Archivio del Tag ‘Siria’
-
Twin Towers, esplosivi: le prove. Ma l’America non le vuole
Le torri del World Trade Center di New York non sarebbero state distrutte dall’impatto di due aerei di linea, ma da un’operazione di “demolizione controllata”, condotta con esplosivi militari a base di nano-termite. Un’accusa pesantissima, che costringe a rileggere sotto una nuova e drammatica luce l’attentato dell’11 Settembre 2001, confermando i sospetti iniziali sull’assoluta inattendibilità della versione ufficiale. A muoverla è l’associazione americana no-profit “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, architetti & ingegneri per la verità sull’11 Settembre. E’ costituita dai 2.363 architetti e ingegneri statunitensi che nell’autunno 2016 hanno firmato una petizione indirizzata al Congresso Usa per riaprire una vera investigazione indipendente sulla distruzione del World Trade Center. Lo ricorda Rino Di Stefano in un’accurata ricostruzione, sul suo blog, del maxi-attentato di New York che ha innescato le guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite dai conflitti a catena in Libia e Siria, in cui la sigla terroristica iniziale, Al-Qaeda, ha lasciato il posto alla sua filiazione diretta, Isis, in una spirale di violenza e orrore che, da allora, ha giustificato l’impiego sistematico di eserciti, impensabile prima dell’11 Settembre.Gli “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, ricorda Di Stefano, hanno inviato un dettagliato report (“Oltre la disinformazione”) a oltre 20.000 americani: professionisti, professori, legislatori e giornalisti. L’autore del dossier è Ted Walter, alla guida di un team dal curriulum ragguardevole: tra i membri Sarah Chaplin, architetto (università londinese di Kingston), Mohibullah Durrani (docente di ingegneria e fisica al Montgomery College del Maryland), Richard Gage (fondatore dell’associazione per la verità sull’11 Settembre), Robert Korol e Graeme McQueen (Università McMaster dell’Ontario), più l’architetto Roberto McCoy e l’ingegnere Oswald Rendon-Herrero, docente dell’Università Statale del Mississippi. «Secondo la versione ufficiale rilasciata dal governo Bush – ricorda Di Stefano – le Torri Gemelle del World Trade Center di New York (entrambe di 110 piani per un’altezza di 415 metri) sono crollate a causa dell’impatto, e del conseguente incendio, provocato da due aerei di linea nel corso di un attentato portato a termine da un gruppo di terroristi mediorientali. Inoltre, anche la terza Torre, chiamata Wtc 7, un edificio di 47 piani alto 174 metri, sarebbe crollata simmetricamente su se stessa nel pomeriggio di quel giorno, in seguito all’incendio provocato dai detriti della Torre 1».Ebbene, questa soluzione non viene accettata, in quanto definita “non scientifica”, da buona parte degli architetti e degli ingegneri americani. «Questi esperti dell’edilizia dichiarano, infatti, che le tre torri siano state fatte crollare in seguito ad un’accurata operazione di demolizione controllata provocata dalla disposizione di esplosivi e altri dispositivi, fatti detonare al momento opportuno per far crollare le strutture nel modo desiderato». Non solo. «L’associazione degli Architetti & Ingegneri – continua Di Stefano – dice chiaramente che l’operazione sarebbe stata preparata prima dell’11 Settembre da specialisti della demolizione che hanno avuto libero accesso alle torri nei giorni precedenti l’attentato». L’analisi offerta è esclusivamente scientifica. La storia del crollo di edifici a completa struttura metallica (come le Torri Gemelle) è lunga almeno cento anni: durante questo periodo, non si è mai verificato che un edificio di quel genere fosse crollato a causa di un incendio. Tutti, infatti, sono stati abbattuti nel corso di operazioni di demolizione controllata. Nonostante questo dato di fatto, il Nist (National Institute of Standards and Technology), incaricato dal governo Bush di indagare sul disastroso attentato, nei risultati della sua indagine ufficiale ha scritto che ha trovato 22 casi di incendio che tra il 1970 e il 2002 hanno portato al crollo di altrettanti palazzi.Di questi 22 casi, 15 furono crolli parziali, dei quali cinque superavano i 20 piani di altezza. Analizzando invece ogni singolo caso, prosegue Di Stefano, lo studio accertò che soltanto in quattro casi si verificò un totale crollo dell’edificio interessato all’incendio, ma nessuno di questi aveva una struttura metallica, e il più alto era di appena 9 piani. «Vennero fatti anche diversi test presso il Building Research Establishment (Bre) Laboratories di Cardington, in Inghliterra, ma in nessun caso risultò che edifici con una struttura metallica potessero crollare completamente a causa di un incendio, per quanto devastante». La probabilità che un’evenienza di questo tipo potesse accadere, venne scritto, era “extremely low” (estremamente bassa). «Se poi si confrontano gli effetti di un crollo dovuto ad incendio rispetto ad un crollo da demolizione controllata, le differenze saltano agli occhi. Nel primo caso, infatti, il collasso dell’edificio è sempre parziale e si ferma ai piani inferiori. In una demolizione controllata, invece, il collasso è totale, avviene in pochi secondi e la caduta è libera, con una discesa simmetrica sul proprio asse».C’è poi il discorso delle esplosioni, sottolinea Di Stefano: mentre un crollo da incendio, se mai si dovesse verificare un’esplosione, avverrebbe là dove le fiamme si sono sviluppate, «nel crollo da demolizione controllata le esplosioni si vedono chiaramente piano per piano, all’esterno dell’edificio: ed è quello che è accaduto nelle Torri Gemelle». La probabilità di un incendio che possa aver causato il crollo totale di un edificio molto alto con una struttura metallica è estremamente basso, sostengono gli “Architetti & Ingegneri”. «Un evento di questo genere non è mai accaduto prima dell’11 Settembre 2001. D’altra parte, nella storia, ogni crollo totale di un edificio molto alto a struttura metallica, è stato causato da demolizione controllata». Secondo punto: un incendio che induce un cedimento delle strutture, di fatto, non mostra alcuna delle caratteristiche di una demolizione controllata. Inoltre, come può essere visto in ciò che è accaduto l’11 Settembre 2001, la distruzione di Wtc 1, Wtc 2 e Wtc 7 mostra «quasi tutte le caratteristiche della demolizione controllata e nessuna caratteristica del collasso provocato da un incendio». Aggiunge Edward Munyak, ingegnere specializzato in misure anti-incendio: «Un collasso globale progressivo potrebbe anche essere straordinario. Ma averne tre in un giorno va oltre ogni comprensione».Buio pesto dalle indagini ufficiali: «Per oltre un anno dal disastro, il governo Bush ha impedito qualunque investigazione su quanto accadde quel giorno», premette Di Stefano. Prima del Nist, le indagini ufficiali erano state condotte dalla Fema (Federal Emergency Management Agency). «Il primo a parlare di bombe situate all’interno delle Torri Gemelle fu l’ingegner Ronald Hamburger della Asce (American Society of Civil Engineers), che collaborava con la Fema». Tuttavia, Hamburger «si rimangiò i propri dubbi quando gli venne detto che nessuno aveva sentito esplosioni nei pressi delle Torri Gemelle». Non fu il solo a smentire la propria prima impressione: Van Romero, un esperto di esplosivi della New Mexico Tech, rilasciò un’intervista al quotidiano “Albuquerque Journal” sostenendo: «Il crollo dei palazzi è stato troppo ordinato per essere il risultato fortuito dell’impatto di aeroplani contro le strutture». E aggiunse: «La mia opinione, basata su quanto ho visto nei filmati, è che dopo che gli aerei hanno colpito il World Trade Center, ci siano stati dei congegni esplosivi dentro i palazzi che hanno causato il crollo delle torri».Il 21 settembre, dopo aver parlato con non meglio identificati “ingegneri strutturali”, Romero ritrattò tutto. Il fatto è che il fuoco dell’incendio doveva essere ufficialmente la causa del disastro, spiega Di Stefano. I dubbi, però, non mancavano. Il 29 novembre del 2001 William Baker, uno degli ingegneri della Fema, rilasciò al “New York Times” la seguente affermazione: «Noi sappiamo che cosa è accaduto alle Torri 1 e 2, ma perché la 7 è venuta giù?». Come scrissero i cronisti James Glanz ed Eric Lipton del “New York Times”, per mesi dopo l’11 Settembre gli investigatori non riuscirono a ottenere i progetti dettagliati degli edifici crollati, ad ascoltare i testimoni del disastro, a fare ispezioni a Ground Zero e ad ascoltare le voci registrate della gente che era rimasta intrappolata all’interno delle torri. Inoltre, la Fema «impedì che gli investigatori si rivolgessero al pubblico per ottenere fotografie e video che avrebbero potuto aiutarli nelle indagini».Un comportamento “incomprensibile”, da parte del governo. «Gli investigatori non riuscirono neppure a prelevare campioni dei detriti delle Torri in quanto, con una fretta sospetta, le migliaia di tonnellate di macerie vennero prelevate, caricate su alcune navi e inviate in Cina e in India per essere smaltite». Così, il 1° maggio 2002, la Fema presentò un dossier preliminare «nel quale non forniva una spiegazione definitiva per la distruzione di ogni singolo edificio», preferendo proporre la cosiddetta “teoria pancake”. Ovvero: le singole solette di cemento dei vari piani superiori, colpiti dall’aereo, sarebbero crollate sul piano inferiore determinando un effetto domino. «Il punto, però, è che il piano sottostante in condizioni normali avrebbe resistito all’impatto», obiettano i tecnici indipendenti. Se non è accaduto, «è perché è venuta meno la forza della sua resistenza». In altre parole, sintetizza Di Stefano, «quando un piano crollava su quello inferiore, alcune cariche esplosive distruggevano le colonne portanti di quella seconda soletta, innescando un effetto a catena».Il Nist si è fermato alla “teoria del pancake”, mentre per il terzo edificio, il Wtc 7, se l’è cavata sostenendo di non aver notato «alcuna prova» che il crollo dell’Edificio 7 sia stato «causato da bombe, missili o demolizione controllata». Ultimo verdetto nell’agosto 2008: edificio crollato anch’esso a causa del fuoco. A smentire il Nist è un libro firmato da due ricercatori, Frank Legge e Anthony Szamboti, il cui libro è intitolato, esplicitamente “9/11 and the Twin Towers: Sudden Collapse Initiation was Impossible”, cioè “Torri Gemelle, l’inizio del crollo repentino era impossibile”. Sostengono gli autori: «Un lento, prolungato e cedevole collasso non è stato osservato». Lo confermano i video: «La sezione più alta improvvisamente ha iniziato a cadere e a disintegrarsi». Un punto di vista tecnico largamente condiviso nel dossier degli “Architetti & Ingegneri”. Il governo sostiene che le colonne portanti delle torri si sarebbero deformate diversi minuti prima del crollo? I tecnici indipendenti smentiscono: non si sono visti affatto gli «inconfondibili segni d’avvertimento» e le «grandi deformazioni» che ci si aspetterebbe prima di un crollo.Se questo processo è avvenuto, scrivono i professionisti, allora è stato invisibile. Ed è avvenuto nel singolo istante in cui le strutture sono crollate. Secondo Kevin Ryan, un ex direttore della Underwriters Laboratories, «la diffusione dell’instabilità avrebbe richiesto molto più tempo e non risulterebbe nella caduta libera delle sezioni superiori sulle strutture inferiori». Il Nist, ricorda Di Stefano, afferma che il Wtc 1 è crollato in appena 11 secondi, mentre la Torre 2 in 9 secondi. Sempre il Nist afferma che la “caduta libera” delle Torri Gemelle è dimostrata dai video, in quanto «i piani inferiori al livello del crollo hanno offerto una minima resistenza alla tremenda energia rilasciata dalla massa dell’edificio che stava cadendo». Per gli scienziati indipendenti, autori di un primo esposto insieme a familiari delle vottime, le motivazioni del Nist «non erano scientificamente valide». L’autorità non avrebbe affatto spiegato le cause tecniche: che cosa è realmente accaduto, e perché. In altre parole, come poi lo stesso Nist fu costretto ad ammettere, gli esperti del governo «non erano in grado di fornire una spiegazione completa del crollo totale».Un’altra osservazione che mette in forte dubbio i risultati del Nist, continua Di Stefano nella sua ricostruzione, riguarda l’assoluta mancanza di decelerazione durante il crollo delle torri. «Una mancanza di decelerazione – riporta il dossier – indicherebbe con assoluta certezza che la struttura inferiore è stata distrutta da un’altra forza, prima che la parte superiore la raggiungesse». Il primo studio a mettere in dubbio i risultati ufficiali (“Il colpo mancante”) è stato firmato da Anthony Szamboti, ingegnere meccanico, e Richard Johns, professore di filosofia della scienza. La tesi: il Nist aveva calcolato male la resistenza delle colonne all’interno delle Torri Gemelle. Successivi studi hanno accertato che «la costante accelerazione e la mancanza di una osservabile decelerazione, per se stesse, costituiscono una irrefutabile evidenza che siano stati usati esplosivi per distruggere le Torri Gemelle». Inoltre, una delle caratteristiche più evidenti della distruzione delle Twin Towers è stata la quasi totale polverizzazione del cemento. L’allora governatore di New York, George Pataki, scrisse nella sua relazione sul disastro: «Non c’è cemento. C’è veramente poco cemento. Tutto quello che si vede è alluminio e acciaio. Il cemento è stato polverizzato».Oltre a questo, continua Di Stefano, le strutture d’acciaio delle torri erano quasi interamente smembrate. A parte alcuni muri esterni ancora in piedi alla base di ogni edificio, virtualmente tutti gli scheletri d’acciaio erano rotti in diversi pezzi, con la parte centrale separata dalle colonne esterne. «Che cosa potrebbe mai spiegare la quasi totale polverizzazione di circa 3 milioni di metri quadrati di solette di cemento e il quasi totale smembramento di 220 piani di struttura d’acciaio? Il Nist non fornisce alcuna spiegazione e la sola forza di gravità non appare plausibile. Anche perché, viene spiegato nel dossier, l’energia necessaria per polverizzare il cemento e smembrare le strutture d’acciaio è calcolabile in 1.255 gigajoule. Una misura decisamente lontana dagli stimati 508 gigajoule di potenziale energia gravitazionale contenuta negli edifici». L’enorme nuvola di cemento polverizzato che ha sommerso Manhattan «diventa ancora più incomprensibile se si pensa che il crollo è avvenuto “essenzialmente in caduta libera”». Secondo il dottor Steven Jones, ex professore di fisica presso la Brigham Young University, «il paradosso è facilmente risolvibile con l’ipotesi della demolizione esplosiva, là dove gli esplosivi facilmente rimuovono i materiali dei piani inferiori, incluse le colonne portanti, permettendo di fatto un crollo in caduta libera».Altro fattore “inspiegabile”, il lancio di materiali verso l’alto e lateralmente, piuttosto distanti dal perimetro degli edifici. Secondo la Fema, i materiali dei due edifici sono stati lanciati fino a oltre 150 metri dalla base di ogni torre. In video prodotto dal fisico David Chandler, si nota l’espulsione esplosiva di materiali dalla Torre 1, «continui e molto estesi», anche alla velocità di 170 chilometri orari. «Il palazzo – afferma – è stato progressivamente distrutto, a partire dalla cima, da ondate di esplosioni che hanno creato una spessa coltre di detriti». E aggiunge: «Insieme alla nuvola di polvere vi sono pesanti travi e intere sezioni di frammenti d’acciaio che sono stati lanciati fuori dal palazzo: alcuni sono finiti così lontano, come due campi di football dalla base della torre». A chi sostiene che l’espulsione “esplosiva” di quei frammenti sia stata un semplice prodotto del crollo, il professor Chandler risponde: «Non abbiamo visto isolate travi lanciate all’esterno. Noi abbiamo visto la maggior parte della massa dell’edificio ridotta in piccoli pezzi di pietrisco e polvere fina, espulsa esplosivamente in tutte le direzioni».Secondo lo scienziato Kevin Ryan, l’espulsione esplosiva dei materiali dalle Torri Gemelle è spiegabile soltanto come «scoppi ad alta velocità di detriti espulsi da precisi punti degli edifici». L’ipotesi della demolizione, afferma Ryan, «suggerisce che questi scoppi di detriti siano il risultato della detonazione di cariche esplosive piazzate in punti chiave della struttura, per facilitare la rimozione della resistenza». E specifica: «Ognuno di questi scoppi era costituito da un’improvvisa e secca emissione che appariva provenire da un preciso punto, espellendo approssimativamente tra i 15 e i 30 metri dal lato del palazzo, in una frazione di secondo». Dai fotogrammi estratti da un video, «possiamo stimare che uno di questi scoppi è durato complessivamente 0,45 secondi: questo ci fornisce una velocità media di circa 52 metri al secondo». Rileva Di Stefano: «E’ significativo che il Nist non abbia nemmeno parlato di questi scoppi nella sua relazione finale, mentre nelle sue “Faq” cita gli scoppi come “sbuffi di fumo”, sostenendo che “la massa crollante del palazzo aveva compresso l’aria sottostante – quasi come l’azione di un pistone – forzando il fumo e i detriti fuori dalle finestre mentre i piani inferiori crollavano sequenzialmente».Secondo Ryan, la spiegazione del Nist non è valida. «I piani delle torri – sostiene lo scienziato – non erano containers chiusi e altamente pressurizzati in grado di generare alte pressioni abbastanza forti da far scoppiare le finestre. La massa crollante avrebbe dovuto agire come un disco piatto che esercita una pressione uniforme su tutti i punti. Ma le sezioni superiori, esse stesse disintegrate come si vede nei video, non possono esercitare una pressione uniforme». Anche prendendo in considerazione un ipotetico perfetto container e una pressione uniforme, usando la “Legge del Gas Ideale” per calcolare il cambiamento della pressione, «possiamo determinare che la pressione dell’aria non potrebbe aumentare abbastanza per far scoppiare le finestre». Tanto più che «gli scoppi contenevano detriti polverizzati, non fumo e polvere». Inoltre, «i detriti del palazzo da 20 a 30 piani sotto la zona del crollo, non potevano essere polverizzati ed espulsi lateralmente dalla pressione dell’aria».Oltre al ricco materiale fotografico e televisivo riguardante la distruzione delle Torri Gemelle, continua Rino Di Stefano, bisogna considerare anche il numero delle testimonianze raccolte dai vigili del fuoco (Fdny, New York Fire Department) nella loro relazione, più di 10.000 pagine di dichiarazioni giurate di oltre 500 pompieri. In più, come documentato dal dottor Graeme McQueen, ben 156 testimoni oculari hanno parlato esplicitamente delle esplosioni che hanno visto e sentito durante il crollo delle torri. Tra questi, 121 sono pompieri e 14 sono agenti della polizia portuale (Port Authority Police Department). Altri 13 sono giornalisti presenti sul posto. In caso di normali incendi, si registrano quattro tipi di esplosioni: da vapore, da impianti elettrici, da fumo e da combustione. I vigili del fuoco di New York «sanno riconoscere questi fenomeni, anche perché sono irregolari e certamente non sincronizzati». Invece, nel caso delle Torri Gemelle, «i testimoni hanno parlato di esplosioni precise e distanziate di pochi secondi l’una dall’altra», tanto che alcuni si sono spinti ad affermare che «le Torri Gemelle sono state distrutte dalle esplosioni».«Si è arrivati al punto che è infuriata una discussione sulla percezione che abbiamo avuto circa il fatto che il palazzo sembrava fosse stato fatto saltare in aria con delle cariche», racconta Cristopher Fenyo in un’intervista rilasciata al “Wtc Task Force”. «In effetti, ho pensato che stava esplodendo», ricorda John Coyle, un altro testimone: «Questo è ciò che ho pensato in seguito per diverse ore. Penso che chiunque a quel punto pensasse che quei palazzi fossero esplosi». Nonostante il Nist si ostini ad ignorare le testimonianze, sostenendo invece che non ci siano prove di esplosioni nelle Torri Gemelle, il professor McQueen, riferendosi alla relazione dei vigili del fuoco di New York, afferma: «Abbiamo avuto 118 testimoni su 503 intervistati. Circa il 23% del gruppo sono testimoni delle esplosioni. A mio avviso, questa è un’alta percentuale di testimoni, specialmente considerando che a queste persone non sono state rivolte domande circa le esplosioni e, nella maggior parte dei casi, neanche sono state poste domande circa il crollo delle torri». In conclusione, il dossier sostiene che il Nist, decidendo di non indagare a fondo su quelle che sono state le vere cause del crollo delle Torri Gemelle, ha condotto una “piccola analisi” sul comportamento tenuto dalle strutture edilizie, ignorando volutamente qualunque prova ne potesse derivare. Di conseguenza, il Nist non è riuscito a fornire convincenti prove scientifiche.Poi c’è il “mistero” del crollo, quasi simmetrico dell’Edificio 7, a parecchia distanza dalle due torri colpite dagli aerei. La terza torre, ricorda Di Stefano, è crollata su se stessa intorno alle 17 dell’11 settembre 2001, senza essere stata colpita da nessun jet o comunque coinvolta nel crollo delle altre due torri principali. Per il Nist, l’evento è normale e rientra nella logica delle cose. L’incendio si sarebbe esteso anche al terzo edificio del complesso, indebolendone le strutture e facendolo crollare. «Oltre alla spiegazione verbale, il Nist non ha fornito alcuna motivazione strutturale o scientifica». Secondo David Chandler, docente di fisica, questa spiegazione non regge. «La caduta libera – afferma – non è compatibile con qualunque scenario naturale che abbia a che fare con la debolezza, la deformazione o la frantumazione delle strutture, in quanto in ognuno di questi scenari ci sarebbero grandi forze di interazione con le sottostanti strutture, che avrebbero fatto rallentare la caduta… Il crollo naturale risultante da caduta libera, semplicemente non è plausibile». Per Chandler, il crollo del Wtc 7 è la prova lampante della demolizione controllata. Il Nist obietta: non vi fu vera “caduta libera”, poiché 18 piani dell’edificio sono crollati in 5,4 secondi, cioè con un margine del 40% più lungo (circa 1,5 secondi) rispetto al tempo stimato della caduta libera. Ma Chandler taglia corto: «Il crollo non è avvenuto per il cedimento di una colonna, o di alcune colonne o di una sequenza di colonne. Tutte le 24 colonne interne e le 58 perimetrali sono state rimosse simultaneamente nell’arco di otto piani e in una frazione di secondo. In questo modo la metà superiore dell’edificio è rimasta intatta».Così come le Torri Gemelle, anche la struttura metallica dell’Edificio 7 è stata completamente smembrata. E i detriti hanno formato un compatto cumulo di rifiuti lungo il perimetro del palazzo. Anche in questo caso, sospetta Di Stefano, lo smembramento dell’edificio si può spiegare soltanto con la demolizione controllata. Lo spiegava già nel 1996 Stacey Loizeaux, della Controlled Demolition Inc., azienda specializzata: i demolitori agiscono da due a sei piani, a seconda dell’altezza del palazzo, per colpire le colonne portanti e far crollare l’edificio su se stesso, riducendo anche la grandezza degli eventuali detriti. Inoltre, più che di “esplosione” si dovrebbe parlare di “implosione”, in quanto il palazzo deve crollare senza uscire dal proprio perimetro. Come, appunto, è accaduto nel caso del Wtc 7. Altra omissione del Nist, le testimonianze: l’agenzia governativa sostiene che non esistano, ma è smentita da svariati video. «Improvvisamente ho guardato verso l’alto e ho visto che il palazzo crollava su se stesso», racconta Craig Bartmer, ex agente della polizia di New York. «Ho cominciato a correre e per tutto il tempo ho sentito “thum, thum, thum, thum, thum”. Credo di riconoscerla, un’esplosione, quando la sento».Conferma un volontario, Kevin McPadden: «Abbiamo sentito delle esplosioni, come ba-booom! Era un suono distinto, ba-boom. Si poteva sentire un rombo nel terreno, come se ci si volesse aggrappare a qualcosa». La reporter televisiva Ashleigh Banfield della “Msnbc” era sul posto. Nel servizio in diretta a un certo punto si sente una forte esplosione e lei dice: «Oh, mio Dio… Ci siamo». Circa 7 secondi dopo, il Wtc 7 è crollato. E appena un’ora dopo la distruzione delle Torri Gemelle, le autorità hanno cominciato a parlare del crollo dell’Edificio 7 con un alto grado di sicurezza e di precisione. «Le loro anticipazioni erano talmente certe – scrive Di Stefano – che alcuni giornali hanno scritto del crollo del Wtc 7 ancora prima che avvenisse». Una previsione azzeccata? Non esattamente: «Quando i filmati video furono esaminati con calma, ci si accorse che la notizia era basata su una precisa conoscenza dei fatti. Dal momento che gli ingegneri si definivano sbalorditi per quanto era accaduto al Wtc 7, come facevano le autorità a “predire” un evento che neanche gli ingegneri sapevano spiegarsi quattro anni e mezzo dopo?». Del resto, aggiunge Di Stefano, «ci sono prove inconfutabili di esplosioni avvenute nell’edificio: durante una ripresa televisiva, la “Cnn” ha registrato l’inconfondibile suono di un’esplosione proveniente dal Wtc 7 e l’urlo di un operaio che avvertiva come l’edificio “stava esplodendo”, pochi secondi prima del crollo. Nonostante tutto questo, il Nist si è rifiutato di prendere in considerazione qualunque prova».Secondo la Nfpa 921, cioè la guida ufficiale americana le cui norme devono essere seguite in caso di indagini inerenti eventuali incendi o esplosioni, è necessario valutare tutte le possibili fonti per accertare le cause dei disastri sui quali si indaga. Una di queste fonti, da prendere in considerazione nell’eventualità di fusione dell’acciaio, è la termite. Si tratta – spiega Di Stefano – di una miscela esplosiva altamente incendiaria, a base di polvere di alluminio e triossido di ferro, in grado di sciogliere istantaneamente l’acciaio. Normalmente, la termite viene usata per saldare i binari e per usi militari (all’interno delle granate). «Ebbene, per evitare di parlare della termite nel caso dell’11 Settembre, il Nist si è rifiutato di adottare la consueta procedura della Nfpa 921», secondo “Architetti e Ingegneri” «negando, ignorando o accampando spiegazioni di carattere speculativo, non basate su analisi di tipo scientifico». E questo, afferma il dossier, «in quanto non esiste alcuna plausibile e logica spiegazione della presenza di reazioni chimiche ad alta temperatura, se non quella di una demolizione controllata, usando meccanismi a base di termite».Secondo il Nist, i rivoli di metallo fuso che fuoriuscivano già dalla Torre 2 prima del crollo totale, erano di alluminio fuso. «C’è un problema, però. Come si vede distintamente dai video sul disastro di New York, i rivoli di metallo fuso che fuoriuscivano dalle Torri Gemelle erano di un giallo-fuoco brillante, mentre l’alluminio fuso è di colore argenteo». Come spiega il dottor Steven Jones nel suo “Why Indeed Did the Wtc Buildings Completely Collapse” (Perché davvero gli edifici del Wtc sono completamente crollati), «il color giallo implica un metallo fuso con una temperatura approssimativa di 1000 °C, evidentemente al di sopra di quella che l’incendio da idrocarburi avvenuto all’interno delle Torri avrebbe potuto produrre». Inoltre, «il fatto che il metallo liquido tendesse ad una sfumatura color arancio in prossimità del terreno esclude ulteriormente la presenza di alluminio». Non appena si è reso conto che la sua posizione era indifendibile, il Nist ha cercato di correre ai ripari sostenendo che «il color arancio era dovuto al fatto che l’alluminio liquido si era mescolato con solidi materiali organici, cambiando colore». Ma Jones smentisce categoricamente: «L’alluminio fuso non altera affatto il suo colore».A complicare la situazione, ci sono altre testimonianze. Leslie Robertson, uno dei progettisti delle Torri Gemelle, racconta: «Eravamo al livello B-1 e uno dei vigili del fuoco ha detto: “Credo che questo dovrebbe interessarvi”. E ci ha mostrato un grosso blocco di cemento sul quale scorreva un piccolo rivo di acciaio fuso». Ma non è l’unico testimone. Il capitano Philip Ruvolo ricorda la scena a cui assistette insieme ad altri vigili del fuoco: «Se guardavi sotto, vedevi acciaio fuso, acciaio fuso che scorreva giù, lungo i canali delle inferriate, come se fossimo stati in una fonderia, come lava». Secondo il Nist, il più alto grado di temperatura raggiunto nelle Torri in fiamme è stato di 1.100 gradi. Ma l’acciaio delle strutture non comincia a fondere con meno di 1.482 gradi. Come si spiega, dunque, la presenza del metallo fuso? «Il Nist semplicemente non risponde, ignorando il problema». Altro guaio: come riportato da James Glanz e Eric Lipton sul “New York Times” già nel febbraio del 2002, i detriti delle Torri Gemelle (analizzati dal Worcester Polytechnic Institute) hanno rivelato la presenza di residui di zolfo combinatosi con l’acciaio, «formando un composto che si scioglie a temperature più basse». Com’era potuto accadere? La risposta, per Steven Jones, sta proprio nella termite, l’esplosivo della demolizione controllata: quel composto infiammabile, dice, «viene prodotto quando lo zolfo è aggiunto alla termite, e questo fa in modo che l’acciaio fonda a una temperatura molto più bassa e più velocemente, grazie alla solforazione e all’ossidazione dell’acciaio attaccato».Ancora una volta, aggiunge Di Stefano, il Nist ha ignorato l’evidenza, rispondendo che di fatto non era più possibile analizzare rottami di acciaio provenienti dall’Edificio 7, in quanto tutti i detriti erano stati portati via da un pezzo, già all’inizio delle indagini. La situazione si aggrava ulteriormente, con vari studi tecnici: il primo, “The Rj Lee Report” (maggio 2004), rileva nella polvere «sfere di ferro e vescicole di particelle di silicio», prodotte a temperature altissime. Il microscopio elettronico ha individuato «sferette di ferro» nella polvere della Torre 2 (“The Usgs Report, prodotto nel 2005 dall’Us Geological Survey). Un terzo studio, del 2008, prodotto da otto scienziati, ha confermato la presenza di sfere di ferro, più silicati e sfere disciolte di molibdeno, materiale che fonde a 2.623 gradi. Ma le sorprese non sono finite, continua Di Stefano. Nell’aprile del 2009, un gruppo di scienziati guidati dal dottor Niels Harrit, un esperto di nano-chimica che ha insegnato per oltre 40 anni all’Università di Copenaghen, ha pubblicato sulla rivista internazionale “Open Chemical Physics Journal” un articolo che denuncia la presenza di “materiali termitici attivi” scoperti nella polvere della catastrofe dell’11 Settembre. «Questo studio ha rivelato la presenza di nano-termite (e cioè una specie di termite esplosiva progettata a livello di nano-particelle) nella polvere seguita al disastro».I campioni da analizzare furono prelevati in due riprese: il primo venti minuti dopo il crollo del Wtc 1, gli altri due nel giorno successivo. Lo studio giunse alla conclusione che i grattacieli di Mahnattan, le due Torri Gemelle più l’Edificio 7, «furono tutti distrutti da demolizione controllata e altri materiali incendiari». Inutile dire che, anche questa volta, le autorità hanno ignorato i ricercatori indipendenti. «In tutti i modi il Nist ha provato a ribattere alla pioggia di critiche di chi portava prove e fatti a dimostrazione che le tre Torri siano state intenzionalmente distrutte con esplosivi», conclude Di Stefano. «Il problema è che, in realtà, non ci sono prove a supporto della teoria che gli incendi abbiano fatto crollare edifici a struttura metallica come quelli». Il Nist ha anche fornito modelli digitali per dimostrare le proprie tesi, «ma sono sempre mancate le prove scientifiche per poter affermare senza possibilità di dubbio che, in effetti, siano proprio stati gli incendi ad abbattere quei giganti della moderna edilizia e ad uccidere quasi tremila persone». Servirebbe una nuova indagine, ma c’è un problema a monte. Enorme: «L’americano medio non può e non vuole accettare l’idea che il proprio governo sia implicato in un atto criminale di quelle proporzioni». L’unica certezza è che le 2.974 vittime degli attentati (2.999 se si calcolano anche quelle morte in seguito) restano ancora in attesa di giustizia: di fronte all’America, e all’umanità intera.Le torri del World Trade Center di New York non sarebbero state distrutte dall’impatto di due aerei di linea, ma da un’operazione di “demolizione controllata”, condotta con esplosivi militari a base di nano-termite. Un’accusa pesantissima, che costringe a rileggere sotto una nuova e drammatica luce l’attentato dell’11 Settembre 2001, confermando i sospetti iniziali sull’assoluta inattendibilità della versione ufficiale. A muoverla è l’associazione americana no-profit “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, architetti & ingegneri per la verità sull’11 Settembre. E’ costituita dai 2.363 architetti e ingegneri statunitensi che nell’autunno 2016 hanno firmato una petizione indirizzata al Congresso Usa per riaprire una vera investigazione indipendente sulla distruzione del World Trade Center. Lo ricorda Rino Di Stefano in un’accurata ricostruzione, sul suo blog, del maxi-attentato di New York che ha innescato le guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite dai conflitti a catena in Libia e Siria, in cui la sigla terroristica iniziale, Al-Qaeda, ha lasciato il posto alla sua filiazione diretta, Isis, in una spirale di violenza e orrore che, da allora, ha giustificato l’impiego sistematico di eserciti, impensabile prima dell’11 Settembre.
-
Chi e perché ha organizzato la tragica farsa di Barcellona
C’è una sola cosa che mi sento di dirvi senza timore di smentita: anche dopo la peggior notte di bisboccia, il mattino dopo ho sempre fornito versioni dell’accaduto più lineari e credibili di quelle degli inquirenti spagnoli. Sempre. Magari sbiascicando ma mai inondando di cazzate il mio interlocutore come il fiume in piena di non-sense che arriva a getto continuo dalla Catalogna. Riassumo, per quanto sia riuscito a capirci qualcosa, per sommi capi. Attorno alle 5 del pomeriggio di ieri, un furgone entra nella rambla all’altezza di Plaza de Catalunya e falcia 13 persone, lasciandone ferite sul selciato oltre un centinaio. Schiantatosi contro un chiosco, dal van esce una persona con una camicia bianca a righe azzurre, qualcuno dice che stia ridendo e si dilegua. Prima certezza. chi guidava il furgoncino della strage, l’esecutore materiale, è sparito. In compenso, fioccano i comprimari come in un film di Woody Allen: prima è un solo complice, con il quale il guidatore fuggitivo si sarebbe asserragliato in un ristorante turco con alcuni ostaggi, pare il personale. Balla. Poi, gli attentatori diventano quattro: uno in fuga, due arrestati e un morto. Poi, altro colpo di scena: nella migliore tradizione, dentro il furgone viene trovato un passaporto, spagnolo ma con identità araba: si tratterebbe di un cittadino di origine maghrebina ma residente a Marsiglia. Et voilà, compare all’orizzonte la pista del radicalismo francese.Il titolare della carta, però, vistosi tirato in ballo, va dalla polizia a dire che non c’entra un cazzo e che gli hanno rubato i documenti, poi utilizzati per noleggiare il van della strage. Sarebbe stato il fratello. Nel frattempo, a Barcellona è caccia all’uomo. Anzi, agli uomini. Anzi, no, perché alle 20 la polizia autorizza tutti a uscire dai luoghi pubblici in cui avevano trovato rifugio durante l’emergenza, la rambla parzialmente riapre. E l’autista? E il presunto complice del ristorante? Sa il cazzo, spariti. Comincia la danza macabra della contabilità di morti e feriti, cominciano le dichiarazioni ufficiali di solidarietà dal mondo intero, si spegne la Torre Eiffel. Insomma, la solita menata. Si va a dormire con il computo fermo a 13 morti e oltre 100 feriti, 15 dei quali gravi. Ma, colpo di scena, attorno all’una di notte scatta una seconda parte del presunto piano terroristico, questa volta a un centinaio di chilometri da Barcellona, a Cambrils, di fatto la Pinarella di Cervia di Tarragona: chi non va a immolarsi lì per trovare gloria eterna, santo cielo! I morti sarebbero 5, tutti terroristi che avrebbero cercato di emulare il commando di Barcellona, facendo però solo 7 feriti, tre dei quali pare poliziotti.Tre sono anche le versioni che danno altrettanti quotidiani spagnoli dell’accaduto: due terroristi sarebbero stati ammazzati in uno scontro a fuoco e tre all’interno del van; tutti e cinque uccisi all’interno del van; quattro morti, di cui due per ferite di armi da taglio e uno in fuga. Anche qui, chiarezza assoluta. In compenso la notte folle di Cambrils ha un elemento in comune: i cinque terroristi avrebbero tutti indossato cinture da kamikaze. Finte, ovviamente. Ora, capite da soli che mancano solo un trapezista uzbeko e un odontotecnico macedone e il quadro di questa caccia all’uomo pare completo. C’è tutto: il furgone-killer, l’autista in fuga, il passaporto, lo scambio di persona, il secondo commando e i kamikaze annientati. Roman Polanski pagherebbe oro per l’esclusiva. Ovviamente, l’Isis ha rivendicato l’atto come opera di suoi soldati. Lo ha fatto un po’ alla cazzo, però, tipo conferenza stampa per l’addio al calcio di Antonio Cassano: prima sì, poi no, poi la versione ufficiale. Ormai anche “Site” di Rita Katz fatica a credere alle cazzate che spara e tende a scordarsi le rivendicazioni, salvo metterci pezze ben peggiori del buco. Insomma, abbiamo un clamoroso caso di violazione di una zona interdetta da parte di un furgone killer e poi una serie di eventi che definire quantomeno poco chiari è dir poco.Ci sono i morti e i feriti, per carità: lungi da me mettere in campo tesi tipo quelle dei figuranti pagati o dei manichini con il succo di pomodoro addosso. Resta il fatto che lasciar fare a un mezzo squinternato – come al solito, noto alla polizia – equivale a non aver fatto il proprio dovere: non credo minimamente al fatto che la polizia catalana sia precipitata in un vortice di errori e incapacità tali. A meno che, stante l’approssimarsi del referendum sull’indipendenza da Madrid e il rischio di nuove elezioni anticipate, qualcuno non si sia divertito a far fare loro una bella figura di merda in mondovisione, dimostrando inconsciamente come sia necessario stare uniti per vincere la minaccia terroristica. La quale era pressoché sparita, dopo un paio di colpi di coda tutti da ridere in Francia (tipo l’attentatore in retromarcia che arriva indisturbato davanti alla sede dell’antiterrorismo), salvo ora ritornare in grande stile. Ah, dimenticavo: uno dei fermati/latitanti – visto che non si capisce un cazzo, inserisco entrambe i ruoli – sarebbe di Melilla, una delle due enclave spagnole in Marocco sotto assedio dalla nuova tratta dei migranti, la quale dopo mesi e mesi di fedeltà al Mediterraneo, ha stranamente deciso di cambiare rotta nelle ultime due settimane, scegliendo la penisola iberica come meta dei viaggi di fine stagione.Nel caso a Ceuta e Melilla, nelle prossime settimane, servisse usare il pugno duro – magari anche con scafisti e Ong – chi potrebbe dire nulla, a fronte di un sospettato e 13 morti sul marciapiedi? E poi, culmine dei culmini, ecco che due mesi fa la Cia avrebbe avvisato le autorità catalane proprio del forte rischio di un attentato sulle Ramblas durante l’estate. E i catalani? Niente, duri come il muro: e adesso si piangono vittime e inseguono fantasmi in camicia bianca a righe azzurre. Incredibilmente, l’avviso della Cia è stata la seconda notizia giunta ieri da Barcellona, dopo quella del camion sulla folla: che tempismo, trattandosi di materiale d’intelligence, non vi pare? D’altronde, ultimamente con il tempismo e i servizi gli americani ci vanno forte, basti vedere il caso Regeni, riesploso dalla sera alla mattina nella noia sudaticcia di Ferragosto. Ma attenzione, perché come ci mostra questo video tratta dalla diretta, della “Cnn” di ieri pomeriggio spesso anche le cose raffazzonate, possono risultare utili: soprattutto quando una delle principali tv del mondo scende così in basso da mettere in relazione diretta quanto accaduto a Charlottesville e sta grigliando il presidente Usa fra le critiche con l’attacco a Barcellona, dicendo che i perpetratori di quest’ultimo avrebbero forse preso esempio dai suprematisti in azione in Virginia.Insomma, in prime time, l’americano medio, il quale non sa nemmeno dove stia Barcellona, viene indottrinato sul rischio che quanto sta accadendo in America attorno ai monumenti confederati possa addirittura ispirare gli atti di terrore dell’Isis. E tranquilli, nessuno – di fronte a quei corpi sul marciapiedi – si chiederà come mai, di colpo, i miliziani dello Stato islamico abbiano deciso di venir meno a una delle loro regole numero uno, ovvero applicare il martirio a ogni loro azione. A Barcellona, nessuno era intenzionato a morire. Anche perché, al netto delle chiacchiere dei presunti “esperti anti-terrorismo” che parlano di un reticolo di contatti e cellule ben radicate nel territorio, a Barcellona sono morti solo civili: l’autista è in fuga e gli altri presunti membri del commando non si sa bene quale fine abbiano fatto. Né, se esistano. I cinque di Cambrils, poi, se è andata come dicono, più che terroristi erano partecipanti a un addio al celibato con sorpresa, finito male. Occorreva dare un po’ di adrenalina da paura all’Europa, adagiatasi troppo sulla sua ritrovata serenità post-elezioni francesi? Serve aprire un fronte spagnolo del timore radicalista e dei foreign fighters?Bisogna minare alla radice il referendum sull’indipendenza di Barcellona da Madrid? Bisogna tenere vivo lo spaventa-folle chiamato Isis in Europa, dopo le debacle sul campo in Siria e Iraq? O magari fiaccare lo spirito che in febbraio ha portato in piazza, proprio a Barcellona, 200mila persone per dire sì all’arrivo di migranti, in nome dell’accoglienza e della solidarietà? E non perché i migranti non siano un problema, anzi ma perché occorre creare nell’opinione pubblica un clima particolare proprio in certe roccaforti dell’immaginario collettivo liberale, quale Barcellona è. Chissà, può essere tutto e può essere nulla. Ma quando si parla senza il minimo dubbio di reticolati di contatti e commando jihadisti sul territorio a fronte di un autista-killer sparito nel nulla, il dubbio che quelle lacrime e quei volti straziati dalla paura siano strumentali a qualcosa, sorge davvero spontaneo. E si staglia nitido. Come un documento nella cabina di un van. Perché ricordatevi che la paura deve essere il vostro unico Dio.(Mauro Bottarelli, “A Barcellona manca solo un idraulico moldavo, poi il cast è al completo. Ma il segnale è arrivato”, dal blog “Rischio Calcolato” del 18 agosto 2017).C’è una sola cosa che mi sento di dirvi senza timore di smentita: anche dopo la peggior notte di bisboccia, il mattino dopo ho sempre fornito versioni dell’accaduto più lineari e credibili di quelle degli inquirenti spagnoli. Sempre. Magari sbiascicando ma mai inondando di cazzate il mio interlocutore come il fiume in piena di non-sense che arriva a getto continuo dalla Catalogna. Riassumo, per quanto sia riuscito a capirci qualcosa, per sommi capi. Attorno alle 5 del pomeriggio di ieri, un furgone entra nella rambla all’altezza di Plaza de Catalunya e falcia 13 persone, lasciandone ferite sul selciato oltre un centinaio. Schiantatosi contro un chiosco, dal van esce una persona con una camicia bianca a righe azzurre, qualcuno dice che stia ridendo e si dilegua. Prima certezza. chi guidava il furgoncino della strage, l’esecutore materiale, è sparito. In compenso, fioccano i comprimari come in un film di Woody Allen: prima è un solo complice, con il quale il guidatore fuggitivo si sarebbe asserragliato in un ristorante turco con alcuni ostaggi, pare il personale. Balla. Poi, gli attentatori diventano quattro: uno in fuga, due arrestati e un morto. Poi, altro colpo di scena: nella migliore tradizione, dentro il furgone viene trovato un passaporto, spagnolo ma con identità araba: si tratterebbe di un cittadino di origine maghrebina ma residente a Marsiglia. Et voilà, compare all’orizzonte la pista del radicalismo francese.
-
Anche la Spagna nel copione “Isis”, con il solito passaporto
«I Mossos, i poliziotti catalani, entrano nel furgone abbandonato sulle Ramblas dopo aver controllato che non avesse esplosivi all’interno e trovano un passaporto spagnolo di un uomo di origine marocchina residente a Melilla, l’enclave iberica in Marocco», scrive la “Stampa”, all’indomani dell’ennesima strage, Barcellona, 17 agosto 2017. Il solito passaporto? Come quello ritrovato sul cruscotto dell’auto del commando di Charlie Hebdo, quello abbandonato sul posto dallo stragista di Berlino poi ucciso in Italia. E’ normale, andare a fare un attentato portando con sé il documento d’identità? E’ normale “dimenticarlo” a bordo del mezzo utilizzato per compiere una strage? Il massacro che inaugurò la modalità dell’investimento di pedoni – Nizza, 14 luglio 2016 – fu preceduto anch’esso da una storia di passaporti: due anni prima, ricorda “Today”, sui social media arabi comparve «un annuncio di “smarrimento” di documenti, intestati a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, poi identificato come il franco-tunisino alla guida del camion scagliato contro la folla nell’attacco che ha ucciso almeno 84 persone», a Barcellona. Se è per questo, ricorda Massimo Mazzucco, passaporti di “kamikaze” furono prodigiosamente ritrovati persino nell’inferno fumante di Ground Zero, l’11 Settembre. E un altro famoso passaporto, quello di Lee Harvey Oswald, fu prontamente ritrovato a Dallas, a pochi minuti dall’uccisone del presidente Kennedy.Quella del camion lanciato a bomba contro la folla, sottolinea Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, è una modalità tristemente “pratica”, a basso rischio organizzativo: un furgone non desta sospetti, l’azione criminale può essere rapida, solitaria e micidiale. Il destino dell’attentatore? Sempre lo stesso: viene abbattuto subito, sul posto, come i 5 kamikaze che avrebbero colpito Cambrils, poco dopo Barcellona, o viene comunque ucciso nel giro di poche ore, al massimo qualche giorno, come Anis Amri, caduto a Milano in un conflitto a fuoco con la polizia italiana dopo aver provocato la “strage di Natale” a Berlino. Per l’atroce massacro di Barcellona la polizia ha arrestato due sospetti, ma – precisa il “Corriere della Sera – tra questi «non c’è l’autore materiale dell’attentato», che si sarebbe dileguato. L’uomo identificato, Bouhlel, potrebbe avere le contate: «Se trovano il passaporto, poi lo uccidono», ha sostenuto Maurizio Blondet, in relazione agli altri attentati-fotocopia di Nizza, Berlino e Londra. Un tragico copione? Ebbene sì, sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni”: «Dati gli strumenti a disposizione dell’intelligence, è matematicamente impossibile, oggi, che si possano compiere stragi senza disporre di connivenze e coperture, negli apparati di sicurezza, da parte di funzionari infedeli, complici dei veri mandanti dei terroristi».Per la prima volta, la sigla “Isis” – qualunque cosa significhi – colpisce il Sud Europa, dopo aver mietuto vittime in Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna. Una minaccia indiretta rivolta all’Italia, paese fortunamente non ancora finito nel mirino, forse anche per il suo ruolo strategico di “autostrada mediterranea” dei migranti? In realtà, sostiene Carpeoro, «gli addetti ai lavori sanno bene che il dispositivo antiterrorismo del nostro paese è il migliore del mondo». Dispositivo particolarmente vigile, aggiunge Magaldi, che fornisce una spiegazione ancora una volta di stampo massonico: «Oggi, i servizi segreti italiani collaborano strettamente con settori dei servizi Usa riconducibili alla super-massoneria internazionale progressista, ostile all’egemonia anche stragistica delle Ur-Lodges neo-conservatrici». Affermazioni estremamente impegnative, che Magaldi – già affiliato alla superloggia “Thomas Paine” – probabilmente circostanzierà nel “sequel” del libro “Massoni”, in uscita entro fine anno, scritto forse anche con il contributo di un eminente supermassone molto controverso come il finanziere George Soros, promotore delle Ong che fanno capo a “Open Society”, struttura sospettata di aver ispirato e supportato golpe, “regime change”, primavere arabe e rivoluzioni colorate, fino all’attuale esodo dei migranti africani e mediorientali veso l’Europa, via Italia.In ogni crimine, la svolta nelle indagini scatta sempre in un momento preciso: quando gli investigatori individuano il movente. Quello del cosiddetto Mostro di Firenze (16 vittime) non è ancora stato accertato: non a caso, in carcere erano finite soltanto tre persone, i “compagni di merende”, e la sentenza indicava la necessità di sviluppare altre indagini, dato che Pacciani – il cui patrimonio si era misteriosamente gonfiato – non poteva aver fatto tutto da solo, con il semplice “aiuto” di Vanni e Lotti. Anche per questo, forse – la mancanza di un movente credibile – le autorità giudiziarie hanno riaperto l’inchiesta. Ipotesi, formulata dall’avvocato di una delle vittime: quegli oscuri delitti accompagnarono in modo cronometrico le tappe di sangue del terrorismo che, all’epoca, devastò l’Italia. Delitti efferati, per distrarre l’opinione pubblica? Gli indagatori della “pista esoterica”, come l’avvocato Paolo Franceschetti, propendono per un’altra ipotesi: delitti rituali, atrocemente compiuti secondo modalità “magico-cerimoniali”. Lo sostenne il criminologo Francesco Bruno, ingaggiato dall’allora capo del Sisde, Vincenzo Parisi: fu il primo a parlare di connotazioni “religiose”. Nel romanzo “Nel nome di Ishmael”, lo scrittore Giuseppe Genna – con il quale si complimentò Cossiga, per l’acume dimostrato – l’oscura setta che, nel libro, uccide bambini, lo fa nella convinzione di “propiziare” attentati politici che seguono, di poche ore, il ritrovamento dei piccoli cadaveri. Attentati e omicidi di rilievo internazionale, da Aldo Moro a Olof Palme, fra retroscena popolati da personaggi del calibro di Kissinger.Per Magaldi, l’ex plenipotenziario della Casa Bianca, nonché fondatore della Trilaterale con David Rockefeller e i Rothschild, è stato anche al vertice della Ur-Lodge “Three Eyes”, che nel libro “Massoni” è indicata come la vera “mente” della Loggia P2 di Licio Gelli e della strategia della tensione in Italia negli anni ‘70. Un’altra superloggia, la “Hathor Pentalpha”, secondo Magaldi fondata da Bush padre all’inzio degli anni ‘80, sarebbe invece l’ispiratrice del neo-terrorismo internazionale, da Al-Qaeda all’Isis: ne avrebbero fatto parte Osama Bin Laden e il “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, oltre all’entourage Bush e a politici europei come Tony Blair (inventore delle “armi di distruzione di massa” di Saddam) e Nicolas Sarkozy (fautore dell’abbattimento di Gheddafi), nonché il turco Erdogan (organizzatore, in Turchia, delle “retrovie” dell’Isis nell’attacco alla Siria). Una “Spectre del terrore”, che disporrebbe di propri uomini in alcune strutture di intelligence, a loro volta capaci di “coltivare” manovalanza islamista per gli attentati. «La cosiddetta Isis sta aumentando l’intensità delle stragi», ha sostenuto Carpeoro, «perché una parte di quella élite sta “disertando”, si sta sfilando dalla “filiera del terrore”». Carpeoro azzarda un pronostico: «Nel giro di due anni al massimo, magari attraverso Wikileaks, avremo le prove del fatto che Al-Qaeda e Isis sono un’emanazione dei Bush».«I Mossos, i poliziotti catalani, entrano nel furgone abbandonato sulle Ramblas dopo aver controllato che non avesse esplosivi all’interno e trovano un passaporto spagnolo di un uomo di origine marocchina residente a Melilla, l’enclave iberica in Marocco», scrive la “Stampa”, all’indomani dell’ennesima strage, Barcellona, 17 agosto 2017. Il solito passaporto? Come quello ritrovato sul cruscotto dell’auto del commando di Charlie Hebdo, quello abbandonato sul posto dallo stragista di Berlino poi ucciso in Italia. E’ normale, andare a fare un attentato portando con sé il documento d’identità? E’ normale “dimenticarlo” a bordo del mezzo utilizzato per compiere una strage? Il massacro che inaugurò la modalità dell’investimento di pedoni – Nizza, 14 luglio 2016 – fu preceduto anch’esso da una storia di passaporti: due anni prima, ricorda “Today”, sui social media arabi comparve «un annuncio di “smarrimento” di documenti, intestati a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, poi identificato come il franco-tunisino alla guida del camion scagliato contro la folla nell’attacco che ha ucciso almeno 84 persone», nel capoluogo della Costa Azzurra. Se è per questo, ricorda Massimo Mazzucco, passaporti di “kamikaze” furono prodigiosamente ritrovati persino nell’inferno fumante di Ground Zero, l’11 Settembre. E un altro famoso passaporto, quello di Lee Harvey Oswald, fu prontamente ritrovato a Dallas, a pochi minuti dall’uccisione del presidente Kennedy.
-
La Truffa dei Sei Giorni: così Israele eliminò l’Ataturk arabo
La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Filkenstein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Filkenstein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.A partire dal 5 giugno del 1967, ricorda Filkenstein, Israele «ha catturato il Sinai egiziano, le alture del Golan siriano, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Con l’eccezione del Sinai, Israele controlla ancora tutti questi territori. Di fatto l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gaza è la più lunga dei tempi moderni». La versione ufficiale del mainstream è quella ancora oggi rilanciata dal “New York Times”, che scrive: «Quest’anno segna mezzo secolo dalla guerra arabo-israeliana del 1967, nella quale Israele ha resistito vittoriosamente a una minaccia di annientamento da parte dei suoi vicini arabi». Tutto falso, replica lo storico: «E’ un grosso problema, è ciò che noi chiamiamo “falsificare la storia”». E spiega: sia la Cia che il Mossad – è documentato – sapevano perfettamente che gli eserciti arabi non avrebbero potuto resistere all’attacco di Israele, la cui unica preoccupazione era: come avrebbe reagito il presidente americano Lyndon Jonhson? «Nel 1957, dieci anni prima, gli Usa avevano agito con molta severità. Dwight Eisenhower aveva dato a Israele un ultimatum: uscite dal Sinai, o dovrete affrontare una forte reazione del governo degli Stati Uniti. Nel 1967 gli israeliani avevano paura che si ripetesse la situazione del 1957».Sicché, Tel Aviv mandò emissari a tastare il polso di Washington. Come il generale Meir Amit, capo del Mossad. La risposta degli Usa: nessun indizio che il presidente egiziano Abdel Gamal Nasser stesse per attaccare Israele. Nasser, disse Johnson, sa benissimo che, «se vi attacca, voi israeliani gli darete una batosta». Una valutazione Cia, identica a quella del Mossad. Tel Aviv sapeva perfettamente che non aveva nulla da temere, dall’Egitto. Il segretario alla difesa, Robert McNamara, fu ancora più preciso: disse a Israele che, in caso di guerra, avrebbe vinto in 7 giorni, 10 al massimo. Era vero: la guerra sarebbe terminata «non solo in 6 giorni, ma letteralmente in 6 minuti circa», afferma Filkenstein. «Nel momento in cui Israele ha lanciato il suo attacco-lampo e distrutto la flotta aerea egiziana, che era ancora al suolo, ha tolto tutti gli appoggi aerei alle truppe al suolo. Era finita. L’unica ragione per la quale questa guerra è durata sei giorni, è perché volevano impadronirsi dei territori. Era un’occupazione violenta delle terre». Come sono riusciti a coinvolegere l’Egitto, sapendo che mai Nasser – di sua iniziativa – avrebbe aperto le ostilità? Semplice: attaccando la Siria, alleata dell’Egitto. Fu lo stesso Moshe Dayan ad ammettere che, nell’aprile del 1967, Israele abbattè 6 aerei siriani, uno dei quali nel cielo sopra Damasco.Ammise Dayan, poi uomo-chiave del governo Begin a partire dal 1977: «Vi dirò perché noi avevamo tutti questi conflitti con la Siria. C’era una zona smilitarizzata tracciata dopo la guerra del 1948 tra la Siria e Israele. Almeno l’80% del tempo noi mandavamo dei bulldozer in questa zona smilitarizzata perché Israele era impegnata a occupare territori con la forza». Israele, quindi, cercava di impadronirsi di terre nella zona smilitarizzata. Racconta Filkenstein: «Mandava dei bulldozer, i siriani reagivano, e questo aumentava la tensione. Nel aprile 1967 questo è sfociato in un combattimento aereo tra siriani e israeliani. Dopodiché Israele ha cominciato a minacciare, verbalmente, di lanciare un attacco contro la Siria. La dichiarazione più celebre in quel momento la fece Yitzhak Rabin, ma numerosi responsabili israeliani minacciavano la Siria». Lo storico israeliano Ami Gluska, nel suo libro “L’esercito israeliano e le origini della guerra del 1967”, scrive: «La valutazione sovietica della metà di maggio 1967, che Israele stava per colpire la Siria, era giusta e ben fondata». C’erano voci attendibili, dunque, secondo le quali Israele avrebbe aggredito gli arabi. Gluska «conferma che gli israeliani avevano preso la decisione di attaccare».L’Egitto aveva un patto di difesa con la Siria: sapendo che era imminente un attacco israeliano aveva l’obbligo di andare in aiuto di Damasco. Per questo, Nasser ha schierato – a scopo dissuasivo – delle truppe egiziane nel Sinai, zona allora presidiata da una forza di pace dell’Onu, l’Unef. La United National Emergency Force divideva l’Egitto da Israele. Nasser ha chiesto a U Thant, segretario generale dell’Onu, di ritirarla. In forza della legge, U Thant era obbligato a ritirare quelle truppe. «Ma c’era una risposta molto semplice alla richiesta di Nasser: spostate le truppe dell’Onu sul versante israeliano», ricorda Filkenstein. «Nel 1957, quando era stata schierata l’Unef, si erano accordati per disporla sia sul lato egiziano della frontiera, sia sul lato israeliano. Così, nel 1967, quando Nasser ha detto: “Ritirate l’Unef dalla nostra parte”, tutto quello che Israele doveva dire era: “Bene, noi la riposizioniamo dalla nostra parte della frontiera”, sul versante israeliano. Ma non lo hanno fatto». Ragiona lo storico: «Se l’Unef avrebbe veramente potuto evitare un attacco egiziano, come suggerisce Israele quando dice che U Thant ha commesso un errore monumentale ritirando la forza dell’Onu, perché gli israeliani non l’hanno semplicemente schierata dall’altra parte della frontiera?». Ovvio: perché erano loro a volere la guerra.Altro piccolo casus belli: c’erano degli attacchi di guerriglia contro la frontiera israeliana lanciati dalla Giordania e dalla Siria, descritti nella storia ufficiale come una grande minaccia per la sicurezza di Israele. Si trattava di incursioni di commandos palestinesi, sostenuti principalmente dal regime siriano. «Ma come hanno riconosciuto anche gli ufficiali superiori israeliani – obietta Filkenstein – la ragione per la quale la Siria incoraggiava questi raid di commandos era l’occupazione delle terre nelle zone smilitarizzate da parte di Israele». Inoltre si trattava di «azioni coraggiose ma estremamente inefficaci», peraltro «compiute da persone che erano state private della loro patria nel 1948». In alre parole, quei palestinesi «erano dei rifugiati». Avverte lo storico: «Ricordatevi che era passato poco tempo tra il 1948 e il 1967, meno di una generazione». Ma, appunto, quegli attacchi erano poco più che simbolici. A confermarlo è uno dei capi dello spionaggio israeliano, Yehosafat Harkabi, che dopo il 1967 li ha descritto come «ben poco significativi, secondo tutti i metri di giudizio».L’altro incidente storico importante che viene citato er giustificare la guerra-lampo di Israele è la chiusura, da parte dell’Egitto, dello Stretto di Tiran, all’imbocco del Mar Rosso, strategico per accedere al porto israeliano di Eilat. Passaggio marittimo chiuso effettivamente da Nasser a metà maggio. «Israele adesso respira con un solo polmone», protestò il diplomatico Abba Eban, allora rappresentante israeliano all’Onu, poi ministro degli esteri. Era vero? Non proprio, osserva Filkenstein: intanto, Israele disponeva di riserve di petrolio che garantivano allo Stato ebraico un’autonomia di mesi. «Ma la cosa più importante è che non c’è stato un blocco. Nasser era un fanfarone: ha annunciato il blocco, lo ha applicato per ciò che si stima abitualmente essere due o tre giorni, poi ha cominciato a lasciar passare tranquillamente le navi israeliane. Non c’era blocco, il problema non era un blocco fisico effettivo, il problema era politico. E cioè che Nasser aveva sfidato pubblicamente Israele. La chiusura di un canale navigabile non è un attacco armato. Comunque la si guardi, Israele non aveva alcuna valida ragione».L’Egitto aveva reagito in modo prevedibile – con il blocco (solo simbolico) del Mar Rosso – per “difendere a distanza” la Siria attaccata un mese prima dall’aviazione israeliana, agevolando così la “regia occulta” della guerra, progettata unilateralmente da Tel Aviv, travestitasi da vittima. Domanda Aaron Mate: perché Israele ha preso delle misure così straordinarie per iniziare quella guerra e impadronirsi di così tanti territori? Risponde Norman Finkelstein: perché il vero incubo di Israele era il presidente egiziano Nasser. Un politico arabo laico, indipendente, autorevole. Fin dalla sua fondazione nel 1948, il leader fondatore di Israele, David Ben Gurion, «si è sempre preoccupato che potesse arrivare al potere nel mondo arabo quello che lui chiamava un Ataturk arabo. Cioè qualcuno come il personaggio turco Kemal Ataturk, che ha modernizzato la Turchia, ha introdotto la Turchia nel mondo moderno; Ben Gurion ha sempre avuto paura che una figura come Ataturk potesse emergere nel mondo arabo, e quindi il mondo arabo si sottraesse allo Stato di arretratezza e di dipendenza dall’Occidente e potesse diventare una potenza con la quale bisognava fare i conti nel mondo e nella regione». La paura del regime sionista si impersonificò nel 1952, quando emerse Nasser come leader della rivoluzione attraverso cui l’Egitto si liberò del dominio europeo post-coloniale.Nasser, continua Filkenstein, era una figura emblematica di quell’epoca «molto inebriante», chiamata “decolonizzazione”: «L’epoca del dopoguerra, dei non-allineati, del terzomondismo». Anti-imperialismo e decolonizzazione: leader come Nehru in India, Tito in Jugoslavia. E Nasser. «Non erano ufficialmente compresi nel blocco sovietico. Erano una terza forza. Non allineata». Più incline a rivolgersi al blocco sovietico perché «ufficialmente antimperialista», ma solo a scopo difensivo: nel 1956, quando Nasser aveva sbarrato il Canale di Suez per protestare contro la mancata concessione del maxi-prestito della Banca Mondiale (Usa) per costruire sul Nilo la Diga di Assuan che averebbe dato respiro all’agricoltura egiziana, francesi e inglesi sbarcarono in armi a Port Said minacciando di deporre Nasser. Intervenne direttamente l’Urss, rivolgendo un ultimatum agli eserciti europei, tacitamente avallato dagli Stati Uniti: se le truppe anglo-francesi non avessero lasciato il litorale egiziano, Mosca le avrebbe colpite con la bomba atomica. Questo consacrò Nasser come grande leader arabo, senza farne – per forza – un satellite dei russi. Inutile aggiungere che il crescente prestigio internazionale del carismatico leader egiziano faceva paura soprattutto a Israele: sembrava davvero arrivato “l’Atarurk arabo”, il modernizzatore paventato da Ben Gurion.«Israele era considerato non senza ragione, come una postazione occidentale nel mondo arabo, e veniva ugualmente interpretato come il tentativo di mantenere nell’arretratezza il mondo arabo», osserva Filkenstein. C’era dunque una sorta di conflitto e di contrapposizione tra Nasser e Israele. E questo ha dato il via, come viene documentato anche stavolta assai scrupolosamente non da Finkelstein ma da uno storico importante molto considerato, cioè Benny Morris. Nel libro “Le guerre di frontiera di Israele”, che parla del periodo tra il 1949 ed il 1956, Morris dimostra che «intorno al 1952-53 Ben Gurion e Moshe Dayan erano veramente determinati a provocare Nasser, a continuare a stuzzicarlo fino a che avessero un pretesto per distruggerlo: volevano sbarazzarsi di lui». Insistettero, in modo che a un certo punto il leader egiziano non potesse fare a meno di rispondere: «Sostanzialmente Nasser è stato preso in trappola». Per Morris, la stessa crisi di Suez del 1956 era nata da «un complotto ordito dagli israeliani per rovesciarlo, con il concorso degli inglesi e dei francesi», con i quali Israele collaborò invadendo il Sinai.Gli americani non si opposero alla ferma difesa di Nasser da parte dell’Urss. «Eisenhower pensava che non fosse ancora il momento adatto», per abbattere il “raiss” egiziano. «Ma anche gli americani sicuramente volevano sbarazzarsi di Nasser», aggiunge Filkenstein: «Lo vedevano tutti come una spina nel fianco». Sicché, la guerra-lampo del 1967 non sarebbe altro che «una ripetizione del 1956, con una differenza fondamentale: il sostegno americano». Alla Guerra dei Sei Giorni, infatti, «gli Stati Uniti non si sono opposti», restando «molto prudenti e cauti nelle loro dichiarazioni». Non hanno sostenuto apertamente la guerra di Israele, «perché era illegale». E gli Usa erano già impantanati nella tragedia del Vietnam, estremamente impopolare: «Non volevano impegnarsi anche nel sostegno a Israele, che sarebbe stato visto allo stesso modo come il colonialismo occidentale che tenta di prevalere sul Terzo Mondo, sul mondo non-allineato». Ma c’era un comune interesse strategico: eliminare Nasser. «Era un obiettivo a lungo termine, mantenere il mondo arabo nell’arretratezza. Mantenerlo in uno stato subordinato, primitivo».Perfettamente funzionali, in questo, il “falchi” israeliani come Ariel Sharon: «Dobbiamo attaccare adesso, perché altrimenti perdiamo la nostra capacità di dissuasione». Frase storica, rimasta – da allora – a fondamento della “dottrina” politico-militare di Israele, la propaganda vittimistica che ha giustificato massacri come quello della popolazione della Striscia di Gaza. «La “capacità di dissuasione” – traduce Filkenstein – significa: “la paura che di noi ha il mondo arabo”». La “colpa” di Nasser? «Risollevava il morale degli arabi, i quali non avevano più paura». E per gli israeliani la paura «è una carta molto forte, per tenere gli arabi al loro posto». A questo, ovviamente, si aggiunge la “necessità”, per Israele, di incrementare i propri territori a spese degli arabi. E in tutto questo, chiarisce lo storico, la religione non c’entra: «Bisogna ricordare che il movimento sionista era per la maggior parte secolare, per la grandissima parte ateo. Una larga parte si considerava socialista e comunista e non aveva nessun aggancio con la religione. Ma consideravano lo stesso di avere un titolo legale di proprietà sulla terra perché nel loro pensiero la Bibbia non era solo un documento religioso, era un documento storico». Una mentalità “secolare”, «profondamente radicata e fanatica». Al punto da falsificare la storia, inventare un’aggressione araba mai avvenuta e organizzare la Truffa dei Sei Giorni per metter fine alla carriera di Nasser, il temutissimo Ataturk arabo.La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Finkestein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Finkestein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.
-
La Francia: stop all’inutile Torino-Lione, totem del potere
Lo chiamano ancora Tav, treno ad alta velocità, ma ormai è chiaro a tutti che l’eventuale linea Torino-Lione, doppione perfetto della già esistente (e deserta) Torino-Modane, sempre in valle di Susa, non sarebbe altro che il totem ultra-lento di un potere antico, sordo, primitivo, pronto a bruciare 680 milioni di euro per costruire una galleria esplorativa, a Chiomonte, con anni di ritardo rispetto agli analoghi tunnel geognostici aperti sul versante transalpino. Un vettore (lentissimo, vecchissimo) di grandi affari e grandi interessi, l’improbabile Tav valsusino, lungo una direttice rimasta senza più passeggeri né merci, nella “ribelle” valle di Susa che lotta da decenni contro l’infrastruttura più inutile della storia europea. Se n’è finalmente accorta la Francia, da sempre più tiepida dell’Italia rispetto all’impegno per la grande opera: il governo Macron ha annunciato una “pausa di riflessione” di almeno un anno, per valutare se è davvero il caso di finanziarlo, l’euro-tunnel da 54 chilometri sotto le montagne che, tra Susa e Modane, separano l’Italia dalla Francia. A Parigi costerebbe almeno 10 miliardi. Servirebbe? No, rispondono in coro i tecnici indipendenti.Tecnici peraltro suffragati dai controllori (svizzeri) del traffico transalpino per conto dell’Ue: quella linea non avrebbe alcun senso – né per i passeggeri, inesistenti, né per le merci, che sono in calo storico e viaggiano sull’attuale linea internazionale, largamente inutilizzata, per la quale l’Italia ha speso recentemente 400 milioni di euro, riammodernando il Traforo del Fréjus, attraverso il quale oggi possono transitare anche convogli con a bordo i grandi container “navali”. Per anni, prima che la contesa finisse in rissa (con feriti e arresti) i NoTav hanno tentato di intavolare un civile dibattito con le isituzioni: la storia racconta di petizioni firmate da centinaia di esperti universitari, rivolte a Palazzo Chigi e persino al Quirinale, rimaste sempre senza risposta. Una realtà imbarazzante: le istituzioni non hanno mai accettato di esaminare i più autorevoli studi, che dimostrano la completa inutilità di un’opera ferroviaria faraonica e anche pericolosa, date le implicazioni ambientali (amianto, uranio) e idrogeologiche, senza contare l’impatto urbanistico dei cantieri e la compromissione, per molti aspetti irreparabile, del territorio alpino.Sarebbe un sacrificio immenso, dunque, tuttora senza giustificazioni: mai, neppure per sbaglio, gli addetti ai lavori hanno fornito del maxi-progetto Torino-Lione una motivazione tecnica, chiara, esplicita, che non fosse grossolanamente dogmatica, fatta di slogan arcaici come “progresso” e “modernità”. Tutti gli studi prodotti riferiscono che la grande direttrice delle merci nel Nord Italia è l’asse sud-nord, Genova-Rotterdam, mentre la linea est-ovest ormai è marginale, come il trasporto – residuale, e ormai solo regionale – di pochissime merci tra Piemonte e Rhône-Alpes. Per contro, spiegano gli strateghi europei dei trasporti, un vero e proprio collo di bottiglia è rappresentato dal valico di Ventimiglia: quello sì avrebbe bisogno di essere “raddoppiato”, visto che le merci sbarcate a Genova si dirigono, via Liguria e Provenza, in tutta l’Europa sud-occidentale. L’unica cosa che certamente non serve, a quanto pare, è proprio la linea Tav in valle di Susa. Impossibile, per il governo italiano, finire per far ragione agli impresentabili, irriducibili NoTav? Eppure è quello che accadrà, se la Francia – nel 2018 – dovesse confermare l’attuale orientamento, scettico di fronte alla realizzazione dell’inutile maxi-opera.Quando prese avvio la protesta popolare, locale, contro i primi progetti per la Torino-Lione, l’Italia non era ancora entrata nell’euro: era un paese in crescita, stabilmente piazzato tra le prime economie del pianeta, alla prese coi valori del primo ambientalismo destinato a tradursi in disposizioni legislative. Il mondo non era ancora così piccolo: l’11 Settembre era ancora di là da venire, con le sue “guerre infinite” e i suoi terrorismi funzionali e cronicizzati. La globalizzazione non aveva ancora cominciato a produrre il flagello cosmico della disoccupazione, non si avvertivano i micidiali effetti dell’euro né quelli della crisi finanziaria di Wall Street. Era un mondo con coordinate visibili e definite, brandelli ideologici ancora vivi, certezze relative e credibili aspettative di benessere, lontano anni luce dalla precarizzazione universale, il delirio dell’austerity e la rassegnazione terminale, via Facebook, alla mediocrità come destino. Insorse, la piccola valle di Susa, minuscola periferia italiana: era la fine degli anni ‘90, oggi pare trascorso un millennio. E ancora si parla di Torino-Lione, cioè di archeologia dell’assurdo, mentre il mondo – intorno – sta finendo di crollare.Lo chiamano ancora Tav, treno ad alta velocità, ma ormai è chiaro a tutti che l’eventuale linea Torino-Lione, doppione perfetto della già esistente (e deserta) Torino-Modane, sempre in valle di Susa, non sarebbe altro che il totem ultra-lento di un potere antico, sordo, primitivo, pronto a bruciare 680 milioni di euro per costruire una galleria esplorativa, a Chiomonte, con anni di ritardo rispetto agli analoghi tunnel geognostici aperti sul versante transalpino. Un vettore (lentissimo, vecchissimo) di grandi affari e grandi interessi, l’improbabile Tav valsusino, lungo una direttice rimasta senza più passeggeri né merci, nella “ribelle” valle di Susa che lotta da decenni contro l’infrastruttura più inutile della storia europea. Se n’è finalmente accorta la Francia, da sempre più tiepida dell’Italia rispetto all’impegno per la grande opera: il governo Macron ha annunciato una “pausa di riflessione” di almeno un anno, per valutare se è davvero il caso di finanziarlo, l’euro-tunnel da 54 chilometri sotto le montagne che, tra Susa e Modane, separano l’Italia dalla Francia. A Parigi costerebbe almeno 10 miliardi. Servirebbe? No, rispondono in coro i tecnici indipendenti.
-
Foa: non toccate i blog, le fake news vengono dalla stampa
Ebbene sì, i blogger, i “liberi pensatori”, i giornalisti davvero liberi continuano ad aver ragione e la grande stampa mainstream torto, nel senso che quest’ultima tradisce da troppo tempo quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria e irrinunciabile, di voce critica e coraggiosa della società democratica. Mettiamoci nei panni di un analista – politico o finanziario o strategico – che vuole capire come va il mondo. Se si fosse limitato ai principali media internazionali o di grandi paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania o Italia, i suoi report sarebbero stati lacunosi e, soprattutto, per nulla preveggenti. Le analisi più accurate e le denunce più coraggiose non le avrebbe infatti trovate su quelle colonne, bensì sui blog e sui siti della cosiddetta stampa alternativa, di qualunque orientamento politico, che negli ultimi anni ha saputo leggere molto meglio la realtà. Ecco qualche esempio: per anni, economisti alla Bagnai o alla Sapir, quelli che partecipano ai convegni di “A/Simmetrie”, hanno denunciato l’assurdità, per evidente inefficacia e crudeltà sociale, delle cosiddette misure di salvataggio della Grecia. In perfetta solitudine, perché la stampa “ortodossa” ripeteva la solita litania.A distanza di anni il Fmi ha ammesso i propri errori e oggi veniamo a scoprire che gli unici ad arricchirsi sono stati i tedeschi, che non solo hanno evitato di sopportare i costi di un default greco ma hanno poi lucrato 1,34 miliardi sui bond della salvezza. Idem sull’euro: era un tabù persino parlarne in maniera dubitativa. La grande stampa ha negato spazio alle voci critiche, come invece avrebbe dovuto, salvo ricredersi… a distanza di 16 anni. Ora, timidamente, anche sui giornali color salmone si odono voci critiche. In Siria, i grandi media hanno evidenziato denunce clamorose come quelle su “esecuzioni di massa e corpi bruciati nei forni crematori di Saydnaya“, subito messe in dubbio da diversi blogger, esperti di politica estera e di comunicazione. Era chiaramente un’operazione di “spin”, ma chi dubitava veniva ignorato o tacciato di complottismo. Dopo qualche settimana il Dipartimento di Stato Usa ha rettificato la notizia, che però è stata comunicata in sordina dalla stampa mainstream.Il flop mediatico sulla vittoria di Trump e sul sì Brexit è ormai noto a tutti. Immigrati e Ong: c’è voluto un giovane di 23 anni, Luca Donadel, per documentare un fenomeno sconcertante per la sua vastità, quello delle navi delle Ong che vanno a prendere gli immigrati al largo della Libia. Nessun giornalista se n’era accorto e, per settimane, i grandi media hanno ignorato lo scoop del bravo Donadel (a proposito: dargli un premio di giornalismo, no?) rompendo il silenzio solo quando il rumore mediatico sul web è diventato così alto da non poter essere più ignorato. Potrei continuare con tanti altri esempi, ma mi fermo qui. Mi limito a due considerazioni. La prima: la grande stampa internazionale si segnala soprattutto per conformismo e per eccessiva compiacenza con l’establishment. Quando diventa coraggiosa lo fa sempre in coro e sempre in modo strumentale, sapendo di avere le “spalle coperte”.Quel che accade negli Stati Uniti è emblematico: “Washington Post” e “New York Times” sono diventate delle “caselle postali”, in cui mani compiacenti depositano anche documenti coperti dal segreto di Stato, con una disinvoltura senza precedenti, che sarebbe stata denunciata come scandalosa e perseguita legalmente con qualunque altro presidente, ma che diventa bene accetta se è frutto di un’evidente saldatura tra il cosiddetto Deep State e il 90% della stampa. Una saldatura che, peraltro, non riguarda solo gli Usa, ma quasi tutte le grandi democrazie occidentali, che è nefasta per la democrazia ed è una delle ragioni della crescente sfiducia di ampie fasce di lettori. La stampa non rinascerà se non recupererà il senso della propria missione e tornerà a servire innanzitutto i lettori, anziché l’establishment.La seconda: l’ho già scritto e lo ribadisco. La polemica sulle “fake news” mira non a garantire un’informazione più corretta ma, innanzitutto, a mettere a tacere le voci davvero libere, quelle che rompono la narrativa ufficiale. Ogni proposta di regolamentazione in realtà punta a imporre una censura, a intimidire chi esercita davvero la propria funzione critica, ignorando, e questo è davvero gravissimo, che a generare fake news e disinformazione sono, troppo spesso, gli spin doctor al servizio delle istituzioni. Quelle proposte vanno respinte. E il giornalismo davvero libero, davvero coraggioso va difeso con forza.(Marcello Foa, “I blogger avevano ragione, la grande stampa torto”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 9 agosto 2017).Ebbene sì, i blogger, i “liberi pensatori”, i giornalisti davvero liberi continuano ad aver ragione e la grande stampa mainstream torto, nel senso che quest’ultima tradisce da troppo tempo quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria e irrinunciabile, di voce critica e coraggiosa della società democratica. Mettiamoci nei panni di un analista – politico o finanziario o strategico – che vuole capire come va il mondo. Se si fosse limitato ai principali media internazionali o di grandi paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania o Italia, i suoi report sarebbero stati lacunosi e, soprattutto, per nulla preveggenti. Le analisi più accurate e le denunce più coraggiose non le avrebbe infatti trovate su quelle colonne, bensì sui blog e sui siti della cosiddetta stampa alternativa, di qualunque orientamento politico, che negli ultimi anni ha saputo leggere molto meglio la realtà. Ecco qualche esempio: per anni, economisti alla Bagnai o alla Sapir, quelli che partecipano ai convegni di “A/Simmetrie”, hanno denunciato l’assurdità, per evidente inefficacia e crudeltà sociale, delle cosiddette misure di salvataggio della Grecia. In perfetta solitudine, perché la stampa “ortodossa” ripeteva la solita litania.
-
Qe, truffa da record: soldi facili alle banche, solo per i ricchi
Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.Come notato da Laith Khalaf, senior analyst presso Hargreaves Lansdown, «dopo la crisi finanziaria, le banche centrali hanno inondato l’economia globale con denaro a buon mercato, ma la crescita globale è tuttora in una situazione di stallo, in particolare in Europa ed in Giappone, dove sono state prese imponenti misure di stimolo per fronteggiare il problema». Persino “Forbes” ammette che il Qe ha «in gran parte fallito nel rivitalizzare la crescita economica». Ciò non sorprende, o quanto meno non dovrebbe. Il Qe era destinato fin dall’inizio a mancare i suoi obiettivi dichiarati, perché il motivo per cui le banche non finanziavano investimenti produttivi non era la carenza di denaro – al contrario, già nel 2013, molto prima degli ultimi cicli di Qe, le imprese inglesi disponevano di quasi 500 miliardi di riserve liquide – ma piuttosto perché l’economia globale si trovava (e si trova tuttora) in una profonda crisi di sovrapproduzione. In poche parole, i mercati erano (e sono) saturi, e non ha senso investire in un mercato saturo.Per questo motivo, tutto il nuovo denaro creato dal Qe ed “iniettato” nelle istituzioni finanziarie – come fondi pensione e compagnie d’assicurazione – non è stato poi investito nelle attività produttive, ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i prezzi delle azioni e degli immobili, senza generare nulla in termini di ricchezza reale o occupazione. I titolari di beni come azioni e immobili hanno tratto molti vantaggi dal Qe, che in Uk si stima abbia accresciuto la ricchezza del 5 percento più ricco mediamente di 128.000 sterline a testa. Com’è stato possibile? Da dove è venuta tutta questa nuova ricchezza? Dopo tutto, anche se il denaro – a dispetto degli slogan dei Tory – può essere effettivamente creato “dal nulla”, precisamente come è stato fatto col Qe, non è così per la ricchezza reale. Ed il Qe non ha prodotto ricchezza reale. Eppure, il 5% più ricco oggi dispone di 128.000 sterline extra da spendere in yacht, ville principesche, diamanti, caviale e così via. Ma da dove viene questo denaro?Semplice. La ricchezza che il Qe ha trasferito ai titolari di asset proviene, in primo luogo, direttamente dai salari dei lavoratori. Poiché ha praticamente svalutato la moneta, il Qe ha ridotto la capacità d’acquisto del denaro, il che ha causato nei fatti una svalutazione dei salari reali, che in Uk sono tuttora del 6% al di sotto dei loro livelli pre-Qe. Il denaro sottratto ai salari forma dunque parte di quel dividendo di 128.000 sterline. Ma viene anche dagli ultimi arrivati nei mercati gonfiati dal Qe – principalmente gli acquirenti di una prima casa e chi è recentemente andato in pensione. Chi oggi acquista una casa (che il Qe ha reso molto più cara), ad esempio, dovrà lavorare migliaia di ore in più per pagare un mutuo a prezzi più alti. Sono queste ore in più a creare la ricchezza che sovvenziona le stravaganti spese del 5% più ricco. Ovviamente, questi prezzi immobiliari più alti sono pagati da chiunque acquisti una casa, non solo da chi lo fa per la prima volta – ma per chi è già proprietario il costo aggiuntivo è compensato dall’aumento di prezzo della casa già di proprietà (o delle azioni, per chi è abbastanza ricco da possederne).Un’altra conseguenza del Qe è che chi va in pensione adesso è costretto a sovvenzionare il 5% più ricco. I nuovi pensionati usano il loro fondo pensione per acquistare una ‘rendita’ – un pacchetto di titoli azionari fruttiferi che produce reddito. Ma poiché il Qe ha causato un’inflazione del prezzo dei titoli, ciò ha ridotto il numero di titoli acquistabili con questo fondo. E dato che all’aumento di prezzo dei titoli non corrisponde un aumento dei dividendi, ciò si traduce in una pensione ridotta. In realtà, la teoria che il Qe servisse ad incoraggiare gli investimenti e stimolare l’occupazione e la crescita è sempre stata un artificio fantasioso creato per dissimulare quello che stava realmente accadendo – un colossale trasferimento di ricchezza verso i più ricchi. L’economista Dhaval Joshi faceva notare nel 2011: «La cosa più sconvolgente è che, dopo due anni di apparente ripresa, i lavoratori [inglesi] in realtà guadagnano meno che nel momento più drammatico della recessione. Salari e stipendi reali sono calati di 4 miliardi di sterline. I profitti sono aumentati di 11 miliardi. I benefici della ripresa sono stati distribuiti nel modo più iniquo possibile».Nel marzo di quest’anno il “Financial Times” riportava che, nonostante il Pil della Gran Bretagna sia ritornato ai livelli pre-crisi già dal 2014, i salari reali sono ancora più bassi del 10% rispetto al 2008. «La contrazione dei salari reali in Uk si è arrestata nel 2015», aggiungeva, «ma ciò non è destinato a durare». Così è stato. Nello stesso mese di pubblicazione di quell’articolo, i salari reali hanno iniziato nuovamente a scendere, e sono da allora in costante diminuzione. Lo stesso è successo in Giappone, dove, secondo “Forbes”, «il reddito delle famiglie si è effettivamente ridotto dopo l’introduzione del Qe». Il Qe ha sortito un effetto simile nei paesi del sud del mondo: aumentare la ricchezza dei detentori di asset a spese di chi non ne ha. Così come l’afflusso di nuovo denaro crea bolle nei mercati immobiliari e finanziari, allo stesso modo crea una bolla nei prezzi delle materie prime, dovuta ad esempio alla corsa degli speculatori all’acquisto di quote di petrolio e di materie prime alimentari.Per alcuni paesi produttori di petrolio ciò ha comportato effetti positivi, con la messa a disposizione di denaro inatteso da investire in programmi sociali, come inizialmente è accaduto nel caso di Venezuela, Libia ed Iran. In tutti e tre i casi, le forze imperialiste sono state costrette a ricorrere a vari livelli di intervento militare per contrastare queste conseguenze indesiderate. Ma l’aumento del prezzo del petrolio è certamente deleterio per paesi che non ne producono – e qualsiasi aumento dei prezzi alimentari è sempre devastante. Nel 2011 il “Daily Telegraph” sottolineava «la correlazione tra i prezzi alimentari e gli acquisti da parte della Fed di titoli di Stato americani (ossia, programmi di quantitative easing)…Si può notare come l’indice dei prezzi alimentari si è pressoché stabilizzato tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, ed è poi nuovamente salito a partire dalla metà del 2010 dopo il nuovo avvio del quantitative easing… con un aumento dei prezzi di circa il 40% durante un periodo di tempo di otto mesi».L’aumento dei prezzi ha spinto 44 milioni di persone in povertà nel solo 2010 – il “Telegraph” riteneva che ciò stesse alla base del malcontento manifestato nelle cosiddette Primavere Arabe. Robert Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale, all’epoca commentava: «L’inflazione dei prezzi alimentari è oggi la più grave minaccia incombente sui poveri del mondo… basta un episodio di maltempo estremo per finire nel baratro». Sono questi i costi del quantitative easing. I paesi Brics erano anche critici nei confronti del Qe per un altro motivo: lo consideravano un metodo subdolo di svalutazione competitiva. Riducendo artificialmente il valore delle loro monete, la “triade imperiale” Usa, Ue e Giappone causavano a tutti gli effetti un apprezzamento delle valute di tutti gli altri paesi, danneggiando così le loro esportazioni.Nel 2015 “Forbes” scriveva: «Gli effetti si iniziano già a sentire anche nei paesi esportatori più dinamici al mondo, nell’est asiatico. Le loro esportazioni in dollari americani hanno subito una drammatica variazione, da una crescita annua del 10% ad una contrazione del 12% nella prima metà di quest’anno, e questi risultati non cambiano, che si tenga conto o no della Cina». Il vantaggio principale del Qe per i paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto essere l’enorme afflusso di capitali da esso innescato. Si stima che circa il 40% del denaro generato dalla prima espansione di credito Qe della Fed (‘Qe1’) si è spostato all’estero – in particolare nei cosiddetti ‘mercati emergenti’ del sud del mondo – e circa un terzo durante il Qe. Tuttavia, contrariamente alle apparenze questo non è necessariamente un vantaggio. Gran parte del denaro, come si è visto, è stato utilizzato per acquistare scorte di materie prime (rendendo così beni essenziali come il cibo esorbitanti per i poveri) invece di essere investito in attività di produzione, ed un’altra buona parte è servita per acquistare scorte valutarie, causando ancora una volta un apprezzamento nocivo alle esportazioni.Per di più, un afflusso di ‘hot money’ (capitali speculativi erranti, in contrapposizione al capitale per gli investimenti di lungo termine) accentua la volatilità e vulnerabilità delle valute in caso, ad esempio, di aumenti dei tassi esteri. Se, ad esempio, i tassi d’interesse dovessero nuovamente salire in Usa ed in Europa, ciò rischierebbe di scatenare una fuga di capitali dai mercati emergenti, che potrebbe innescare un tracollo valutario. Fu infatti proprio un afflusso di ‘hot money’ nei mercati valutari asiatici, molto simile a quello visto durante il Qe, a precedere la crisi valutaria asiatica del 1997. La prossima fine del Qe, con il conseguente innalzamento dei tassi d’interesse, rischia di riproporre proprio questa vulnerabilità come una possibilità – se non addirittura come un’opportunità speculativa.(Dan Glazebrook, “Quantitative Easing, il più grande trasferimento di ricchezza della storia”, da un editoriale su “Rt” del 22 luglio 2017, tradotto e ripreso da Margherita Russo per “Voci dall’Estero”. Glazebrook è un giornalista politico freelance che collabora, fra gli altri, con “Russia Today Rt”, “Counterpunch”, “Z Magazine”, il “Morning Star”, il “Guardian”, il “New Statesman”, l’“Independent” e “Middle East Eye”. I suoi saggi esaminano i legami tra la crisi economica, l’ascesa dei Brics, le guerra in Libia e in Siria e l’“austerità” europea. Attualmente conduce ricerche per un libro sull’impiego degli “squadroni della morte” contro Stati sovrani e movimenti politici, dall’Irlanda del Nord e dall’America Centrale negli anni ‘70 e ‘80 fino al Medio Oriente e all’Africa di oggi).Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.
-
Potere e denaro, dal caso Moro all’Isis fino al Russiagate
Andreotti e Cossiga: sarebbero stati soprattutto loro a impedire che Aldo Moro venisse liberato dai Gis dei carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme ai Nocs della polizia. Reparti speciali che, si dice, avevano individuato la prigione romana dello statista democristiano. E’ la tesi, più volte esposta (anche in libri di successo) da un magistrato di lungo corso come Ferdinando Imposimato, già pm e poi presidente onorario della Cassazione. La sua versione, suffragata da testimoni-chiave delle forze dell’ordine: il blitz decisivo fu impedito da Andreotti e Cossiga. Movente: ambivano entrambi alla carica alla quale sarebbe stato destinato Moro, il Quirinale. Gli americani? C’entrano, ma fino a un certo punto: perché poi, al dunque, “ritirarono” il loro uomo, Steve Pieczneick, in un primo momento inviato a Roma per controllare (e depistare) le indagini. Regia dell’operazione Moro: affidata alla Gladio, costola dell’intelligence Nato, in Italia gestita da uomini della P2 come il generale Giuseppe Santovito, allora a capo del Sismi. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, Gianfranco Carpeoro aggiunge un nome, quello del politologo statunitense Michael Leeden, tuttora attivissimo: sarebbe stato il vero burattinaio di Gelli. Per Gioele Magaldi, autore del besteller “Massoni”, la P2 era il terminale italiano della Ur-Lodge “Three Eyes”, potentissima superloggia internazionale di stampo antidemocratico.
-
Barnard: è in arrivo l’inferno. Saremo Tech-Gleba, schiavi
Non mangiano più “libri di cibernetica, insalate di matematica”, ma divorano volumi di Cartesio, Galileo, Newton. Sono i nuovi stregoni della meccanica quantistica, a metà strada tra scienza e metafisica. Sono stati assoldati dall’élite planetaria, quella che ormai ha compreso che il capitalismo è storicamente finito. Al suo posto, avanza quella che Paolo Barnard chiama tech-gleba. O meglio: “Tech-Gleba Senza Alternative”, sottoposta al cyber-potere del computer “quantico”, fantascienza in mano a pochissimi. Una super-macchina “pensante”, in grado di far sparire ogni lavoratore dalla faccia della terra, sostituendolo con robot, droni e androidi cobots, i cui servizi i neo-schiavi ridotti all’apatia saranno costretti a “noleggiare”. «Questo non è un fumetto, è il futuro vicino, vicinissimo, ed è tutto già pronto. Solo che nessuno di noi se ne sta accorgendo», perché i cittadini più “svegli”, che stanno in guardia contro minacce visibili (mafie, corruzione, Eurozona, migrazioni, “climate change”) non vedono «un mostro immensamente peggiore», che ormai «è dietro la porta di casa». L’umanità retrocessa alla servitù della gleba (tecnologica). E’ l’incubo al quale Barnard dedica svariate pagine sul suo blog, lo stesso che nel 2011 ospitò il profetico saggio “Il più grande crimine”, sulla genesi politico-finanziaria dell’Eurozona – riletta, appunto, in chiave criminologica: puro dominio, fraudolento, dell’uomo sull’uomo.«La schiavitù, letteralmente, è già pronta per 10 miliardi di esseri umani», premette Barnard, citando lo storico precedente della guerra civile americana, a metà dell’800. «I libri ci raccontano che il paese si spaccò in due, col Nord nazionalista che combatté una guerra sanguinaria contro i secessionisti del Sud per 4 anni. I primi fra le altre cose ambivano all’abolizione della schiavitù, i secondi la difendevano a spada tratta». Ma in realtà l’America «era spaccata in tre, e la terza forza in campo non era armata, era la Rivoluzione Industriale del paese». L’allora presidente Abraham Lincoln «era un uomo di un’intelligenza incredibile». Mentre combatteva la guerra civile «si era già reso conto che un mostro immensamente più micidiale della spaccatura della nazione e della schiavitù dei negri era dietro la porta di casa: era la schiavitù del lavoro salariato su scala industriale e agricola». Per i repubblicani di allora, il lavoro salariato era «una forma transitoria di schiavitù che andava abolita tanto quanto la schiavitù dei negri». Essere operai stipendiati nelle grandi industrie o nei campi era «un attacco inaccettabile all’integrità personale». I repubblicani «disprezzavano il sistema industriale che si stava allora sviluppando perché costringeva l’umano a essere sottoposto a un padrone, tanto quanto lo schiavo del Sud, anzi peggio».Per dirla semplice: «Chi ti possiede avendoti comprato ti tratta meglio di chi ti “noleggia”». E qui Lincoln aveva visto lunghissimo, dice Barnard: oltre la mostruosità della schiavitù dei neri d’America, aveva avvistato «il mostro immane della schiavitù del lavoro salariato su scala industriale e agricola». E’ storia: studiando le Rivoluzioni Industriali dal 1700 in poi, si scopre che le sofferenze di centinaia di milioni di operai e contadini salariati, cioè “noleggiati”, furono per più di due secoli assai più atroci di quelle sofferte dagli schiavi delle piantagioni Usa. «Abbiamo tutti nella memoria immagini delle frustate agli schiavi, i ceppi ai piedi e al collo, tutto vero. Ma il numero di manovali salariati, cioè “noleggiati”, picchiati a morte dai “caporali”, morti di stenti e malattie sul lavoro o trucidati dal lavoro stesso per, appunto, almeno due secoli, è infinitamente maggiore. Si pensi che durante la sola costruzione del Canale di Suez nel 1869 morirono come sorci 150.000 operai. La costruzione del Canale di Panama nel 1914 ammazzò l’esatta metà di tutti coloro che ci lavorarono, cioè 31.000 operai. Ancora di recente, nel 1943, il progetto della Burma-Siam Railway trucidò di fame, letteralmente di fame 106.000 disgraziati pagati centesimi a settimana».In Europa, ricorda Barnard, fu questa agghiacciante realtà schiavistica ad animare la lotta di Rosa Luxemburg o Anton Pannekoek. Lincoln, per primo, «aveva spiato il sorgere del nuovo mostro mondiale che avrebbe sputato olocausti dopo olocausti: ma fu ignorato, e la schiavitù del lavoro salariato s’impadronì del mondo mentre solo un microscopico nugolo di pensatori se ne stava accorgendo». Inutile sperare nei sindacati: non hanno mai combattuto il lavoro salariato come neo-schiavitù, hanno solo lottato per migliorare salari e condizioni di lavoro. «Il solito immenso George Orwell, che visse volontariamente fra i diseredati salariati d’Europa negli anni ’30, predisse ciò che ancora oggi abbiamo: masse moderne immani, di fatto schiave del lavoro per quasi tutta la vita». La fuga da questa schiavitù, scrisse Orwell, «è in pratica solo possibile per malattia, licenziamento, incarcerazione, e infine la morte». Oggi, in Ue, sono crollati tutti gli standard di ieri: siamo al ricatto della disoccupazione, ai pensionati costretti a cercasi un lavoro. In altre parole: Lincoln aveva visto giusto. Ed eccoci alla “Tech Gleba Senza Alternative”, «la ‘visione’ che nessuno di noi ha, ma che ci divorerà».Insiste Barnard: «Dovete capire che il capitalismo non esiste più come progetto, è già stato cestinato». Aveva bisogno di tre elementi: gli sfruttati, la classe consumatrice, l’élite che accumula il profitto, al vertice. «Era così nei primi decenni del XX secolo con qualsiasi prodotto, è così oggi con un qualsiasi gadget digitale, fatto da poveracci in Thailandia, comprato dagli occidentali e dagli ‘emergenti’, e i trilioni vanno alla Apple o Samsung». Ma, secondo Barnard, anche questo schema sta tramontando. Perché? «Per due motivi sostanziali. Il primo è che il Vero Potere ha da molto tempo compreso che non sarà assolutamente più possibile contenere miliardi di diseredati affamati sfruttati (la condizione A- del capitalismo); essi o migreranno in masse colossali, oppure – come in India e Cina – inizieranno a pretendere condizioni economiche migliori e nessuno potrà fermarli. Da ciò l’invitabile destino della crescita esponenziale dei costi di produzione di qualsiasi bene, a livelli di prezzi finali impossibili anche per un occidentale. Poi il Vero Potere ha compreso anche che neppure l’alternativa della robotizzazione degli impianti (per licenziare, abbattere quindi i costi e competere) funziona, è un’illusione immensa, perché le masse licenziate sia qui che in paesi emergenti non avranno reddito, e di nuovo non potranno acquistare prodotti sofisticati».Sicché: crollo profitti (Marx docet). E quindi: chi venderà a chi? «Secondo: Il Vero Potere ha da molto tempo capito che la classica struttura della competizione del mercato, in un mondo appunto con popolazione in crescita ma anche costi di produzione impossibili, non può più funzionare. Alla fine, detta in parole semplici, centinaia di milioni di corporations che producono in una gara disperata oceani di cose e servizi, a chi poi le venderanno nelle economie prospettate sopra? E’ un imbuto che si auto-strangola senza rimedi. Quindi il capitalismo è morto e consegnato alla storia, e “loro” lo sanno da anni». Ma ovviamente «il Vero Potere non sta a dormire», ha già strutturato la risposta «in una forma totalmente nuova di economia, mostruosamente nuova», la “Tech-Gleba Senza Alternative”. Ecco come l’hanno pensata: 10 miliardi di umani elevati a classe medio-bassa ma schiavi delle tecnologie, costretti a togliersi la pelle per consumare beni e servizi essenziali hi-tech. A monte, l’oligarchia «accumula quello che mai fu accumulato da élite nei 40 secoli prima». Scomparirà la sperequazione sociale di oggi, dove il pianeta Terra è frammentato da centinaia di stratificazioni, attraverso centinaia di fasce di reddito. «Si vogliono livellare 10 miliardi di umani a più o meno lo stesso livello economico».Un futuro orwelliano: «Ci sarà il condominio con acqua, bagni, elettricità, connessioni digitali, poi strade, scuole, negozi e servizi anche nei buchi neri del mondo di oggi, come Fadwa nel sud del Sudan, o a Udkuda in India». Morto il capitalismo, sparisce anche «la necessità/possibilità di avere miliardi di poveri di qua, benestanti di là, ricconi al top». Secondo Barnard, al nuovo progetto della “Tech-Gleba Senza Alternative” serve che l’intera massa vivente sia omogeneizzata nello standard di vita, e che consumi ma in modo totalmente diverso, mai visto prima nella storia. Un esempio? L’automobile. Come altri giganti come Google, Apple e Tesla, la Volkswagen «sta investendo miliardi di dollari nelle cosiddette ‘driverless cars’, cioè automobili che si autoguidano, che rispondono a comandi orali del passeggero, talmente zeppe di Artificial Intelligence da far impallidire la parola fantascienza». E la casa tedesca non lo sta facendo da poco: ha iniziato 12 anni fa in collaborazione con la Stanford University e il dipartimento della difesa Usa nel suo laboratorio futuristico chiamato Darpa. «Oggi tutto gira attorno a Silicon Valley, Google-Alphabet e alla Cina. Stanno investendo come pazzi». Una startup cinese di nome Mobvoi che fa “intelligenza artificiale” per l’auto del futuro è passata dal valere nulla al valore di 1 miliardo di dollari in un anno. Una corsa frenetica: anche Fca, l’ex Fiat di Marchionne, «sta rovesciando miliardi in ’ste auto-robot assieme a Wymo di Alphabet-Google».In particolare, continua Barnard, la gara si gioca a chi per primo elaborerà i super-computer, oggi impensabili, che sapranno elaborare trilioni di impulsi e dati ad ogni micro-secondo, per far girare miliardi di auto senza autista ma tutte coordinate, “a colloquio” fra di loro per non creare disastri. «La mole di dati che dovranno essere elaborati dal computer di bordo di ogni singolo veicolo in questo scenario è pari a quella di una spedizione spaziale dello Space Shuttle ogni secondo, tutto però gestito da un computerino sul cruscotto grande come una scatola di caramelle». E allora «giù valanghe di miliardi d’investimenti per arrivare primi». La Volkswagen oggi lavora con D-Wave Systems, «un’azienda di computer che sta ribaltando l’universo, perché applica la fisica quantistica ai software: una roba da far esplodere il cervello, perché la fisica quantistica – se applicata con successo alle tecnologie digitali di oggi – le sparerebbe nell’iperspazio, moltiplicando per miliardi di volte il potere di elaborazione dati del più potente computer del mondo». Insomma, «siamo a una viaggio lisergico digitale allo stato puro, ma dietro ci sono i miliardi veri e concreti. Perché?».Ecco la risposta: «Perché questa è gente che pensa 200 anni avanti, e sa benissimo che, col capitalismo morto – quindi con la sparizione di chi ti fa componenti auto pagato 1 dollaro al giorno, e con l’inevitabile innalzamento delle pretese di vita di miliardi di poveracci di oggi verso classi medio-basse – costruire un’auto con quei costi di manodopera costerà una pazzia e i prezzi si centuplicheranno». In altre parole: «Sanno che le auto non si venderanno più nei prossimi duecento anni perché costerebbero oro, e il 98% della gente del pianeta non se le potrebbe più permettere». Sanno anche che l’alternativa della robotizzazione per tagliare i costi (salari) non funziona, è un’immensa illusione, «perché le masse licenziate non avranno reddito, e di nuovo non potranno acquistare l’auto». Ed ecco allora l’avvento della “Tech-Gleba Senza Alternative”, cioè «10 miliardi di umani economicamente omogeneizzati, ma a un livello appena possibile di classe mondiale medio-bassa». E si badi bene: «Là dove questa “Tech-Gleba Senza Alternative” non potrà arrivare coi propri mediocrissimi redditi, dovrà sopperire lo Stato con un Reddito di Cittadinanza, come già detto dal mega-sindacalista Usa Andy Stern e riportato dal “Wall Street Journal”».Queste masse, aggiunge Barnard, saranno saranno obbligate a spostarsi. «E allora l’auto deve diventare un robot che nessuna casa vende, se non in numeri microscopici». Un robot «che quasi nessuno possiede, ma che tutti possono noleggiare per pochi soldi in qualsiasi istante digitando un codice: un’auto-robot arriva e ti porta, un’altra ti riporta, oppure la mandi a prendere la spesa senza muoverti da casa, o rincasi dal lavoro con 6 colleghi chiacchierando comodamente seduto in un van-robot che riporta tutti a domicilio, e se un’ora dopo vuoi andare a cena fuori digiti un altro codice et voilà». Basta moltiplicare questi “noleggi” anche a pochi spiccioli per 10 miliardi di esseri umani, per 10-20 volte al giorno, per 365 giorni all’anno, «e non è difficile capire che il profitto dalla casa produttrice dalla Driverless Car diventa cosmico, rispetto al preistorico sistema della vendita dell’auto al singolo». E già sanno, pare, che l’intera impresa delle Driverless Cars sarà «destinata poi a essere soffocata e rimpiazzata dalle Auto-Drones, letteralmente i Drones iper-tech di oggi trasformati un mezzi di trasporto che ti atterrano davanti a casa», sicché «l’intero traffico mondiale non sarà più su strada ma a circa 500 metri d’altezza sulle città», come in “Blade Runner”. «Ribadisco: queste masse però saranno obbligate (“senza alternative”) a noleggiare questa tecnologia: saranno prigioniere di quelle spese, anche a costo di altri sacrifici».Ma attenti, aggiunge Barnard, perché in questo progetto c’è altro: in questo modo, l’élite si prepara ad accumulare denaro e potere come mai prima, nella storia dell’umanità. Soprattutto perché il progetto «prevede, alla lettera, la distruzione d’interi comparti industriali (i tradizionali Re dell’industria) a favore dell’esistenza sul pianeta degli Imperatori del Business». Parola di Jeff Bezos, di Amazon: «Tutto questo sbriciolerà interi comparti industriali. Da queste fratture escono morti i tradizionali Re del business, ed escono gli Imperatori». E Bezos è uno che «ha sbriciolato tutto il comparto industriale a cui apparteneva, ha azzerato sei comparti in un colpo solo, e ora l’Imperatore è Amazon». State capendo? Non muore solo il capitalismo, secondo il progetto Tech-Gleba, ma anche la moltitudine delle industrie a favore di colossali monopoli (gli “Imperatori”) come mai visti nella storia, già chiamati col nome di “piattaforme”. Ne immaginate i profitti? Ancora: «Con lo Strumento per Pianificare l’Offerta, i Pensatori Critici e i nuovi software, l’Imperatore possiederà una o più Piattaforme. Le Piattaforme dovranno però interagire nel pianeta, tutto si gioca in questo, nelle Piattaforme… Useremo i software per sbriciolare comparti industriali con prodotti o soluzioni che nessuno ancora possiede». Di nuovo, immaginate i profitti dei pochi Imperatori-élite nelle loro Piattaforme?Chi parla così? Dei lunatici deliranti? Tutt’altro: sono Lloyd Blankfein (Goldman Sachs), Robert Smith (Vista Equity Partners), e Jeff Immelt (General Electric), a un meeting riservato. Ma, «prima che il progetto arrivi a distruggere i milioni di Re a favore degli Imperatori, gente come Amazon di Jeff Bezos con la sua iper-Tech digitale si sta divorando la piccola-media distribuzione, come uno squalo bianco divorerebbe un milione di pesci rossi in una vasca». Se cambia l’universo-automotive, «10 miliardi di viventi saranno “prigionieri” della necessità (Captive Demand) di “noleggiare” tecnologia oggi considerata cosmica per solo spostarsi». Costretti, prigionieri. «Basta solo capire che quasi tutto il resto sarà esattamente così, per quasi ogni prodotto e per quasi ogni servizio esistente. Cioè: 10 miliardi di “Tech-Gleba Senza Alternative”», obbligati a «usare per sopravvivere tecnologie di cui loro non hanno nessun controllo, ma assoluta necessità, e che stanno tutte nelle mani di pochi Imperatori che già oggi le posseggono perché ci stanno investendo cifre incalcolabili e cervelli inimmaginabili».Amazon e Google-Alphabet, Intel, Samsung, Microsoft, Apple, D-Wave Systems e tutti i labs di ricerca in “A.I.” dei colossi come General Electric, Bosch, Mit di Boston, più le migliaia di startup come la cinese Mobvoi. Monopolio totale della conoscenza applicata, in ogni campo: «Potrebbero sparire tutti i tecnici Enel, idrici, progettisti d’auto o medici operativi oggi, che in poco tempo sarebbero sostituiti da altri già esistenti o in formazione. Ma quando invece solo il fatto che tu abbia una connessione senza cui letteralmente non sopravvivi in Terra, o che tu abbia un trasporto da A a B, o un Cobot che ti curi il taglio post-operatorio, quando queste cose essenziali sono in mano a una élite ristrettissima di fisici quantistici, software code-makers da viaggio su Marte, e maghi visionari della A.I., i cui brevetti saranno più segreti dei codici nucleari di Stato… tu sei fottuto, perché nessuno fra i tecnici delle normali formazioni universitarie anche ad altissimo livello ci capirà mai nulla di quella incredibile fanta-vera-scienza. I primi saranno i padroni unici della vita stessa sul pianeta, punto. State capendo?».Trasporti, sanità, acqua, energia, informazione, servizi essenziali, pagamenti, cibo: tutto in mano a pochissimi, il cui sapere non è alla portata dei normali scienziati non-quantistici. Ci sono materiali “magici” come il Graphene, «che è un singolo strato di materiale con proprietà mai esistite in nessun altro materiale al mondo: è più forte dell’acciaio, conduce meglio del rame, è sottile come un singolo atomo, da semiconduttore è praticamente trasparente e ha applicazioni ovunque, dalla chirurgia all’ingegneristica alla purificazione delle acque ai sistemi elettrici di intere nazioni». E ci sono gli Oleds, «che sono tecnologie visive, che trasformeranno le tv e gli smartphone in applicazioni molto più flessibili, intercambiabili, permetteranno a una televisione di casa di essere ripiegata in un tablet e poi anche in uno smartphone». E ci sono i possibili super-computer «di capacità inimmaginabili, oggi nascenti dalla fisica quantistica di D-Wave Systems».La massima incarnazione di tutto ciò si chiama Sergey Brin, il guru di Google-Alphabet. Tutto il potere inimmaginabile che Google ha e avrà nasce da questo concetto partorito da Brin: «Non c’interessa fare prodotti, c’interessa sfondare i limiti dell’inimmaginabile». Brin, continua Barnard, ha dato ordine di sviluppare decine di innovazioni chiamate Ecosystem, da lì il progetto di eliminare tutti i trasporti su ruote o ferrovie del pianeta, e sostituirli con immensi Dirigibili Drones con neppure un umano impiegato a bordo, spostando tutto ciò che si sposta al mondo – dalla Cina all’Argentina e dal Canada a Singapore – da una stanza con una ventina di addetti». Il lettore, aggiunge Barnard, deve comprendere come lavorano i cervelli di questi “alieni umani”. «Per essere semplici: se il 99% degli scienziati stanno lavorando come pazzi per mandare l’uomo su Marte, Sergey Brin riunisce i suoi per trovare le tecnologie per mandare l’uomo su Giove… comprendete? Col Deep Learning di Google, Brin considera oggi come già superata l’Intelligenza Artificiale (A.I.) che ancora deve venire». Con i colleghi Greg Corrado e Jeff Dean, Brin «ha chiuso gli occhi e immaginato livelli di astrazione». Che significa? «Loro sanno che nella sfera dell’Intelligenza Artificiale il problema dei problemi è che i computer lavorano a metodo lineare, e non riescono ad elaborare molti livelli di astrazione. E oggi loro hanno portato l’Intelligenza Artificiale con il loro Deep Learning a saper elaborare almeno 30 livelli di astrazione, dando quindi la capacità ai computer d’imparare ormai allo stesso livello degli umani».Poi c’è David Ferrucci, che fu il guru della A.I. all’Ibm col progetto Watson. Ferrucci lasciò Ibm per passare alla corte di Ray Dalio, il boss dell’hedge fund Bridgewater. «Un altro essenziale transfugo dall’Ibm che è andato a lavorare sulla A.I. in Inghilterra alla Benevolenti A.I. che si occupa di sanità, è Jerome Pesenti: e qui avremo moltissima “Tech-Gleba Senza Alternative”, perché gli ammalati esisteranno sempre e già oggi in Giappone, dove nel 2025 gli anziani sopra i 70 anni saranno quasi il doppio di quelli in Ue o negli Usa, si stanno costruendo gli infermieri robotizzati chiamati Cobots». Continua Barnard: «Adam Coates viene da Stanford e oggi porta il suo genio “demoniaco” alla Cina, dove dirige i progetti di A.I. per la mega-corporation Baidu focalizzandosi su apprendimento, percezione e visione nella A.I». Al colosso Ibm non mancano i rimpiazzamenti: David Kenny che sviluppa proprio la tecnologia per le piattaforme e per i carichi cognitivi. Poi, l’arcinota Uber ha Gary Marcus che lavora sulla A.I. per le Driverless Cars e sul Dynamic Ride Scheduling. «L’uomo che forse più sa di Networking Neuronale al mondo è Jonathan Ross: lavorava a Google con Brin». In Amazon, invece, «Raju Gulabani ha pionierizzato la rete da decine di miliardi di dollari che sostiene la corporation di Jeff Bezos, cioè la Aws Database and Analytics, assieme ai primi mattoni di A.I». E ci sono personaggi Russ Salakhutdinov, di Apple, «anche se l’ex impresa di Steve Jobs è davvero arrivata tardi in questa fanta-vera-scienza».Qualche esempio di cosa inizieremo a vedere? La classica scampagnata: oggi prendi la bici e scorrazzi tra i campi, tra l’odore di fieno, il rombo della trebbiatrice «e quella sensazione di essere nella natura lontano da semafori, antenne o il wi-fi: il casolare del contadino, i contadini magari seduti fuori dal bar di Mezzolara al sabato pomeriggio a giocare a carte». Nella scampagnata in “Tech-Gleba Senza Alternative”, invece, «i contadini scompaiono, letteralmente non ne esiste più uno». Si chiamerà: Agricoltura di Precisione. «Il casolare, se rimane, è ristrutturato in una centrale operativa di Agriscienza. Antenne ovunque. Nessun rombo di trattore, ronzii di decine di Drones di dimensioni che vanno dai 12 centimetri a 10 metri che sorvolano i campi e trasmettono miliardi di dati (100 o 500 per ogni singolo stelo di grano, per ogni singola cipolla) alle centrali. Poi i software dalle centrali diranno ai Drones Seminatori dove piazzare il singolo seme a seconda di una dettagliata analisi chimica del singolo centimetro quadrato di terreno, il tutto in tempi di microsecondi. Welcome la Semina di Precisione. Stessa operazione ai Drones Fertilizzanti. Vi lascio immaginare il resto: meglio che ne approfittiate finché il contadino sta ancora là, oggi».Nel campo industriale, continua Barnard, si aggiungono gli Ecosistemi Virtuali, là dove il prodotto viene razionalizzato da sistemi di A.I. per ridurre i passaggi produttivi di venti volte o più. Una produzione annuale di 40 milioni di di pezzi sarà gestita dai Cobots, cioè sistemi robotizzati che letteralmente “parlano” con un singolo operatore umano, che «non schiaccia più tasti, ma parla e basta», mentre «mostruosi impianti rispondono, obiettano, suggeriscono soluzioni, segnalano problemi». Così per tutto: intrattenimento, qualsiasi attività esterna a casa, istruzione, social media, attivismo, politica. «Qui i primi ad arrivare per cambiare, come mai, il tuo mondo saranno la Virtual Reality (Vr) e la Augmented Reality (Ar) del conglomerato Facebook-Oculus». Il concetto è questo: «Per entrare in contatto con chiunque, e per fare praticamente qualsiasi cosa, non sarà più necessaria la tua presenza fisica, basta quella virtuale. Un bel Rift Head-set di Oculus, o anche solo quegli strani occhiali con cui si fece fotografare Sergey Brin di Google, e il gioco è fatto. Il networking globale in 3d ti permetterà, stando immobile sul divano, di cercar casa visitando decine di appartamenti, dialogare con gli agenti e l’amministratore, stare in classe ma “vedersi” seduti alla Lectio Magistralis del Prof. X all’università di Yale in Usa, o visitare, sempre immobile dalla classe, le distese di Agribusiness in Sudan, partecipare a workshop di A.I. a Cupertino, a Mosca, a New Delhi». E magari «testimoniare la guerra ad Aleppo, ma senza il “disturbo” degli odori dei poveri, dei fetori di sangue rappreso, e con una visione totalmente pilotata dalle autorità occidentali».Poi, i social media «ti permetteranno, dal divano di casa, di essere fra amici a una cena virtuale, o di corteggiare una persona per capire chi è, prima ancora di muovere un passo da casa. O di non muovere neppure più un passo da casa, e avere un orgasmo, toccare un petto o un seno virtuali, e uscirne totalmente soddisfatti». Peggio: «Il progetto provinciale di Casaleggio diverrà devastante nelle dimensioni. L’attivismo politico sarà tutto immobilismo dai divani di casa, nessun corpo umano visibile da nessuna parte, tutti in cortei virtuali, Consigli comunali virtuali, comizi virtuali, dialoghi coi parlamentari virtuali, videogames di scontri di piazza, cioè aria fritta, e apatia di masse immense nel trionfo globale dell’Attivismo di Tastiera». Il denaro? Blockchain e Ledgers sono già realtà oggi: «Sparirà ogni forma di denaro, le Cryptovalute diverranno padrone (oggi abbiamo solo Bitcoins ed Ethereum, ne verranno centinaia). Ogni singola transazione, dai 70 centesimi dell’anziana pensionata alle centinaia di miliardi delle corporations, sarà registrata attraverso la tecnologia Blockchain in registri mondiali chiamati Ledgers che saranno visibili da chiunque al mondo abbia i software per accedere».I pagamenti saranno quindi istantanei e istantaneamente verificati dagli algoritmi matematici di tutta la catena di Blockchain. «Spariranno dunque milioni di posti di lavoro legati alla contabilità, all’avvocatura, nelle banche, con lo strascico di impiegati/e. Ma molto peggio: i maghi dell’informatica dei servizi americani, perché saranno loro ad avere le chiavi di questa allucinazione, passeranno miliardi di dati privati – sui pagamenti degli umani visibili sui Ledgers, quindi sugli stili di vita, sulle abitudini, sulle tendenze di consumo, sullo stato di salute delle persone, su come lavorano, sul business mega-medio-micro». Dati ce finiranno alla Nga, la National Geospatial Intelligence Agency degli Stati Uniti. «La Nga è la più grande intelligence al mondo per raccolta e analisi di immagini e dati; e lo sarà in futuro per capire chi sei tu, o tu azienda, cosa fai ogni 30 secondi della tua vita, cioè se compri gratta&vinci o se hai fatto un’ecografia all’utero, o se hai donato a Greenpeace, ai sovranisti… o per spiare i pacchetti ordini per sapere su quali aziende speculare, o per sapere se davvero come dice “Bloomberg” il rame del Cile ancora tira, o se è meglio dire agli investitori di andare altrove». La Nga «lo farà grazie alla Blockchain e ai Ledgers: sarà la più immane perdita di privacy della storia umana, con la “Tech-Gleba Senza Alternative” del tutto impotente, ma le piattaforme globali in posizione di ovvio favore».E sempre in materia di privacy disintegrata, continua Barnard, saremo il benvenuto al mondo dei Psychoimaging Sofware, a braccetto coi Drones. «E’ noto che i gadget digitali più venduti già oggi sono pronti ad ospitare software che ti leggono impronte digitali, o la mimica dei muscoli facciali, o a registrarti mentre sei a letto col cellulare spento. Ma è anche vero che i dati sulla tua persona che verrebbero trasmessi in questo modo rischiano di essere molto frammentari perché non viviamo sempre incollati ai cellulari, pc o tablets». I droni, invece, come già oggi sperimentato dal Darpa del dipartimento alla difesa Usa, «possono essere ridotti alle dimensioni di un insetto, ed essere su di te in qualsiasi momento, ovunque, e trasmettere i dati a software di Psychoimaging, cioè software che compileranno schede su chi sei, che carattere tendi ad avere, come ti si può convincere meglio e a che ore del giorno, o se sei una minaccia per il sistema, cosa ti potrebbe sospingere a una ribellione, come i media impattano la tua personalità, come formi i tuoi figli». Peggio ancora: «I Drones possono leggere il labiale, quindi avere un accesso ancora più diretto a qualsiasi cosa tu esprimi o intenda fare in ambito sia privato che di business».Per il pessimista Barnard non avremo scampo: «Saremo “Tech-Gleba Senza Alternative”, cioè prigionieri, precisamente perché quando tutto il pianeta funzionerà così, chi si può permettersi di dire “No, non ci sto”?». E il «mostruoso mondo Tech» non è una fantasia, «è già alle porte». Ma a cambiare, sottolinea Barnard, è solo il “come”, lo spaventoso potenziale tecnologico, non il paradigma. Quello è immutato: «Il gran gioco della razza umana dal primo minuto della civiltà è sempre stato identico: fu, e rimane oggi, una guerra spietata fra il desiderio delle élite di dominare, e i tentativi dell’umanità di prendersi invece ciò che gli spetta. I tentativi hanno avuto sempre e solo un nome: le rivoluzioni», considerate dall’élite «fastidiosi incidenti di percorso». Potevano essere represse nel sangue, o tollerate per qualche tempo e poi «dirottate dall’interno verso nuove forme di sanguinario dispotismo di altre élite». E’ il caso della Rivoluzione Francese finita nel Terrore, o della Rivoluzione Russa «che Lenin devastò appena poté». Ma con l’incalzare della modernità, aggiunge Barnard, per le élite divenne sempre più difficile controllare le masse. La prima sperimentazione in grande stile? Negli Usa, tra fine ‘800 e inizio ‘900.«Pochissimi sanno che la parte d’Occidente più “marxista” in assoluto, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, fu il nord-est degli Stati Uniti d’America, e in parte l’Irlanda». Negli Usa, il fermento dei lavoratori «impropriamente chiamato socialista», in realtà «anarco-sindacalista, libertario nel vero, storico senso del termine» era tale che, di routine, «venivano stampati quasi 900 quotidiani rivoluzionari, che venivano davvero letti nelle comuni di lavoratori e lavoratrici». Ora, aggiunge Barnard, si può immaginare come l’élite del capitale americano si organizzò per soffocare tutto questo. E di certo, a pochi decenni da una guerra civile costata quasi 800.000 morti, «le élite non potevano reprimere tutto nel sangue. Ci voleva altro per soffocare quella rivoluzione». Ma cosa? Da quell’epoca in poi, «il Vero Potere comprese qualcosa di letteralmente mostruoso – ripeto, mostruoso – per silenziare, sedare, le masse ribelli: l’Apatia del Benessere Minimo». Che significa? «Mantenere miliardi in povertà e disperazione è non solo intenibile, perché si ribelleranno, ma controproducente (fine capitalismo, “Tech-Gleba”)». Furono due intellettuali americani a immaginare la soluzione: Edward Bernays e Walter Lippmann. «Le élite avrebbero dovuto sedare le masse – in quel caso americane – con l’avvento dell’industria mediatica, cinematografica, pubblicitaria e consumistica che ne manipolasse il consenso verso il desiderio di possedere un benessere minimo a qualsiasi costo».E vinsero, perché «chi inizia ad assaggiare l’individualismo del proprio piccolo, modesto progresso edonistico nei consumi e nel piccolo agio», poi ovviamente «abbandona i sacrifici, il coraggio e il pensiero per la lotta sociale». Chiaro: «Vuole avere di più. Per non parlare poi di quando diviene vera classe media». La prima grande ondata di “apatizzazione” delle masse potenzialmente pericolose per le élite «sfondò i popoli negli Stati Uniti fra gli anni ’20 e ’40 del XX secolo», continua Barnard. Celebre l’opinione che Bernays e Lippmann avevano del popolo: «Sono solo degli outsider rompicoglioni», da “domare” verso la docilità. Poi vennero la Seconda Guerra Mondiale, il dilagare del socialismo, il comunismo e la Rivoluzione d’Ottobre, la nascita del Welfare State in Gran Bretagna, «la magica (seppure breve) influenza dell’economista John Maynard Keynes sull’economia per la piena occupazione», fino al ’68 e alle lotte operaie europee. «All’alba degli anni ’70 le élite si resero conto che il piano Bernays-Lippmann di apatizzazione era decaduto, ne occorreva un altro ben più potente»: il Memorandum Powell.Barnard ne ha parlato nel saggio “Il più grande crimine”, citando le gesta dei protagonisti della «seconda grande ondata di apatizzazione delle masse». Lì i compiti furono divisi fra Stati Uniti, Europa e Giappone. «S’inizia con una mattina dell’estate del 1971, quando Eugene Sydnor Jr. della Camera di Commercio degli Stati Uniti chiamò l’avvocato Lewis Powell e gli chiese un progetto di apatizzazione delle masse occidentali in sollevazione». Powell scrisse un Memorandum di sole 11 pagine. Vi si legge: «La forza sta nell’organizzazione, in una pianificazione attenta e di lungo respiro, nella coerenza dell’azione per un periodo indefinito di anni, in finanziamenti disponibili solo attraverso uno sforzo unificato, e nel potere politico ottenibile solo con un fronte unito e organizzazioni (di élite) nazionali». Poi arriva la Commissione Trilaterale, composta appunto dai vertici di Stati Uniti, Europa e Giappone. Chiamano tre influenti intellettuali, Samuel P. Huntington, Michel J. Crozier e Joji Watanuki. Nelle 227 pagine del loro “The Crisis of Democracy” daranno la ricetta letale per l’apatizzazione. Basta leggere questi passaggi: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che hanno permesso alla democrazia di funzionare bene».«La storia del successo della democrazia – continuano i tre – sta nell’assimilazione di grosse fette della popolazione all’interno dei valori, atteggiamenti e modelli di consumo della classe media». Cosa vuol dire? «Significa che, se si vuole uccidere la democrazia partecipativa dei cittadini mantenendo in vita l’involucro della democrazia funzionale alle élites, bisogna farci diventare tutti consumatori, spettatori, piccoli investitori, tutti orde di classe medio-bassa appunto. Apatici». Il risultato, conclude Barnard, è storia contemporanea: «Trionfo dei consumi assurdi, dell’edonismo idiota di Tv e mode, crollo dalla partecipazione alle lotte in strada, apatia di praticamente tutti anche a fronte di fatti gravissimi che distruggono democrazia, lavoro, diritti, Costituzioni. Con l’avvento poi di Internet il tripudio del progetto della Trilaterale raggiunse l’orgasmo». Barnard fui il primo in Italia a coniare il dispregiativo “attivisti di tastiera”, ignaro che negli Usa si parlava di “clicktivism”. «Altra forma di apatia che infettò persino quel 2% dei cittadini che ancora non erano stati divorati da Playstation, Formula 1, Belen, Il Grande Fratello, la Champions, il red carpet di Cannes, il gratta e vinci, il Carrefour, la ‘notte rosa’ al mare». La grande apatia di massa del Duemila.«Le élite protagoniste di tutta questa storia – insiste Barnard – vedono sempre chiaro almeno 50 anni avanti, più spesso 200 anni». I segnali di un nuovo sommovimento delle masse? Divennero chiari, per loro, quasi vent’anni fa. Allora, «i salari reali del paese più potente del mondo, gli Usa, erano stagnanti dal 1973: malcontento diffuso». Inoltre, le bolle speculative (immobiliari e finanziarie, specialmente incoraggiate da Clinton) davano un segnale chiarissimo: le élite sapevano già che sarebbero tutte esplose (net-economy, subprime, crack di Wall Street). Risultato: di nuovo, milioni di occidentali “indignati”. Niente di buono neppure a Est: «La mano del Libero Mercato di quel criminale di Jeffrey Sachs nell’est europeo post-comunista e in Russia stava decimando quei popoli, col tasso di mortalità media in Russia crollato a 56 anni per gli uomini, migrazioni di massa a ovest delle donne, corruzione epica ovunque, di nuovo pericolo di sollevazioni». Poi il disegno dell’Eurozona: «Appena nato, era già stato sancito come una catastrofe sociale dalle Federal Reserve Banks degli Stati Uniti, e quindi dai maggiori “investment bankers” del pianeta, per cui già allora si aspettavano un’Europa di ribellioni populiste, caos politico, e Brexit». Chiarissimo, poi, era il pericolo di conflitto nucleare futuro, con rischi anche per le stesse élites: conflitto «non Usa-Russia, ma Usa-Cina, cioè due progetti imperiali inconciliabili a morte». Infine il “climate change” che già stava divorando il pianeta, con «masse immani di disperati» che si sarebbero mosse «letteralmente per bere, e avrebbero invaso l’Occidente: 500.000 indiani rischiano di non bere più fra meno di un decennio».Attorno al 2.000, «l’elite comprese che una terza, immensa ondata di apatizzazione sarebbe stata vitale, per tenere questo mondo di nuovo in ribellione sotto controllo per i prossimi mille anni». Ed ecco Rift Head-set, Virtual Reality, Blockchain, Drones, Artificial Intelligence e 10 miliardi di umani in “Tech-Gleba Senza Alternative”, «decerebrati del tutto da Facebook-Oculus e altri come loro». Visione deprimente: «Saremo un’umanità omogeneizzata, senza più immensi scarti di redditi ma totalmente nelle mani, per letteralmente sopravvivere, di élite private che possiedono tutte le Tech-chiavi per la vita stessa della specie umana». E naturalmente «non potremo mai più ribellarci, né dare l’assalto alla Bastiglia, perché anche se ci impossessassimo di quelle chiavi non sapremmo né usarle né sostenerle. Saremo prigionieri di consumi High-Tech irrinunciabili, senza nessuna via di fuga, e in più totalmente apatizzati dall’immobilismo del mondo Virtual-Drones, con gli Oleds, la Vr con Ad, e le infinite forme di A.I.». Detto alla buona: «Se oggi è un dramma convincere un cittadino a uscire di casa per contestare il proprio Comune, immaginate in questo futuro, che è già pronto, quando il tizio con la maschera-occhiali contesterà il Comune in Virtual 3D fra un amplesso Virtual 3D e l’altro». Con 10 miliardi di umani conciati così, ed élites «padrone di un potere sull’economia e sulla vita stessa impensato fino a oggi», per Barnard si può davvero decretare la fine della storia. «L’Eurozona è un sogno, in confronto; la mafia è un sogno, in confronto, il lavoro di oggi anche. Ricordate Lincoln e come seppe vedere ‘oltre’. Non fate figli, vi prego».Non mangiano più “libri di cibernetica, insalate di matematica”, ma divorano volumi di Cartesio, Galileo, Newton. Sono i nuovi stregoni della meccanica quantistica, a metà strada tra scienza e metafisica. Sono stati assoldati dall’élite planetaria, quella che ormai ha compreso che il capitalismo è storicamente finito. Al suo posto, avanza quella che Paolo Barnard chiama tech-gleba. O meglio: “Tech-Gleba Senza Alternative”, sottoposta al cyber-potere del computer “quantico”, fantascienza in mano a pochissimi. Una super-macchina “pensante”, in grado di far sparire ogni lavoratore dalla faccia della terra, sostituendolo con robot, droni e androidi cobots, i cui servizi i neo-schiavi ridotti all’apatia saranno costretti a “noleggiare”. «Questo non è un fumetto, è il futuro vicino, vicinissimo, ed è tutto già pronto. Solo che nessuno di noi se ne sta accorgendo», perché i cittadini più “svegli”, che stanno in guardia contro minacce visibili (mafie, corruzione, Eurozona, migrazioni, “climate change”) non vedono «un mostro immensamente peggiore», che ormai «è dietro la porta di casa». L’umanità retrocessa alla servitù della gleba (tecnologica). E’ l’incubo al quale Barnard dedica svariate pagine sul suo blog, lo stesso che nel 2011 ospitò il profetico saggio “Il più grande crimine”, sulla genesi politico-finanziaria dell’Eurozona – riletta, appunto, in chiave criminologica: puro dominio, fraudolento, dell’uomo sull’uomo.
-
Carpeoro: l’Isis finirà presto, grazie ai massoni progressisti
Gli attentati dell’Isis nascono dall’esigenza, da parte di logge massoniche reazionarie e di alcuni interessi e gruppi economici di potere, di fronteggiare il fatto che parte della massoneria, parte della finanza e parte, per certi aspetti, anche del potere, che non è necessariamente un’entità negativa, si sta dissociando. C’è stata un’evoluzione, iniziata con l’epoca Bush, con “fronti di gestione” del potere in cui c’era una componente che era un po’ il “gruppo alfa” e l’altra, che stava zitta. Questa seconda componente – che si esprime nella finanza, nella massoneria, nei gruppi di potere – non è più allineata. Non è poù disposta a tacere, a subire, e ha preso piede. Aveva già preso piede con la figura del leader svedese Olof Palme (assassinato nel 1986), che stava diventando segretario generale dell’Onu – non una “carichetta” di poco conto, e la sua nomina era certa. E’ stato ammazzato perché la massoneria reazionaria non voleva che un massone progressista, con linee politiche-economiche moltro precise, arrivasse a una posizione di stra-potere. E con lui è stata “ammazzata” tutta la classe socialista e progressista europea, è stata disarcionata. E questa realtà traumatica ha richiesto un po’ di tempo perché le cose si riorganizzassero.Ma la massoneria progressista e i socialisti adesso si sono riorganizzati. E si sono riorganizzati in termini così pericolosi, per gli avversari, che c’è stato un fenomeno Sanders in America, esattamente come c’è una ripresa di un certo tipo in Inghilterra. E, grazie ai deliri di Macron, tra poco avverrà anche in Francia, dove c’era un prestanome, Hollande – che non è un socialista vero, come non lo era Tony Blair. Erano controfigure. Invece quello inglese, Corbyn, è uno che viene da là. E adesso i socialisti francesi, che stanno per fare un congresso, tireranno fuori un altro personaggio – l’ennesimo massone progressista “con le palle” – che a Macron farà un’opposizione di un certo spessore; ve ne accorgerete tra qualche mese. Quindi, a questo punto, succede che la parte più determinata e sanguinaria, quella che non aveva esitato a fare la guerra a Saddam, che non aveva esitato – per arrivare in America a determinate leggi repressive – a organizzare il primo fantoccio, Al-Qaeda, e poi il secondo fantoccio, Isis, oggi ha bisogno di tenere alta la tensione. E’ una specie di strategia della tensione a livello mondiale.Ha bisogno di questo terrorismo: perché ti fa vincere le elezioni localmente, ti fa gestire. Ma non lo possono portare avanti più di tanto, non è possibile: perché tu puoi, per tre anni, traccheggiare con quei quattro staccioni che ci sono in Siria, facendo finta che possano mettere in difficoltà le sette potenze mondiali, ma non la puoi tirare in lungo più di tanto, anche perché ci sono ripercussioni economiche, per esempio sulla gestione del petrolio. Nel momento in cui si deve abbassare il livello di tensione, per la componente che ha progettato l’Isis cominceranno a fioccare le sconflitte, grazie all’azione dell’area progressista. E ad agire non saranno più dei prestanome: il presentare la Clinton, Hollande o Tony Blair come area progressista faceva parte dell’operazione truffaldina che è stata fatta fino a ieri. Ma questa operazione ormai sta crollando: tutti, ormai, si rendono conto che quei soggetti non sono di area progressista – come non è di area progressista Renzi: non si può presentare come progressismo una cosa che non è progressismo, non è socialismo, non è socialdemocrazia.Nel momento in cui questa tensione terroristica si abbasserà, si riapriranno man mano gli orizzonti politici per delle forze progressiste che si sono riorganizzate, che hanno ritrovarto dei dirigenti – quello inglese mi sembra “tosto”; Sanders è un “personaggino” di cui tra poco comincerete a vedere gli effetti, perché anche lì stanno allevando il “delfino”. Secondo me, questo orizzonte cambierà. Alle primarie democratiche, Sanders sapeva benissimo che la situazione non era ancora pronta, per il suo fronte. Le cose maturano – politicamente, socialmente – con dei loro tempi. Sanders aveva il compito di lanciare un segnale, e l’ha lanciato bello forte. Poi, siccome è un politico raffinato, ha capito che doveva ammorbidire le sue posizioni. Anche perché, quand’è che ha ammorbidito la sua linea? Quando la Clinton ha avuto il primo malore. Cioè: quando ha avuto la certezza che la Clinton non sarebbe stata eletta. Tutti quelli che capiscono di America sapevano perfettamente che già dopo il primo malore, dopo le prime voci sulla sua salute, la Clinton non sarebbe stata eletta. Perché gli americani non lo votano, un candidato presidente che ha problemi di salute; sono troppo efficientisti, culturalmente.Pensate che gli esami medici dei presidenti Usa sono sempre stati un problema pubblico, non privato; provate a chiederli a Renzi, i suoi esami medici, e vedete come vi manda a quel paese. Là non funziona non così: l’America è un paese che un presidente con problemi di salute non lo vota, non lo elegge, col rischio di ritrovarsi poi un vicepresidente, alla Casa Bianca. Figurarsi la Clinton dopo che ha avuto il secondo malore, quello grosso. Ma i sentori che sarebbe stato eletto Trump c’erano già tutti. D’altro canto, Trump è perfettamente funzionale per lo sviluppo di una seria area progressista, in America. Perché i danni che fa Trump all’area conservatrice sono irreparabili. Quindi, questo quadro era già chiaro, limpido, netto. Ci sono politici che lo sanno. Quando Renzi perse le prime primarie, sapeva perfettamente che avrebbe vinto le seconde. Sapeva perfettamente che Bersani non avrebbe preso la maggioranza assoluta, che sarebbe stato sbeffeggiato dai grillini, che non sarebbe neppure stato capace di far eleggere il presidente della Repubblica, avrebbero dovuto rinnovare Napolitano – era tutto già scritto, non c’era possibilità di varianti.Il problema, in Italia – molto serio – è che noi abbiamo difficoltà a ristrutturare l’area progressista. Non ci riusciamo, per un insieme di motivi. Perché anche qui c’è un prestanome, che si prende l’area progressista senza essere progressista, avendo questa strana ripulsa per le ideologie: è il movimento grillino. Il Movimento 5 Stelle dovrebbe diventare più ideologico e porsi dei problemi di progressismo, ma siccome nasce solo sul marcare la sua differenza, non fondata su cose che afferma, ma solo su cose che smentisce e contesta, è più difficile. Perché l’area progressista è un’area di proposta. E poi, scusate, questo fatto che le ideologie sarebbero un crimine mi ha stufato. Io sono profondamente ideologico, me ne vanto: mi vanto di avere un’ideologia, perché l’ideologia è il progetto – qualunque sia: è il progetto che tu proponi agli altri. Se non hai un’ideologia non hai un progetto, stai proponendo solo una speculazione. Tu mi devi dire come vuoi organizzare la società, la politica, l’economia, poi io ti dico se ti voto o no. In realtà quelle della politica sono diventate proposte non-ideologiche, quindi sostanzialmente non-progettuali – da qualunque punto di vista: liberale, socialista. Io sono stufo di questa truffa: la politica senza ideologia è solo speculazione. Questo bisogna dirlo, agli italiani: tutti quelli che ti dicono “non vogliono avere un’ideologia” è perché ti vogliono fottere.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate nell’ambito della diretta web-radio “Border Nights” del 23 luglio 2017, condotta da Fabio Frabetti e ripresa su YouTube. Carpeoro, massone e simbologo, nel 2016 ha pubblicato il saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina i retroscena che collegano massoneria internazionale reazionaria, servizi segreti Usa e manovalanza islamista, nell’ambito della “sovragestione” del terrorismo internazionale, ieri targato Al-Qaeda e oggi Isis. Carpeoro è anche impegnato nel Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi per tentare di rigenerare in senso progressista la politica italiana).Gli attentati dell’Isis nascono dall’esigenza, da parte di logge massoniche reazionarie e di alcuni interessi e gruppi economici di potere, di fronteggiare il fatto che parte della massoneria, parte della finanza e parte, per certi aspetti, anche del potere, che non è necessariamente un’entità negativa, si sta dissociando. C’è stata un’evoluzione, iniziata con l’epoca Bush, con “fronti di gestione” del potere in cui c’era una componente che era un po’ il “gruppo alfa” e l’altra, che stava zitta. Questa seconda componente – che si esprime nella finanza, nella massoneria, nei gruppi di potere – non è più allineata. Non è poù disposta a tacere, a subire, e ha preso piede. Aveva già preso piede con la figura del leader svedese Olof Palme (assassinato nel 1986), che stava diventando segretario generale dell’Onu – non una “carichetta” di poco conto, e la sua nomina era certa. E’ stato ammazzato perché la massoneria reazionaria non voleva che un massone progressista, con linee politiche-economiche moltro precise, arrivasse a una posizione di stra-potere. E con lui è stata “ammazzata” tutta la classe socialista e progressista europea, è stata disarcionata. E questa realtà traumatica ha richiesto un po’ di tempo perché le cose si riorganizzassero.
-
Sycamore, Usa-Siria: il più grande traffico d’armi della storia
Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.E se la Bulgaria è stata uno dei principali esportatori di armi in Siria, aggiunge Meyssan, ha beneficiato di una “triangolazione segreta” con l’Azerbaigian, sempre sotto copertura Cia: per esportare armi destinate al terrorismo non solo in Siria, ma anche in Libia, in Afghanistan e persino in India. «Dall’inizio delle primavere arabe – premette Meyssan in un report su “Megachip” – la Cia e il Pentagono hanno organizzato un gigantesco traffico di armi in violazione di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Si badi: anche quando società private fanno da paravento, è impossibile esportare “attrezzature sensibili” senza l’autorizzazione dei governi interessati. Qui si tratta di un traffico gigantesco e particolarmente elusivo: gli armamenti trasportati erano infatti di tipo sovietico, per distinguerli da quelli (di fabbricazione Nato) in dotazione alle poche unità non-Isis, ufficialmente inquadrate dal Pentagono. Le altre armi, quelle per i tagliagole dello Stato Islamico, dovevano sembrare sottratte alle truppe di Assad.Forse, in questa ricostruzione, è di aiuto il nome stesso dell’operazione, “Sycamore”, che designa in inglese l’albero di sicomoro. Ancora una volta, le vicende dell’intelligence militare Nato in Medio Oriente sembrano dimostrare l’adozione di nomi tratti da testi antichi e sacre scritture: il sicomoro è l’albero sul quale, secondo il Vangelo, si arrampicò il gabelliere Zaccheo (inviso al popolo) per poter osservare Gesù senza essere visto. Non che fossero tutti ignari, comunque, delle manovre degli “amici del sicomoro”: già si sapeva, dice Meyssan, che la Cia avesse fatto appello proprio alla famigerata Sic di Borisov per produrre urgentemente il Captagon, la nuova “droga dei soldati” destinata agli jihadisti, distribuita in Libia prima ancora che in Siria. Una inchiesta di Maria Petkova, pubblicata dalla rete di segnalazione investigativa balcanica “Brin”, ha rivelato che tra il 2011 e il 2014 la Cia e il Socom (Pentagon Special Operations Command) avevano acquistato armi per 500 milioni di dollari dalla Bulgaria per conto dell’Isis. «Poi, in seguito, abbiamo appreso che altre armi erano state pagate dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti e trasportate da Saudi Arabian Cargo e Etihad Cargo».Secondo Krešimir Žabec, del quotidiano di Zagabria “Jutarnji List”, alla fine del 2012 la Croazia ha consegnato 230 tonnellate di armi a jihadisti siriani per un valore di 6,5 milioni di dollari. «Il trasferimento in Turchia è stato gestito da tre Ilyushin della compagnia Jordan International Air Cargo, e le armi sono state poi paracadute dall’esercito del Qatar». Secondo Eric Schmitt del “New York Times”, l’intero sistema era stato creato dal generale David Petraeus, allora direttore della Cia, agli ordini di Barack Obama. Nel 2012, continua Meyssan, quando la milizia libanese filo-siriana Hezbollah era sulle tracce del traffico Cia-Socom, venne commesso in Bulgaria un attentato contro turisti israeliani all’aeroporto di Burgas, centro nevralgico di quel traffico. «Ignorando l’inchiesta della polizia bulgara e la relazione del medico legale, il governo di Borisov accusò del crimine Hezbollah mentre l’Unione Europea classificò la resistenza libanese come un’organizzazione terroristica». Posizione poi smentita dal nuovo ministro degli esteri, Kristian Vigenin, dopo la caduta provvisoria di Borisov. E non è tutto. Secondo una fonte curda vicina al Pkk, nel maggio-giugno 2014 i servizi segreti turchi hanno noleggiato treni speciali per consegnare armi ucraine a Raqqa, la “capitale” di Daesh. «Le armi ucraine sono state pagate dall’Arabia Saudita, così come un migliaio di veicoli Hilux (pick-up a doppia cabina) appositamente modificati per resistere alle sabbie del deserto».Secondo un’altra fonte, belga, l’acquisto dei veicoli era stato negoziato con la ditta giapponese Toyota dalla società saudita Abdul Latif Jameel. E Andrey Fomin della “Oriental Review” aggiunge che il Qatar, «che non voleva essere tagliato fuori, ha acquistato per i jihadisti la versione più recente del complesso di difesa missilistica Air “Pechora-2D” presso la società statale ucraina UkrOboronProm. La consegna è stata effettuata dalla società cipriota Blessway Ltd». Ancora: secondo Jeremy Binnie e Neil Gibson, della rivista professionale di armamenti “Jane’s”, il comando militare Sealift della Us Navy ha pubblicato due bandi nel 2015 per il trasporto delle armi dal porto rumeno di Costanza fino al porto giordano di Aqaba. Il contratto è stato vinto dalla Transatlantic Lines. Trasporto poi «eseguito il 12 febbraio 2016, subito dopo la firma del cessate il fuoco da parte di Washington, in violazione del suo impegno». Pierre Balanian, di “Asia News”, dichiara che questo sistema è stato esteso nel marzo 2017 con l’apertura di una linea marittima regolare della compagnia statunitense Liberty Global Logistics, che collega il porto italiano di Livorno a quello di Aqaba in Giordania, nonché allo scalo marittimo di Gedda in Arabia Saudita.Secondo il geografo Manlio Dinucci, notista del “Manifesto”, questa linea-fantasma era destinata principalmente alla consegna di blindati in Siria e in Yemen. Stando a due giornalisti turchi, Yörük Işık e Alper Beler, gli ultimi contratti dell’era Obama sono stati eseguiti da Orbital Atk, che ha organizzato, attraverso Chemring e Danish H. Folmer & Co, una linea regolare tra Burgas (Bulgaria) e Gedda. Per la prima volta – precisa Meyssan – stiamo parlando non solo di armi prodotte dalla bulgara Vmz (Vazovski Machine Building Factory), ma anche da Tatra Defense Industrial Ltd, della Repubblica Ceca. «Molte altre operazioni si sono svolte in segreto, come dimostrano gli affari del carico Lutfallah II, ispezionato dalla marina militare libanese il 27 aprile 2012, o il cargo Trader, battente bandiera del Togo, ispezionato dalla Grecia il 1° maggio 2016», aggiunge sempre Meyssan. «Il totale di queste operazioni rappresenta centinaia di tonnellate di armi e munizioni, forse anche migliaia, prevalentemente pagate dalle monarchie assolute del Golfo, con il pretesto di sostenere una “rivoluzione democratica”. In realtà, le petro-dittature intervenivano solo per dispensare l’amministrazione Obama dal rendere conto al Congresso statunitense».In altre parole, il Parlamento Usa doveva restare all’oscuro dell’operazione “Sycamore”. «Tutto questo traffico era sotto il controllo personale del generale Petraeus, dapprima attraverso la Cia, di cui era direttore, poi tramite la società di investimenti finanziari Kkr, per la quale ha lavorato successivamente». Petraeus ovviamente «ha beneficiato dell’assistenza di alti funzionari, occasionalmente sotto la presidenza di Barack Obama e poi – massicciamente – sotto quella di Donald Trump». Gli Usa in cabina di regia, più alleati europei (Belgio, Croazia), nazioni Nato come la Turchia, paesi mediorientali (Giordania) e petro-monarchie del Golfo. E non solo: Meyssan rivela anche il ruolo, fin qui segreto, di uno Stato ex-sovietico come l’Azerbaigian, grande produttore di petrolio attraverso le piattaforme di Baku sul Mar Caspio. Secondo Sibel Edmonds, agente “pentita” dell’Fbi, poi fondatrice della National Security Whistleblowers Coalition (associazione che diffonde notizie riservate e imbarazzanti) l’Azerbaigian vanta un passato estremamente collaborativo, nei confronti del terrorismo Cia: sotto il presidente Heydar Aliyev, dal 1997 al 2001 ha ospitato a Baku nientemeno che la primula rossa di Al-Qaeda, il medico egiziano Ayman Al-Zawahiri, già braccio destro di Osama Bin Laden.Al-Zawahiri sarebbe stato nascosto a Baku «su richiesta della Cia». Sebbene fosse ufficialmente ricercato dall’Fbi, aggiunge Meyssan, il super-terrorista «viaggiò regolarmente su aerei della Nato in Afghanistan, Albania, Egitto e Turchia». Di più: avrebbe anche «ricevuto frequenti visite dal principe Bandar Bin Sultan dell’Arabia Saudita». Per i suoi rapporti in materia di sicurezza con Washington e Riad, aggiunge Meyssan, l’Azerbaigian – la cui popolazione è in prevalenza sciita – si è unito alla sunnita Ankara, «che lo sostiene nel suo conflitto con l’Armenia per la secessione della Repubblica di Artsakh (Nagorno-Karabakh)». L’anziano, storico presidente Heydar Aliyev è morto negli Stati Uniti nel 2003, lasciando il posto al figlio Ilham Aliyev. Dopo la fine dell’Urss, la Camera di Commercio Usa-Azerbaigian è diventata «il retrobottega di Washington», esibendo accanto al presidente Aliyev personaggi del calibro di Richard Armitage, James Baker, Zbigniew Brzezinski, Dick Cheney, Henry Kissinger, Richard Perle, Brent Scowcroft e John Sununu.Secondo la giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva, nel 2015 il ministro per i trasporti Ziya Mammadov ha messo la compagnia statale Silk Way Airlines a disposizione della Cia, con spese a carico dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, sotto la copertura di “voli diplomatici”, al riparo dalle ispezioni previste dalla Convenzione di Vienna. «In meno di tre anni – sottolinea Meyssan – oltre 350 voli hanno beneficiato di questo straordinario privilegio». Naturalmente, aggiunge, il “voli diplomatici” non sono autorizzati a trasportare materiale bellico. Ma a chiudere un occhio – oltre agli Stati coinvolti direttamente nel traffico – furono paesi come Germania, Serbia, Polonia, Romania, Slovacchia, Repubblica Ceca e Gran Bretagna, più Turchia e Israele. Risultato: «In meno di tre anni, la Silk Way Airlines ha trasportato armamenti per un valore di almeno un miliardo di dollari». Secondo Dilyana Gaytandzhieva, l’organizzazione clandestina ha trafficato armi anche in Pakistan e Congo, sempre a carico di sauditi ed Emirati. Alcune delle armi consegnate in Arabia Saudita sarebbero state “reindirizzate” in Sudafrica e quelle arrivate in Pakistan sarebbero servite a commettere attentati “islamisti” in India, mentre quelle trasportate in Afghanistan «sarebbero pervenute ai Talebani, sotto il controllo degli Stati Uniti, che fingono di combatterli».In questi anni, conclude Meyssan, tra i principali mercanti d’armi figurano le aziende statunitensi Chemring, Culmen International, Orbital Atk e Purple Shovel. Poi i caucasici: «Oltre alle armi di tipo sovietico prodotte dalla Bulgaria, l’Azerbaigian, sotto la responsabilità del ministro dell’industria della difesa Yavar Jamalov, acquistò delle scorte in Serbia, Repubblica Ceca e anche in altri Stati, dichiarando ogni volta che l’Azerbaigian era il destinatario finale di questi acquisti». Per quanto riguarda il materiale elettronico di intelligence, «Israele ha messo a disposizione la ditta Elbit Systems, che ha finto di essere il destinatario finale, in quanto l’Azerbaigian non ha il diritto di acquistare questo tipo di apparecchiature». Israele, che ha finto di essere neutrale lungo tutto il conflitto siriano, ha comunque bombardato più volte l’esercito di Damasco. Ogni volta, Tel Aviv ha accampato «il pretesto di aver distrutto armi destinate agli Hezbollah libanesi». In realtà, oggi sappiamo che Israele ha supervisionato le consegne di armi agli jihadisti, rivestendo quindi un ruolo centrale nella guerra sporca contro la Siria. Per l’Onu, falsificare certificati di consegna per la fornitura di armi a mercenari e terroristi è un crimine internazionale. L’operazione Timber Sycamore, nei suoi vari aspetti, è il caso criminale più importante di traffico di armi nella storia: «Coinvolge almeno 17 Stati e rappresenta diverse decine di migliaia di tonnellate di armi per svariati miliardi di dollari».Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.
-
Alberoni: Islam radicale? Recente, e prodotto dall’Occidente
Scontro di civiltà? Ma mi faccia il piacere. L’arma letale della “guerra infinita” avviata dagli Usa l’11 settembre 2001 con il pretesto dell’attentato alle Torri Gemelle, e tuttora in corso, si basa sulla fabbricazione in vitro della “minaccia islamista”. Dopo decenni di brutale sfruttamento e selvaggia colonizzazione, oggi esistono masse arabe esasperate dagli abusi subiti. Ma, avverte il sociologo Francesco Alberoni, è stato l’Occidente a radicalizzare l’Islam, o meglio quella parte di Islam oggi utilizzata dalla strategia della tensione internazionale messa in piedi dal Deep State, il partito-ombra della “guerra infinita”. Per renderci conto dei rapporti fra Islam e Cristianesimo nei secoli, scrive Alberoni sul “Giornale”, è utilissimo il libro di uno scrittore inglese, William Dalrymple, “Dalla montagna sacra”. La montagna sacra è il monte Athos, da dove nel 587 partirono due monaci bizantini per visitare le ricche chiese e i fiorenti monasteri diffusi nell’Impero Bizantino, dall’Asia Minore alla Siria, fino all’Egitto. L’autore ha rifatto lo stesso viaggio oggi: rivisitando quelle zone, abbiamo un’idea delle fasi del processo di islamizzazione. Che non è affatto antico, né endogeno.«Il radicalismo islamico antioccidentale e anticristiano è recente», osserva Alberoni. «Gli eserciti del profeta e il governo dei califfi furono, nel complesso, tolleranti. Al suo apogeo, Baghdad era una stupenda città cosmopolita e multireligiosa». Gli imperi, aggiunge lo studioso, sono sempre multietnici e multireligiosi: «Solo con l’arrivo dei mongoli ci furono massacri e rovine. Che finirono quando sorse un nuovo impero, quello ottomano, dove le comunità cristiane e i monasteri poterono sopravvivere e qualche volta prosperare». La rovina, sottolinea Alberoni, è avvenuta alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando la nazione turca impose la purezza della razza turca e la religione islamica: «Vennero uccisi o cacciati i greci, sterminati gli armeni e annientato il resto». Di fatto, «la Turchia imitava l’Europa e voleva diventare europea ma ad un certo punto c’è stato un vero e proprio processo di rigetto dei valori dell’Occidente».L’integralismo, sostiene Alberoni, «nasce quando il mondo islamico subisce l’influenza occidentale ma intimamente si ribella e, quando si accorge di essere inferiore, vuol superarlo e sconfiggerlo facendo ritornare i paesi islamici alla purezza e alla potenza dell’epoca di Maometto e poi islamizzare l’Europa e il mondo». Per tutto il XX secolo, ricorda Alberoni, c’è stato un immenso movimento islamista, costituito da diverse ondate: in Pakistan e in Algeria, in Sudan, poi i Fratelli Musulmani in Egitto, i khomeinisti sciiti in Iran, i Talebani in Afghanistan, «con una profonda influenza sulla popolazione islamica». Fino alle recentissime propaggini terroristiche, completamente infiltrate e pilotate dall’intelligence occidentale: prima Al-Qaeda, ora l’Isis in Iraq e Siria, più Boko Haram in Nigeria. «Nelle zone dove sono avvenuti gli scontri con gli integralisti, le comunità cristiane sono finite, i cristiani morti o emigrati». Del passato, conclude Alberoni, restano solo le rovine: «Il viaggio di William Dalrymple mostra un immenso deserto culturale con pochi sopravvissuti spaventati».Scontro di civiltà? Ma mi faccia il piacere. L’arma letale della “guerra infinita” avviata dagli Usa l’11 settembre 2001 con il pretesto dell’attentato alle Torri Gemelle, e tuttora in corso, si basa sulla fabbricazione in vitro della “minaccia islamista”. Dopo decenni di brutale sfruttamento e selvaggia colonizzazione, oggi esistono masse arabe esasperate dagli abusi subiti. Ma, avverte il sociologo Francesco Alberoni, è stato l’Occidente a radicalizzare l’Islam, o meglio quella parte di Islam oggi utilizzata dalla strategia della tensione internazionale messa in piedi dal Deep State, il partito-ombra della “guerra infinita”. Per renderci conto dei rapporti fra Islam e Cristianesimo nei secoli, scrive Alberoni sul “Giornale”, è utilissimo il libro di uno scrittore inglese, William Dalrymple, “Dalla montagna sacra”. La montagna sacra è il monte Athos, da dove nel 587 partirono due monaci bizantini per visitare le ricche chiese e i fiorenti monasteri diffusi nell’Impero Bizantino, dall’Asia Minore alla Siria, fino all’Egitto. L’autore ha rifatto lo stesso viaggio oggi: rivisitando quelle zone, abbiamo un’idea delle fasi del processo di islamizzazione. Che non è affatto antico, né endogeno.