Archivio del Tag ‘sindacati’
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Cremaschi: sono 10 milioni (non 5) i nuovi poveri in Italia
Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.Ma i vertici europei – in guerra tra loro sull’emergenza-migranti, innescata da feroci ingiustizie contro l’Africa e il Medio Oriente – non fanno nulla per le decine di milioni che nella Ue già ci stanno. «I poveri si contano e poi vengono cancellati dall’agenda politica», sottolinea Cremaschi: sono lavoratori, pensionati, precari e disoccupati, donne e giovani. «Sono la parte più sfruttata e oppressa del mondo del lavoro, sono le prime vittime della lotta di classe dall’alto dei ricchi, che più i poveri aumentano, più vedono accrescere i propri patrimoni». I 14 italiani più ricchi – Ferrero, Del Vecchio, Berlusconi, Armani e gli altri – possiedono beni per un ammontare di 107 miliardi di dollari, come ciò che riescono a mettere assieme milioni di poveri. «Il 5% più ricco del paese detiene il 40% della ricchezza nazionale, cioè 4.000 miliardi». I poveri aumentano, aggiunge Cremaschi, «perché i ricchi sono sempre più ricchi, perché la ricchezza si concentra sempre di più in alto e viene espropriata e rapinata in basso». E così, «la diseguaglianza sociale che dilaga senza freni nel nome del libero mercato è la causa dell’enorme incremento della povertà in Italia e in tutta Europa».Il quadro macroeconomico dell’Eurozona è tristemente noto: «Le misure di austerità e di rigore di bilancio, le privatizzazioni, la flessibilità e la precarietà del lavoro, le politiche fiscali di agevolazioni alle imprese e di riduzione delle tasse ai ricchi, i Jobs Act e le Flat Tax che dilagano in tutta Europa, impoveriscono sempre più persone ed arricchiscono sempre di più una piccola minoranza». Se non si combatte la concentrazione della ricchezza non si può ridurre la povertà, conclude Cremaschi, «ma tutti i governi europei, tecnocratici o populisti che siano, di fronte alla sola ipotesi di contrastare la diseguaglianza redistribuendo ricchezza si fermano atterriti». Cremaschi, sostenitore di “Potere al Popolo”, accusa «anche chi ha preso i voti nel nome della lotta contro le élites», in primis lo stesso Salvini. Alla fine, sostiene Cremaschi, il neo-sovranismo «fa proprio l’imbroglio liberista secondo il quale, per redistribuire ricchezza, prima bisogna produrla». E’ la teoria neoliberista dello “sgocciolamento”, in base alla quale «per dare soldi ai poveri, prima bisogna darne ai ricchi». Per questo, insiste l’ex sindacalista Fiom, «vertici europei per la lotta alla povertà non se ne sono mai fatti». In altre parole: «Contro i ricchi nulla si può, nulla si deve fare: e questo è il primo articolo della “Costituzione reale” della Ue».Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.
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Gli italiani tifano per il governo, chi ha “rotto” l’Italia lo odia
Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole (l’aria serena, dopo la tempesta). Chi l’avrebbe mai detto? L’Italia ha un governo italiano, interamente italiano, di cui gli italiani sembrano contenti se non addirittura orgogliosi, quando finalmente risponde a tono a quel villanzone di Macron, l’ex bankster di casa Rothschid che oggi ha la pretesa di parlare a nome dei francesi. Da quanto tempo non accadeva che gli italiani non fossero costretti a tollerare l’incolore governo in carica? All’epoca di Berlusconi, più della metà del paese si vergognava delle sortite quotidiane del primo ministro. Regnante il suo finto antagonista, Romano Prodi, i suoi stessi elettori ingoiavano, rassegnati, la delusione per le mancate riforme di segno progressista, sostituite regolarmente da spiacevolissimi “sacrifici” sempre imposti, con la collaborazione dei sindacati, agli strati più deboli della società. Poi finì anche quel tipo di spettacolo, e dalla commedia si passò alla tragedia (greca) con l’alto commissario Mario Monti, l’inviato speciale della Germania incaricato di mettere in ginocchio l’Italia, obbligandola ad accettare la crisi come condizione naturale, fisiologica, per un paese rappresentato come inguaribilmente latino, cioè corrotto e chiacchierone, incapace di autodiscipina.Era solo una recita, orrenda. Ma durò anche troppo: il tempo di devastare il Pil e azzoppare l’industria, far sparire il lavoro, far chiudere i negozi e massacrare le pensioni. Un terremoto: erosi i risparmi, crollato il valore degli immobili. Il futuro come incertezza e paura. Poi, dopo il macellaio, vennero i leader tipidi. Il loro compito: ripulire le strade dal sangue, e i telegiornali dalle immagini delle mense della Caritas affollate di esodati e disoccupati sessantenni. Il paese svenduto e smembrato, le serrande abbassate al ritmo di migliaia all’anno. Che poteva farci, il povero Enrico Letta – devoto, come il macellaio – alle stesse regole del rigore imposte dai medesimi poteri? E che altro poteva fare, se non chiacchiere, il suo ambiziosissimo ma vacuo pugnalatore Matteo Renzi? Non una parola, ad esempio, per ripulire la Costituzione dalla lordura del pareggio di bilancio, che umilia la democrazia italiana. Non una sillaba neppure sul Fiscal Compact, analoga punizione biblica inflitta all’Italia sempre dal macellaio e dai suoi tenebrosi mandanti europei, gente che non ha esitato a ridurre alla fame un paese come la Grecia, rimasta senza più neppure i medicinali salvavita per i bambini.Renzi? Fidatevi, annunciò con largo anticipo l’ex ministro socialista Rino Formica: al referendum finirà asfaltato dai “no”, e il suo successore a Palazzo Chigi sarà designato dal Vaticano. Ed ecco quindi Paolo Gentiloni, come previsto dal profeta Formica: l’impalpabile Gentiloni, i cui mormorii sono talmente piaciuti, agli elettori, da far dimezzare il consenso del suo partito, oggi completamente smarritosi tra le brume minacciose di un paese caduto tra le fauci dell’orco sovranista, il Moloch populista che turba i sonni degli eurocrati e dei loro patetici valletti nostrani. Hanno letteralmente sfasciato l’Italia, e accusano i 5 Stelle di velleitarismo pasticcione. Hanno spolpato e svenduto il paese, disarticolando la sua capacità produttiva: oggi in Italia i poveri assoluti sono 5 milioni, numero abnorme che racconta alla perfezione la tragedia di una società devastata, flagellata dalla piaga di una disoccupazione che non ha eguali nella storia della repubblica. Eppure, anziché tacere (ed eventualmente sparire per sempre, almeno dalla scena politica e mediatica) hanno la faccia di bronzo di dare del fascista a Matteo Salvini, il ministro che ha chiesto all’Europa di smetterla di accollare alla sola Italia l’immenso onere dell’accoglienza dei migranti mediterranei.Chissà come li avrebbe giudicati, gli sguaiati squadristi televisivi, un grande giornalista indipendente come l’ex partigiano Giorgio Bocca, regolarmenre fuori dal coro e mai allineato, nella sua lunga carriera, a nessun comodo mainstream. Certo, lo spettacolo racconta una dissonanza cognitiva sconcertante: il paese è a pezzi per colpa di un regime appena caduto, e la cosiddetta informazione spara addosso ai politici che si sono assunti l’onere della ricostruzione. L’eredità di Prodi e Berlusconi, Monti e Renzi rappresenta un disastro molto superiore alle capacità riparatorie di Salvini e Di Maio? Ma almeno questi due outsider hanno accettato la sfida: ci stanno provando. Falliranno? Difficile dirlo. Finiranno anch’essi fagocitati e manipolati dal potere-ombra, dal “pilota automatico” che ha sapientemente declassato l’Italia distraendo l’opinione pubblica dai crimini commessi contro la comunità italiana? Tutto, oggi, sembra dire il contrario. Tutto lascia sperare in un impegno serio e coraggioso per il recupero della sovranità perduta. E fa impressione il consenso di cui oggi gode il governo Conte: per la prima volta, dopo secoli, un esecutivo in carica è sostanzialmente incoraggiato dal 70% della popolazione. Al di là di come andrà a finire, non s’era mai vista una simile coesione nazionale, in tutti i 25 anni dell’infelice, ingloriosa, infame Seconda Repubblica.Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole (l’aria serena, dopo la tempesta). Chi l’avrebbe mai detto? L’Italia ha un governo italiano, interamente italiano, di cui gli italiani sembrano soddisfatti se non addirittura orgogliosi, quando finalmente risponde a tono a quel villanzone di Macron, l’ex bankster di casa Rothschild che oggi ha la pretesa di parlare a nome dei francesi. Da quanto tempo non accadeva che gli italiani non fossero più costretti a tollerare l’incolore governo in carica? All’epoca di Berlusconi, più della metà del paese si vergognava delle sortite quotidiane del primo ministro. Regnante il suo finto antagonista, Romano Prodi, i suoi stessi elettori ingoiavano, rassegnati, la delusione per le mancate riforme di segno progressista, sostituite regolarmente da spiacevolissimi “sacrifici” sempre imposti, con la collaborazione dei sindacati, agli strati più deboli della società. Poi finì anche quel tipo di spettacolo, e dalla commedia si passò alla tragedia (greca) con l’alto commissario Mario Monti, l’inviato speciale della Germania incaricato di mettere in ginocchio l’Italia, obbligandola ad accettare la crisi come condizione naturale, fisiologica, per un paese rappresentato come inguaribilmente latino, cioè corrotto e chiacchierone, incapace di autodisciplina.
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La lebbra europea: quella del vomitevole, xenofobo Macron
La brutta notizia è che c’è ancora una parte di Italia (e di Francia) disposta a farsi prendere per i fondelli da un sinistro teatrante come Emmanuel Macron, ultimo erede di una famiglia di serial killer politici travestiti da statisti, pronti a indossare la maschera dell’orco (Van Rompuy, Schaeuble) o quella del pagliaccio finto-buono (Juncker, Prodi). L’Ogm Macron è una via di mezzo, un ibrido perfetto tra eleganza formale e trivialità sostanziale. Chiama i poveri “sdentati”, definisce l’attuale politica italiana “vomitevole”. E arriva a classificare “lebbra d’Europa” i movimenti democratici anti-establishment, dopo che Salvini e Di Maio hanno ridotto a carta straccia l’ultimo piano anti-Italia approntato per i migranti insieme ad Angela Merkel, altro fossile vivente di un’Europa orrenda e mascalzona, che in vent’anni non ha prodotto altro che crisi e paura, terrorismo, diffidenza e risentimenti fra nazioni che avrebbero dovuto essere “sorelle”. L’Italia ancora dormiente – ormai minoranza, a quanto pare, arroccata attorno al patetico mainstream cartaceo e radiotelevisivo – non ha ancora capito chi è il fantoccio Macron, chi ne muove i fili, da quale curriculum proviene l’ombra nera che si aggira per l’Eliseo, attorno al presidente che insulta e minaccia – né più né meno come un monarca, indispettito dalle sconcertanti pretese del popolo. Chi si credono di essere, questi pezzenti italiani?Parole che ricordano quelle del mentore di Macron, il tristemente celebre Jacques Attali: ma cosa crede, la plebaglia europea, che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità? Un grande economista francese, Alain Parguez, invitato a Rimini da Paolo Barnard per il primo, storico summit sulla sovranità monetaria, lavorò all’Eliseo – insieme ad Attali – con il presidente socialista Mitterrand, ai tempi in cui la Francia era ancora la Francia, e non un mero ingranaggio dell’euro-imbroglio. Insigne accademico, Parguez racconta dello smottamento “reazionario” dello stesso Mitterrand, fortemente propiziato dal potente gruppo di pressione incarnato proprio da Attali, che Parguez definisce «un monarchico, travestito da socialista». Avvertimenti: dopo l’omicidio del leader socialdemocratico Olof Palme in Svezia, Mitterrand deve aver intuito quale trattamento sarebbe stato riservato ai “ribelli”, ai leader contrari al nuovo ordine neoliberista in fase di insediamento, in Europa. Dopo la parentesi di Jacques Chirac, che tenne la Francia fuori dalla Guerra del Golfo, il potere “nero” conquistò direttamente l’Eliso, non più restando dietro le quinte ma piazzando il suo uomo – Nicolas Sarkozy – sulla poltrona presidenziale. Risultati tangibili: orrore e violenza, il Medio Oriente in fiamme, la nascita dell’Isis, la macelleria della Libia.Da Sarkozy – ora finalmente nei guai con la giustizia francese – lo stesso linguaggio da saloon esibito da Macron: «Ne avete abbastanza di questa feccia», disse, agli abitanti “bianchi” delle banlieues parigine “infestate” di migranti. «Ora ci penseremo noi a toglierli di mezzo». Poi venne il tempo del socialista incolore François Hollande, fotocopia (molto sbiadita) del repubblicano Chirac. Hollande, ha svelato Gioele Magaldi nel suo saggio “Massoni”, militava nella superloggia progressista “Fraternitè Verte”, a cui aveva promesso la fine del rigore socio-economico. Ma il suo governo è stato letteralmente travolto dall’emergenza terrorismo, dalla strage di Charlie Hebdo a quella del Bataclan, fino al massacro di Nizza. Sotto ricatto, con servizi segreti “colabrodo” e ministri sempre più “di destra” (fino all’esordiente Macron), Hollande ha tradito ogni promessa elettorale, imponendo ai lavoratori francesi l’harakiri della Loi Travail, il Jobs Act transalpino, destinato a favorire le aziende penalizzando i dipendenti. Contro l’ectoplasmatico Hollande, ennesimo politico di sinistra passato armi e bagagli al neoliberismo dell’ultra-destra economica, in Francia si è levata la protesta sovranista di Marine Le Pen, votata però alla sconfitta per via delle tare xenofobe del suo Front National. A quel punto, l’élite “nera” ben rappresentata da personaggi come Attali ha fatto la sua mossa, lanciando l’erede di Sarkozy: Emmanuel Macron.Un enfant prodige venuto dal nulla, lo presentarono i giornali, per i quali “il nulla” può essere, eventualmente, anche la filiale bancaria francese della famiglia Rothschild. Corressero il tiro: Macron, scrissero, almeno sul piano politico è un self-made assoluto. Falso, anche questo: il suo maestro Attali è stato (ed è) uno degli uomini di potere più influenti d’Europa. Milita saldamente ai vertici della massoneria sovranazionale di stampo oligarchico, abilissima nell’infiltrare la sinistra europea traviandone i leader, dall’anziano Mitterrand all’allora giovane D’Alema. Banche e multinazionali, con un’unica cabina di regia per le grandi operazioni politiche: una su tutte, l’Unione Europea senza democrazia e la moneta europea senza sovranità. Da quella scuola – la più pericolosa, per l’Europa – proviene Emmanuel Macron: è l’ennesimo avatar del potere nero, insinuatosi nelle istituzioni per svuotarle ulteriormente di democrazia, sulla rotta della privatizzazione universale. Una teologia funesta e spacciata per verità di fede, insieme al dogma dell’austerity – tagliare la spesa pubblica per impoverire la classe media, moltiplicando i profitti stellari dell’élite anche grazie al dumping salariale garantito dai migranti, a loro volta costretti a fuggire dai paesi d’origine, saccheggiati sempre dalla medesima oligarchia.Sarebbe un errore madornale equiparare Macron alla Francia o, peggio ancora, ai francesi come popolo: il piccolo monarca per conto terzi, insediato all’Eliseo dalla peggior risma di parassiti in circolazione in Europa, ha ormai contro la maggioranza dei suoi connazionali. Lo contestano i sindacati, la sinistra di Mélenchon, il Fronte Nazionale della Le Pen. L’elettore medio – operaio, impiegato, agricoltore, imprenditore – ha capito che Emmanuel Macron non è l’uomo che sembrava essere: non sta dalla parte dei francesi, è manovrato da padroni potenti che non amano nessuno e detestano tutti – i francesi, gli italiani, i greci e ogni altra “plebaglia europea”, per citare l’ineffabile Attali. E’ questa, fin fondo, la buona notizia: i popoli stanno cominciando a capire con chi hanno davvero a che fare. E in questa spettacolare procedura di sofferta autocoscienza ha un ruolo di primissimo piano proprio il neonato governo italiano, antropologicamente diversissimo dai predecessori: per i padroni occulti di Macron dev’essere un film dell’orrore, l’inaudito spettacolo dei ministeri italiani occupati da grillini e leghisti. Ringhia, Macron, perché è il cane da guardia di un palazzo oscuro che adesso comincia ad avere paura del popolo. Insulta e minaccia, Macron, perché – come i suoi padroni – sa che i popoli di tutta Europa (cominciando da quello francese) guardano l’Italia che sfida Bruxelles, e prendono nota. Il tempo dei Macron potrebbe finire prima del previsto.La prima a capirlo è stata Angela Merkel, sveltissima a indossare i panni improbabilissimi dell’amicona dell’Italia, paese che il suo governo ha letteralmente azzoppato a colpi di rigore: la sola operazione Monti, decisa tra Berlino e Francoforte nei santuari supermassonici frequentati da ex italiani come Mario Draghi, è costata al nostro paese la perdita di 400 miliardi di Pil e del 25% del potenziale industriale del “made in Italy”. Rideva, Angela Merkel – insieme al suo compagno di merende Sarkozy – quando i media italiani colonizzati dallo straniero bombardavano a tappeto il lebbroso di turno, l’inguardabile Berlusconi. Oggi alla Merkel (e al suo nuovo sodale, Macron) è passata di colpo la voglia di ridere: finalmente, l’Italia li preoccupa. «L’Italia traccia le strade», disse il l’esoterista rosacrociano Rudolf Steiner, pensando al Rinascimento: una quasi-profezia ben nota ai massoni reazionari del massimo potere, quali Sarkozy, Merkel, Macron e compagnia complottante.La loro paura è che la strada tracciabile oggi dall’Italia gialloverde, vera e propria incognita politica, sia quella di un’Europa da rivoltare da cima a fondo, sfrattando dai loro troni gli usurpatori regnanti, i piccoli boss del nuovo, deprimente Sacro Romano Impero costruito con l’imbroglio, la frode finanziaria, la menzogna economistica, il crimine sociale dell’ordoliberismo mercantilista post-capitalistico e parassitario. Un regime occulto, a cui i governi fanno da paravento istituzionale. Un sistema autoritario e privatistico, sleale, scorretto e bugiardo, governato nell’ombra da élite che detestano il popolo, la democrazia e la plebaglia europea nel suo insieme, mezzo miliardo di straccioni e lebbrosi, a cui oggi l’Italia potrebbe tracciare una nuova strada, meno lorda di sangue greco e africano, di strazio italiano inferto dai tagli – senza anestesia – su lavoro e pensioni, sanità e scuola. Il consenso democratico di cui oggi godono Salvini e Di Maio, almeno il 60% degli elettori, l’ometto Macron se lo può solo sognare. Infatti gracchia, stizzito come un qualsiasi dittatore pericolante, i suoi insulti razzisti e xenofobi – un regalo illuminante, per chi ancora non aveva capito chi fosse, davvero, il micro-napoleonico Emmanuel Macron.La brutta notizia è che c’è ancora una parte di Italia, insieme a una parte di Francia, disposta a farsi prendere per i fondelli da un sinistro teatrante come Emmanuel Macron, ultimo erede di una famiglia di serial killer politici travestiti da statisti, pronti a indossare la maschera dell’orco (Van Rompuy, Schaeuble) o quella del pagliaccio finto-buono (Juncker, Prodi). L’Ogm Macron è una via di mezzo, un ibrido perfetto tra eleganza formale e trivialità sostanziale. Chiama i poveri “sdentati”, definisce l’attuale politica italiana “vomitevole”. E arriva a classificare “lebbra d’Europa” i movimenti democratici anti-establishment, dopo che Salvini e Di Maio hanno ridotto a carta straccia l’ultimo piano contro l’Italia approntato per i migranti insieme ad Angela Merkel, altro fossile vivente di un’Europa mascalzona, che in vent’anni non ha prodotto altro che crisi e paura, insicurezza sociale, terrorismo, diffidenza e risentimenti fra nazioni che avrebbero dovuto essere “sorelle”. L’Italia ancora dormiente – ormai minoranza, a quanto pare, arroccata attorno al patetico mainstream cartaceo e radiotelevisivo – non ha ancora capito chi è il fantoccio Macron, chi ne muove i fili, da quale curriculum proviene l’ombra nera che si aggira per l’Eliseo, attorno al presidente che insulta e minaccia – né più né meno come un monarca, indispettito dalle sconcertanti pretese del popolo. Chi si credono di essere, questi pezzenti italiani?
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Prove tecniche di rivoluzione, contro il racket del potere Ue
Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.Finisce nella bufera, in Italia, il presidente della Repubblica, accusato di non aver saputo resistere – in nome della dignità nazionale – alle midiciali pressioni del grande potere apolide che ha in mano l’Europa. E’ un potere senza patria, industriale e finanziario, neo-aristocratico e segretamente supermassonico. Un potere globalista e ricchissimo, infinitamente più forte – per il momento – delle piccole, residue sovranità nazionali ridotte a elemosinare decimali di deficit e briciole di flessibilità. Un sistema che, per primo, Paolo Barnard ha definito neo-feudale: svuotata la democrazia, piegata o “comprata” l’ex sinistra sindacale dei diritti, i signori del neoliberismo (peggiorato ulteriormente, in Europa, dalla versione ordoliberista teutonica, stolidamente ottocentesca e ottusamente mercantile, sleale e imbrogliona) hanno compiuto una restaurazione storica e drammaticamente spettacolare. Il potere, semplicemente, è tornato nelle mani di un’élite pre-democratica e pre-moderna, di tipo medievale. Gli ordini non si discutono: se il vero potere decreta che uno Stato non può più ricorrere al deficit, la discussione è finita. Pena, lo scatenarsi dei “mercati”. Una logica intimidatoria e brutalmente esplicita, di stampo mafioso. Una sorta di racket, al quale gli Stati ex-sovrani devono sottoporsi, senza che i cittadini-elettori siano mai stati interpellati. Fin qui, il copione di ieri. Quello che oggi sta letteralmente franando.Nelle parole che Sergio Mattarella ha rivolto alla nazione immediatamente dopo il “gran rifiuto” opposto alla nomina di Savona, risuona la visione macro-economica del sistema che il neoliberismo – vera e propria teologia dogmatica – ci ha fatto credere l’unica possibile. Per questo, Mattarella la presenta come ovvia: nel suo pensiero c’è posto per un solo modo di risolvere le crisi, e cioè tagliando il deficit pubblico. Una sola fede, una sola religione: quella che il neoliberismo ha imposto a mano armata, con formidabile efficacia, colonizzando l’immaginario universale – scuole, media, governi, editoria, università. Lo Stato deve dimagrire: non ci sono alternative, diceva Margaret Thatcher nel 1980. Peccato che la cura dimagrante imposta dal vero potere e inaugurata da Mario Monti abbia depresso l’economia al punto da far esplodere quel debito che si pretendeva di abbattere. Sono state colpite famiglie e aziende: meno lavoro, risparmi erosi, meno entrate fiscali. Risultato scontato: si è allargata la forbice tra debito e Pil. Come uscirne? Nell’unico modo possibile: facendo esattamente l’opposto. Investimenti a deficit, quindi più lavoro e più Pil, più entrate fiscali e, alla fine, riduzione proporzionale del debito. E’ semplice, in teoria. Ma sembra impossibile.I peggiori politici che un paese come l’Italia abbia mai avuto – gli eroi della Seconda Repubblica – hanno potuto sgranare impunemente il rosario dei falsi dogmi del neoliberismo. L’hanno fatto sempre, a reti unificate, mai contraddetti né interrogati dalla stampa. Un quarto di secolo si è giocato interamente solo all’interno di una soltanto delle narrazioni possibili, quella del neoliberismo, ulteriormente limitato dai vincoli dell’ordoliberismo europeo. Nessuno s’è mai chiesto come abbia fatto, il Giappone, a vivere benissimo con un debito pubblico al 200% del Pil, senza l’ombra di attacchi speculativi – impossibili, con moneta sovrana e una banca centrale che fa il suo mestiere di prestatore di ultima istanza. Nessuno in fondo si è mai chiesto niente di fondamentale, nell’Italia ipnotizzata per vent’anni dal finto duello tra Prodi e Berlusconi, entrambi al servizio (Prodi più di Berlusconi) del sommo potere neoliberista e privatizzatore. Ora, improvvisamente, il Re si scopre nudo: arriva a bloccare la nomina di un ministro, solo perché sgradita ai boss della finanza che occupano militarmente i palazzi europei. Gli italiani, a loro volta, scoprono che il loro voto è stato perfettamente inutile, e ormai diffidano delle istituzioni: temono che siano state colonizzate da poteri stranieri. C’è gente che queste cose le ha dette e scritte per vent’anni. La novità è che ora sono entrate clamorosamente a far parte dell’agenda politica, grazie a due movimenti eterodossi: uno ex-secessionista, l’altro creato dal nulla sul web.Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.
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La stampa vile e bugiarda sulla vergogna di Israele a Gaza
«Ho appena sentito il Gr2 della Rai chiedere ad un “esperto” dell’università privata Luiss il suo autorevole parere sulla strage di palestinesi. Costui ha spiegato che i palestinesi, soprattutto quelli legati ad Hamas, fanno troppi figli e poi li mandano al massacro alle frontiere di Israele che, magari con qualche eccesso, si difende. Questo schifo è ciò che gran parte di stampa e Tv italiane dicono sulla strage». Così Giorgio Cremaschi commenta, su “Contropiano”, l’ultima mattanza commessa da Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, insorta dopo il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, neo-proclamata capitale dello Stato ebraico: 55 dimostranti uccisi e centinaia di feriti, abbattuti dai cecchini dell’esercito. «Se un massacro di ben lunga inferiore a questo ci fosse stato in uno dei paesi che l’Occidente considera nemici dei diritti e della democrazia – scrive Cremaschi, già leader sindacale Fiom e ora vicino a “Potere al Popolo” – noi saremmo bombardati da titoli di giornali e servizi tv di condanna. Invece Israele per la nostra stampa ha licenza di uccidere. Se uccide quotidianamente senza troppo clamore, allora si censura. Se il sangue deborda e la strage è colossale allora si mistifica».Per la stampa italiana, che Cremaschi definisce «vile e bugiarda», la colpa di tutto è la rabbia dei palestinesi, «naturalmente senza altre spiegazioni che la loro naturale cattiveria, fomentata dai terroristi di Hamas». Un orrore filmato, fotografato: «I soldati vili e criminali che dal sicuro dei loro nascondigli con fucili di precisione assassinano i manifestanti, adulti e bambini, non sono terroristi, ma “tutori dell’ordine”. Le bombe d’artiglieria e degli aerei, i gas, sì i gas sulla popolazione civile sono “legittima difesa”. I volti sorridenti nel mare di sangue della famiglia Trump e di Netanyahu non fanno orrore, essi sono “diplomazia amica”». Inutile sperare che un po’ di giustizia affiori, dal racconto mediatico quotidiano: «Tutto viene falsato, distorto, coperto. La stampa italiana diventa complice degli assassini di Israele nel modo più disgustoso. E tacciono i difensori di regime dei diritti umani, i Saviano e compagnia, che qui si tappano bocca, occhi, orecchie». Era già accaduto con la carneficina di “Cast Lead”, l’Operazione Piombo Fuso scatenata da Israele a cavallo tra 2008 e 2009, con bombe al fosforo bianco (armi illegali di distruzione di massa) lanciata sulla popolazione di Gaza: 1400 morti, secondo l’Onu, e settimane di inaudito silenzio da parte dei media mainstream.«Tutto questo a me provoca il vomito», protesta Cremaschi. «Per questo mi tappo la bocca, lo faccio contro la vergogna della stampa italiana e dei suoi maestri di pensiero». E aggiunge: «Nessuno che abbia coperto o attenuato i crimini di Israele ha più ragione morale di parlare di diritti e democrazia. Falsi e ipocriti, vergognatevi». Una condanna senza appello: «Mi tappo un attimo la bocca davanti al vostro schifo, ma poi riprenderò ad urlare: abbasso l’apartheid assassino di Israele, viva la Resistenza del popolo di Palestina». Artisti internazionali come Brian Eno e Roger Waters dei Pink Floyd hanno lanciato rumorose campagne civili contro “l’apartheid” israeliano che discrimina i palestinesi, ma nemmeno le rockstar sono riuscite a perforare il muro di omertà che protegge i crimini del governo di Tel Aviv, denunciati anche dall’isolato eroismo del movimento dei Refuseniks, gli obiettori militari israeliani (soldati che preferiscono il carcere alle missioni di bombardamento contro i quartieri della Striscia). Non c’è speranza che i Refuseniks – ultimo caso eclatante, quello del ventenne Udi Segal – possano “bucare” il piccolo schermo italiano, dominato da telegiornali-camomilla e talkshow occupati militarmente (quelli sì) dai cantori della nientologia politica corrente, asservita al regime che assegna ai banchieri della Bce l’unica sovranità rimasta all’ex Europa dei popoli, quella che esisteva prima dell’Unione Europea.«Ho appena sentito il Gr2 della Rai chiedere ad un “esperto” dell’università privata Luiss il suo autorevole parere sulla strage di palestinesi. Costui ha spiegato che i palestinesi, soprattutto quelli legati ad Hamas, fanno troppi figli e poi li mandano al massacro alle frontiere di Israele che, magari con qualche eccesso, si difende. Questo schifo è ciò che gran parte di stampa e Tv italiane dicono sulla strage». Così Giorgio Cremaschi commenta, su “Contropiano”, l’ultima mattanza commessa da Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, insorta dopo il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, neo-proclamata capitale dello Stato ebraico: 55 dimostranti uccisi e centinaia di feriti, abbattuti dai cecchini dell’esercito. «Se un massacro di ben lunga inferiore a questo ci fosse stato in uno dei paesi che l’Occidente considera nemici dei diritti e della democrazia – scrive Cremaschi, già leader sindacale Fiom e ora vicino a “Potere al Popolo” – noi saremmo bombardati da titoli di giornali e servizi tv di condanna. Invece Israele per la nostra stampa ha licenza di uccidere. Se uccide quotidianamente senza troppo clamore, allora si censura. Se il sangue deborda e la strage è colossale allora si mistifica».
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Sindacati e Confindustria uniti nella lotta contro i lavoratori
Pochi giorni fa la Corte dei Conti ha espresso un giudizio negativo sui contratti già stipulati nel pubblico impiego. Troppi i soldi dati a tutti e troppo pochi quelli legati al merito individuale, ha sentenziato. Il fatto è che i dipendenti pubblici hanno subìto quasi dieci anni di blocco contrattuale. Solo il recupero del costo della vita avrebbe comportato aumenti attorno ai trecento euro. Invece, come si sa, gli aumenti reali delle buste paga, quelli che ricevono tutti, sono stati tra i 50 e gli 80 euro lordi, cioè tra i 30 e 50 netti. E la magistratura contabile ora considera questi incrementi salariali eccessivi. Quindi per lo Stato il salario dei suoi dipendenti deve ridursi. Per i privati va meglio? Neanche per sogno. L’accordo sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di Cgil, Cisl, Uil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di depressione salariale fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un’ intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea successivamente. L’ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla Fiom – il peggiore della storia della categoria con quasi zero aumenti salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari – ha dato il via libera definitivo a quest’intesa.L’accordo interconfederale programma la riduzione dei salari reali nei contratti nazionali e lega rigidamente quelli aziendali ai massimi profitti dell’impresa. A livello nazionale i soli aumenti previsti saranno quelli che rivalutano i minimi tabellari, che sono solo una parte della retribuzione effettiva di un lavoratore. Si dovrà calcolare quanto cresce il costo della vita, sottrarre da esso i costi energetici e dei beni importati – l’aumento della bolletta elettrica, del gas, della benzina che non si recupera in busta paga – e infine si arriverà a definire quanto sarà l’aumento reale in busta paga. Con questo sistema i metalmeccanici hanno ricevuto l’incremento favoloso di 3 euro mensili. Si crea così più spazio per la contrattazione a livello aziendale, come dicono i firmatari dell’accordo e i soliti esperti liberisti e confindustriali? Certo che no. I lavoratori non possono rivolgersi alla loro azienda dicendole: visto che il contratto nazionale non ci ha dato i soldi che ci spettano, ora ce li dai tu. Eh no, risponderà l’azienda, l’accordo interconfederale stabilisce che ogni centesimo in più debba essere guadagnato con lavoro in più e legato all’andamento dei profitti aziendali. Per essere chiari, se l’azienda va benissimo ai lavoratori tocca qualcosa, che però può essere loro tolto se la situazione cambia.Il salario aziendale diventata totalmente variabile, verso l’alto ma anche verso il basso. Il salario fisso vale sempre meno e quello che dovrebbe integrarlo è sempre più aleatorio: oggi c’è, domani no. Insomma i lavoratori vengono trattati come i manager, ma con retribuzioni mille volte inferiori. In sintesi con questo sistema contrattuale il salario reale può solo calare. Del resto lo stesso concetto di aumento della retribuzione viene bandito dalle regole del gioco. I sindacati non possono rivendicare più soldi solo perché i lavoratori non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Guai, questo significherebbe alimentare la vecchia lotta di classe e rifiutare la moderna collaborazione con l’impresa! Ci sono voluti quasi trenta anni di accordi, dal taglio della scala mobile negli anni ’80, alle varie intese degli anni ’90 e dell’ultimo decennio; alla fine l’obiettivo storico delle classi imprenditoriali è stato raggiunto: il salario costituzionale, quello che definisce la dignità del lavoro indipendentemente dal mercato, non esiste più. E con esso non esiste neppure più la contrattazione. I sindacati che accettano questo modello non possono e non devono chiedere più nulla, devono solo applicare delle formule rinunciando a fare il loro mestiere.I metalmeccanici tedeschi hanno raggiunto le 28 ore settimanali assieme all’aumento dei salari. L’accordo sul sistema contrattuale italiano non solo impedisce che simili risultati possano essere mai acquisiti, ma vieta persino che possano essere richiesti. La piattaforma della IgMetall, nel sistema sottoscritto da Camusso e compagnia, sarebbe semplicemente fuorilegge. Neppure i vertici della Ue avrebbero saputo imporre ai lavoratori italiani un sistema così capace di farli lavorare sempre di più e guadagnare sempre di meno. Cgil, Cisl, Uil e Confindustria cancellano la possibilità per i lavoratori di ottenere contratti degni di questo nome, ma si mettono definitivamente assieme in affari. Fondi pensione, sanità privata, formazione e traffici vari sul lavoro, di questo si occuperanno davvero.Alla firma dell’intesa i leader sindacali e confindustriali si sono abbracciati e hanno fatto sapere alla politica che essa non deve occuparsi di loro, che i lavoratori sono cosa loro. Pensano così di essersi salvati dal crollo del Pd, partito che, pur con finte polemiche, hanno sempre sostenuto. Hanno organizzato un sindacato unico di regime in cui padroni e vertici sindacali operano affratellati in una sola corporazione. A sua volta lo Stato, con le parole della Corte dei Conti, ha teorizzato la riduzione dei salari dei propri dipendenti. Il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio obbligatorio costituzionalmente si fanno contratto. È il tallone di ferro che schiaccia tutto il mondo del lavoro, un regime di austerità e di impoverimento permanente che si afferma con la complicità di Cgil, Cisl e Uil. La ricostruzione del valore costituzionale del lavoro e del suo salario passa attraverso la rottura del sistema di relazioni sindacali che si è affermato in questo decenni. E ovviamente questa rottura dovrà anche riguardare i grandi sindacati confederali, che per salvare sé stessi hanno abbandonato i lavoratori al mercato ed ai tagli della spesa pubblica.(Giorgio Cremaschi, estratto da “E’ nato il nuovo sindacato unitario: Cgil, Cisl, Uil e Confindustria”, da “Carmilla” del 22 aprile 2018).Pochi giorni fa la Corte dei Conti ha espresso un giudizio negativo sui contratti già stipulati nel pubblico impiego. Troppi i soldi dati a tutti e troppo pochi quelli legati al merito individuale, ha sentenziato. Il fatto è che i dipendenti pubblici hanno subìto quasi dieci anni di blocco contrattuale. Solo il recupero del costo della vita avrebbe comportato aumenti attorno ai trecento euro. Invece, come si sa, gli aumenti reali delle buste paga, quelli che ricevono tutti, sono stati tra i 50 e gli 80 euro lordi, cioè tra i 30 e 50 netti. E la magistratura contabile ora considera questi incrementi salariali eccessivi. Quindi per lo Stato il salario dei suoi dipendenti deve ridursi. Per i privati va meglio? Neanche per sogno. L’accordo sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di Cgil, Cisl, Uil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di depressione salariale fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un’ intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea successivamente. L’ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla Fiom – il peggiore della storia della categoria con quasi zero aumenti salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari – ha dato il via libera definitivo a quest’intesa.
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Ragazzi senza futuro, vietato stupirsi se minacciano il prof
Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera. In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su “Repubblica” ha suscitato discussioni a non finire. Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate. Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine.Anche se non certo in via esclusiva, molti degli episodi narrati dai media hanno avuto come contesto istituti tecnico-professionali. Può darsi che il rapporto con i docenti sia più difficile nelle famiglie dove l’istruzione gode di minor considerazione o dove il disagio socio-economico si fa sentire di più. Tuttavia, una spiegazione di questo tipo appare assai parziale e soprattutto astratta. Una ragione più immediata del disagio è che, nelle scuole “razionalizzate” (ovvero “amputate”) dalle riforme degli ultimi vent’anni, ci sono troppi alunni per classe, insegnanti molto soli e demotivati, troppo anziani, non abbastanza formati e non abbastanza sostenuti nella fatica di ogni giorno; c’è una pressione costante a nascondere la dispersione scolastica e lo scadimento costante del livello degli apprendimenti dietro al buonismo obbligatorio delle promozioni regalate anche a fronte di gravi lacune; c’è un taglio progressivo e drammatico delle ore di lezione e dei contenuti; c’è la mancanza di un autentico e lungimirante spirito riformatore, che faccia della scuola un luogo di produzione di sapere e di cultura, vero cuore pulsante del paese e oggetto di cura e attenzione da parte delle istituzioni e dei cittadini.Ad un livello più profondo, c’è l’abdicazione dei genitori al loro ruolo educativo e la completa delega alla scuola della responsabilità di dire di no ai pargoli superprotetti e nel contempo la svalutazione e il discredito del ruolo educativo degli insegnanti, ai quali viene riservata la considerazione di cui godono dei proletari sottopagati, invece del prestigio di cui dovrebbero godere dei professionisti ai quali si affida il futuro delle nuove generazioni. Alla scuola si chiede continuamente di sopperire a tutte le lacune e ai mali profondi della società, senza però dotarla di mezzi, di competenze, di prestigio e di considerazione sociale. Se la scuola italiana ha retto tutto sommato miracolosamente fino ad ora, lo si deve allo spirito di abnegazione di quegli insegnanti (non tutti, certamente) che tengono duro nonostante venga scavato loro ogni giorno il terreno sotto i piedi. La fuga dalla responsabilità è il male sociale che ci affligge. A cominciare dal vertice, due decenni di cialtroneria politica, di zuffe mediatiche fondate sulla legge del più forte (quanto a volume di voce, non di argomenti), di demeritocrazia, ovvero di gestione delle cariche pubbliche pressoché totalmente svincolata dal merito, di autoreferenzialità della casta rispetto alle proprie scelte dannose, delle quali di fatto non si assume mai la responsabilità, hanno inciso profondamente sulla coscienza degli italiani.Si è imbarbarito il linguaggio del dibattito pubblico e, per il notissimo principio dell’apprendimento per imitazione, la violenza verbale rappresentata ogni giorno nei media è stata sdoganata. Con quale autorevolezza possono insegnare ai ragazzi il rispetto, l’empatia, il dialogo democratico degli insegnanti continuamente vilipesi e disprezzati sui media come categoria di nullafacenti privilegiati, in una società che offre a tutti i livelli la tracotante indifferenza a questi valori? Come possono far apprezzare lo studio e il sapere, quando ogni giorno i modelli vincenti proposti dagli adulti sembrano prescindere dalla cultura, dalla competenza e dall’impegno? A livello educativo, questa mancanza di responsabilità assume la forma di assenza di autorevolezza. I ragazzi, a tutte le età, hanno un bisogno assoluto di riferimenti autorevoli. Un adulto autorevole sa dare regole e controllare, ma sa anche ascoltare e proteggere quando serve. Sa prendersi la responsabilità di dire di no, senza essere un tiranno. I “no” aiutano a crescere e strutturano una personalità equilibrata, capace di sopportare le inevitabili frustrazioni della vita. Molti genitori (non tutti, per fortuna) non sembrano più in grado di offrire ai propri figli un modello di questo genere. Troppo faticoso, in una società dove il tempo da dedicare ai figli è scarso e dove spesso si è fagocitati dal lavoro e dalle preoccupazioni. È più facile lasciar perdere e salvare la pace familiare.Purtroppo, a volte nemmeno gli insegnanti ci riescono. Insegnare non è un lavoro per tutti e con ragazzi che arrivano da famiglie così permissive o prive di struttura lo è ancora meno. Gli insegnanti tormentati dagli allievi non di rado sono deboli e poco autorevoli. È come se i ragazzi indirettamente chiedessero loro di far sentire da che parte sta il potere nella relazione educativa (che per sua natura deve essere asimmetrica). A casa non lo imparano dagli adulti e di conseguenza non sanno che cosa sia la responsabilità; perciò vanno in escandescenze quando incontrano i primi ostacoli in classe. Per loro l’adulto non ha alcuna autorità; è un fratello maggiore al quale nulla è dovuto. Li conosco, questi genitori: sono quelli che arrivano infastiditi al colloquio con il docente quando il figlio prende un’insufficienza con l’argomento che il pargolo deve avere 6, perché non hanno tempo di occuparsene. Non sempre sono di bassa condizione sociale, anzi… La mancanza di riferimenti autorevoli produce principini narcisisti e onnipotenti, ai quali i genitori, schiacciati dal senso di colpa per la scarsa disponibilità verso i bisogni autentici dei figli, lasciano decidere tutto fin dalla tenera età. Fragili e privi di limiti, questi figli narcisi non vedono più in là dei confini del proprio ego e dei suoi impulsi immediati.E veniamo a loro, ai ragazzi. Questi ragazzi (parlo degli adolescenti, perché ci lavoro insieme da oltre trent’anni) sono in molti casi soli. Passano troppo tempo sui dispositivi digitali (per parecchi lo smartphone è oggetto di un vero attaccamento affettivo) e da un’età troppo precoce, con tutti i danni che ne derivano e che sono stati illustrati molto bene dal neuropsichiatra Manfred Spitzer nel suo libro “Demenza digitale” (Corbaccio): dipendenza, danno da campi elettromagnetici, sottrazione di tempo alla lettura e all’interazione faccia a faccia, danni cognitivi, rischi per la privacy, aumento dell’aggressività (specie per l’utilizzo dei videogiochi) e diminuzione dell’empatia. Spesso le bravate a danno dei docenti raccontate sui giornali sono state pensate nella prospettiva della diffusione sui social network e nelle chat. Sono messe in scena per un pubblico di pari, in cambio di una fragile popolarità che li faccia sentire esistenti. A questi ragazzi la scuola non dice molto e appare per lo più come una spiacevole interruzione delle loro attività digitali. La lettura è attività rara perfino al liceo. Il sapere appreso sui banchi appare vuoto e inutile e si aspettano la promozione per il solo fatto di andare a scuola.Questo non significa che la scuola debba inseguirli sul terreno tecnologico, ma che deve trasmettere e costruire con loro un sapere vitale, in grado di coinvolgerli. Perché possa riuscirci, occorrono insegnanti altamente selezionati e formati, dirigenti all’altezza, un’alleanza educativa con le famiglie, una maggiore considerazione del valore della scuola e del sapere a livello sociale (l’Italia, non dimentichiamolo, ha un numero enorme di analfabeti funzionali, circa il 70% della popolazione adulta), un senso di responsabilità condiviso. E così torniamo all’inizio. Siamo in un circolo vizioso. Questa scuola povera, svuotata, imbelle e irrilevante è il risultato di due decenni di logoramento progressivo e sistematico, ad opera di tutti i governi. Invece di essere riformata, la scuola italiana è stata smantellata. Mentre gli altri comparti della pubblica amministrazione hanno subito tagli lineari del 2%, la scuola si è vista sottrarre il 20% delle risorse. È un miracolo che esista ancora, benché compromessa. Ma non è colpa della scuola se i ragazzi sono violenti e privi di autocontrollo.Semmai, sia l’istruzione pubblica piegata alle esigenze del mercato, per il quale contano più le competenze delle conoscenze e più la ripetizione di nozioni del senso critico, sia l’individualismo sfrenato e l’ignoranza arrogante e soddisfatta di sé diffuse in una società che sta perdendo i valori fondanti della solidarietà, del bene comune, dell’impegno e della cultura sono il frutto malato di quella vera perversione della natura umana che è l’ideologia neoliberista. L’uomo è un essere intimamente sociale e predisposto all’empatia. Quando si insegna per decenni attraverso la parola e l’esempio che l’avversario è un nemico, che per affermare se stessi occorre competere, che i servizi pubblici sono uno spreco, che tutto si misura in termini economici, che con la cultura non si mangia e che i diritti sono sacrificabili sull’altare del profitto; quando si riduce l’istruzione al minimo, si riducono i salari e le tutele e si sdoganano a tutti i livelli la sopraffazione, l’arbitrio, la violazione delle regole, siamo di fronte ad una patologia individuale e sociale.I sociologi la chiamano “anomia”; gli psicologi possono scomodare etichette diagnostiche che vanno dal narcisismo alla psicopatia. Un popolo disgregato, al quale manca il senso di appartenenza ad una comunità, è facilmente manipolabile, oltre che infelice. Divide et impera, dividi e comanda. E così, con gli adulti affannati nella sopravvivenza quotidiana, i figli trattati come polli in batteria a cui dare il meno possibile perché non pensino ad altro che ai propri bisogni immediati e i docenti privati di prestigio e di credibilità, come la cultura di cui sono obsoleti portatori, al posto di una democrazia partecipativa, fondata sulla consapevolezza dei diritti e sulla responsabilità, stiamo imboccando il tunnel di una democratura, fondata sulla rinuncia inconsapevole ai diritti e sull’irresponsabilità. Non credo che se ne possa uscire né cambiando solo la scuola né limitandosi a punire gli studenti violenti. Certo, le azioni penalmente rilevanti vanno sanzionate anche penalmente. La responsabilità si impara pagando il prezzo delle proprie azioni; perciò l’indulgenza zuccherosa dei docenti che lasciano correre è deleteria almeno quanto il lassismo o l’arroganza dei genitori mai cresciuti che ne sono la causa prossima.Per uscire da un degrado così profondo, occorre guarire la malattia che lo ha provocato. Servono un futuro da costruire (questi ragazzi non ce l’hanno), la scoperta di un senso nella vita e un vero salto evolutivo della coscienza. Viviamo in mondo inquinato sul piano fisico da infinite sostanze tossiche, sul piano mentale da pensieri fuorvianti e dalla distrazione di massa, sul piano spirituale dalle catene della dipendenza dall’avere. Ci servono un paradigma diverso da quello neoliberista e un nuovo umanesimo, pragmatico, ma fondato sulla cooperazione e sull’empatia. Non sembra davvero facile, dato il livello del disfacimento sociale, ma nemmeno impossibile. Accanto ad una minoranza di ragazzi violenti e maleducati (ed anche fra loro) ci sono molti coetanei pieni di energie che devono solo trovare uno sbocco costruttivo. A questi uomini di domani servono uno scopo e dei maestri, altrimenti avranno solo dei capi-branco e dei dittatori. Siamo in grado di offrirglieli?(Patrizia Scanu, “Violenza in classe, come ci siamo arrivati?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 28 aprile 2018).Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera. In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su “Repubblica” ha suscitato discussioni a non finire. Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate. Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine.
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Comodo vincere come i 5 Stelle, senza democrazia interna
Comodo, concorrere ad elezioni democratiche senza però avere il fastidio fisiologico della democrazia interna: «E’ come far aprire i negozi di parrucchiere ai cinesi, che non pagano nulla». Troppo facile: «Devi pagare il tuo dazio alla democrazia, se vuoi partecipare al governo di un sistema democratico». Non fa sconti, Gianfranco Carpeoro, al Movimento 5 Stelle che mette regolamente alla porta chi osa contestare il vertice, per poi magari puntare a un’intesa con gli ex avvesari, senza l’onestà politica di chiamarla con suo nome. «La cosa peggiore, nella costruzione di linguaggio del Movimento 5 Stelle è l’aspetto tautologico, per il quale basta cambiare il termine e si cambia il concetto», sostiene Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Fare un governo è sempre un contratto», ma i grillini fingono di non saperlo: «A loro ripugna la parola “alleanza”, mentre gli piace la parola “contratto”. Ma se formano un governo col Pd, fanno il contrario di quello che hanno detto in campagna elettorale». E’ l’effetto magico della tautologia: «Se lo chiami “contratto” va bene, se lo chiami “alleanza di governo” va male». Per loro sembra che il problema siano «i termini, non la sostanza», che infatti è sgradevole: «La sostanza è che fai un governo con qualcosa che, secondo te, ha sbagliato tutto ed è inaccettabile – gliene hanno dette di tutti i colori, al Pd. E quindi adesso ci fai un governo?».Saggista e simbologo, nella sua “ginnastica mentale” settimanalmente offerta ogni domenica mattina, Carpeoro mostra di amare i paradossi. I grillini dicono che si limiterebbero a firmare un contratto? «Beh, prova a firmarlo con Totò Riina, un contratto: se lo chiami “contratto” e non “associazione per delinquere di stampo mafioso”, allora diventa legittimo?». Questo aspetto tautologico, aggiunge, i 5 Stelle l’avevano già mostrato quando comminavano sanzioni contro i propri esponenti che ricevevano anche solo un avviso di garanzia. «Poi hanno cambiato i termini, e adesso chi riceve un avviso di garanzia basta che avvisi il partito di averlo ricevuto». Altro paradosso: «Come se io domani scrivessi al partito: guardate, sto per fare una rapina in banca. Nessun problema, quando poi l’avviso di garanzia mi arriva?». I 5 Stelle sono ormai al centro della scena politica nazionale dopo il quasi 33% incassato il 4 marzo. «Siccome sono cose più grandi di loro, cosa fanno? Giocano sul linguaggio, per non accettare il fatto che la politica, per autodefinizione, è compromissione. In politica si fanno i compromessi: alcuni vanno meglio e alcuni vanno peggio, alcuni sono presentabili e alcuni sono impresentabili. Come la mettiamo, se per anni hai seguito per anni la strada in base alla quale sei “duro e puro”, va bene se comandi da solo senza parlare con nessuno? Non erano quelli che non volevano andare in televisione? Ma adesso li vedo, in televisione».La verità, conclude Carpeoro, è che ormai il Movimento 5 Stelle «sta diventando un partito come gli altri, tranne che per l’assenza di democrazia interna – ma non sono i soli: partiti come Forza Italia non ce l’hanno mai avuta». Evidentemente, c’è da dedurre, non è una condizione così necessaria, se poi agli elettori va bene anche così. Ma è giusto che un partito, a casa sua, faccia quello che vuole? «No: un partito vive sulla stessa illegittimità derivante dalla non-applicazione dello spirito della Costituzione, che risulta anche dalle riunioni dell’Assemblea Costituente». Cos’era successo? Partiti, sindacati non sono mai stati regolamentati, sottolinea Carpeoro. E’ accaduto anche quelle associazioni, tra cui la massoneria, considerate talmente “sensibili” da essere citate nella Costituzione. I padri costituenti sorvolarno sulla loro natura giudirica: «Uscendo dalla guerra, si è ritenne di lasciarle nel patrimonio costituzionale da regolamentare in seguito». Un discorso rimasto in sospeso, rinviato, e mai chiuso. Una sorta di limbo, nel quale ha prosperato l’assoluta mancanza di trasparenza, dai finanziamenti illeciti alla gestione degli stessi sindacati: «Dovrebbero presentare bilanci e non lo fanno, e non dovrebbero riscuotere i contributi degli iscritti in maniera automatica, come invece avviene attualmente».Democrazia interna: «Se vuoi fare parte di un sistema, devi condividerlo», ribadisce Carpeoro. «Certo non la puoi imporre, la democrazia interna. Ma, se ti vuoi candidare alle elezioni, devi superare un certo standard: perché le elezioni sono democrazia, e sarebbe un ossimoro far candidare, a un qualcosa di democratico, un soggetto che non vive democraticamente». In altre parole: «Nel momento in cui concorri secondo regole democratiche per ottenere voti, devi avere delle regole democratiche al tuo interno». Per carpeoro è un fatto elementare di coerenza, di omogeneità: «Non puoi avere una vita interna dittatoriale e poi candidarti, perché così hai un vantaggio rispetto agli altri partiti, che si fanno “rompere i coglioni” dalle loro minoranze, mentre tu no». Beninteso, «la realtà è sempre complessa, la perfezione non esiste. Però intanto cominciamo a introdurre delle regole, là dove mancano». Né si può dire che i 5 Stelle siano privi di presupposti ideali: «Il problema è che non sono riusciti a evitare di diventare un po’ settari, perché hanno una classe dirigente che secondo me è inadeguata». Fico che va a piedi o un pullman? «Appunto: è le sempre la tautologia di cui sopra».Comodo, concorrere ad elezioni democratiche senza però avere il fastidio fisiologico della democrazia interna: «E’ come far aprire i negozi di parrucchiere ai cinesi, che non pagano nulla». Troppo facile: «Devi pagare il tuo dazio alla democrazia, se vuoi partecipare al governo di un sistema democratico». Non fa sconti, Gianfranco Carpeoro, al Movimento 5 Stelle che mette regolamente alla porta chi osa contestare il vertice, per poi magari puntare a un’intesa con gli ex avversari, senza l’onestà politica di chiamarla con il suo nome. «La cosa peggiore, nella costruzione di linguaggio del Movimento 5 Stelle è l’aspetto tautologico, per il quale basta cambiare il termine e si cambia il concetto», sostiene Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Fare un governo è sempre un contratto», ma i grillini fingono di non saperlo: «A loro ripugna la parola “alleanza”, mentre gli piace la parola “contratto”. Ma se formano un governo col Pd, fanno il contrario di quello che hanno detto in campagna elettorale». E’ l’effetto magico della tautologia: «Se lo chiami “contratto” va bene, se lo chiami “alleanza di governo” va male». Per loro sembra che il problema siano «i termini, non la sostanza», che infatti è sgradevole: «La sostanza è che fai un governo con qualcosa che, secondo te, ha sbagliato tutto ed è inaccettabile – gliene hanno dette di tutti i colori, al Pd. E quindi adesso ci fai un governo?».
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Streeck: sovranismo progressista, contro l’élite globalista
Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, i paesi a economia matura hanno di fronte tre precise tendenze, a lungo termine: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate, spiega Nicolò Bellanca su “Micromega”: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre a sua volta la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita. Di conseguenza il settore finanziario si espande ulteriormente per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, ma – restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali – la stessa finanza approfondisce gli squilibri sociali. Allarme rosso: gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, che a loro volta – moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili – accentuano le disparità e rallentano la crescita, e così via. Storia: a circa 250 anni dalla rivoluzione industriale, osserva Bellanca, si sono estremamente affievolite le forze sociali e politiche di contrasto al capitalismo, tra le quali la religione, il socialismo, il nazionalismo e la democrazia. «Il punto è di cruciale importanza, poiché un capitalismo senza oppositori viene lasciato ai suoi meccanismi interni ed è incapace di autolimitarsi».Tutti ci accorgiamo, sottolinea Streeck, che oggi nessuna formula politico-economica, di destra o di sinistra, fornisce un coerente sistema di regolazione al capitalismo. Ma questo succede non tanto per l’assenza di idee progettuali o di leader carismatici, come spesso sentiamo lamentare, bensì «perché nessun intervento riformatore dell’economia può essere efficace se le istituzioni non-economiche sono quasi estinte: non si può curare una malattia in mancanza degli anticorpi». Per Streeck, il capitalismo è ormai ingovernabile per l’attenuarsi dei vincoli che furono in grado di contrastarlo e contenerlo. «Nei momenti cruciali della sua storia, sono state le forze di opposizione a stabilizzare il capitalismo in quanto società: movimenti di classe, etnici o di genere hanno animato i contropoteri della società; movimenti regionali, nazionali o religiosi hanno preservato la coesione sociale; gli Stati socialdemocratici del benessere e i sindacati di massa hanno assicurato una domanda sufficiente nella sfera economica, così come la legittimazione della riproduzione sociale. Il capitalismo vive finché non diventa “puro”, ossia finché non espelle dalla società le forze non-economiche in grado, trattenendone la spinta espansiva, di proteggerlo da sé stesso».Questa tesi non appartiene soltanto a Streeck, rileva Bellanca. In ambito marxista, Rosa Luxemburg sostiene che senza una ulteriore frontiera da valicare, l’accumulazione capitalista s’inceppa. Karl Polanyi aggiunge che nel capitalismo circolano delle “merci fittizie” – il tempo, la natura, il denaro e il lavoro umano – le quali vengono distrutte, o rese inutilizzabili, se affidate alle compravendite mercantili: poiché il capitalismo abbisogna di queste “merci”, deve accettare che siano regolate in maniera non-mercantile, e deve quindi ammettere un proprio limite. Secondo Streeck, la versione neoliberista del capitalismo ha avuto “troppo successo”, colonizzando l’intero mondo della vita e quasi azzerando le controspinte socio-politiche. Smentito il pregiudizio marxista, secondo cui il capitalismo si chiuderà soltanto quando sarà pronta una società migliore, promossa da un soggetto rivoluzionario. «Data la frammentazione dei movimenti antagonisti, manca un gruppo sociale che possa orientare progettualmente la società. Lo scenario futuro più probabile sarà quello in cui il collasso capitalista non sarà seguito dal socialismo, bensì da un periodo di entropia».Per Bellanca, la prognosi di Streeck non è sempre persuasiva, dato che «discute il futuro del capitalismo senza alcun riferimento al luogo in cui il futuro del capitalismo sarà sicuramente deciso: l’Asia». Se non altro, «il suo atteggiamento non scivola nel fatalismo e nell’impotenza politica». Piuttosto, lo studioso tedesco puntualizza: non tutte le maniere con cui attraversare il prossimo “interregno” saranno equivalenti. A suo parere, almeno uno dei fattori non-capitalisti potrà ancora costituire un valido baluardo di resistenza, per i lavoratori e per i cittadini: lo Stato-nazione. «Nel mondo reale, non c’è democrazia al di sopra dello Stato-nazione, ma solo grande tecnocrazia, grandi capitali e grande violenza. I regimi politici capaci di rappresentare gli interessi delle classi subalterne, dei gruppi discriminati e delle popolazioni locali nel mondo si sono formati – quando ciò è avvenuto – soltanto all’interno del perimetro della sovranità statuale». Pertanto, aggiunge Streeck, il rilancio dello Stato politico come Stato sociale democratico potrà costituire uno strumento per temperare e, in parte, regolare la furia del capitale. E mentre il sovranismo di destra si scaglia contro i migranti in nome dell’etnia e rivendica la chiusura delle frontiere, Streeck indica alla sinistra un percorso strategico nel quale la leva del sovranismo progressista contrasti la tirannia “illuminata” di Bruxelles e affronti il tema di come uscire dal totalitarismo globalista.«I neoliberisti – scrive – hanno convinto tanti a sinistra che oggi il solidarismo internazionalista comporta che i lavoratori dei vecchi paesi industrializzati lascino competere sui loro posti i lavoratori delle aree più povere del pianeta. Invece il solidarismo ha significato e significa che i lavoratori si organizzano assieme per impedire al capitale di contrapporre gli uni agli altri in mercati “liberi”, ossia non regolamentati». Su questo terreno, che Bellanca definisce «del sovranismo democratico-costituzionale», la previsione di Streeck s’incontra con quella dell’economista di origine serba Branko Milanovic, secondo cui «i conflitti tra le classi all’interno dei paesi accresceranno, in termini relativi, la loro importanza nel prossimo futuro». Lo stesso Streeck aggiunge che le battaglie dentro e mediante gli Stati-nazione saranno, nel tempo che ci aspetta, l’orizzonte politico meno inefficace e più vicino ai bisogni dei lavoratori e dei cittadini. «Questa coppia di previsioni – conclude Bellanca – presenta implicazioni politiche molto precise per la sinistra da ricostruire».Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, i paesi a economia matura hanno di fronte tre precise tendenze, a lungo termine: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate, spiega Nicolò Bellanca su “Micromega”: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre a sua volta la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita. Di conseguenza il settore finanziario si espande ulteriormente per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, ma – restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali – la stessa finanza approfondisce gli squilibri sociali. Allarme rosso: gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, che a loro volta – moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili – accentuano le disparità e rallentano la crescita, e così via. Storia: a circa 250 anni dalla rivoluzione industriale, osserva Bellanca, si sono estremamente affievolite le forze sociali e politiche di contrasto al capitalismo, tra le quali la religione, il socialismo, il nazionalismo e la democrazia. «Il punto è di cruciale importanza, poiché un capitalismo senza oppositori viene lasciato ai suoi meccanismi interni ed è incapace di autolimitarsi».
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Euro e Russia: grillini beffati, Di Maio cambia il programma
Due cattivoni assoluti – la guerra e l’euro – sono letteralmente spariti dalla fiaba “flessibile” dei 5 Stelle: prima delle elezioni funzionavano per ottenere voti, ma ora sono stati “sbianchettati” in funzione governativa. Della serie: perché nulla cambi, delle cose che contano davvero. Nessuno tocchi l’egemonia corrente: a contrastare i bombardamenti Usa, le sanzioni alla Russia e il dominio oligarchico di Bruxelles resta solo Salvini, visto che Di Maio, con l’ovvio placet del padrone Casaleggio, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro, assai più morbido e sfuggente sui temi che dovrebbero impegnare il “governo del cambiamento” richiesto da almeno il 55% degli italiani votanti (senza contare il 27% rimasto a casa, forse temendo di assistere esattamente a questo tipo di spettacolo post-elettorale). Il classico imbroglio? Alla faccia del “primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al sistema operativo Rousseau”. «La versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio», scrive Luciano Capone sul “Foglio”. «Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”».Per recuperare il vecchio programma, scrive il “Foglio”, basta andare su “Internet Archive” – la più grande biblioteca della rete – e utilizzare la funzione “Wayback Machine”, che consente di risalire alle pagine web modificate o cancellate. Fino al 2 febbraio sul sito del M5S c’era un programma, ma il 7 marzo – tre giorni dopo le elezioni – ce n’era già un altro, «totalmente diverso e spesso diametralmente opposto». E’ il caso del “programma Esteri”, di stringente attualità vista la crisi in Siria. «Gli iscritti avevano votato per un’impostazione radicale, terzomondista, filo-russa e anti-atlantica. Il nuovo “programma Esteri” è stato bonificato: tolte le contestazioni alla Nato e agli Stati Uniti, addolcite le critiche all’euro e all’Ue, smussati gli elogi alla Russia». Il capitolo su “Sovranità e indipendenza” si apriva così: “Il caos che regna in Libia dimostra che l’unilateralismo dell’intervento umanitario è fallito”. E ancora: “Ripudiamo ogni forma di colonialismo, neocolonialismo e ingerenza straniera”. Tutto sparito, rileva il “Foglio”. «Nella nuova versione si parla di “affrontare insieme in Europa” le sfide del domani “come Stati sovrani liberi e indipendenti” nel mondo multipolare. Un’altra musica, più soft».Il capitolo sul “Ripudio della guerra” partiva secco: “Iraq, Somalia, ex Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Ucraina, Siria. L’elenco dei paesi distrutti dall’unilateralismo occidentale potrebbe essere molto più lungo”. E proseguiva catastrofico: “Le guerre di conquista dell’ultimo periodo hanno portato il mondo a un passo dall’Apocalisse e hanno prodotto centinaia di migliaia di morti, feriti, mutilati e sfollati. Territori devastati, smembrati, economie fallite, destabilizzazioni estese a intere regioni e milioni di persone”. Tutto cancellato, osserva Capone sul “Foglio”: «Ora il tono è più posato e burocratico, si parla di “ricerca del multilateralismo, della cooperazione e del dialogo tra le popolazioni” e si ribadisce che “le operazioni per il mantenimento della pace debbano svolgersi in stretta ottemperanza ai principi della Carta dell’Onu”». Ma il passaggio dall’“Apocalisse” alla “stretta ottemperanza” è niente, rispetto alla metamorfosi della posizione sulla Nato: “Il ‘sistema di sicurezza occidentale’ non solo non ci ha reso più sicuri, ma è il primo responsabile del caos odierno. Dall’invasione della Libia fino alla distruzione pianificata della Siria – c’era scritto – il sistema di sicurezza occidentale ha registrato una serie di fallimenti che hanno portato alle popolazioni dei paesi membri, miliardi di euro di perdite, immigrazione fuori controllo e destabilizzazione di aree fondamentali per la sicurezza e l’economia dell’Europa”.L’alleanza atlantica veniva descritta come la causa principale dell’instabilità globale, arrivando a vagheggiare una rottura del patto: ci sarebbe ormai “una discordanza tra l’interesse della sicurezza nazionale italiana con le strategie messe in atto dalla Nato”. Per questo il M5S proponeva un “disimpegno da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la Costituzione”. Tutti gli attacchi alla Nato sono stati eliminati, prende nota il “Foglio”. «Nella nuova versione, cambiata poco prima o poco dopo le elezioni, il passaggio più duro parla dell’“esigenza di aprire un tavolo di confronto in seno alla Nato”». Anche la parte sul Medio Oriente era una dura accusa all’Occidente: “I nostri governi hanno distrutto intere popolazioni, come quella siriana, seguendo l’interventismo occidentale della Nato, cui l’Italia ha colpevolmente prestato il fianco rompendo le relazioni diplomatiche con Damasco”. Ora è stato tolto ogni riferimento al regime di Assad e compaiono le responsabilità dei paesi arabi, che hanno “un sistema di governo a dir poco inadeguato agli standard universali”. Il capitolo sulla Russia? E’ stato emendato da alcune critiche sulle sanzioni. “L’Ue, adeguandosi agli Usa – c’era scritto – ha gradualmente imposto misure restrittive nei confronti della Russia”. Le “azioni di Mosca” in Crimea e Ucraina? Erano “volte al mantenimento della sua sfera di influenza nello spazio ex sovietico a fronte del progressivo allargamento della Nato”. Tutto sparito.Analogamente, aggiunge il “Foglio”, sono state riviste le critiche all’euro: dal passaggio-chiave iniziale (“La situazione italiana nella zona euro è insostenibile, siamo succubi della moneta unica”), il neo-programma di Di Maio approda a lidi più rassicuranti per l’establishment: “Questo non significa abbandonare perentoriamente la moneta unica”. Non che i 5 Stelle siano mai stati chiari, in materia: hanno persino cercato di approdare al gruppo iper-eurista dell’Alde a Strasburgo, senz’altro proporre – in Italia – che la vaghezza di un ipotetico referendum consultivo sulla moneta unica. Hanno sparato volentieri sull’euro, a parole, ma senza mai impegnarsi in una posizione politica ufficiale (come ad esempio quella espressa da Borghi e Bagnai, in quota Lega). Ora la retromarcia di Di Maio conferma agli elettori no-euro che sì, hanno proprio sbagliato a votare 5 Stelle. «Questi esempi – scrive il “Foglio” – riguardano solo le dieci paginette del “programma esteri”, ma vanno moltiplicati per le altre diciannove aree tematiche, più le quattro aggiunte senza alcuna votazione». Nel “programma Banche” sono state inserite proposte mai votate, dal “programma Lavoro” è stato rimosso il capitolo sui “Sindacati senza privilegi”.Ci sono programmi stravolti come quello sullo “Sviluppo economico”, sceso da 92 a 9 pagine, e altri rielaborati da capo a piedi come quello sull’agricoltura. Chi ha scritto il nuovo programma e deciso di sostituirlo a quello votato dagli iscritti? «Probabilmente Di Maio e la sua cerchia ristretta», scrive Capone. «Ma di certo il ruolo di Davide Casaleggio, che materialmente attraverso Rousseau ha cambiato i documenti, mostra come chi si è posto al di sopra di tutti non sia il “garante” della democrazia diretta ma il suo “manipolatore”». Questa manovra, che per il “Foglio” riguarda il principio più sacro (la democrazia diretta) nonché lo strumento più importante (il programma) della vita politica del partito, «svela la grande finzione del M5S e la potenza totalitaria del suo meccanismo». Aggiunge Capone: «La storia è piena di partiti che hanno tradito il programma elettorale, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Ma qui si fa un passo ulteriore: il programma viene stravolto in segreto per far credere a militanti ed elettori che è quello che loro hanno sempre voluto e consacrato con il voto. Più che la volontà generale di Rousseau, è un sistema che ricorda la fattoria degli animali di Orwell».Due cattivoni assoluti – la guerra e l’euro – sono letteralmente spariti dalla fiaba “flessibile” dei 5 Stelle: prima delle elezioni funzionavano per ottenere voti, ma ora sono stati “sbianchettati” in funzione governativa. Della serie: perché nulla cambi, delle cose che contano davvero. Nessuno tocchi l’egemonia corrente: a contrastare i bombardamenti Usa, le sanzioni alla Russia e il dominio oligarchico di Bruxelles resta solo Salvini, visto che Di Maio, con l’ovvio placet del padrone Casaleggio, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro, assai più morbido e sfuggente sui temi che dovrebbero impegnare il “governo del cambiamento” richiesto da almeno il 55% degli italiani votanti (senza contare il 27% rimasto a casa, forse temendo di assistere esattamente a questo tipo di spettacolo post-elettorale). Il classico imbroglio? Alla faccia del “primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al sistema operativo Rousseau”. «La versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio», scrive Luciano Capone sul “Foglio”. «Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”».
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Reddito di cittadinanza: è il piano (infernale) degli oligarchi
Mark Zuckerberg non ha bisogno di presentazioni: mister Facebook vale 64 miliardi di dollari. Altro paperone-prodigio: il sudafricano Elon Musk, patron di Tesla e Space-X. Cos’hanno in comune, a parte i giacimenti aurei? La fede nel reddito di cittadinanza. La pensano così anche l’americano Richard Branson della Virgin e il canadese Stewart Butterfield, l’inventore della banca-immagini Flickr e di Slack, applicazioni per messaggerie. Uomini d’oro e potenti oligarchi, improvvisamente anche umanitari: si stanno battendo a favore del reddito di base garantito, osserva Chris Hedges, a lungo corrispondente estero del “New York Times”. «Sembra che siano dei progressisti e che esprimano queste loro proposte con parole che parlano di morale, prendendosi cura degli indigenti e dei meno fortunati». Ma dietro questa facciata, scrive Hedges, c’è una cruda consapevolezza: soprattutto la Silicon Valley «vede un mondo – quello che questi oligarchi hanno contribuito a creare – tanto iniquo che i consumatori di domani, che dovranno sopportare la precarietà del lavoro, salari sotto i minimi, l’automazione e la schiavitù di un debito che blocca tutto, non saranno in condizione di spendere abbastanza per comprare i prodotti e i servizi offerti dalle grandi corporations».
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Michael Hudson: soldi, lo sporco affare dietro al caso Skripal
Chiunque abbia visto i film di James Bond sa che 007 può uccidere i propri nemici. E gli Stati Uniti ammazzano gente da anni, vedasi Allende e le decine di migliaia di leader sindacali e professori universitari. L’amministrazione Obama ha preso di mira paesi stranieri persino per i propri attacchi di droni, sminuendo le vittime civili come danno collaterale. Nessun paese straniero ha interrotto le proprie relazioni con Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro paese che usa l’assassinio mirato come scelta politica. Questa pretesa, senza alcuna prova, che la Russia abbia ucciso qualcuno è dunque irricevibile. La domanda quindi è: perché stanno facendo questo? Perché stanno imponendo sanzioni e montando una gran campagna pubblicitaria? Per avere la risposta, facciamo un passo indietro ed analizziamo meglio questa reazione, che sembra così fuori dell’ordinario per britannici, americani e Nato. Per i neofiti, le sanzioni fanno parte di un gioco diplomatico progettato per contrastare i guadagni russi. Quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto le proprie sanzioni bancarie, hanno giustificato la cosa dicendo che quella era un atto dimostrativo: se voi russi pensate di poter fare dei profitti, vi faremo perdere ancor più di quanto potreste guadagnare.Bisognerebbe capire quale beneficio dia alla Russia uccidere un’ex spia del governo britannico, restituita all’Occidente in uno scambio di spie e che, a quanto si dice, voleva tornare in Russia. Ovviamente non ce n’è alcuno. Le sanzioni sono pertanto indipendenti da questo evento. La legge occidentale peraltro si basa sulla presunzione di innocenza e sulla certezza delle prove. Non dovrebbe essere dato alcun giudizio senza l’ausilio delle prove. Altrimenti ci si basa su dicerie. Il secondo principio della legge occidentale è che ambo le parti possano presentare la propria versione. Nell’affare Skripal la Russia non può farlo, non essendole stati dati campioni del veleno che potrebbero scagionarla. Non è stato nemmeno concesso loro di vedere Skripal, sebbene sia un cittadino russo, o sua figlia, che ora è sveglia e in via di guarigione. Gli inglesi neanche permetteranno ai suoi parenti di venire in Gran Bretagna. La reazione è così sproporzionata che è ovvio non ci sia una relazione logica. Questo è un doppio standard bello e buono. Penso dunque che invece di una rappresaglia ci sia una strategia predeterminata antirussa, ed un tentativo di isolarne l’economia.La domanda è: perché sta succedendo? E quali sono igli obiettivi ultimi? In un primo momento, pensavo fosse la vendetta per il fallito tentativo americano di usare Isis ed Al-Qaeda come legione straniera per sostituire Assad. O forse è una scusa per appropriarsi del suo petrolio? O la frustrazione per la scelta della Crimea di unirsi alla Russia? Quel che è certo è che sembra ci sia una guerra fredda economica che si sta intensificando. Il risultato è che Russia, Cina e Iran si stanno avvicinando. Quel che abbiamo è dunque una minaccia di isolare la Russia se non fa certe cose. E quindi per risolvere l’affare Skripal bisogna chiedersi: quali sono queste cose che Stati Uniti e Gran Bretagna vogliono? Beh, una è che la Russia spinga la Corea del Nord a smantellare il proprio programma nucleare, cosa che, come è normale che sia, avverrà solo se l’esercito Usa lascerà la penisola. Un altro obiettivo di Washington è che Mosca se ne vada dalla Siria. Trump ha dichiarato la settimana scorsa di volersi ritirare dalla Siria. La domanda però è: se l’America se ne va, cosa farà Mosca? Queste sanzioni sono un segnale: avete visto cosa possiamo fare per ferirvi, vi lasceremo stare se ve ne andrete dalla Siria. Un altro obiettivo è forse quello di far desistere la Russia dall’aiutare l’Ucraina orientale.Gli Stati Uniti, quando vogliono isolare un paese, di solito lo accusano di guerra chimica. Basti pensare a quando Bush disse che l’Iraq aveva armi chimiche di distruzione di massa. Sappiamo che era una bugia. Oppure ad Obama quando disse che Russia ed Assad stavano usando armi chimiche in Siria. Penso dunque che quando dicono che la Russia o Assad o l’Iraq stanno usando armi, questo sia un modo per generare paura, di modo che l’esercito possa venir dispiegato. Trump ha ripetuto ciò che ha detto quando era candidato alla presidenza. Vuole che i paesi europei paghino di più i costi militari della Nato. Lo va dicendo da più di un anno. E penso che sia questa il vero nocciolo dell’affaire Skripal. Usando una cosa abietta come le armi chimiche, si vuole creare un’isteria anti-russa che consenta ai governi Nato di raccogliere molto più budget militare di quanto non facciano ora dagli Stati Uniti. Costringerà tutti i loro paesi a pagare il 2% del proprio Pil al complesso militar-industriale americano. Quindi, in sostanza, l’affare Skripal è stato messo in piedi per spaventare le popolazioni e consentire alla Nato di aumentare le spese militari nell’industria della difesa Usa.Le popolazioni diranno: aspettate un attimo, i bilanci europei non possono monetizzare un deficit di bilancio; se raccogliamo più spese militari per la Nato allora dovremmo ridurre le nostre spese in welfare. Il caso Skripal è dunque una scusa per cercare di addolcire il popolo europeo, di spaventarlo dicendo “sì, è meglio che paghiamo per le pistole, possiamo fare a meno delle cose importanti”. È la stessa situazione in cui erano gli Stati Uniti negli anni ’60, ai tempi della guerra del Vietnam. Queste accuse credo servano anche per comminare sanzioni che interrompano il commercio occidentale con Russia e Cina, impedendo a compagnie assicurative come la Lloyd’s di assicurare spedizioni e trasporti. Le banche direbbero che non daranno più questi servizi a Russia. E la sanzione parallela sarebbe quella di bloccare le banche statunitensi. Dal ’91, anno in cui l’Unione Sovietica è stata sciolta, il deflusso di capitali verso l’Occidente è stato di circa 25 miliardi di dollari l’anno. Ciò significa un quarto di trilione di dollari in un decennio e mezzo trilione di dollari in 20 anni. Il deflusso è continuato fino a poco tempo fa al ritmo di 25 miliardi all’anno. Proprio nelle ultime due settimane avete letto sui giornali il chiasso sulle banche lettoni, “veicoli per il riciclaggio di denaro russo”… come se l’Occidente fosse veramente sorpreso. È il motivo esatto per cui le banche lettoni sono state istituite!Già prima della caduta dell’Unione Sovietica, nell’88 ed ’89, Grigory Luchansky, che lavorava per l’Università della Lettonia a Riga, fu il vettore che diede vita al Nordex come modo per il Kgb e l’esercito russo di spostare i propri soldi fuori del paese. Miliardi di dollari all’anno hanno attraversato le varie banche lettoni negli ultimi 25 anni. La loro attività principale è stata quella di ricevere i depositi russi, per poi trasferirli in Occidente nelle banche britanniche o nelle corporations del Delaware. Sono stato per un certo periodo direttore di ricerca e professore di economia per la facoltà di legge di Riga – circa sei o sette anni fa – per cui ho avuto regolarmente a che fare col governo lettone, col primo ministro e coi regolatori delle banche. Tutti mi hanno spiegato che il precipuo scopo delle banche lettoni era quello di incoraggiare i deflussi di capitali della Russia verso l’Occidente. Dal punto di vista americano, questo era un modo per prosciugare il nemico. L’idea era quella di spingere la privatizzazione neoliberista su servizi pubblici, risorse naturali e proprietà immobiliari russi. Si diceva: «Prima di tutto, privatizzate beni pubblici come Norilsk Nickel e compagnie petrolifere come Khodorkovsky. Ora che le avete in mano, l’unico modo per guadagnare denaro, dato che non ci sono soldi rimasti in Russia, è venderli all’Occidente».E così, in pratica, hanno svenduto queste aziende accumulando enormi capitali, tramite falsa fatturazione delle esportazioni, spostando il denaro principalmente nelle banche britanniche. È per questo che si vedono i cleptocrati russi acquistare proprietà molto cospicue a Londra e rilanciare sul prezzo del patrimonio immobiliare londinese. Ora tutto questo ha tremendamente prosciugato la Russia, che ora minaccia di confiscare i beni dei cleptocrati. Questi ultimi adesso sono spaventati e stanno riportando i propri soldi in patria, lontano dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti, dalle corporation del Delaware, dalle Isole Cayman o da dovunque li abbiano messi. Questo mentre ci sono sanzioni contro quelle banche americane che prestano soldi alla Russia. Si assiste dunque a questo immenso afflusso di dollari e sterline verso Mosca, che ora li sta usando per costruire le proprie riserve di oro. Nel tentativo di far male alla Russia, minacciandone gli oligarchi, in realtà si sta fermando l’esodo di capitali, e ciò sta avvenendo come conseguenza delle privatizzazioni.(Michael Hudson, dichiarazioni rilasciate a Michael Palmieri per l’intervista “Il retroscena economico dietro all’avvelenamento di Skripal”, pubblicata da “Counterpunch” il 6 aprile 2018 e tradotta da Hmg per “Come Don Chisciotte”. Eminente economista, professore emerito all’università del Missouri-Kansas City, il professor Hudson è stato analista finanziario e consulente finanziario a Wall Street. Tuttora presidente dell’Istituto per lo Studio delle Tendenze Economiche di Lungo Termine, nel 2012 ha partecipato al primo summit italiano sulla Mmt, Modern Money Theory, promosso a Rimini da Paolo Barnard).Chiunque abbia visto i film di James Bond sa che 007 può uccidere i propri nemici. E gli Stati Uniti ammazzano gente da anni, vedasi Allende e le decine di migliaia di leader sindacali e professori universitari. L’amministrazione Obama ha preso di mira paesi stranieri persino per i propri attacchi di droni, sminuendo le vittime civili come danno collaterale. Nessun paese straniero ha interrotto le proprie relazioni con Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro paese che usa l’assassinio mirato come scelta politica. Questa pretesa, senza alcuna prova, che la Russia abbia ucciso qualcuno è dunque irricevibile. La domanda quindi è: perché stanno facendo questo? Perché stanno imponendo sanzioni e montando una gran campagna pubblicitaria? Per avere la risposta, facciamo un passo indietro ed analizziamo meglio questa reazione, che sembra così fuori dell’ordinario per britannici, americani e Nato. Per i neofiti, le sanzioni fanno parte di un gioco diplomatico progettato per contrastare i guadagni russi. Quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto le proprie sanzioni bancarie, hanno giustificato la cosa dicendo che quella era un atto dimostrativo: se voi russi pensate di poter fare dei profitti, vi faremo perdere ancor più di quanto potreste guadagnare.