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Reporter senza frontiere, ora sindaco lepenista a Béziers
«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.I francesi, scrive Leonardo Martinelli sul “Fatto Quotidiano”, se lo ricordano per anni a difendere con entusiasmo e determinazione «il diritto a informare e a essere informati in tutto il mondo». Protagonista di blitz sorprendenti, Ménard: nel 2008 salì di notte in cima a Notre-Dame, a Parigi, per poi sventolare una bandiera con la scritta “Freedom in China”, in occasione del passaggio della fiamma dei Giochi olimpici di Pechino nelle strade della capitale francese. «Oggi, ecco il nuovo Ménard: sindaco di Béziers, città del profondo Sud francese, una delle più degradate e povere del paese», nel cuore della regione dove nacque la lingua d’Oc. Ménard è stato un uomo simbolo, in Francia, delle tradizionali battaglie sociali della sinistra: gli stessi francesi faticano a comprenderne la “metamorfosi”, ora che si è schierato con un partito sovranista ed euroscettico, che la gauche – francese e non solo – continua a definire “sciovinista e di estrema destra”, non volendo riconoscere il “patriottismo socio-economico” invocato dalla Le Pen, per tornare alla “sovranità democratica nazionale” contro i diktat dell’Unione Europea.Classe 1953, Ménard è nato a Orano, in Algeria. «È quindi un pied-noir, figlio di coloni dell’Algeria francese, che dovette abbandonare dopo la raggiunta indipendenza», scrive Martinelli. Famiglia di origini modeste, il padre era un sindacalista comunista che poi passò all’Oas, l’organizzazione paramilitare che voleva mantenere il dominio della Francia sull’Algeria. La madre, una fervente cattolica. «Sono elementi non secondari, se si guarda alla vita che verrà del piccolo Robert». Lasciata in fretta Orano, andarono a vivere a Béziers, nel quartiere (ancora oggi) popolare della Devèze. «Negli anni Settanta il giovane Robert aderì alla Lega comunista rivoluzionaria, per poi prendere la tessera del Partito socialista nel 1979, abbandonato, a dire il vero, poco dopo l’elezione di François Mitterrand», uno dei massimi artefici dell’attuale Unione Europea. Ménard continuò negli anni Ottanta a impegnarsi animando radio libere, per poi entrare a far parte, come giornalista, della redazione locale di “Radio France”, l’emittente di Stato.A Montpellier, ancora nel Sud, fondò nel 1985 con un gruppo di amici “Reporters Sans Frontières”, «una Ong che in seguito ha assunto un ruolo importante, anche a livello internazionale, nella difesa dei giornalisti perseguitati in tutto il mondo», ricorda Martinelli. Sebbene Rsf non sia legata direttamente ad alcun partito, ha sempre avuto in Francia un’immagine di sinistra. «Ménard veniva invitato sempre più spesso in tv: diretto nell’eloquio, perfino un po’ irascibile. Ormai era diventato un personaggio pubblico». A sorpresa Ménard lasciò Rsf nel settembre 2008 per andare a Doha, in Qatar, a dirigere il “Centro per la libertà dell’informazione”, «finanziato dall’emirato, che non si può proprio definire una democrazia perfetta». Ma «fuggì anche da lì, l’anno seguente, in mezzo alle polemiche, per rientrare in Francia e ricominciare la sua carriera di giornalista, con trasmissioni alla tv e in radio». È a quel momento, continua il “Fatto”, che è emersa chiaramente la virata verso il Front National, firmando il libro “Vive Le Pen!”, uscito nel 2011. Il paladino francese della libertà d’informazione ha sempre rifiutato di iscriversi al partito. E anche a Béziers, la città della sua giovinezza, quando ha deciso di presentarsi alle comunali ha costituito una lista indipendente, con personaggi provenienti da vari orizzonti culturali, non solo quello del Fn, di cui ha chiesto solo in seguito l’appoggio esterno.In ogni caso, riguardo al discorso politico di Marine Le Pen, dice di «condividerne almeno l’80%», in modo assolutamente spiazzante: è favorevole alla linea dura sull’immigrazione mentre è contrario al maggior cavallo di battaglia del Fronte Nazionale, cioè l’uscita della Francia dall’euro. «Adesso – ha dichiarato – dico quello che penso e che prima non osavo dire o non ammettevo neanche a me stesso». Si è quindi lanciato contro il «perbenismo della sinistra», accusata di essere troppo “politicamente corretta”. «Sul matrimonio gay, ad esempio – scrive Martinelli – si è espresso in maniera critica, definendolo un “capriccio” e assicurando che, una volta eletto a Béziers, si sarebbe rifiutato di celebrarne al municipio della città». Il “Fatto” sottolinea che Ménard ha scritto quasi tutti i suoi ultimi libri assieme a Emmanuelle Duverger, sua moglie, che proviene da una famiglia cattolica di destra.Partita in sordina nell’estate scorsa, la campagna elettorale di Ménard è diventata progressivamente un caso in Francia e soprattutto a Béziers, città rivierasca del sud-ovest mediterraneo con 76.000 abitanti, di cui il 32% vive al di sotto della soglia di povertà. Béziers, che ha vissuto un lento declino economico a partire dagli anni Ottanta, esce da 19 anni ininterrotti di dominio dell’Ump, il partito conservatore, protagonista di un governo locale accusato a più riprese di corruzione. «Anche questo ha favorito la lista di Ménard, oltre al fatto che la sinistra è storicamente debole in città», conclude Martinelli. «L’ex agitatore di Rsf ha costituito una lista “con l’obiettivo di riunire elettori di sinistra e di destra”. Obiettivo decisamente centrato».«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – che fu ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.
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Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista
Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.
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Ttip, fine del diritto: ci giudicherà un Tribunale Speciale
Votare alle europee? A un patto: che i candidati si impegnino, per prima cosa, contro l’approvazione del Trattato Transatlantico. Nessuna bozza, traccia o schema di Ttip è a oggi disponibile. Di certo sappiamo solo che il presidente Obama e la Commissione Europea hanno dato mandato all’ambasciatore Usa Michael Froman e al Commissario Ue al commercio Karel de Gucht di confezionare un trattato dai mirabolanti obiettivi: incrementare il commercio Usa-Ue di 120 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e creare due milioni di posti di lavoro. A quale prezzo? «Non si deve sapere. Le trattative si svolgono in segreto, a porte chiuse, e in quelle segrete stanze si sono già tenuti oltre 100 incontri con i più importanti lobbisti, su corpose documentazioni di parte, a totale insaputa della società civile». Le uniche vere notizie a nostra disposizione, scrive Mariangela Rosolen, provengono da blog come “s2bnetwork”, riprese da “Attac”, che presenta “Un trattato dell’altro mondo” e le informazioni diffuse da Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale dell’università di Torino.Il Trattato di Partenariato Usa-Ue per il Commercio e gli Investimenti, riassume Rosolen sul sito di “Attac Italia”, ci promette un reddito aggiuntivo per famiglia di 545 dollari all’anno, «a condizione che siano smantellate tutte le leggi e regolamenti di tutela sanitaria, ambientale, del lavoro, che attualmente impediscono o limitano la possibilità di realizzare il massimo profitto negli scambi e negli investimenti». Il che significa: «Libera produzione, circolazione e vendita sul mercato europeo degli organismi geneticamente modificati, della carne agli ormoni, dei polli al cloro». Addio al “principio di precauzione” contro la sospetta nocività di singoli prodotti, processi produttivi e componenti, adottato in Europa all’inizio degli anni ‘90 in seguito all’epidemia della “mucca pazza”. Obiettivo: ridurre o eliminare – tramite decisioni di prevenzione – quei rischi che non sono ancora scientificamente provati. Se verrà approvato il Ttip, dovremo dunque dire addio alle tutele a cui siamo abituati: cioè l’etichettatura e la tracciabilità dei prodotti alimentari e chimici.Emblematica, continua Rosolen, la situazione riguardante l’estrazione e lo sfruttamento del gas di scisto (fracking): circa 11.000 nuovi pozzi scavati in un anno negli Stati Uniti contro una dozzina in Europa, per effetto di divieti e moratorie in attesa di verificare i rischi che quella spericolata tecnologia estrattiva può arrecare alla salute e alla sicurezza delle persone e dell’ambiente. «La segretezza dei negoziati si confà egregiamente alla passività dei grandi mezzi d’informazione del nostro paese, che si guardano bene dal rompere il silenzio, appena scalfito dall’impegno dei “soliti” mezzi d’informazione alternativi. E poiché la Commissione Europea tratta e firmerà l’accordo a nome e per conto degli Stati membri – aggiunge Mariangela Rosolen – rischiamo di trovarci a fine 2014, data prevista per la conclusione dei negoziati, con la brutta sorpresa del pacco di Natale già confezionato e pronto per l’uso sotto l’albero». Forse però siamo ancora in tempo per fermare la macchina infernale.Alla fine degli anni ‘90, «un analogo pacco-dono del libero mercato, l’Ami – Accordo Multilterale sugli Investimenti – era stato preparato segretamente dalle stesse oligarchie che oggi lo traducono nel Ttip, e venne fatto saltare proprio grazie al fatto che i suoi demenziali contenuti erano divenuti di pubblico dominio». Certo, allora «c’erano ancora i tribunali a cui ricorrere per il ripristino dei diritti negati». Oggi è sempre più dura, ma fino a quando la sovranità giudiziaria non sarà stata smantellata siamo autorizzati a sperare che qualche autorità nazionale intervenga: «La totale cancellazione dello Stato Sociale Europeo che ora il Trip si propone, la dichiarata subordinazione al profitto di ogni tutela sul lavoro, la salute, l’ambiente che non sia compatibile con il profitto, può incontrare ancora forti resistenze nel sistema giudiziario dei paesi più evoluti».Se invece Washington e Bruxelles – obbedendo ai “suggerimenti” delle multinazionali – riusciranno ad imporci il Ttip, sarà tecnicamente finita anche l’attuale possibilità di avere giustizia: l’ultima parola infatti l’avrà il Tribunale Speciale, «organismo sovranazionale, extra-territoriale – si dice con sede presso la Banca Mondiale», pensato sul modello del collegio arbitrale, «le cui sentenze non saranno appellabili essendo sovraordinate alle stesse Costituzioni nazionali». Secondo Rosolen, è molto probabile che si tratti di tribunali simili a quelli già previsti da accordi come il Nafta, modellati su giurie private composte da tre arbitri, scelti generalmente tra “principi del foro” «un po’ distratti rispetto ai loro conflitti di interessi». Strani “giudici” che, «una volta nominati, non devono più rendere conto a nessuno», perché possono avvalersi di «lucrosissime consulenze, test e perizie», per emanare decisioni definitive e non più impugnabili. «Una gestione della giustizia di ricchi per i ricchi», che infatti non emette sentenze ma impone «multe, sanzioni, risarcimenti».Così facendo, aggiunge Rosolen, la giustizia si misura in dollari. La Lone Pine ad esempio, impresa californiana dell’energia, ha chiesto al Tribunale Speciale istituito dal Nafta di condannare lo Stato del Canada a un risarcimento di 191 milioni di dollari per aver imposto una moratoria sul fracking, il sistema di frammentazione idraulica per estrarre il gas o il petrolio di scisto. La moratoria canadese era dettata dalla preoccupazione per i rischi per la salute e l’ambiente provocati da quelle lavorazioni. La Philip Morris ha invece denunciato l’Australia al Tribunale Speciale del Wto per le leggi anti-fumo e chiesto un enorme risarcimento per i mancati profitti. Addirittura 3,7 miliardi di euro, per i mancati profitti delle sue due centrali nucleari tedesche, sono stati chiesti dalla svedese Vattenfall alla Germania, che ha abbandonato la produzione di energia nucleare dopo il disastro di Fukushima. Si contano ben 514 cause legali di questo genere negli ultimi vent’anni: 123 sono state promosse da investitori Usa, 50 da maxi-imprese olandesi, 30 britanniche e 20 tedesche.«La sola minaccia di cause legali per milioni di euro, intentate da studi legali con centinaia di avvocati per conto delle multinazionali, può mettere sul chi va là i governi e indurli ad attenuare o addirittura rinunciare a emanare leggi a tutela del lavoro, della salute e dell’ambiente», conclude Mariangela Rosolen. Traduzione: «Se le decisioni politiche a livello locale, regionale o nazionale corrono questi rischi di strangolamento economico, ben più disarticolanti di una sentenza civile o penale, è a rischio la stessa democrazia». Sarebbe la fine della nostra civiltà giuridica, difettosa e inefficiente fin che si vuole nella sua amministrazione, ma pur sempre consacrata alla difesa dei diritti fondamentali del cittadino, della sua sicurezza sociale e della sua salute. Per fortuna, un po’ ovunque – dall’Europa agli stessi Stati Uniti – si stanno organizzando movimenti sociali e sindacali che rivendicano trasparenza dei negoziati e il rifiuto dei tribunali speciali per qualsiasi tipo di trattato. Serve un impegno democratico, ora: «Chiediamolo con forza e determinazione anche ai prossimi candidati al Parlamento Europeo».Votare alle europee? A un patto: che i candidati si impegnino, per prima cosa, contro l’approvazione del Trattato Transatlantico. Nessuna bozza, traccia o schema di Ttip è a oggi disponibile. Di certo sappiamo solo che il presidente Obama e la Commissione Europea hanno dato mandato all’ambasciatore Usa Michael Froman e al Commissario Ue al commercio Karel de Gucht di confezionare un trattato dai mirabolanti obiettivi: incrementare il commercio Usa-Ue di 120 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e creare due milioni di posti di lavoro. A quale prezzo? «Non si deve sapere. Le trattative si svolgono in segreto, a porte chiuse, e in quelle segrete stanze si sono già tenuti oltre 100 incontri con i più importanti lobbisti, su corpose documentazioni di parte, a totale insaputa della società civile». Le uniche vere notizie a nostra disposizione, scrive Mariangela Rosolen, provengono da blog come “s2bnetwork”, riprese da “Attac”, che presenta “Un trattato dell’altro mondo” e le informazioni diffuse da Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale dell’università di Torino.
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Giannuli: punita la sinistra, complice dell’euro-dittatura
Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.Dunque, non ha bisogno di sindacati e Parlamento, che devono sopravvivere solo come feticci, mentre lo stato sociale deve semplicemente sparire e la stessa Costituzione diventa un inutile intralcio. Ma la sinistra riformista senza Parlamento, sindacati e stato sociale, semplicemente non esiste. E tanto più nel tempo della crisi, quando il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia in favore dello stato d’eccezione. La sinistra moderata, che si candida a gestire una forma temperata di dittatura neoliberista, può reggere con difficoltà questa posizione sin quando non precipiti la crisi; dopo, se conquista il governo è costretta solo a fare il lavoro sporco. Quello che rende debole la posizione della sinistra “riformista” è la sua incapacità di immaginare un “altro” rispetto all’ordinamento esistente. Costitutivamente, la sinistra moderata accetta la dittatura dell’esistente e ritiene che il suo compito sia quello di temperare le ingiustizie del capitalismo, con una serie di conquiste parziali e creando “nicchie” di giustizia sociale.Quando poi, con la crisi, il capitalismo travolge irresistibilmente conquiste parziali e nicchie di equità, la sinistra moderata in un primo momento cerca di resistere, poi si appiattisce, in attesa di tempi migliori. Ma, così facendo, perde il contatto con la sua base e inizia fatalmente a declinare, mentre la protesta sociale contro la repressione capitalistica prende altre strade. A volte assai sbagliate o pericolose. Ora, come in altre circostanze storiche simili, la sinistra moderata diventa la sinistra dell’impotenza, perché non comprende che, lungi dal ridurre il tiro e abbassare i toni, queste situazioni esigono un confronto radicale sul modello di società: se il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia, alla sinistra spetta fuoriuscire dall’ordinamento esistente in direzione opposta. Nelle circostanze storicamente presenti – qui ed ora – la questione che si pone è quella dell’ordinamento neoliberista dell’Europa, costruito intorno alla Ue ed all’euro: c’è da decidere se cercare di mantenere in piedi tutta la baracca o buttarla giù a spallate.Su questo sta montando una fortissima protesta popolare, di cui il risultato francese è uno dei sintomi, ma non l’unico e non il più pesante. Quello che si capisce, senza troppa difficoltà, è che vasti settori di ceti popolari (che ormai sfiorano il 25%-30% del corpo elettorale, senza tener conto degli astenuti) attribuiscono all’euro e alle politiche di mantenimento di esso (come il Fiscal Compact) la responsabilità dell’inasprirsi della crisi e, conseguentemente, chiedono il superamento della moneta unica. E si badi che la protesta viene sia da chi guarda dal punto di vista dei paesi debitori (come Italia e Grecia), ma anche dio paesi creditori (come la Germania, l’Olanda o la Finlandia), che chiedono di tornare alla moneta nazionale o del Nord Europa, perché si ritengono danneggiati dalla condivisione della moneta con i “peccatori del debito”. Le elezioni francesi, in questo senso, sono solo il vento che annuncia la tempesta di fine maggio.Di fronte a questo, chi si schiera più risolutamente in difesa dell’attuale ordinamento europeo è proprio la sinistra moderala del Pd, Ps francese e spagnolo, Spd. E persino la “Sinistra Europea”- Gue (accusata di essere euroscettica perché osa mettere in discussione il Fiscal Compact) pur vagheggiano una vaga ed improbabile “altra Europa”, non osa mettere in discussione l’attuale assetto istituzionale europeo. A testimoniare dell’incredibile ottusità dei socialisti francesi, viene l’appello alla “solidaritè repubblicaine” verso la destra gaullista. Geniale: c’è una protesta che monta sulla base del fatto che la gente ritiene uguali sinistra e destra moderate ed i socialisti che fanno? Propongono il blocco elettorale comune fra loro e i gaullisti! Con maggiore intelligenza, la destra ha lasciato subito cadere la proposta e si predispone ad avere le mani libere nel rintuzzare l’assalto lepenista. Adesso, magari capite perché è una fortuna che in Italia ci sia il M5s, senza del quale rischieremmo che il malessere si incanali verso la Lega o magari Forza Nuova.Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.
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Cervelli in fuga: Renzi ha già tradito giovani e precari
Tutta la retorica sul Jobs Act, alla fine, si riduce a una flessibilità quasi selvaggia. Questo è quanto rimane dalla lettura del corposo comunicato stampa del Consiglio dei ministri del “super-mercoledì” renziano. Il miraggio del contratto unico, l’ipotesi del salario minimo o del sostegno ai disoccupati, infatti, va a finire in un progetto di legge delega la cui attuazione dipenderà dal volere degli dei, conoscendo la politica italiana. Da un decreto governativo, invece, immediatamente in vigore per essere convertito dal Parlamento, dipendono le modifiche ai contratti a tempo determinato e all’apprendistato. E si tratta di modifiche pesanti. Per il contratto a termine, infatti, scrive il testo del governo «viene prevista l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del primo rapporto di lavoro a tempo determinato per il quale non è richiesto il requisito della cosiddetta causalità».Ma la novità peggiore è che viene prevista «la possibilità di prorogare anche più volte il contratto a tempo determinato entro il limite dei tre anni, sempre che sussistano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa». Rinnovare anche più volte, senza limiti chiari, significa, come ha notato Tito Boeri su “Repubblica”, poter rinnovare un contratto di lavoro ogni settimana e quindi ben 156 volte nell’arco di tre anni. Le aziende saranno soddisfatte, ma tutti quei lavoratori precari che, pure, hanno sperato nel “contratto unico” di Renzi, che diranno? La proposta del governo pone un solo limite, quello del 20% dei dipendenti di un’azienda che possono essere assunti con contratto a tempo. Su 50 si tratta di dieci contratti, non è poco. Inoltre, nel momento in cui verrà introdotto il contratto unico in cui per almeno tre anni non sarà previsto l’articolo 18, le aziende potranno avere fino a sei anni di disponibilità assoluta del lavoratore, minacciato in ogni momento dal licenziamento.La tendenza è confermata dall’apprendistato in cui verrà previsto il ricorso alla forma scritta solo per il contratto e per il patto di prova. Non ci sarà più, invece, in forma scritta il piano formativo individuale ma, soprattutto, si elimina la norma secondo la quale «l’assunzione di nuovi apprendisti è necessariamente condizionata alla conferma in servizio di precedenti apprendisti». Quindi, si assumeranno apprendisti, con una paga base pari al 35% della retribuzione, e questi potranno essere costantemente sostituiti. Infine, «per il datore di lavoro viene eliminato l’obbligo di integrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa pubblica, che diventa un elemento discrezionale». A fronte di queste norme, certe, la parte più attesa del “piano del lavoro” rimane rinviata nel tempo. Tutta la materia degli ammortizzatori sociali, della riforma dell’Aspi (l’indennità di disoccupazione), la riforma dei Centri per l’impiego, il contratto unico, il riordino delle forme contrattuali diverse e lo stesso salario minimo, l’estensione della maternità, finiranno in una legge-delega.Uno strumento che in genere mette su un binario morto tanti buoni propositi. In questa decisione si rintraccia una particolare “svolta” operata da Renzi. Quelli che sembravano i suoi settori di riferimento – giovani precari, partite Iva, forza lavoro intellettuale spesso in fuga dall’Italia – vedranno un peggioramento della loro condizione di lavoro e di vita. I settori tradizionali della sinistra – il classico lavoro dipendente – vedranno, invece, un piccolo miglioramento (sempre che il premier non si riveli, come ha detto lui stesso, “un buffone”). Un cambio di “base sociale” che ha spiazzato la Cgil e la minoranza Pd e che rende sempre più “acrobatico” l’esperimento governativo del giovane leader democratico.(Salvatore Cannavò, “Jobs act, il premier tradisce subito i giovani e i non garantiti”, da “Il Fatto Quotidiano” del 15 marzo 2014).Tutta la retorica sul Jobs Act, alla fine, si riduce a una flessibilità quasi selvaggia. Questo è quanto rimane dalla lettura del corposo comunicato stampa del Consiglio dei ministri del “super-mercoledì” renziano. Il miraggio del contratto unico, l’ipotesi del salario minimo o del sostegno ai disoccupati, infatti, va a finire in un progetto di legge delega la cui attuazione dipenderà dal volere degli dei, conoscendo la politica italiana. Da un decreto governativo, invece, immediatamente in vigore per essere convertito dal Parlamento, dipendono le modifiche ai contratti a tempo determinato e all’apprendistato. E si tratta di modifiche pesanti. Per il contratto a termine, infatti, scrive il testo del governo «viene prevista l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del primo rapporto di lavoro a tempo determinato per il quale non è richiesto il requisito della cosiddetta causalità».
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Col Ttip gli Usa ci arruolano nella guerra contro la Cina
Tra un paio d’anni potrebbe crollare il nostro attuale sistema democratico, se il potere supremo dovesse passare direttamente alle grandi multunazionali grazie all’approvazione del Ttip, il Trattato Transatlantico destinato a lasciare al business l’ultima parola su lavoro, salute, sicurezza alimentare, acqua e beni comuni. Su “Le Monde Diplomatique”, Ignacio Ramonet rilancia l’allarme: quel trattato super-segreto fa paura, perché rivela la volontà degli Usa di trascinare l’Europa nello scontro geopolitico con la Cina. Il vero obiettivo dell’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, infatti, è fermare l’inesorabile avanzata di Pechino, che sta clamorosamente ridimensionando la leadership mondiale di Washington: tra una decina d’anni, al massimo, lo yuan potrebbe definitivamente scalzare il dollaro come valuta di scambio internazionale, mettendo fine a cent’anni di egemonia statunitense.Lo scopo del trattato che Washington e Bruxelles stanno mettendo a punto, lontano dai riflettori e con “l’assistenza” di 600 super-lobbysti, è quello di creare la maggiore zona di libero scambio commerciale del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori. L’area formata da Usa ed Europa rappresenta quasi la metà del prodotto interno lordo mondiale e un terzo del commercio mondiale. L’Ue è la principale economia del mondo, ricorda Ramonet in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: i suoi 500 milioni di abitanti dispongono in media, pro capite, di 25.000 euro di entrate all’anno. «Ciò significa che l’Ue è il maggior mercato mondiale e il principale importatore di manufatti e di servizi, dispone del maggiore volume di investimenti all’estero ed è il principale ricettore planetario di investimenti stranieri». L’Unione Europea è anche il primo investitore negli Usa, la seconda destinazione dell’esportazione statunitense e il maggior mercato per l’esportazione statunitense di servizi.La bilancia commerciale dei beni destina alla Ue un attivo di 76.300 milioni di euro; e quella dei servizi, un deficit di 3.400 milioni. Gli investimenti diretti dell’Ue negli Usa, viceversa, si aggirano sui 1.200 miliardi di euro. Washington e Bruxelles vorrebbero chiudere il trattato Ttip in meno di due anni, prima che scada il mandato del presidente Barack Obama. «Perché tanta fretta? Perché, per Washington, questo accordo ha un carattere geostrategico. Costituisce un’arma decisiva di fronte all’irresistibile crescita della potenza cinese», accompagnata da quella degli altri Brics, ovvero Brasile, Russia, India e Sudafrica. «Bisogna precisare che tra il 2000 e il 2008 il commercio internazionale della Cina si è più che quadruplicato: le sue esportazioni sono aumentate del 474% e le importazioni del 403%. Conseguenze? Gli Stati Uniti hanno perso la loro leadership come prima potenza commerciale del mondo che ostentavano da un secolo». Prima della crisi finanziaria del 2008, gli Usa erano il socio commerciale più importante per 127 Stati del mondo; la Cina lo era solo per 70 paesi. Questo bilancio si è invertito: oggi, la Cina è il socio commerciale più importante per 124 Stati, mentre gli Usa solo per 76.«Pechino, al massimo in dieci anni, potrebbe fare della sua moneta, lo yuan, l’altra grande divisa dell’interscambio internazionale e minacciare la supremazia del dollaro», spiega Ramonet. «È anche sempre più chiaro che le esportazioni cinesi non sono solo più di bassa qualità a prezzi accessibili grazie alla sua manodopera conveniente. L’obiettivo di Pechino è alzare il livello tecnologico della sua produzione e dei suoi servizi per essere leader domani anche nei settori (informatica, finanza, aereonautica, telefonia, ecologia) che gli Usa e altre potenze tecnologiche occidentali pensavano di poter preservare». Per tutte queste ragioni, ed essenzialmente per evitare che la Cina diventi la prima potenza mondiale, Washington desidera «blindare grandi zone di libero scambio dove i prodotti di Pechino avrebbero difficile accesso». Lo si sta facendo anche nel Pacifico, con un trattato gemello come la Tpp, Trans-Pacific Partnership.Tema cruciale, ma escluso dall’agenda-news dei grandi media: i cittadini “non devono sapere”, in modo che i tecnocrati di Bruxelles possano procedere indisturbati, cioè in modo opaco e non democratico, obbedendo ai “consigli” delle più grandi multinazionali del pianeta. Obiettivo finale: abbattere tutti i vincoli che oggi in Europa tutelano i consumatori, esponendo gli Stati al rischio di pesantissime penali – inflitte da tribunali speciali formati da legali d’affari – nel caso in cui le grandi compagnie accusassero i governi di “ostacolare il business” difendendo i lavoratori, l’ambiente, la salute pubblica, la sicurezza alimentare, la sopravvivenza di servizi non privatizzati. Pia Eberhardt, della Ong “Corporate Europe Observatory”, denuncia che i negoziati si sono tenuti senza alcuna trasparenza democratica: con la Commissione Europea solo impresari e lobby, esclusi tutti gli altri: giornalisti, ambientalisti, sindacati, organizzazioni per la difesa del consumatore. Un grande pericolo, denuncia Eberhardt, viene «dagli alimenti non sicuri importati dagli Usa, che potrebbero essere transgenici, o i polli disinfettati con cloro, procedimento proibito in Europa».Altri critici temono le conseguenze del Ttip in materia di educazione e conoscenza scientifica, inclusi i diritti intellettuali. In questo senso, la Francia, per proteggere il suo importante settore audiovisivo, ha già imposto una “eccezione culturale”, in modo che l’industria della cultura francese sia esclusa dal trattato. «Varie organizzazioni sindacali – continua Ramonet – avvertono che, senza dubbio, l’Accordo Transatlantico sprofonderà nei tagli sociali, nella riduzione dei salari, e distruggerà l’impiego in diversi settori industriali (elettronica, comunicazione, attrezzature dei trasporti, metallurgia, carta, servizi per le imprese) e agrari (pastorizia, agrocombustibili, zucchero)». Gli ecologisti europei spiegano inoltre che il Ttip, eliminando il principio di precauzione, potrebbe facilitare l’eliminazione di normative per la difesa dell’ambiente o di sicurezza alimentare e sanitaria.Alcune Ong ambientaliste temono che anche in Europa si incominci a introdurre il fracking, ossia l’uso di sostanze chimiche pericolose per le falde acquifere, per poter sfruttare il gas e il petrolio di scisto. Il maggior pericolo del Trattato Transatlantico resta il capitolo sulla “protezione degli investimenti”, che metterebbe fine alla residua sovranità degli Stati, costretti a piegarsi per non pagare sanzioni esorbitanti, inflitte per il “reato” di “limitazione dei profitti”. «Per il Ttip i cittadini non esistono», conclude l’analista di “Le Monde Diplomatique”: «Ci sono solo consumatori e questi appartengono alle imprese private che controllano i mercati. La sfida è immensa. La volontà civica di fermare il Ttip non deve essere da meno».Tra un paio d’anni potrebbe crollare il nostro attuale sistema democratico, se il potere supremo dovesse passare direttamente alle grandi multunazionali grazie all’approvazione del Ttip, il Trattato Transatlantico destinato a lasciare al business l’ultima parola su lavoro, salute, sicurezza alimentare, acqua e beni comuni. Su “Le Monde Diplomatique”, Ignacio Ramonet rilancia l’allarme: quel trattato super-segreto fa paura, perché rivela la volontà degli Usa di trascinare l’Europa nello scontro geopolitico con la Cina. Il vero obiettivo dell’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, infatti, è fermare l’inesorabile avanzata di Pechino, che sta clamorosamente ridimensionando la leadership mondiale di Washington: tra una decina d’anni, al massimo, lo yuan potrebbe definitivamente scalzare il dollaro come valuta di scambio internazionale, mettendo fine a cent’anni di egemonia statunitense.
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Il regno della Tv è finito, ora tocca al web dei giovani
Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato. Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.Gli italiani la considerano e la rispettano come un’istituzione, pur con la consapevolezza che si tratta della longa manus dell’establishment democristiano. Impaginata in un dignitoso bianco e nero, la tv costruisce l’identità nazionale a colpi di Tg monocratici, di sceneggiati e quiz a premi. Sono gli anni del boom economico e della Guerra Fredda, della Fiat e dell’Iri e la Rai, in quanto parte sostanziale del grande conglomerate parastatale, gode di immensi sostegni che le consentono di diventare la più grande industria nazionale della cultura. Siamo nell’era Bernabei e Agnes, i due instancabili alfieri di una cavalcata quasi trentennale. Il braccio tecnologico della Rai erige tralicci dovunque. La ricezione del segnale tende con fatica al 90% dell’aspro territorio italiano. C’è perfino una sezione nazionale dell’industria che costruisce Tv set e li alloca a rate nelle case. Tutti appaiono soddisfatti. La pubblicità è ridotta al mitico Carosello e la globalizzazione passiva non s’è ancora manifestata al suo peggio.Il matrimonio e la fedeltà tra il servizio pubblico e i suoi telespettatori cominciano ad incrinarsi verso la fine degli anni ‘70. In questo periodo la pressione della globalizzazione aumenta inverosimilmente. L’organizzazione dei consumi di massa ha bisogno della tv e certo Carosello non basta. I legislatori, ossequiosi delle richieste dell’industria internazionale e delle lobbies, non alzano vere barriere che impediscano la messa in discussione del monopolio. Del resto l’estetica e il gusto degli italiani, bramosi di costumi liberalizzati (costumi già sottoposti alle incursioni delle cosiddette radio libere che hanno fatto da apripista), esigono che ci sia un’alternativa alla limitata scelta dei tre canali offerti dalla Rai. Entra nella scena Silvio Berlusconi dopo aver prontamente sgominato i suoi competitors: Mondadori e Rusconi.L’imprenditore (che in realtà è un mercante di telespettatori) è sostenuto immediatamente dall’Upa – Utenti Pubblicitari Associati, un marchio che vede al suo interno un’agguerrita compagine di industrie multinazionali (travestite dalla loro sezione “Italy”), le quali pretendono e ottengono che nei palinsesti delle nuove tv, il 10-12% del tempo sia destinato ad ospitare filmati promozionali di merci e servizi. Il partito di Craxi prima e il suo governo poi, sostengono a loro volta. Il Pci non capisce, o fa finta di non capire che cosa sta succedendo, e si limita a una opposizione fiacca. La Dc appare molto divisa ma alla fine accetta di trasformare la Rai in quello che verrà definito il “sistema misto”: in parte servizio pubblico, in parte commerciale. A metà degli anni ‘80 la scena è profondamente mutata. Dall’idea di “qualità tv” si passa a tappe forzate all’idea di “quantità di audience”. Comincia con l’Auditel la “misurazione” e la conseguente compravendita di telespettatori inconsapevoli che vengono ridotti, anch’essi, a merce.Neanche il sindacato dei giornalisti Rai capisce un granché. Irrimediabilmente convinti che il consenso politico si costruisca solo con l’informazione, continuano per decenni una battaglia di retroguardia finalizzata a ridurre l’influenza dei partiti sulle nomine dei vertici Rai e dei Tg, senza rendersi conto che il consenso, e quello che a Madison Avenue chiamano puntualmente lo stile di vita, si organizza molto a colpi di film, miniserie e tanta, tanta pubblicità. L’infrastruttura tecnologica è ancora più o meno la stessa. La tv è analogica, diffusa da grandi antenne poste sui tralicci. Il passaggio, ormai digerito, da bianco e nero a colore, ha solo consolidato un parco utenti che esisteva. Debutta il videoregistratore, che modifica in modesta parte i consumi tv, ma in realtà il suo contributo alla storia della tv non è essenziale. Il suo vero contributo è quello di favorire il fenomeno della pirateria.La vera grande novità in questa fase è la frequentazione dei manager e di pochi autori ai mercati di Tv internazionale: Mip tv di Cannes, London Multimedia Market e Natpe di Las Vegas, oscurano progressivamente il ruolo svolto dal Mifed di Milano. In queste sedi internazionali si comprano al quintale (loro dicono “a pacchetti”) film, telefilm, serie e miniserie e si avviano coproduzioni faraoniche. Il prezzo dei contenuti tv si impenna vertiginosamente, mentre i messaggi da loro veicolati diventano sempre più orientati al liberismo qualunquista, alla violenza e sottostanno alla legge imperiale: “Chi prende il piatto ha sempre ragione”. Cominciano a scorrere fiumi di denaro per assicurarsi storie patinate, un po’ insulse ma seducenti, con le quali fare audience e conseguentemente soddisfare gli appetiti dei pubblicitari. Rai e Mediaset, con un finto terzo polo costituito da Telemontecarlo, si contendono di tutto: libraries, managers, uffici legali e intermediatori d’affari abili a sottrarre percentuali vistose nel corso delle compravendite (qualcuno finisce sotto inchiesta altri espatriano con il bottino).Sono gli anni di All Iberian e delle grandi manovre di Mediaset e dei suoi consulenti per evadere le norme fiscali e valutarie, che comunque appaiono esili e aggirabili. Il telespettatore medio è sempre più bombardato. Il “broadcasting” tipico della tv generalista comincia a lasciare spazio al “narrowcasting” mirato a audience segmentate e individuabili dalle tv “specializzate”. È nei primi anni ‘90 che appare con forza nella scena la prima grande innovazione tecnologica: i satelliti per televisione “diretta a casa”. L’Italia diventa velocemente un feudo Eutelsat, dopo che Giuliano Berretta, un ingegnere vicentino al comando del colosso parigino, sgomina il competitor Astra di base in Lussemburgo. I costruttori di apparati per ricezione tv esultano: oltre ai tv set, che diventano sempre più grandi e sempre più piatti, ora si apre lo sterminato mercato dei decoder.Tutto avviene ancora con tecniche analogiche ma si comincia ad intravvedere la grande rivoluzione digitale che gode delle esperienze informatiche. La parola d’ordine comincia ad essere “convergenza”: Tv, Pc e reti telefoniche tutti insieme appassionatamente. La tv è finalmente una vera industria, fondata su aree che interagiscono tra loro e determinano la scena complessiva: contenuti, reti e (ciò che in seguito verrà definito) modello di business. A questo punto i contenuti sono già tipici della globalizzazione passiva. A parte alcuni grandi sceneggiati da prime time nazional popolare, il calcio e alcuni programmi da studio, il resto della programmazione di successo arriva soprattutto dagli archivi internazionali, in barba alle “quotas” sancite dall’Europa e con grande gioia dell’industria del doppiaggio.Le reti di distribuzione e diffusione sono due: tralicci e satelliti. Il cavo è interdetto. Si accendono i riflettori sul modello di business, ovvero “quali sono le risorse che consentono alla tv di sopravvivere e eventualmente prosperare”? Se ne individuano 3. La prima è la risorsa pubblica: in arrivo dallo Stato o raccolta per legge. Parliamo del canone tv destinato (a quel tempo) solo ed esclusivamente alla Rai ma (come vedremo più avanti) posto in seguito in discussione. La seconda è la risorsa da pubblicità, gestita con mano sapiente e perversa dall’Upa e dalle agenzie non italiane, ovvero la compravendita di spot nei palinsesti, eventualmente integrata con sponsorizzazioni e product placement (dapprima occulto poi autorizzato). La terza (grande novità in Italia) è la risorsa “pay”, ovvero abbonamenti basic più costi addizionali per eventi speciali (pay per view). Il decoder è il vero protagonista di questa novità. I satelliti sono i primi a passare da trasmissioni analogiche a digitali e portano nelle case i decoder digitali, connessi eventualmente anche alla rete telefonica.È una opportunità imperdibile per alcuni soggetti, rigorosamente non italiani, che si avvicendano a godere dell’italica stoltezza. Prima Canal Plus e poi l’ineffabile Rupert Murdoch di Sky, a colpi di porno a notte alta e calcio, convincono 5 milioni di italiani a sottoscrivere abbonamenti alla pay tv. Uno scandalo di proporzioni inaudite, sul piano della sottrazione di risorse al mercato italiano, ma. Murdoch invita a cena tutti i politici e li convince a dargli di fatto il monopolio. Poi getta qualche piccola fiches sul tavolo dell’Anica e i produttori cinematografici fanno buon viso a cattivo gioco. Con la Lega Calcio continuerà a litigare per anni. La cavalcata trionfale della tv giunge a questo punto al guado. Di fronte ai protagonisti si pone il grande fiume che separa l’antico territorio della produzione e distribuzione analogica dal nuovo territorio sconfinato, promettente e sconosciuto del digitale. La Tv, da regina incontrastata dell’audiovisual, sta per abdicare al trono. Attorno a lei un coro di media digitali allevati nella rete internet e dalla telefonia le sottraggono il primato giorno dopo giorno.Sul piano dei contenuti la grande innovazione arriva prima da modesti siti internet, poi si afferma con le spallate di YouTube e altri social network. I contenuti generati dagli utenti mettono spesso in crisi i produttori di intrattenimento. Tremano perfino le grandi agenzie internazionali con le quali si imbottivano i Tg di news dall’estero. Comincia a saltare tutta la gerarchia di selezione talenti. Per far fronte al fenomeno la tv ricorre ai realities, grazie a format che danno lustro a sconosciuti nell’estremo tentativo di creare identificazione. La conta dell’audience però fa acqua. Nel frattempo la ripolarizzazione del mondo convince i pubblicitari a ridurre gli investimenti nelle tv occidentali a favore di quelle dei paesi del Brics. Nel 2009 si spostano con un solo colpo masse di risorse che non esisteranno più. Internet e i suoi succedanei, derivati dalla convergenza (smartphones, tablets, etc), cominciano una marcia trionfale che mette sempre più in discussione l’autorevolezza e il ruolo della tv.La digitalizzazione e il cosiddetto “riordino” dello spettro elettromagnetico (frequenze) tramutano le reti di distribuzione e diffusione in un groviglio sterminato difficile da tener sotto controllo, a meno di investimenti e capacità gestionali che le Old Tv non sembrano in grado di manifestare. È vero che si moltiplicano i canali ma l’audience – nella migliore delle ipotesi – resta la stessa. In realtà l’esodo dalla tv delle nuove generazioni è massiccio. Unico colpetto: Mediaset, approfittando della possibilità digitale, tenta con una sua “pay tv” la competizione con Sky di Murdoch. La Rai soffre: resta interdetta dal fare tv a pagamento, subisce l’avvicendarsi ai vertici di manager manovrati e inetti, assiste impotente al calo delle risorse pubblicitarie e comincia a tremare all’idea – ampiamente ventilata – che nel prossimo rinnovo di contratto del servizio pubblico possa essere affiancata da altri soggetti con i quali dovrà spartire la risorsa canone.È stato bello, vecchia Signora Tv. Ci hai dato tante gioie e tanti dolori. I tuoi addetti ai lavori hanno goduto di privilegi tali che, pur di non perderli, si sono prestati a mille ricatti da parte delle élites, prima nazionali e poi internazionali. Sei stata una degli strumenti più rilevanti della modernità. Tu, il telefono, gli aerei, le automobili, etc… avete aperto le porte del terzo millennio ad un’Italia comunque attonita e rimasta in gran parte inconsapevole delle mutazioni globali, anche grazie ai giornalisti e ai manager della tv. Resterai ovviamente nell’Olimpo dei grandi media insieme al cinema, alla radio e all’editoria. Ma d’ora in poi sarai chiamata a fare solo la tua parte, privata di quella maestà di cui hai goduto nel secolo scorso.(Glauco Benigni, “La Tv ha 60 anni ed è pronta ad abdicare”, dal blog di Benigni del 21 febbraio 2014).Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato. Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.
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La Grande Ipocrisia del nostro cinema marcio: i partiti
Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota Pd di stretta marca burocratica di scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali – senza Berlusconi – non sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell’ufficio, dato che su 9 milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E’ stata buttata dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza (500 mila euro come favore amicale) e con la sponsorizzazione del Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).Grazie alla malleverie politiche, attraverso fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il Pd se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il “programma Media Europa” (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato alla produzione dando 500 mila euro per conto della presidenza della Regione Lazio attraverso il “fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività cinematografiche dei giovani” (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta lui sarebbe “il giovane” che andava aiutato).Nicola Giuliano ha messo su la squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il consulente.Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di produzione cinematografica presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltre che docente di “low cost production” a San Antonio De los Banos nell’isola di Cuba e consulente per la Rai. E’ un funzionario tuttofare che mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto ha a che vedere con l’idea italiana di come si fa il cinema. O meglio: molto ha a che fare con l’idea di come si uccide e si annienta una cinematografia.Secondo gli esaltatori di questo “prodotto Italia”, il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l’unico risultato che otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che “o prendete la tessera di Forza Italia/Pd oppure non lavorate”, chiarendo a chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare attraverso la griglia dell’italianità partitica, il che metterà in fuga chi di cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il Pd, in tutt’altri lidi.I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio un danno colossale perchè il segnale che viene dato loro è quella della contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a quelli senza tessera. Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui aveva vinto “Nuovo cinema Paradiso” nel 1990.Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il meccanismo di votazione dell’oscar. Per votare bisogna essere iscritti al Mpaa (Motion Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare con documenti alla mano che “si sta lavorando” da almeno gli ultimi 24 mesi ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro al mercato. Perchè per gli americani l’unica cosa che conta per davvero è il mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci va mai, la considera una truffa. I votanti sono all’incirca 6.000 e sono presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi, sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il cui lavoro consiste nel tenere l’asta del microfono in direzione della bocca del divo di turno nel corso delle riprese, purchè lo faccia da almeno due anni e paghi i contributi.Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i cosiddetti “pacchetti” e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli “studios” (sarebbero le grandi majors) che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto “principio Hoover” lanciato dal capo del Fbi alla fine degli anni ‘50: vince la nazione che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni che contano, acquistando i suoi prodotti. E’ il motivo per cui l’Italia è la nazione al mondo che ha collezionato più oscar di tutti (la più serva e deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno.Quando l’Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell’oscar, allora costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane, quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere un forte “endorsement”, ovvero un sostegno di persona nota nell’industria che garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest’anno con Martin Scorsese che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a Brooklyn.Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto “processo media-trade”); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con la Pentafilm. Ma non c’erano film italiani che valessero, era già piombata la mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a vuoto da un produttore all’altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per ammalarsi. Alla fine, l’abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi, a dargli un prodotto perchè lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato e non sapeva che cosa fare perchè non poteva fare delle figuracce con gli americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece venire in mente un’idea geniale. Aveva fatto una marchetta con RaiTre e aveva prodotto un film, “Nuovo Cinema Paradiso”, che era stato un flop clamoroso, sia alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155 minuti ed era francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla al regista, Cristaldi ci lavorò da solo – letteralmente – per tre mesi. Rimontò totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare.Berlusconi fu contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore prese l’oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all’improvviso Franco Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a Tornatore, prese il microfono in mano e disse «questo oscar è mio, questo premio l’ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore». Fu l’inizio della fine della sua carriera in Italia, perchè il giorno dopo l’intera critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare all’estero. Di lì a qualche anno morì.Fu in quell’occasione che Tornatore, in una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: «Bisogna occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al Pci e poi sono riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i film». Aveva ragione lui: in Italia funziona così;24 anni dopo è la stessa cosa, con l’aggravante del tempo trascorso. “La Grande Bellezza” appartiene a questo filone dell’italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all’intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.E si vede, si sente, lo si capisce; nell’arte non si riesce a mentire perchè l’arte è basata su uno squisito paradosso: poichè è finzione totale – e quindi menzogna pura – chi la produce non può darla ad intendere perchè la verità sottostante salta sempre fuori. E’ la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un’operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto. E’ la quintessenza del paradosso italiano trasformato nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto “salva Italia” che ha affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il “governo del fare” licenziato dopo pochi mesi perchè non è riuscito a fare nulla.Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti, doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l’uscita a giugno perchè era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter azzannare l’opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino vengono invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione “8 e 1/2” per l’emittente La7. L’intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film che, si capisce da come andava l’intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21esimo minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L’attore e il regista, ben imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro Beppe Grillo e il M5s. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava di un film che nulla – per nessun motivo – aveva a che fare con la vita politica italiana e con il dibattito in corso.Servillo fu durissimo nel sostenere a un certo punto che «mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri», spiegando ai telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come «Grillo ripropone un’immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a Berlusconi» – cioè il suo produttore – «e usa un linguaggio violento…. ». Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia) spiegavano che il M5s «è un movimento che vuole togliere la sovranità al Parlamento». Da quel momento i due sono andati in giro a promuovere il loro film in ambito politico nazionale allertando la popolazione sul pericolo rappresentato dal M5s, e così l’establishment nazionale l’ha imposto come moda propagandandolo in maniera esorbitante. Riguardando quell’intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un’altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni. Forse c’è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto «ma che cosa c’entra con questo film?». Appunto.(Sergio Di Cori Modigliani, “La Grande Ipocrisia, trionfano le larghe intese consociative spacciandole per prodotto Italia”, dal blog di Modigliani del 4 marzo 2013).Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
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Gallino: elezioni europee per stracciare i trattati-capestro
Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».Per i neoliberisti, ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito-Pil. Ovvio: se il Pil italiano crescesse del 4% l’anno, cioè con un incremento di oltre 60 miliardi, il Fiscal Compact farebbe meno paura. Peccato però che – stando alle previsioni più ottimistiche – non si vada oltre l’1%. «Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto», scrive Gallino su “Micromega”, illustrando un possibile Piano-B. Per esempio: «Chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito-Pil la colossale spesa per interessi». L’idea sbagliata è che, «a forza di contrarre la spesa pubblica, si arrivi a ripagare il debito». Attenzione: «Grazie a tale idea perversa, lo Stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il paese in una spirale inarrestabile di deflazione».In altre parole, «l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna». Tema decisivo, «da sottoporre al più presto a una discussione pubblica». Luogo perfetto, per parlarne: il Parlamento Europeo, «a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno». La situazione è infatti palesemente insostenibile, e sarà ulteriormente aggravata dai nuovi trattati che la Ue si accinge a varare o che sono appena entrati in vigore. Trattati che «riguardano i salari pubblici e privati, i diritti del lavoro, le politiche sociali, lo stato della sanità pubblica, il sistema previdenziale, la sicurezza alimentare». Risultato: «La possibilità di una crisi economica ancora più grave dell’attuale». Le prossime elezioni europee? Fondamentali, per fermare almeno tre di questi trattati: oltre al Fiscal Compact, anche l’Unione bancaria e il Trattato Transatlanco.Sull’Unione bancaria, progettata per impedire che il costo di eventuali fallimenti ricada ancora sugli Stati, secondo Gallino la bozza approvata a dicembre è difettosa: da un lato affida troppo potere alla Bce, e dall’altro – con la scusa che non fa parte dell’Eurozona – esclude la Gran Bretagna, cioè «la maggior area finanzia del continente», con tre banche tra le prime 20 al mondo: Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland totalizzano un attivo di 7.000 miliardi di dollari. Inoltre, il Regno Unito è il paese in cui, nella primavera 2008 (prima ancora che negli Usa), si verificarono i maggiori disastri bancari. Il meccanismo dell’Unione bancaria «è complicatissimo e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire». Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare — con calma, entro il 2026 — per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: «Somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi». Il difetto peggiore? Secondo i teorici dell’Unione bancaria, la crisi apertasi nel 2008 è stata innescata da «difetti di regolazione del sistema bancario», piuttosto che da «un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito».Sulla strada dell’Unione bancaria, per ora, sorge l’ostacolo del Parlamento Europeo: al disegno della Troika si oppone il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz. «Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni». Periodo in cui «sulla testa degli europei» comincerà a incombere il Ttip, cioè il “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”, un piano che procede da circa un anno, in modo super-riservato. Lo stanno sviluppando 600 super-lobbysti, a nome delle maggiori multinazionali del pianeta, “dialogando” con Washington e Bruxelles. L’accordo, sintetizza Gallino, «offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa». Basti pensare che gli Usa «non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernenti la libertà di associazione sindacale, il diritto a contratti collettivi in tema di salari, la parità di retribuzione uomo-donna, il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica».Se il Ttip fosse approvato, conclude Gallino, «le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni». Le multinazionali «potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare Ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro», smantellando così l’attuale legislazione europea, «che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana». Per questo, il Ttip è accusato da numerose Ong di essere «un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire». Contro questa minaccia potrebbe alzare la voce il nuovo Parlamento Europeo, anche in base a come andranno le elezioni di maggio, in collaborazione con lo stesso Congresso Usa: il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, ha appena ha respinto la richiesta di Obama di adottare una “pista veloce” (fast track), rallentando così la discussione sul Ttip. Che resta sul piatto del nostro immediato futuro, insieme all’insostenibile Fiscal Compact e al progetto di di Unione bancaria. Domanda: la strada del nostro declino civile è già segnata o sarà possibile invertire la rotta?Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».
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L’Italia senza Fiat, Marchionne umilia il made in Italy
Forse ricorderete certi giorni drammatici della crisi greca. Sembrava che non solo l’economia del paese, ma lo Stato greco come istituzione fosse sul punto del fallimento senza ritorno. Spaventava una temuta analogia con l’Italia. La risposta rassicurante è sempre stata: ma in Grecia non c’è la Fiat. Da più di un un secolo, generazione dopo generazione, ci siamo abituati a essere una grande potenza industriale, perché intorno alla Fiat era cresciuta un fitta distesa di imprese. Non parlo solo dell’immenso indotto (che poi, a sua volta, creava altri indotti in settori simili quanto a materiali e lavorazioni ma per prodotti diversi, lontani dall’automobile). Anche la nostra immagine nel mondo era fatta di Fiat. Non solo perché non ci sarebbe stata Pirelli, senza Fiat, e non sarebbe durata fino ai nostri giorni la Ferrari senza Fiat. Ma perché la presenza, la continuità, l’internazionalizzazione della Fiat era una specie di garanzia vasta e implicita per ogni nuovo imprenditore italiano che debuttava nel mondo.Suggerisco di non cadere nella trappola di immaginare – come consolazione e magari come vendetta – un’Italia che non ha mai avuto la Fiat. Possibilissimo. Forse ci sarebbero più verde, più treni, e meno autostrade. Ma il paese non apparirebbe, come appare ora, improvvisamente e brutalmente mutilato. E forse, fino a questo momento, sarebbe apparso più piccolo e meno importante. Si conoscono esodi, anche drammatici, di grandi gruppi imprenditoriali da un paese all’altro. Credo che il caso Fiat sia il primo che avviene non per cambio di proprietà, ma sotto la guida degli stessi azionisti che hanno deciso di vivere, pagare tasse, incassare dividendi, crescere e curare i loro affari altrove. È bene non dimenticare che la partenza Fiat avviene dopo avere abbandonato l’associazione degli altri imprenditori italiani, la Confindustria, dicendo al mondo che l’altra imprenditoria di questo paese non è all’altezza.Avviene dopo avere umiliato gli operai in parte cacciandoli, in parte dividendoli, ma lasciandoli quasi tutti in cassa integrazione, facendo sapere che costano troppo e che con loro uno bravo come Marchionne non intende trattare. Nel caso che qualcuno avesse in animo di investire in Italia, avrà il suo peso la lettera di raccomandazione dell’ad di ciò che è stata la Fiat agli imprenditori del mondo. Ci dicono che alcune fabbriche della ex Fiat rimangono in Italia, e appena l’Italia sarà uscita dalla crisi riprenderanno a produrre. Anzi, all’Italia è stato assegnato il settore lusso, che è più remunerativo. Se vende. Ma perché allora portare la Cinquecento torinese nell’America in piena ripresa, e far produrre a Torino Cherokee e Suv di stazza americana, come se stralunati cittadini italiani appena usciti (se, quando ne usciranno) dalla peggiore crisi dopo la guerra, avessero subito il desiderio di caricarsi il costo di macchine americane?Però se il settore, come è prevedibile, langue, sarà inevitabile dire: visto? Abbiamo fatto di tutto, ma gli italiani costano troppo e non vendono. Anno fiscale dopo anno fiscale (che si computa a Londra) le filiali italiane richiederanno, da un management saggio, ridimensionamenti adeguati. Pensosi economisti diranno che è inevitabile e anzi dovuto in base alle leggi del mercato. E sindacalisti prudenti dichiareranno di volta in volta che, ancora una volta, nei limiti del possibile, sono stati salvati (indicare il numero sempre più piccolo) posti di lavoro. Nei limiti del possibile. Si vede a occhio che quel “possibile” si sta restringendo da un pezzo. Niente investimenti, niente progetti, niente nuovo management, al posto di quello in partenza. In un prossimo, prevedibile e non lieto futuro, la “vittoria” dei sindacati sarà di avere salvato due stabilimenti su tre, poi uno su due.Alla fine si leverà un coro di sinceri apprezzamenti per i successi della Chrysler, una fabbrica americana di auto e motori dislocata a Detroit (Stati Uniti) con filiali nel mondo, tra cui l’Italia, con una proprietà coraggiosa (ha saputo sradicarsi dalla provincia costosa, che era una palla al piede) e perciò apprezzata dai mercati. Avete notato? Questo testo, che intendeva far notare la ferita grave di un’Italia senza Fiat, (un paese amputato della sua massima industria che, di colpo, perde paurosamente valore) è diventato un elogio di questa proprietà. Dopo tutto, potranno dirvi che, quando lo hanno deciso, annunciato e festeggiato non si è presentato neppure uno straccio di sottosegretario per sapere dove andava, e perché e con chi, l’azienda simbolo del paese, allo stesso tempo garantita e garanzia dell’Italia. Dopo vicende del genere non ci sono mai ritorni. La tenaglia americana ti accetta, ma non molla. E poi quell’infelice nuovo nome, Fca, si legge male e suonerebbe imbarazzante in Italia. Non preoccupatevi. Qui, in terra di colonia, non dovranno mai pronunciarlo. A loro basta che si dimentichi che qui, ai tempi di Gianni Agnelli, c’era la Fiat.Forse ricorderete certi giorni drammatici della crisi greca. Sembrava che non solo l’economia del paese, ma lo Stato greco come istituzione fosse sul punto del fallimento senza ritorno. Spaventava una temuta analogia con l’Italia. La risposta rassicurante è sempre stata: ma in Grecia non c’è la Fiat. Da più di un un secolo, generazione dopo generazione, ci siamo abituati a essere una grande potenza industriale, perché intorno alla Fiat era cresciuta un fitta distesa di imprese. Non parlo solo dell’immenso indotto (che poi, a sua volta, creava altri indotti in settori simili quanto a materiali e lavorazioni ma per prodotti diversi, lontani dall’automobile). Anche la nostra immagine nel mondo era fatta di Fiat. Non solo perché non ci sarebbe stata Pirelli, senza Fiat, e non sarebbe durata fino ai nostri giorni la Ferrari senza Fiat. Ma perché la presenza, la continuità, l’internazionalizzazione della Fiat era una specie di garanzia vasta e implicita per ogni nuovo imprenditore italiano che debuttava nel mondo.
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E ora il manganello di Renzi, l’omino imposto dai mercati
I mercati avranno il premier che vogliono: giovane, per dare anche visivamente l’impressione che qualcosa sta cambiando (anche Letta è “giovane”, ma purtroppo non lo sembra); veloce, per “fare” le cose più sgradevoli senza che si riesca a capire in tempo di cosa si tratta; disincantato, quindi privo di riguardi istituzionali, costituzionali; ruffiano, per “distrarre” il pubblico con battutine e spiccioli di “cura sociale” (aggiustare qualche scuola, mentre ti levano tutto il resto, professori compresi); esecutore fedele, perché completamente privo di un progetto autonomo (“far ripartire l’Italia” è uno slogan usato da tutti i governi degli ultimi 70 anni; ma anche prima…). È la prima volta che una crisi di governo – tra le più ingiustificate degli ultimi venti anni – non viene accompagnata da violente oscillazioni di Borsa o da rapidi impennamenti dello spread. I mercati apprezzano, Confindustria l’aveva chiesto (“o un cambio di passo o un cambio di governo”). Quindi ai mercati va benissimo così.Cosa rimproveravano a Letta, enfant prodige del Bilderberg? L’eccesso di tatticismo, il rispetto degli equilibri in una maggioranza composita, il subire veti incrociati alla lunga logoranti, un piglio poco arrembante. La lista delle “cose da fare per cambiare il paese” è lunga, dolorisissima, piena di obiettivi alquanto complicati. A cominciare da quelle riforme costituzionali che non riescono ad andare in porto neanche istituendo una “commissione di saggi” apposita. L’immagine della “palude”, evocata da Renzi e non solo, rende fino a un certo punto la sensazione derivante dall’intrico di “resistenze al cambiamento”, della molteplicità di soggetti e forze in qualche modo titolari di un potere “legittimo”, sentito come intangibile o irriducibile. Un reticolo di interessi nati e moltiplicatisi nell’epoca delle “vacche grasse”, tra clientele e rendite di posizione; ma anche di diritti sociali, sindacali, civili in senso stretto, idealmente “garantiti” dalla Costituzione.Tutte forme cresciute intorno alla funzione di “mediazione sociale” di uno Stato obbligato a pacificare il conflitto, assicurare il consenso, “promuovere la partecipazione”. Tutta roba che oggi appare un “ostacolo” alla piena affermazione della centralità dell’impresa nell’epoca della stagnazione perenne, della crisi che non passa, della disoccupazione che cresce, del futuro inesistente. Il governo Renzi nasce per essere il “governo del fare”. Senza discussioni, senza rispetto di procedure e vincoli costituzionali. Senza mediazioni sociali.Gli arresti di Roma e Napoli sono il primo segno dello “stile Renzi”, non l’ultimo atto dell’esecutivo Letta. Il “cambiamento” preteso dal capitale multinazionale e dal suo braccio statuale – l’Unione Europea – è un “dispotismo poco illuminato”, che usa i media come un maganello e il manganello come strumento ordinario di governo.Un governo con queste ambizioni deve partire come un razzo, sparare provvedimenti già pronti ma fermi nei cassetti del Centro Studi di Confindustria o nelle pieghe attuative della “lettera della Bce”, quella dell’agosto 2011. Da qui all’estate ne vedremo di tutti i colori, ce ne faranno sentire di tutti i dolori. Inutile sperare in resistenze parlamentari (se ce ne saranno, rappresenteranno i “poteri clientelari” o mafiosi, non certo i bisogni popolari), in resipiscenze costituzionali, in sensi di colpa “democratici”. Solo la forza e la dimensione dei movimenti di lotta, la loro compattenza unitaria tutta da costruire, potrà costituire un vero intralcio per l’annunciata “marcia trionfale” dell’omino venuto dal nulla. Non sarà facile, lo sappiamo. Ma non è più il tempo della retorica “alternativa”, dei “vendolismi” in salsa arrabbiatissima. Né dei “gesti” occasionali che dovrebbero simboleggiare la radicalità del contrapporsi.Dobbiamo tutti venir fuori dai nostri piccoli rivoli, più o meno conflittuali, e costituire un fiume possente, incontenibile. Ma l’unità non si costruisce “mettendoci d’accordo”, mediando all’infinito le molteplici e giustificate differenze. L’unità si misura con l’avversario comune, con il “cervello politico” da cui discendono le tante politiche di immiserimento con cui ognuno di noi è costretto a confrontarsi. Possiamo riuscirci, se si individua con chiarezza il vero avversario: quella Unione Europea che ha scelto come provvisorio feldmaresciallo l’ex sindaco di Firenze.(Dante Barontini, “Il gerarca dei mercati”, da “Contropiano” del 14 febbraio 2014).I mercati avranno il premier che vogliono: giovane, per dare anche visivamente l’impressione che qualcosa sta cambiando (anche Letta è “giovane”, ma purtroppo non lo sembra); veloce, per “fare” le cose più sgradevoli senza che si riesca a capire in tempo di cosa si tratta; disincantato, quindi privo di riguardi istituzionali, costituzionali; ruffiano, per “distrarre” il pubblico con battutine e spiccioli di “cura sociale” (aggiustare qualche scuola, mentre ti levano tutto il resto, professori compresi); esecutore fedele, perché completamente privo di un progetto autonomo (“far ripartire l’Italia” è uno slogan usato da tutti i governi degli ultimi 70 anni; ma anche prima…). È la prima volta che una crisi di governo – tra le più ingiustificate degli ultimi venti anni – non viene accompagnata da violente oscillazioni di Borsa o da rapidi impennamenti dello spread. I mercati apprezzano, Confindustria l’aveva chiesto (“o un cambio di passo o un cambio di governo”). Quindi ai mercati va benissimo così.
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Fiat-Chrysler, futuro all’estero. E dal governo, silenzio
La nuova Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita in gran parte del mondo.Devono veramente amare molto le grandi scacchiere e le partite complicate Sergio Marchionne e John Elkann, per avere aperto quasi contemporaneamente tanti fronti di gioco, ed essere riusciti finora a condurre la partita piuttosto che farsela imporre dall’avversario. Essi sanno bene che dall’altra parte vi sono molti altri attori a progettare ed eseguire le prossime mosse, e alcuni di essi, oltre ad essere abili, non hanno accolto troppo bene l’acquisizione di Chrysler. In Usa, molti investitori e analisti hanno patito la mossa del cavallo consistente nell’acquisire la Chrysler in parte con i soldi del governo americano, e in maggior parte con i soldi della Chrysler e dei fondi dei suoi sindacati. Ma più di questa operazione, che ha costituito senza dubbio un successo strategico da parte del Lingotto sul piano finanziario, essi hanno scarsamente gradito che il rilancio della società americana sia avvenuto soprattutto mediante il rilancio di modelli stagionati e non proprio ecologicamente corretti come la Jeep Grand Cherokee, piuttosto che investire gli utili in nuovi modelli idonei a rinfrescare gli allori di Chrysler. Per tacere dei loro giudizi sulla difficile situazione dell’auto Fiat nel nostro paese, che ha portato molti a parlare di salvataggio del Lingotto da parte della casa di Auburn Hills.Non ci siamo solo noi a chiederci quanti nuovi posti di lavoro si creeranno in Italia grazie all’operazione Chrysler; ci sono anche tanti americani che si chiedono quanti posti saranno creati nel loro paese grazie all’operazione Fiat. Dall’altra parte della scacchiera ci sono ovviamente anche le agenzie di rating. Sono attori che non giocano in proprio, ma sono consiglieri assai ascoltati dagli investitori, in specie fondi di investimento e fondi pensione; proprietari, va ricordato, di metà dell’economia mondiale. Li ha resi potenti e influenti la finanziarizzazione delle imprese industriali, a partire proprio dal settore auto. Quando qualcuno, anni fa, definì le corporation del settore «istituti finanziari che producono anche auto», aveva sott’occhio la situazione della General Motors, la cui divisione finanziaria che contava forse trentamila persone produceva il 40% degli utili della società, che aveva allora 300.000 dipendenti.Da allora, il peso della finanza sulle corporation industriali è ancora cresciuto, donde segue che produrre buone automobili in giro per il mondo non basta per assicurare un successo duraturo al costruttore. Il fatto che Moody’s abbia messo sotto osservazione Fiat per una possibile riduzione del rating, che già non è alto (Ba3), a causa della sua situazione finanziaria, può essere soltanto una mossa intermedia in una partita particolarmente complessa. Ma Marchionne ed Elkann sono in due, mentre dall’altra gli attori che si assiepano attorno alla scacchiera suggerendosi a vicenda le mosse sono dozzine. Manca, ai lati della scacchiera, il governo italiano, che non solo non ha la minima idea o intenzione di entrare in partita, ma non si è nemmeno degnato di rivolgere alla ferrata coppia del Lingotto la madre di tutte le domande: mentre auguriamo al lieto evento le migliori fortune, in concreto, cifra su cifra, documento su documento, qui e ora e non nel decennio prossimo, che cosa ne viene al nostro paese, ai lavoratori italiani, al pubblico bilancio, dalla nascita della Fiat Chrysler Automobiles?(Luciano Gallino, “Fiat-Chrysler, il silenzio del governo”, intervento pubblicato su “Repubblica” il 30 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).La nuova Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita in gran parte del mondo.