimi due decenni, l’economia globale è passata da una bolla all’altra con eccessi che non sono mai stati pienamente rivelati. Invece, una politica aggressiva ha incoraggiato il rifinanziamento con nuove bolle. Ciò ha discutibilmente fatto del sistema finanziario moderno, così come lo conosciamo, una preoccupazione costante», si legge nel rapporto. La bolla è ora “migrata” nel mercato obbligazionario, ed è diventata «una condizione necessaria per mantenere in piedi il superindebitato sistema finanziario». Non c’è più un luogo dove migrare, visto che ora la bolla è nelle mani dei governi e delle banche centrali, i prestatori di ultima istanza, e perciò «pensiamo che questa bolla vada mantenuta per assicurare la solvibilità dell’attuale sistema finanziario». Prevedibilmente, azioni e obbligazioni sono salite dopo l’annuncio di Draghi. Secondo alcune fonti, non sono solo i privati a speculare, ma le stesse banche centrali starebbero acquistando “futures” e altri titoli derivati per sostenere direttamente il mercato.Mentre non è certo quale sarà la domanda di Ltro, il pezzo forte della Bce è il programma di acquisto di Abs. Il 12 settembre lo stesso Juncker ha dichiarato che una delle priorità della nuova Commissione Europea sarà rivitalizzare il mercato Abs. La Bce si è avvalsa della consulenza del colosso statunitense BlackRock, a sua volta grande possessore di titoli Abs, delineando quindi un «leggero conflitto di interessi». Ma la Bce, avverte “Movisol”, non vuole rischiare in proprio: «Sta già pensando di scaricare il peso degli Abs tossici sulle spalle del contribuente». Benoit Coeure, membro dell’esecutivo di Francoforte, ha chiarito: perché un programma di acquisti di Abs raggiunga tutto il suo potenziale, i governi devono garantire almeno parte del debito. «L’Europa si trova ad affrontare una scelta fondamentale se vuole muoversi verso un mercato Abs che abbia la stessa profondità e la liquidità del mercato americano», ha detto Coeure in un’intervista alla rivista “Risk”, distribuita dalla Bce.«Per raggiungere questo obiettivo», aggiunge Coeure, «il mercato delle cartolarizzazioni richiederà una quantità significativamente maggiore di sostegno pubblico di quella attuale». In altre parole, riassume “Movisol”, «la Bce pompa la bolla finale, in parte stampando soldi, in parte con soldi pubblici (i contribuenti), in una mossa futile e disperata che non impedirà alla bolla di scoppiare ma piuttosto ne accelererà la fine». Nel frattempo, «la recessione nell’Ue sta rivelandosi una depressione». Infatti, «la disoccupazione di massa ha raggiunto livelli da anni Trenta e in alcuni casi le istituzioni democratiche sono state compromesse irreversibilmente». E’ il “capolavoro” della moneta non-sovrana, che mette in crisi gli Stati e le economie nazionali, obbligandole a elemosinare credito presso il mercato finanziario internazionale attraverso il sistema bancario privato. E la Bce è il gestore dell’euro-regime, il braccio armato della grande crisi. «Liberiamoci del pilota pazzo ai comandi!», conclude “Movisol”.Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.
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Pellizzetti: articolo 18, storico alibi per manager cialtroni
Se è possibile virare un post a grido di indignazione, voglio provare a farlo. L’indignazione per l’imbroglio continuato che da anni stravolge il significato reale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (disciplina del licenziamento illegittimo nelle unità produttive con più di quindici dipendenti), trasformandolo in dogmatismo da guerra di religione. Come sempre, le normative in materia di relazioni industriali attengono direttamente a poste in gioco concrete e non sono mai neutrali. Stabiliscono vincitori e vinti. Nel caso in questione, su chi si intende puntare per uscire dalla crisi di un sistema produttivo ormai in deliquio; al tempo stesso, contro chi puntare il dito in quanto colpevole della situazione disastrosa. La focalizzazione inquisitoria sul famigerato “diciotto” ha un solo significato, “politico”: colpevoli sono i lavoratori, cui sono stati concessi in passato (o meglio, che hanno estorto) troppi diritti e troppi soldi. Portandoci fuori mercato.Difatti sono ormai decenni che si è scatenata questa caccia alle presunte stregonerie malefiche annidate nel mondo dei prestatori d’opera e delle loro rappresentanze; tanto che nulla serve, per diradare i fumi dei roghi allestiti dai grandi inquisitori (i veri stregoni all’opera in materia), tentare di ricordare che il costo del lavoro italiano è più basso di quello francese e tedesco. Non serve a niente, perché qui non si parla di politiche industriali ma si attuano veri e propri esorcismi. Ingannevoli come sempre, quanto finalizzati a depistare la furia generale dai veri bersagli. Le responsabilità effettive. Ad esempio, oscurare il fatto che il disastro di cui si parla risale agli anni Settanta, quando è stata avviata una vera e propria serrata degli investimenti; i cui effetti diretti sono il crollo della ricerca applicata. Tanto che il Made in Italy non riesce più a immettere sui mercati prodotti con un minimo di appeal (credo di averlo detto già altre volte: il nostro ultimo prodotto innovativo è quello scarpone con il gancio metallico che risale agli anni Settanta).Ma ora il governo dichiara, baldanzoso e imperterrito, che provvederà a decretare la cancellazione della normativa di garanzia del rapporto di lavoro come una sorta di guerra di liberazione del lavoro da se stesso; così dimostrando di essere totalmente immerso nel cerchio stregato che distorce le questioni e produce visioni mistificatorie. In effetti l’annuncio governativo ha un altro significato: dice chiaramente con chi sta. Ossia, sta con i quei ceti manageriali/imprenditoriali che per tutti questi decenni non hanno saputo indicare – in materia di strategie competitive – altro che la ricetta da Terzo Mondo della mano libera per pagare sempre meno e tenere a bada sempre di più con la minaccia del licenziamento. Nonostante le montagne di chiacchiere da convegno e seminario di organizzazione su “il lavoro competente e motivato quale risorsa primaria dell’impresa” (quindi, detto in anglomanagerialese che fa fino: commitment, empowerment e altri tricchetracche).Sicché continuiamo nell’antico imbroglio. Con buona pace di quelli che si sgolano a spiegare che con queste leadership d’impresa, cui si vorrebbe ulteriormente dare mano libera, non si va da nessuna parte. Questi presunti “cavalieri della valle solitaria” rivelatisi alla prova dei fatti nient’altro che la reincarnazione dei robber barons (i baroni ladri del secolo scorso). In America i sedicenti grandi innovatori che hanno scippato le scoperte della ricerca finanziata dallo Stato (da Arpanet-Internet, creata dal sistema militare/universitario USA e poi tradotta in business miliardario dalle Microsoft, al touch-screen sviluppato dal centro di ricerca dell’Università del Delaware ma commercializzato con extra profitti dalla Apple); in Italia i presunti “capitani coraggiosi” che oligopolizzano la telefonia con le bollette più alte d’Europa e fanno incetta di servizi pubblici in svendita; dalla sanità alla mobilità. Difatti il nostro premier sta dalla loro parte. Difatti anche in questo campo il presunto riformatore è garanzia di esiti controriformistici.(Piefranco Pellizzetti, “Articolo 18, il grande imbroglio”, da “Micromega” del 17 settembre 2014).Se è possibile virare un post a grido di indignazione, voglio provare a farlo. L’indignazione per l’imbroglio continuato che da anni stravolge il significato reale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (disciplina del licenziamento illegittimo nelle unità produttive con più di quindici dipendenti), trasformandolo in dogmatismo da guerra di religione. Come sempre, le normative in materia di relazioni industriali attengono direttamente a poste in gioco concrete e non sono mai neutrali. Stabiliscono vincitori e vinti. Nel caso in questione, su chi si intende puntare per uscire dalla crisi di un sistema produttivo ormai in deliquio; al tempo stesso, contro chi puntare il dito in quanto colpevole della situazione disastrosa. La focalizzazione inquisitoria sul famigerato “diciotto” ha un solo significato, “politico”: colpevoli sono i lavoratori, cui sono stati concessi in passato (o meglio, che hanno estorto) troppi diritti e troppi soldi. Portandoci fuori mercato.
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Strage inventata? Certo, per preparare quella vera
Il set di un film dell’orrore, per colpire l’opinione pubblica e legittimare la deposizione del tiranno. Accadde in Romania nel fatidico 1989, quando a Timisoara furono rastrellati negli obitori i corpi di persone appena decedute. Vennero martoriati e feriti per simulare le torture, in realtà mai subite. Il tutto, a beneficio delle telecamere. Per Rosanna Spadini, quel precedente dimostra un passaggio d’epoca: «La società dello spettacolo diventa schiava di se stessa», e lo spettacolo «viene trasformato in strumento di disperazione e di morte». Si rompe un patto millenario con gli spettatori, fondato sulla promozione culturale della società. Resta solo la scenografia teatrale, ed è «un teatro che rinnega se stesso, un teatro che uccide», ora anche sul palcoscenico della navigazione web, che proietta l’individuo «in un altrove extraterritoriale, slegato dallo spazio fisico del suo corpo e dal tempo della sua coscienza». Notizie sensazionali, immagini devastanti. Ma c’è il trucco: è tutto falso. La Spadini la chiama «arte dalla meraviglia multimediale dei visual network». Da allora, la messinscena servirà a dare legittimità mediatica a tutte le guerre contemporanee.
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Gros: scordatevi la ripresa, la Germania la impedirà
Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannamdo il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».Non sarà mai sconfessata «la linea della Germania, di contrasto alla crisi del debito», prende nota il blog di Gad Lerner commentando l’intervista a “Repubblica” concessa da Gros all’indomani del vertice dell’Ecofin e dell’Eurogruppo a Milano il 13 settembre, riunioni caratterizzate dal duello tra il premier italiano e Katainen, vicepresidente in pectore della Commissone Europea presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, nominato dalla Merkel. L’incontro di Milano sarà da ricordare, dice Gros, perchè «probabilmente rappresenta la fine delle speranze dell’Italia di ottenere questo sospirato allentamento da parte della Germania». La prova, secondo Daniel Gros, è la nuova manovra di bilancio approntata da Berlino: la grande coalizione tra Angela Merkel e i socialdemocratici dell’Spd ha ridotto gli investimenti pubblici per realizzare una finanziaria senza nuovi debiti, «un obiettivo condiviso praticamente da tutti i partiti tedeschi presenti al Bundestag, con l’eccezione della sinistra radicale», la Linke. Una manovra che «spegne le richieste di chi chiedeva a Berlino la maggior mobilitazione di risorse pubbliche al fine di stimolare la crescita nell’Eurozona».«Da questa posizione di ortodosso rispetto del rigore la Germania non si muoverà», osserva Lerner, e secondo Daniel Gros la composizione della nuova Commissione Juncker evidenzia come non è possibile attendersi alcuna svolta. «I toni concilianti dell’Ecofin sono poco credibili, almeno quanto le rassicurazioni italiane», dice il tecnocrate tedesco. «Certo, la Germania non ammette neanche un intervento d’emergenza, ma l’Italia, come la Francia che forse preoccupa anche di più, non aiuta con i comportamenti la comprensione reciproca». L’Italia ha un debito pubblico al 136%? «Non so come faccia a poter spendere di più: potrebbe anche smetterla di chiedere aperture o flessibilità”». Quanto al ricatto delle “riforme” neoliberiste, ispirate dal mercantilismo neoclassicista dell’export – massima competitività derivante dalla compressione salariale per tagliare i costi di produzione, sacrificando alla legge dell’export i consumi interni e il benessere sociale della nazione – per il dottor Gros si tratta di una speranza vana, perché il “no” della Germania non cambierebbe. «Non credo che la risposta di Berlino sarebbe diversa da quella di oggi. Il passato continuerebbe a pesare come un macigno. Per questo mi sembrano ipocriti tutti questi abbracci alla Spagna, un paese che ha il 25% di disoccupazione, solo per un paio di riforme fatte».Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannando il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».