Archivio del Tag ‘silenzio’
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Al-Qaeda, il killer pagato della Nato: scandalo in Turchia
Il “banchiere” di Al-Qaeda, Yasin al-Qadi, ricercato dagli Stati Uniti dopo gli attentati contro le loro ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998, era un amico personale sia dell’ex vicepresidente Usa Dick Cheney sia dell’attuale primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha visitato almeno quattro volte nel 2012 facendo scalo a Istanbul dove – grazie alle telecamere oscurate – ha aggirato i controlli doganali, sotto la protezione degli agenti sicurezza turchi. Secondo la polizia e i magistrati turchi che hanno rivelato queste informazioni e incarcerato i collaboratori di svariati ministri coinvolti nel caso, il 17 dicembre 2013 – prima di essere spogliati delle indagini o sollevati dal loro incarico dal primo ministro – Yasin al-Qadi e Erdoğan avevano sviluppato un vasto sistema di distrazione di fondi per finanziare Al-Qaeda in Siria, racconta Thierry Meyssan, secondo cui lo scandalo che sta scutendo la Turchia rivela che Al-Qaeda, in realtà, «ha sempre combattuto gli stessi nemici dell’Alleanza Atlantica», fin dalla sua nascita nel 1979 come struttura di guerriglia contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan.Nel momento in cui questo incredibile doppio gioco veniva portato alla luce ad Ankara, continua Meyssan in un post tradotto da “Megachip”, la polizia turca ha fermato vicino al confine siriano un camion che trasportava armi per Al-Qaeda. «Delle tre persone arrestate, una dichiarava di trasportare il carico per conto della Ihh, l’associazione “umanitaria” dei Fratelli Musulmani turchi, mentre un’altra affermava di essere un agente segreto turco in missione». In definitiva, il governo ha ostacolato la giustizia, confermando che «il trasporto era un’operazione segreta del Mit (i servizi segreti turchi)», e ha ordinato che il camion e il suo carico potessero riprendere il loro cammino. L’inchiesta mostra anche che il finanziamento turco di Al-Qaeda usava un’industria iraniana, sia per agire sotto copertura in Siria sia per condurre operazioni terroristiche in Iran. «La Nato disponeva già di complicità a Teheran durante l’operazione “Iran-Contras” presso i circoli vicini all’ex presidente Rafsanjani, come lo sceicco Rohani, divenuto poi l’attuale presidente».Questi fatti, aggiunge Meyssan, sono intervenuti nel momento in cui l’opposizione politica siriana in esilio lancia una nuova teoria alla vigilia della Conferenza di Ginevra: le milizie qaediste che hanno seminato strage in Siria sarebbero creature dei servizi di Assad, incaricate di terrorizzare la popolazione per indurla ad accettare la protezione del regime. «Saremmo dinque pregati di dimenticare tutto il bene che la stessa opposizione in esilio diceva di Al-Qaeda da tre anni, così come il silenzio degli Stati membri della Nato sulla diffusione del terrorismo in Siria». Pertanto, se si può ammettere che la maggior parte dei leader dell’Alleanza atlantica ignorasse del tutto il sostegno della loro organizzazione al terrorismo internazionale, per Meyssan «si dovrà anche ammettere che la Nato è il principale responsabile mondiale del terrorismo».Finora, le autorità Nato hanno sostenuto che il movimento jihadista internazionale, da esse sostenuto in occasione della sua formazione durante la guerra in Afghanistan contro i sovietici, si sarebbe ritorto contro di loro dopo la liberazione del Kuwait nel 1991. Gli Stati Uniti accusano Al-Qaeda di aver attaccato le ambasciate Usa in Kenya e in Somalia nel 1998 e di aver fomentato gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, ma ammettono che dopo la morte “ufficiale” di Osama Bin Laden, nel 2011, «certi elementi jihadisti hanno nuovamente collaborato con loro in Libia e in Siria». Tuttavia, Washington avrebbe messo fine a questo riavvicinamento tattico nel dicembre 2012. «In realtà, questa versione è contraddetta dai fatti», sottolinea Meyssan, perché Al-Qaeda ha sempre combattuto dalla parte della Nato, come ora viene confermato anche dallo scandalo turco.Il “banchiere” di Al-Qaeda, Yasin al-Qadi, ricercato dagli Stati Uniti dopo gli attentati contro le loro ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998, era un amico personale sia dell’ex vicepresidente Usa Dick Cheney sia dell’attuale primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha visitato almeno quattro volte nel 2012 facendo scalo a Istanbul dove – grazie alle telecamere oscurate – ha aggirato i controlli doganali, sotto la protezione degli agenti sicurezza turchi. Secondo la polizia e i magistrati turchi che hanno rivelato queste informazioni e incarcerato i collaboratori di svariati ministri coinvolti nel caso, il 17 dicembre 2013 – prima di essere spogliati delle indagini o sollevati dal loro incarico dal primo ministro – Yasin al-Qadi e Erdoğan avevano sviluppato un vasto sistema di distrazione di fondi per finanziare Al-Qaeda in Siria, racconta Thierry Meyssan, secondo cui lo scandalo che sta scutendo la Turchia rivela che Al-Qaeda, in realtà, «ha sempre combattuto gli stessi nemici dell’Alleanza Atlantica», fin dalla sua nascita nel 1979 come struttura di guerriglia contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan.
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Via i parassiti della finanza, e avremo ancora un futuro
Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.Di conseguenza, osserva Colonna su “Clarissa”, torna alla ribalta il ruolo del Mediterraneo: decisivo snodo geografico e culturale tra Africa, Vicino Oriente ed Europa, il “mare nostrum” «diverrà, se possibile, ancora più rilevante di quanto non lo sia già stato dalla fine del XIX secolo, quale linea di comunicazione vitale per gli imperi anglosassoni, oltreché frontiera fra il Nord ed il Sud del mondo». Di recente, il protagonismo neo-coloniale della Francia (appoggiato da Usa e Israele) ha relegato l’Italia a «alla semplice condizione di piattaforma logistica dei grandi alleati occidentali». Ma se l’Occidente deve comunque fare il conti con la Cina, questo influisce anche sul nuovo ruolo della Russia di Putin, la cui condizione ricorda quella dell’impero zarista di cent’anni fa, schiacciato a oriente dalla potenza giapponese e ad occidente dall’impero germanico.Oggi, riconosce Colonna, la politica estera russa ha costruito un asse preferenziale con la Cina, dato che in Occidente la pressione della Nato e degli Usa non si è minimamente allentata, né l’Unione Europea ha saputo smarcarsi dalla vecchia politica atlantica ereditata dalla guerra fredda. Smaltita la «passeggera ubriacatura filo-occidentale» del disastroso governatorato di Eltsin, «pur non perseguendo più una politica da superpotenza» la Russia post-sovietica «non rinuncia al suo ruolo di grande potenza sullo scenario mondiale», e per questo non rinuncia «ad una propria forte capacità militare, in grado di tutelare i propri fondamentali interessi strategici». Ora, alla luce della nuova gravitazione del mondo sull’Oceano Pacifico, si tratta di vedere se la Russia di Putin «seguirà la propria vocazione asiatica oppure quella europea».E’ davvero singolare, osserva Colonna, che l’Europa «continui a seguire pedissequamente i desiderata americani, rivolti ad isolare la Russia sul piano internazionale, invece di perseguire una propria assai più realistica politica di avvicinamento ed integrazione con il grande paese che costituisce la sola efficace copertura del nostro continente rispetto a qualsiasi ambizione cinese». Ma il peggio è in assoluto l’Italia: ancora una volta, il nostro paese si “scopre” collocato – dalla geografia e dalla storia – al crocevia delle forze da cui dipende il futuro del pianeta, ma le classi dirigenti italiane non se ne sono accorte. In loro c’è una «evidente mancanza di coscienza» dell’importanza geopolitica dello Stivale. E questo è «uno dei fattori più gravi e preoccupanti della nostra attuale condizione storica». Colonna la definisce «devastante pochezza» di uomini «privi di un sentire vivamente operante e non retorico per la patria». Mezzi uomini, «colpevolmente ignari delle prove che anche l’Italia si troverà presto a dover affrontare».Là fuori, infatti, impazza la grande crisi: ci si muove tra macerie economiche, provocate dall’oligarchia finanziaria che ha devastato la “democrazia del lavoro”. «La lezione del 2007-2008 non è stata compresa: basterebbe questa affermazione per definire lo scenario dell’economia mondiale dei prossimi mesi e anni», sostiene Colonna. «I grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie sistemiche dell’economia mondiale, dimostrano di non volere e di non potere rinunciare all’orientamento speculativo che è insieme all’origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell’ultimo quinquennio». Questa avidità cieca è anche «il fondamento stesso del potere dei “padroni dell’universo”, come questi oligarchi amano definirsi». Lo dimostra il fatto che «nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari all’adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi». Ovvero: paradisi fiscali, finanza speculativa fuori controllo e agenzie di rating che si fingono soggetti terzi, ma sono in realtà pilotati e pienamente complici dei grandi speculatori.L’Occidente ha risposto in un solo modo, cioè tutelando i monopolisti del crimine finanziario: negli Usa coi salvataggi delle banche “troppo grandi per fallire”, tenute in piedi coi dollari della Fed, e in Europa spremendo senza pietà paesi interi, con super-tasse e tagli selvaggi alla spesa vitale, cioè “fiscalizzando” le rovinose perdite del sistema finanziario internazionale, il cui conto viene fatto pagare ai lavoratori. Nessuna alternativa in campo, finora, «per il semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari mondiali a condizionare gli Stati-nazione dell’Occidente, grazie alla formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle alternanze di governo e dalle competizioni elettorali». Classe dirigente «cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale». Si tratta di «una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale», visto che il popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale (la sovranità) e anche della sua principale forza politica (il lavoro).La finanziarizzazione dell’economia ha infatti trasformato i sistemi industriali, togliendo al lavoro ogni potere contrattuale: dagli anni ’80 la finanza controlla le aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati “merce” sui mercati finanziari mondiali, distogliendo il management dall’economia reale, cioè strategie produttive e commerciali. Conseguenza: progetti dalla vita sempre più breve, anziché investimenti, ricerca e sviluppo. Da parte della proprietà industriale, si è così «accentuata la tendenza a servirsi degli utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che reinvestire nel futuro delle imprese». Per questo, oggi, i grandi gruppi bancari «preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a spese della collettività nell’acquisto di titoli di Stato piuttosto che nel credito alle Pmi». E il peggio è che tutto questo è avvenuto nel silenzio generale della politica, incapace di elaborare un’alternativa «ai dogmi dell’economia speculativa».Risultato: «Si è persa l’occasione per prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un radicale mutamento di rotta». Pre-condizione: l’emancipazione dell’economia reale. «Imprenditori, lavoratori e consumatori» dovrebbero cioè liberarsi «dal controllo dell’oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione politica dei partiti», prendendo il mano «istituzioni autonome dell’economia reale», in grado di «esigere il controllo, per esempio, della moneta e del credito». Inoltre, la crescente consapevolezza dei “limiti allo sviluppo” «impone anch’essa che le forze dell’economia reale, piuttosto che rincorrere le asticelle statistiche della “ripresa”, si impegnino a riorganizzare la produzione», in tutti i campi: energia, tecnologia, servizi, beni di largo consumo. Servono «prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e durata». In sostanza, per Colonna, serve una nuova alleanza strategica: imprenditori, lavoratori e consumatori devono accordarsi per sconfiggere la finanza parassitaria, e quindi «liberare l’economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto».Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.
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La grande truffa della storia, scritta dai vincitori
Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.Ma davvero l’oblio è il medicamento da somministrare dopo ogni conflitto? No, si può fare anche il contrario, se i vincitori sono generosi patrioti. L’esempio è quello degli Stati Uniti che, dopo la fine della guerra civile a metà degli anni Sessanta del XIX secolo (proprio mentre l’Italia si unificava malamente), scelsero di includere i vinti, elevandoli al rango di co-fondatori della nuova nazione. Questo fatto, da noi poco noto, mi colpì molto quando vivevo negli Stati Uniti perché non ti aspetti quella quantità di monumenti, nomi di strade, memorial, che trasformano i nemici di un tempo in patrioti degni di onore. Sarebbe come se in Italia, dopo l’8 settembre 1943, i vinti repubblichini fossero stati promossi al rango di “patrioti avversari” co-fondatori della nuova Repubblica.Sappiamo come andò nella realtà. E a questo proposito Mieli affronta il caso di Giampaolo Pansa, famoso giornalista “di sinistra” che provocò una rottura verticale nel conformismo italiano, guidato dalla legge dell’oblio e, peggio, dalla legge della memoria asimmetrica dei vincitori. Ho sempre pensato che se la guerra l’avesse vinta la Germania, avremmo avuto poi infiniti musei e celebrazioni della memoria dei genocidi di Stalin e dei suoi campi di concentramento, e la Shoah sarebbe stata ignorata, o trattata come un fatto marginale su cui alcuni storici anticonformisti avrebbero sollevato il velo mezzo secolo più tardi. Il tabù infranto da Pansa vieta ai non fascisti di parlare del sangue dei vinti durante la guerra, ma poi anche delle esecuzioni pianificate per classe sociale nel “triangolo della morte” emiliano.Le imprese della Volante Rossa e le stragi successive alla Liberazione, che non furono lo strascico di «comprensibili vendette contro gli aguzzini», ma il passaggio dalla guerra contro tedeschi e fascisti repubblichini alle procedure per instaurare un regime comunista manu militari: ci volle il freddo realismo di Stalin e del suo impassibile portavoce Palmiro Togliatti per bloccare l’ondata insurrezionale, in nome del nuovo ordine nato a Yalta. La convenzione impose che di quei fatti nessuno dovesse più parlare e una lastra di piombo ateniese asfaltò ogni memoria e ogni verità. Nulla nelle scuole, nulla in tv. Degli effetti di quell’oblio sono stato io stesso testimone e vittima. Quando fui eletto nel giugno 2002 presidente della Commissione d’inchiesta sugli agenti russi in Italia (non soltanto le banali e oneste spie, ma anche agenti d’influenza) ebbi la candida idea di proporre ai post comunisti che occupavano la metà del nostro parlamentino un patto d’onore: sediamoci, dissi, intorno a un tavolo e lavoriamo insieme per voltare finalmente pagina, affrontando tutti i temi roventi del passato (la Commissione Mitrokhin era stata chiesta per primo da D’Alema quando la notizia di uno schedario russo reso pubblico fece impazzire la sinistra per le accuse reciproche di “collaborazionismo” sovietico).La condizione che pongo, aggiunsi, è che prima dobbiamo leggere tutti insieme e con accuratezza quella pagina, e poi voltarla. Ma avevo avuto torto: nessuno, da quella parte, aveva intenzione di condividere alcuna verità e di restituirla al Paese. La risposta che ebbi fu sprezzante: venne lanciata una campagna diffamatoria preventiva accusandomi di voler usare la Commissione «come una clava». La parola d’ordine lanciata da D’Alema sulla “clava” diventò una goccia cinese. I giornali russi fecero eco scatenando una campagna di derisione e di falsità contro la commissione del Parlamento italiano e i giornali si schierarono dalla parte della legge-bavaglio, certificando che io non potevo che essere un provocatore. Al mio informatore segreto Alexander “Sasha” Litvinenko fu inflitto il supplizio di Socrate con una pozione letale di moderna cicuta, l’isotopo Polonio 210. La legge di Atene dopo la cacciata dei Trenta era e resta in vigore. Per fortuna, Scotland Yard non ha mollato l’osso quanto a Litvinenko, ma questa è un’altra storia.E dunque, seguendo la linea de “I conti con la storia”, viene da chiedersi chi e che cosa scriverà fra un secolo, o fra cinquanta anni, sull’Italia di oggi, sui veleni della guerra civile a bassa intensità intorno a Berlusconi e all’antiberlusconismo. Ci penseranno gli storici? Secondo Mieli è possibile: la pratica dovrebbe essere gestita dagli storici nei tempi e modi necessari per spurgare le incandescenze emotive ed ideologiche a causa delle quali la storia è usata proprio come “una clava” dalla politica. Come dire che a un certo punto bisogna saper dire basta. L’Italia più di ogni altro Paese mostra quanto indigesto sia il proprio passato anche recente, su cui gli storici professionisti in fondo non possono granché: è un dato di fatto, ricorda, che la sua unità sia stata costruita su molte menzogne. I cittadini degli Stati preunitari dovettero rinnegare le loro identità precedenti raccontandosi a suon di urla e marcette militari di essere stati tutti da sempre ardenti patrioti italiani.Quando arrivò il momento, tutti diventarono entusiasti reduci della Grande Guerra, compresi i milioni che l’avevano avversata nelle piazze. Poi arrivò il momento in cui tutti si dichiararono fascisti da sempre e, subito dopo, antifascisti da sempre, quando si assistette all’improvvisa comparsa in ogni famiglia di indomabili zii e nonni anarchici, meglio se ferrovieri, che con eroica ostinazione avevano rifiutato la tessera del fascio. Nello stesso momento milioni di italiani dichiararono di aver salvato uno o più ebrei, che non erano più di cinquantamila. Alla caduta della Prima Repubblica non si trovava più un socialista craxiano o un democristiano del Caf a pagarlo oro: il camaleontismo opportunista continuerà ad essere l’elemento distintivo del carattere degli italiani, come aveva notato Leopardi. Quanti sono oggi i forconisti “da sempre”? E quelli che «mi ha telefonato Matteo» dopo anni in cui «mi ha telefonato Massimo» e l’ormai lontano «mi ha chiamato Bettino»?Si può davvero scrivere la storia con gente come questa fra i piedi? Mieli ne dubita. Tuttavia può capitare persino che gli storici, se possono alternare sulla testa il cappello dell’opinion leader oltre quello dello storico, abbiano l’opportunità di modificare il corso della storia come fece Mieli quando, direttore del “Corriere della Sera”, decise di pubblicare nel 1994 il famoso avviso di garanzia che provocò il ribaltone e la caduta del primo governo Berlusconi da cui fu generato il governo Dini, la conseguente sconfitta del centrodestra in Italia del 1996 costretto a una lunga apnea fino al 2001. Cito l’evento perché ho ragionevoli dubbi sulla neutralità degli storici. A complicare le cose ci si mettono pure figure retoriche e organismi reali che agiscono e interagiscono sui fatti come il “politicamente corretto”. L’ipocrisia ha poi perfezionato le sue armi con le agenzie delle Nazioni Unite e con i Tribunali internazionali a baricentro non occidentale che hanno come target finale Israele un po’ come la Procura di Milano punta a Berlusconi.Il “politicamente corretto” impedisce per esempio di dire che la tratta degli schiavi africani venduti, trasferiti in catene in America, dal Brasile ai Caraibi, dalla Martinica alle colonie britanniche, non fu fatta dai bianchi europei (mai dagli americani) ma dagli arabi che si servivano di tribù schiaviste di neri africani in un continente che praticava lo schiavismo da oltre mezzo millennio prima che arrivassero i bianchi a comperare insieme agli sceicchi. Ebbene, oggi ci sono Stati africani le cui leggi spediscono in galera chi osa dubitare che lo schiavismo africano sia stato un crimine dei bianchi colonialisti. Il libro di Mieli è una straordinaria e quasi infinita serie di narrazioni certificate autentiche e paradossali d’ipocrisie. È un libro fortemente anticonformista e sconvolgente.Se Calvino fa ardere vivo lo studioso della circolazione sanguigna Michele Serveto in combutta con l’Inquisizione spagnola (fascine verdi per il rogo e un collare di paglia cosparso di zolfo), che dire del grande cancelliere tedesco Bismarck (ammiratore del Risorgimento italiano) che ordinò di impiccare tutti gli abitanti maschi (compresi vecchi e bambini) della città di Ablis dove i francesi avevano catturato sessanta soldati tedeschi? L’ordine fu immediatamente eseguito senza che nessun avversario di Bismarck avesse nulla da ridire. La storia che Mieli viviseziona è quasi sempre falsificata dai vincitori: quando Hitler invase la Polonia nel 1939, il suo alleato e fervido ammiratore Stalin invase secondo gli accordi russo-tedeschi la Polonia da Est. L’Armata Rossa compì ogni sorta di violenza e crimini, senza contare lo scandalo della consegna reciproca fra svastica e falce e martello di rifugiati ebrei contro rifugiati anticomunisti sul ponte di Brest-Litovsk. Il risultato è che dopo la fine della guerra si conoscono solo i crimini tedeschi, non quelli sovietici.E ancora sui fatti di casa nostra: Mieli sostiene che i leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che l’unità fu fatta in un modo che non aveva nulla a che fare con gli ideali risorgimentali che prevedevano un’Italia del Nord. Invece le cose andarono diversamente: gli inglesi mollarono il re di Napoli, la mafia e la camorra scesero in campo con Garibaldi e il re sabaudo, così come sarebbero scese in campo con gli americani che risalivano la penisola dalla Sicilia. Per due volte tenuti a battesimo dalla mafia, quale sorpresa di fronte a uno Stato in parte geneticamente mafioso? I conti con la storia non finiranno mai, è vero, ma bisogna pur cominciare a farli se vogliamo dare una mano non solo agli storici ma anche ai cittadini futuri per aiutarli, aiutarci, a guarire dalla genetica ipocrisia.(Paolo Guzzanti, “Dall’Unità a Berlusconi, la storia è un’arma politica”, da “Il Giornale” del 21 dicembre 2013. Il libro: Paolo Mieli, “I conti con la storia”, Rizzoli, 422 pagine, euro 19,50).Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.
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Srm, scudo solare chimico: l’alibi per la guerra climatica
«Se partiamo dal presupposto che nel 2025 la nostra strategia di sicurezza nazionale includerà la modificazione del clima, il suo uso nella nostra strategia militare nazionale sarà la naturale conseguenza». Modificare il clima: era l’orizzonte a cui già nel lontano 1996 puntava la Air University, una dépendance dell’aviazione Usa con sede nella base aerea di Maxwell, in Alabama. A quanto pare, avvertono Giulietto Chiesa e Paolo De Santis citando fonti delle Nazioni Unite, la “conquista” del clima è già cominciata: per l’Ipcc, il panel scientifico dell’Onu sul clima, la creazione di uno “scudo termico” per proteggere la Terra dall’irraggiamento del sole sarebbe l’unica possibilità di scongiurare la catastrofe del surriscaldamento globale. Lavori già in corso da tempo? «Nessuno di noi ne deve sapere nulla, perché evidentemente la missione è stata interamente delegata ai militari». E mentre i “debunker” tentano di ridicolizzare chi parla di “scie chimiche”, il Palazzo di Vetro squarcia un velo sulle nuove frontiere della geo-ingegneria. E ammette: nessuno è in grado di valutarne gli “effetti collaterali” sul pianeta.
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Ustica, strage impunita e cimitero di testimoni scomodi
Un caccia francese che “si nasconde” dietro un aereo di linea italiano e lo colpisce per errore con un missile, in realtà indirizzato contro un altro velivolo: il Mig libico a bordo del quale poteva esserci Gheddafi. Lo disse Francesco Cossiga nel 2007, accreditando una possibile ricostruzione definitiva della strage di Ustica, 27 giugno 1980, quando il Dc-9 dell’Itavia decollato da Bologna e diretto a Palermo esplose in volo e finì in fondo al Tirreno, 81 vittime tra equipaggio e passeggeri. Ma la strage infinita ha continuato a uccidere. Misteri e depistaggi: più di 20 testimoni scomodi, per lo più militari, tutti scomparsi. Strani malori, suicidi apparenti, omicidi, incidenti stradali e aeronautici. Fascicolo riaperto il 23 febbraio 2013 – dopo milioni di pagine giudiziarie – su esposto dell’associazione antimafia “Rita Atria”. Il sospetto: forse non fu un incidente aereo, ma un attentato, quello che nel ’92 costò la vita all’ex pilota militare Alessandro Marcucci, caduto vicino a Cecina a bordo del velivolo anticendio pilotato da un collega, Silvio Lorenzini, anch’esso rimasto ucciso.Rosario Priore, il pm che più di ogni altro ha indagato sul disastro di Ustica, parla di testimoni «venuti a conoscenza di fatti diversi dalle ricostruzioni ufficiali». Piloti e controllori radar che «rivelano la loro conoscenza in ambiti strettissimi», ma non così riservati. Al punto che la loro verità viene «percepita da ambienti che li stringono od osteggiano anche in maniera pesante, e così ne restano soffocati». Impossibile non convincersene: molti dei morti all’indomani della strage «erano a conoscenza di qualcosa che non è stato mai ufficialmente rivelato, e da questo peso sono rimasti schiacciati». Lo scenario mette paura, perché quella notte sul mare e nel cielo tra Ponza e Ustica c’erano navi militari italiane e americane, caccia libici, aerei da guerra francesi, italiani e statunitensi. Un’esercitazione aeronavale della Nato, in grande stile, sconvolta dall’abbattimento incidentale del Dc-9. Dopodiché: tracce radar cancellate, silenzi e depistaggi. E naturalmente, omicidi.Il primo a morire, già il 3 agosto 1980, è il colonnello pilota Pierangelo Tedoldi: incidente stradale. Tedoldi era a capo dell’aeroporto di Grosseto, competente su uno dei radar coinvolti, quello di Poggio Ballone. Un anno dopo, il 9 maggio 1981, lo segue un collega, il capitano Mario Gari: “infarto”. Quattro mesi più tardi, il 2 settembre, ci rimette la pelle in un’esercitazione il colonnello dell’aeronautica Antonio Gallus. Era amico dei due piloti delle Frecce Tricolori, Mario Naldini e Ivo Nutarelli, che cadranno nella strage di Ramstein nel 1988. Li seguirà un altro amico, il tenente medico Giampaolo Totaro, trovato impiccato nella base friulana di Rivolto, nel ‘94. Era convinto che gli aerei dei piloti della squadra acrobatica fossero stati sabotati. Ma già all’inizio degli anni ’80, cioè poco dopo Ustica e i primi tre decessi anomali – Tedoldi, Gari e Gallus – fa scalpore un’uccisione eccellente: quella di Aldo Semerari, criminologo e collaboratore del Sismi, legato all’ultra-destra, trovato decapitato nella sua auto a Ottaviano il 25 marzo 1982 (lo seguirà a pochi giorni di distanza la segretaria, Maria Fiorella Carrara).Secondo il giornalista Gianni Lannes, autore del blog “Su la testa”, il professor Semerari – coinvolto nella strage di Bologna e nei casi Cirillo e Pecorelli, oltre che nelle trame “depistate” dalla Banda della Magliana – “non poteva non sapere” di Ustica. E’ invece un secondo incidente stradale, il 23 gennaio 1983, a uccidere il sindaco di Grosseto, il socialista Giovanni Battista Finetti. Aveva raccolto confidenze da ufficiali dell’aviazione: la sera della strage di Ustica, due caccia italiani F-104 si erano levati in volo dalla base toscana per intercettare un Mig-23 libico. Quello in effetti ritrovato sulla Sila il 18 luglio, due settimane dopo la strage di Ustica, con accanto il cadavere del pilota? Quattro anni dopo la morte del sindaco di Grosseto, il 20 marzo 1987 cade a Roma – crivellato di proiettili – il generale di squadra Licio Giorgeri, assassinato da un commando «per le responsabilità da lui esercitate in seguito all’adesione italiana al progetto delle guerre stellari». Firma il comunicato una sigla fantomatica: “Unione combattenti comunisti”.Per Giovanni Spadolini, «Giorgieri non aveva nessun rapporto diretto con l’iniziativa di difesa strategica». Attentato anomalo. All’epoca di Ustica, ricorda Lannes, il generale triestino faceva parte dei vertici del Rai, il Registro aeronautico italiano, responsabile del quale era il generale Saverio Rana, morto “per infarto”. Proprio Rana fu il primo a parlare di missili, scartando le altre ipotesi su Ustica (bomba terrorista a bordo, collisione o cedimento strutturale del velivolo). Dettaglio: dall’amico Giorgieri, racconta Lannes, il generale Rana – convinto socialista e, ai tempi, pilota personale di Pietro Nenni – aveva ricevuto tre fotocopie di tracciati radar e, subito dopo la strage, riferì al ministro Formica la presenza di un caccia vicino al Dc-9 dell’Itavia.Dieci giorni dopo Giorgieri, cominciano a morire i marescialli dell’arma azzurra: il 30 marzo viene trovato impiccato sul greto del fiume Ombrone il sottufficiale Mario Alberto Dettori, nell’80 controllore della difesa aerea al centro radar di Poggio Ballone. Era di turno proprio la sera della strage. Tornò a casa sconvolto: «E’ successo un casino», disse alla moglie, «qui vanno tutti in galera». E l’indomani, alla cognata: «Siamo stati a un passo dalla guerra, c’era di mezzo Gheddafi». Un altro maresciallo, Ugo Zammarelli, muore investito da una moto il 12 agosto 1988, a Gizzeria Marina. Niente autopsia, mentre i bagagli spariscono dall’albergo. In forza alla base Nato di Decimomannu, in Sardegna, Zammarelli non era in Calabria in vacanza: stava conducendo un’inchiesta personale sul Mig libico, afferma Lannes. Tempo due settimane, e nel cielo di Ramstein di schiantano le Frecce Tricolori di Naldini e Nutarelli. La sera maledetta, quella di Ustica, i due si erano alzati in volo a bordo dei loro F-104 con il compito di intercettare il Mig libico. Al giudice Priore, l’imprenditore Andrea Toscani ha rivelato le confidenze di Naldini: «Quella notte c’erano tre aerei. Uno autorizzato, due no. Li avevamo intercettati, quando ci dissero di rientrare».Si entra negli anni ’90, ma la strage dei testimoni continua. Il 1° febbraio 1991 cade un altro maresciallo dell’aeronautica, Antonio Muzio, freddato con tre colpi di pistola a Pizzo Calabro. Nel 1980 era in servizio alla torre di controllo dell’aeroporto di Lamezia Terme. Un anno dopo, precipita – esploso in volo? – il ricognitore antincendio di Silvio Lorenzini con accanto Alessandro Marcucci, tenente colonnello dell’aviazione e nell’80 pilota militare a Pisa. Marcucci aveva indagato su Ustica, attingendo a fonti indirette. Aveva scoperto qualcosa? L’indagine riaperta – salme riesumate per l’autopsia – proverà a stabilire se sia stato effettivamente ucciso. L’aereo è caduto il 2 febbraio ’92. Stesso giorno della morte dell’ennesimo maresciallo dell’aeronautica, Antonio Pagliara: incidente stradale, ancora. Nell’80, Pagliara era controllore della difesa aerea a Otranto. Un anno dopo, a Bruxelles, qualcuno uccide invece a coltellate un vero e proprio teste-chiave, l’ex generale Roberto Boemio, consulente dell’Alenia presso la Nato. Il Belgio, che non ha ancora risolto il caso, vede coinvolti «servizi segreti internazionali».Su Ustica, il generale Boemio aveva cominciato a collaborare con la magistratura: il suo nome, ricorda Lannes, compare tra i riscontri di innumerevoli contestazioni processuali fatte ai generali allora responsabili dell’aeronautica. Nell’80, proprio da Boemio dipendevano la base strategica di Martinafranca in Puglia e i centri radar di Jacotenente, Marsala e Licola, coinvolti nell’allarme per la presenza di caccia non identificati nel cielo di Ustica e di una portaerei in navigazione nel Tirreno al momento dell’esplosione del Dc-9. «Boemio – aggiunge Lannes nella sua ricostruzione – s’era anche occupato di uno dei due Mig-23 fatti ritrovare da Cia e Sismi sulla Sila proprio il 18 luglio ’80». Sempre Lannes include nella lista dei possibili testimoni “suicidati” anche il colonnello del Sismi Mario Ferraro, trovato morto in circostanze inverosimili il 16 luglio 1995 nella sua casa di Roma, impiccato con la cintura dell’accappatoio a un appendi-asciugamano che non avrebbe potuto reggere al suo peso.Esperto di terrorismo e traffico d’armi, Ferraro era l’uomo che a Beirut ricevette l’ordine di attivare contatti con le Br tramite l’Olp “per la liberazione di Moro”, ben 14 giorni prima che Moro venisse sequestrato. Sempre nel ’95, a fine anno (21 dicembre) ancora un maresciallo dell’aeronautica viene trovato morto, anche lui impiccato: è Franco Parisi, rinvenuto appeso a un albero alla periferia di Lecce. Nel maledetto 1980 era controllore della difesa aerea al centro radar di Otranto, di turno il 18 luglio – giorno in cui sarebbe avvenuto il fantomatico incidente del Mig. Il giudice Priore l’aveva interrogato, riscontrando «palesi contraddizioni» nella sua deposizione, probabilmente frutto di «minacce nei suoi confronti». Non c’è stato il tempo di riascoltarlo: gli hanno trovato strane lesioni alla nuca, mentre il cadavere (nonostante la corda al collo) aveva i piedi che poggiavano sul terreno. Strano suicidio anche quello di Michele Landi, consulente informatico della Guardia di Finanza oltre che del Sisde, trovato impiccato «con le ginocchia sul divano» il 4 aprile 2002 nella sua casa vicino a Guidonia.Per Umberto Rapetto, il generale delle Fiamme Gialle che ha denunciato la maxi-evasione miliardaria delle slot machines, è un gesto inspiegabile: «Landi era gioioso, non soffriva assolutamente di depressione». Però aveva confidato agli amici di conoscere novità compromettenti su Ustica. «L’hanno suicidato i servizi segreti, come storicamente in Italia sanno fare», ha detto agli inquirenti il magistrato Lorenzo Matassa, a cui Landi avrebbe «riferito di sapere molte cose su Ustica». In passato, rileva Lannes, il tecnico aveva lavorato sui sistemi di puntamento missilistici ed era stato in contatto con la società Catrin, «la stessa con cui collaborava Davide Cervia, il tecnico di guerra elettronica, misteriosamente scomparso il 12 settembre ’90». Ad abbattere il Dc-9 dell’Itavia fu un missile: lo prova la grandine di sferule d’acciaio conficcate nell’aereo, esplose da un razzo a frammentazione. Ma, dopo 33 anni, ancora non si sa chi l’abbia sparato. Per non parlare di tutte le altre strane morti, successive alla strage. Un vero e proprio cimitero di testimoni.Un caccia francese che “si nasconde” dietro un aereo di linea italiano e lo colpisce per errore, con un missile in realtà indirizzato contro un altro velivolo: il Mig libico a bordo del quale poteva esserci Gheddafi. Ne parlò Francesco Cossiga nel 2007, accreditando una possibile ricostruzione definitiva della strage di Ustica, 27 giugno 1980, quando il Dc-9 dell’Itavia decollato da Bologna e diretto a Palermo esplose in volo e finì in fondo al Tirreno, 81 vittime tra equipaggio e passeggeri. Ma la strage infinita ha continuato a uccidere. Misteri e depistaggi: più di 20 testimoni scomodi, per lo più militari, tutti scomparsi. Strani malori, suicidi reali o apparenti, omicidi, incidenti stradali e aeronautici. Fascicolo riaperto il 23 febbraio 2013 – dopo milioni di pagine giudiziarie – su esposto dell’associazione antimafia “Rita Atria”. Il sospetto: forse non fu un incidente aereo, ma un attentato, quello che nel ’92 costò la vita all’ex pilota militare Alessandro Marcucci, caduto vicino a Cecina a bordo del velivolo anticendio pilotato da un collega, Silvio Lorenzini, anch’esso rimasto ucciso.
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Lerner: Mario Caniggia, l’Italia che disse no all’orrore
Si è spento a Pozzengo, nella nostra Vallecerrina, il partigiano Mario Caniggia. Nel rendergli omaggio vi propongo l’introduzione che alcuni anni fa scrissi al suo libro di memorie sulla Brigata Monferrato. Adesso la fotografia della brigata partigiana “Monferrato” che entra vittoriosa a Torino il giorno della Liberazione, è appesa qui nella mia stanza di lavoro in cascina. Tra gli altri c’è lui, Mario Caniggia, ancora ragazzo ma reso uomo da un’esperienza di quelle che segnano la vita intera. E che spetta alla nostra comunità democratica tramandare di generazione in generazione. Ricordo ancora il pomeriggio assolato in cui un signore dai capelli bianchi si affacciò timidamente alla porta di casa. «Disturbo? Era da tanto tempo che non venivo qui. Eppure il posto mi è familiare, qui s’è sparato. I repubblichini tiravano col mortaio dall’altura di Odalengo Piccolo, un nostro compagno è stato ferito alla gamba, i tedeschi presidiavano il fondovalle…».Ho chiamato i miei figli perché lo ascoltassero e gli stringessero la mano, grati. Mario Caniggia era venuto da un paese vicino, Pozzengo, a testimoniarci la storia che nobilita il nostro territorio. Già sapevamo che le due case diroccate sul bricco della vigna, alle nostre spalle, erano il rifugio dei partigiani valcerrinesi. I vecchi le chiamano ancora così: le case dei partigiani. Un nome che la nostra famiglia s’impegna a mantenere vivo. Caniggia raccontava e gli si inumidivano gli occhi. Non aveva ancora compiuto diciotto anni quando fece la scelta del rischio e della coerenza, e gli toccò guardare in faccia la morte dei suoi compagni. Ma non solo: la morte per rappresaglia dei civili innocenti, come i capifamiglia e il parroco di Villadeati. Quella sua emozione si è trasmessa a noi stretti intorno a lui, ed è come se avesse permeato di sé le mura di cascina Bertana, gli ippocastani e il prato lì davanti, il ruscello, la collina… luoghi incantevoli che racchiudono una storia significativa, e dunque acquistano un valore da non disperdere.Dal giorno di quella visita indimenticabile, a ogni visitatore che viene anche da lontano io mi sento in dovere di raccontare quel che è stato. Per ricordare a me stesso e agli altri che il passaggio della libertà, la via stretta e dolorosa della lotta di liberazione dal nazifascismo, si sono realizzati solo grazie al fatto che tante persone semplici, perbene, hanno trovato in se stesse la forza di dire no all’indifferenza. Senza quel movimento dal basso, senza l’eroismo silenzioso di chi ha sentito come un dovere schierarsi contro un potere oppressivo, forse i nazifascisti sarebbero stati sconfitti lo stesso (ma chissà quando, dopo mesi o anni di ulteriori sofferenze). Senza i partigiani la società del dopoguerra non avrebbe potuto guardarsi allo specchio, digiuna di buoni esempi e di cultura democratica.Ogni tanto incontro ancora Mario Caniggia, magari la domenica mattina al mercato di Valle Cerrina. Delle volte par quasi che voglia scusarsi, con quel sorriso impacciato, del peso della storia di cui è portatore. Come se recasse fastidio a noi fortunati che siamo arrivati dopo, e percorriamo ignari lo stesso territorio. Come se noi avessimo il diritto di infischiarcene di quel che è stato, solo l’altro ieri, nel Monferrato Casalese così come in tante altre parti d’Italia. Dimenticare significherebbe ricadere nell’analfabetismo della coscienza. Insista, Mario Caniggia, finchè ne ha le forze. Faccia parlare questi luoghi per quel che di tragico hanno vissuto, perché altrimenti nulla potrà garantirci che l’oppressione liberticida, la discriminazione razziale, il terrore della rappresaglia, possano ripetersi.Quando Mario Caniggia mi ha consegnato il manoscritto della sua testimonianza sulla VII Divisione Autonoma “Monferrato”, insieme alla fotografia in cui si riconosce lui giovane partigiano Alì, l’ho letta d’un fiato. Sono rimasto colpito dalla sua sobrietà piemontese. Si trova qui un’interpretazione difficilmente contestabile a episodi tragici, come la strage di Villadeati, su cui di recente una storiografia scandalistica (Giampaolo Pansa) invano tenta di riaprire controversie. Sono lieto che l’Anpi di Alessandria abbia confermato il valore storico di questo memoriale, contributo prezioso a una storia del nostro territorio. E’ con orgoglio e gratitudine che ne raccomando ai giovani la lettura. Anche pensando al mio più caro amico, ebreo casalese, di vent’anni più anziano di me, che su queste colline ha trovato rifugio e salvezza grazie alla generosità di persone incapaci di voltare la testa dall’altra parte.(Gad Lerner, “In memoria del partigiano Mario Caniggia, Brigata Monferrato”, dal blog di Lerner del 15 dicembre 2013).Si è spento a Pozzengo, nella nostra Vallecerrina, il partigiano Mario Caniggia. Nel rendergli omaggio vi propongo l’introduzione che alcuni anni fa scrissi al suo libro di memorie sulla Brigata Monferrato. Adesso la fotografia della brigata partigiana “Monferrato” che entra vittoriosa a Torino il giorno della Liberazione, è appesa qui nella mia stanza di lavoro in cascina. Tra gli altri c’è lui, Mario Caniggia, ancora ragazzo ma reso uomo da un’esperienza di quelle che segnano la vita intera. E che spetta alla nostra comunità democratica tramandare di generazione in generazione. Ricordo ancora il pomeriggio assolato in cui un signore dai capelli bianchi si affacciò timidamente alla porta di casa. «Disturbo? Era da tanto tempo che non venivo qui. Eppure il posto mi è familiare, qui s’è sparato. I repubblichini tiravano col mortaio dall’altura di Odalengo Piccolo, un nostro compagno è stato ferito alla gamba, i tedeschi presidiavano il fondovalle…».
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La geopolitica della menzogna: come distorcere la storia
Nel suo “Invece della catastrofe”, Giulietto Chiesa afferma senza giri di parole che la lotta di classe è stata storicamente neutralizzata: attraverso il sistema dei media, il “nemico” è riuscito a far credere agli sfruttati di essere soci del club fortuna. Così, il grande capitale ha scatenato l’offensiva finale, prendendosi tutto. «Si poteva evitare questa capitolazione, l’onta di essere assaliti alle spalle quasi senza colpo ferire?». Forse, sostiene Alberto Melotto, «a patto di riconoscere che la cognizione degli uomini, la loro capacità di discernere la realtà esterna, passa attraverso l’abbeverarsi a quella fontana generosa, multicolore e mai spenta che è la società dello spettacolo: chi controlla quei canali di immissione di contenuti fittizi può formare come morbida argilla la coscienza di interi popoli». Disinformazione e consenso attraverso i media, ovvero: la geopolitica della menzogna. E’ il tema di un saggio di Paolo Borgognone, deciso a smascherare l’inganno quotidiano su cui si basano le strategie di dominio.Nella prefazione di Giulietto Chiesa, è in primo piano la strage messa in atto alla maratona di Boston. Mostri da sbattere in prima pagina, i fratelli Dzhokar e Tamerlan Tsarnaev, ceceni, dunque islamici, “quindi” terroristi. Cronache improbabili sull’uccisione di Tamerlan, lungo strade affollate di misteriosi addetti alla sicurezza. «Già Edgar Allan Poe, nel racconto “La lettera rubata” ci diceva che spesso la verità va messa in primo piano per poterla meglio nascondere, e in questo i media americani (ed europei) sono davvero maestri», scrive Melotto su “Megachip”. «Ci troviamo di fronte a un altro tassello di quella strategia della tensione su scala planetaria, in versione “bigger than life” per restare all’idioma yankee, che predispone l’uditorio ad una supina passività, ad una studiata altalena di acquiescenza e di smodata partecipazione emotiva, fatta di paura e di aggressività». Dalla orwelliana “settimana dell’odio” siamo giunti a questo lungo, interminabile decennio post 11 Settembre, dove si induce l’essere umano a «rifugiarsi nel già pensato».Il capitolo Siria? Ci ha portati a un passo dalla guerra mondiale. E alcuni fattori, come «il tardivo orgoglio del Parlamento britannico, scottato dalla sacra alleanza Bush-Blair (“We won’t get fooled again”, cantavano gli Who)» ci hanno evitato gli scenari peggiori, ma intanto «la ruota dell’intrattenimento globale ha ripreso a girare, e non ci sarà tempo per risolvere le cause di questo e del prossimo conflitto». Borgognone smaschera «molti farisei del politicamente corretto», denunciando la disinformazione costruita nel ‘900 contro l’Urss: «L’Occidente ha demonizzato l’esperienza d’oltrecortina non soltanto per scongiurare le nefaste (a suo modo di vedere) inclinazioni verso la società degli uguali, ma anche per allontanare il pericolo di un modo di intendere l’esistente che non poteva essere “normalizzato” e ridotto agli standard di questa parte di mondo». La stampa occidentale, scrive, «non ha mai indagato le origini e i fondamenti culturali, sociali e di integrazione comunitaria della tradizione russa. Ha preferito insistere sul tema della russofobia, della slavofobia».Borgognone, impegnato da anni nel Civs (Centro iniziative verità e giustizia), analizza da vicino il caso di un quotidiano come l’Economist”, rappresentante di quell’alta borghesia atlantica che, dall’alto del suo “prestigio”, riesce a condizionare le politiche di parlamenti e di Stati sovrani. Né sorprende che sia tenero verso “Occupy Wall Street”, movimento che considera innocuo, sostanzialmente giovanilista e “liberal”. Idem per gli Indignados, dove le particelle anarco-libertarie convivono coi «bravi ragazzi di buona famiglia, che vogliono solo allargare le maglie del sistema per entrare a farne parte in pianta organica». Ma se il pubblico occidentale è totalmente indifeso di fronte ai “produttori di falsità”, le cose cambiano in Sudamerica, dove il popolo non si fida del mainstream e dispone ancora di anticorpi difensivi, contro lo strapotere delle televisioni legate alle grandi corporations. Sono proprio i cittadini del Venezuela, nel 2002, a respingere il golpe contro Hugo Chàvez, deposto per aver democratizzato l’economia nei settori-chiave dell’agricoltura, della pesca e degli idrocarburi, tradizionale appannaggio dell’élite. Mentre Bush e Aznar salutano il “ritorno della democrazia” nell’insediamento dell’industriale golpista Pedro Carmona Estanga, è proprio il popolo a gonfiare per protesta le vie di Caracas, nel nome di Chàvez, reclamando verità e giustizia fino a convincere l’esercito a rimettere in sella il presidente legittimo. Ma, mentre i cecchini sparavano sulla folla facendo 200 morti tra i manifestanti, le reti televisive trasmettevano a tambur battente cartoni animati e filmetti come “Pretty woman”.Il caso di Cuba, che occupa la parte finale del volume di Borgognone, secondo Melotto «mostra in modo ancor più evidente – e più imbarazzante per noi occidentali – quanto il racconto di parte sappia tacere, svilire, nascondere fatti che saprebbero destare, questo sì, genuino scandalo, se solo qualcuno si prendesse la pena di renderli noti». Il 6 ottobre 1976 muoiono 73 passeggeri su un volo di linea cubano, appena decollato dalle Barbados. A capo del commando terroristico, il pediatra Orlando Bosch, stretto collaboratore della Cia e leader degli anti-castristi di Miami. «E ancora, epidemie procurate ad hoc» che fecero strage di animali ed esseri umani. «Tutto questo per ripristinare un’olimpica condizione di signoraggio che aveva luogo ai tempi di Fulgenzio Batista». Dall’analisi di Borgognone esce male anche una campionessa del dissenso come Yoani Sanchez, in realtà riempita di dollari per fare propaganda contro Cuba. Molto denaro, annota Melotto: ogni mese, l’equivalente di due anni di salario cubano. E’ così che «la classe dei dissidenti va in paradiso».(Il libro: Paolo Borgognone, “La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media”, Zambon editore, 240 pagine, 12 euro. Volume I: “La disinformazione strategica. Caratteri peculiari del fenomeno e analisi del caso latinoamericano”).Nel suo “Invece della catastrofe”, Giulietto Chiesa afferma senza giri di parole che la lotta di classe è stata storicamente neutralizzata: attraverso il sistema dei media, il “nemico” è riuscito a far credere agli sfruttati di essere soci del club della cuccagna. Così, il grande capitale ha scatenato l’offensiva finale, prendendosi tutto. «Si poteva evitare questa capitolazione, l’onta di essere assaliti alle spalle quasi senza colpo ferire?». Forse, sostiene Alberto Melotto, «a patto di riconoscere che la cognizione degli uomini, la loro capacità di discernere la realtà esterna, passa attraverso l’abbeverarsi a quella fontana generosa, multicolore e mai spenta che è la società dello spettacolo: chi controlla quei canali di immissione di contenuti fittizi può formare come morbida argilla la coscienza di interi popoli». Disinformazione e consenso attraverso i media, ovvero: la geopolitica della menzogna. E’ il tema di un saggio di Paolo Borgognone, deciso a smascherare l’inganno quotidiano su cui si basano le strategie di dominio.
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Ci tosano come Cipro: e grazie ai forconi, non se ne parla
Eterodiretti? Chissà. Una cosa è certa: «Il timing è perfetto». Come quando è esplosa a Istanbul la protesta di Gezi Park (per poi sparire subito) nel momento in cui «la Turchia di Erdogan doveva essere un po’ spennata sui mercati finanziari perché cresceva troppo e qualche scommessa era a rischio». O come adesso in Ucraina, dove «le proteste vanno avanti da settembre, ma solo ora che è diventato conveniente speculare su quel paese hanno assunto proporzioni mediatiche». Attenzione, avverte Mauro Bottarelli: nei giorni dell’emergenza “forconi”, in Italia stanno succedendo cose inenarrabili: «Ci sono almeno tre banche clinicamente morte che andranno o salvate o mantenute in vita artificialmente», l’indice Mib va male, Banca Etruria ha perso il 22% in due sedute e necessita di un aumento di capitale «miracolistico» ed è appena stato tagliato il rating di Banca Carige, «eppure lo spread non si muove». Che sta succedendo? Semplice: in sede europea è stato appena ufficializzata l’introduzione della procedura-Cipro: prelievo forzoso sui correntisti. E nessuno, per ora, ne deve parlare.
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Neoliberisti: bugiardi e falliti, ma ancora guru sui media
Michael Joffe, professore di economia all’Imperial College di Londra, ha scatenato una polemica sui media britannici, imbarazzando molti suoi colleghi con una domanda formulata nel corso di una conferenza organizzata dal Tesoro sul tema dell’insegnamento dell’economia in tempi di crisi: perché, si è chiesto Joffe, tanti professori continuano a insegnare teorie che la realtà sta smentendo? A un collega ha chiesto: perché hai inserito nel tuo ultimo libro di testo una teoria palesemente falsificata? Risposta: l’ho fatto perché l’editore se l’aspettava. Nel frattempo, segnala Carlo Formenti, qualcosa si muove: l’Istituto per il rinnovamento del pensiero economico (Inet), presieduto da un altro docente di economia della Oxford University, Eric Beinhocker, si è fatto promotore di una campagna per rompere l’egemonia del pensiero mainstream (rigorosamente liberista) nelle università. Obiettivo: restituire serietà scientifica all’economia, tornando a dare spazio alle teorie di Keynes e Marx – che spiegano la crisi attuale assai meglio di altre.Queste posizioni, come riferisce il “Guardian”, sono state accolte con simpatia dagli studenti di alcune facoltà di economia che contestano i loro docenti con le stesse motivazioni. «Sarebbe auspicabile che qualcosa di analogo succedesse finalmente anche in Italia», scrive Formenti su “Micromega”, ma sa che un ravvedimento è improbabile: «Non perché da noi manchino professori di economia che esprimono posizioni radicalmente critiche nei confronti delle teorie mainstream, ma perché la totale convergenza ideologica fra destra, centro e sinistra che si è determinata nel nostro paese, che vede l’intera classe dirigente schierata a difesa dei dogmi liberisti, si rispecchia in un sistema dei media che si è trasformato in un vero e proprio ufficio di propaganda di quegli stessi dogmi, negando ogni spazio a posizioni alternative».I vari Alesina e Giavazzi – ironicamente battezzati “Bocconi Boys” dall’americano Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, «impazzano quotidianamente sulle pagine del “Corriere della Sera”, mentre i loro omologhi occupano militarmente quelle di quasi tutti gli altri quotidiani oltre agli spazi dei telegiornali». Sono gli eredi dei “Chicago Boys”, la scuola ultra-liberista alla radice dell’attuale sfacelo: hanno sbagliato tutte le previsioni, ma nessuno lo ammette. «Si crea così una situazione che la studiosa tedesca di comunicazione Noelle Neumann definiva “spirale del silenzio”, situazione che si determina quando un’opinione fortemente sostenuta dai media e dal potere politico diventa talmente maggioritaria da “zittire” ogni opinione contraria», aggiunge Formenti. Così, in attesa che si aprano spiragli per rompere l’assedio, «siamo costretti a subirci lezioni come quelle del “naziliberista” Lord Nigel Lawson – ex ministro del governo Thatcher – il quale, intervistato da Danilo Taino (“Corriere della Sera”), ci spiega che in Italia le cose vanno male perché da noi lo Stato pesa ancora troppo (!?) e che la salvezza potrà venire solo se e quando anche noi potremo usufruire a nostra volta di un “Momento Thatcher”».Michael Joffe, professore di economia all’Imperial College di Londra, ha scatenato una polemica sui media britannici, imbarazzando molti suoi colleghi con una domanda formulata nel corso di una conferenza organizzata dal Tesoro sul tema dell’insegnamento dell’economia in tempi di crisi: perché, si è chiesto Joffe, tanti professori continuano a insegnare teorie che la realtà sta smentendo? A un collega ha chiesto: perché hai inserito nel tuo ultimo libro di testo una teoria palesemente falsificata? Risposta: l’ho fatto perché l’editore se l’aspettava. Nel frattempo, segnala Carlo Formenti, qualcosa si muove: l’Istituto per il rinnovamento del pensiero economico (Inet), presieduto da un altro docente di economia della Oxford University, Eric Beinhocker, si è fatto promotore di una campagna per rompere l’egemonia del pensiero mainstream (rigorosamente liberista) nelle università. Obiettivo: restituire serietà scientifica all’economia, tornando a dare spazio alle teorie di Keynes e Marx – che spiegano la crisi attuale assai meglio di altre.
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Pil e cemento: i veri assassini della Sardegna alluvionata
Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d’acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l’elenco di piaghe descritte nel Libro dell’Esodo, gli ha dato la definizione di “piena millenaria”. La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d’acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie.I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l’Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e “prevalente” che sta a monte.È uno spazio addomesticato, quella pianura ideale, segnato da linee d’asfalto, case, scantinati, capannoni, e mille altri segni di “sviluppo” che la separano dal passato rurale e la proiettano in un mondo magico e progressivo che fa a meno della geologia. Olbia alla fine della seconda guerra mondiale era un borgo di diecimila abitanti, oggi ne ha sei volte di più. E dove ha fatto il nido tutta questa gente nuova? Lo ha fatto là dove volevano gli speculatori e dove la portava la corrente dell’abusivismo: dove un tempo c’erano stagni e dove scorrevano magri torrenti. Le “piene millenarie”, proprio perché hanno memorie lunghissime, ricordano ogni tanto che dove il fiume è già passato tanti anni fa, prima o poi ci ripassa ancora. In autunno in Sardegna e in altre regioni non sono infrequenti i flash flood. Non possono essere considerati eventi sorprendenti. Solo che un tempo il torrente gonfiato dalle tempeste autunnali aveva modo di diluirsi in un suolo intatto, o di sfogarsi in canali costruiti a regola d’arte, senza alvei intombinati che lo accelerassero, né ponti che diventassero dighe prima di cedergli il passo.Olbia è crescuta in fretta, è un piccolo emblema dell’ideologia della crescita libera che ripudia qualsiasi pianificazione. Il Pil veniva prima di tutto, e perciò si doveva dimenticare che una vera città, prima di tante altre cose, è un sistema idraulico artificiale che si sovrappone a un sistema idraulico naturale. Olbia però andava oltre. Non si sovrapponeva alla natura, la sostituiva senza criterio. L’onda del Pil era un flutto di cemento che impermealizzava ettari ed ettari, al galoppo. Poi, ieri, fine corsa. All’acqua della città, incanalata senza regola e non più assorbita, si è aggiunta l’acqua della montagna, e tutto è stato devastato. Ora la cronaca ha il suo momento di frastuono, di pianti, di governanti che snocciolano compunti i milioni stanziati per l’emergenza: Enrico Letta 20 milioni, Ugo Cappellacci 5 milioni. Dev’essere lo stesso Cappellacci che ha guidato un’amministrazione che ha revocato 1,5 milioni di euro destinati alla difesa del suolo e contro il dissesto idrogeologico.Certo, quei milioni non sarebbero bastati, nemmeno a Olbia, interessata negli ultimi decenni anni da 17 (diciassette) “piani di risanamento”. Cioè: prima si lasciava fare, senza permessi, poi si condonava, si “risanava”, senza nemmeno completare fogne, argini. Niente di niente. Erano bolli e timbri aggiunti ai fatti compiuti: fatti irrimediabili, ferite non sanabili se non abbattendo tutto. Ma come fai ad abbattere interi quartieri? Risanare, ma per davvero, costa molte volte di più del gesto iniziale, mai fermato, che cambiava natura a quel pezzo di territorio. Facile strapparsi i capelli adesso. I nomi dei quartieri olbiesi sommersi di oggi c’erano già tutti in un articolo del 2010. Era un trafiletto di cronaca locale sul “rischio alluvione”. La prevenzione non fa notizia, non porta voti, non mobilita risorse, non diventa la pagina d’apertura di “Repubblica”. È solo un misero fondino di un giornale locale che non rompe il silenzio. La gente non sa, e crede perciò di stare nel suo Belpaese di pianura, senza pericoli, senza colline, e senza verità sul clima.Negli anni in cui la Regione Sardegna fu guidata da Soru (2004-2009) venne approvato un piano paesaggistico fra i più avanzati al mondo, molto chiaro nel considerare il paesaggio un bene pubblico non negoziabile. Dopo, a livello nazionale e regionale, vi è stata una pressione costante per una nuova liberalizzazione edilizia e per abrogare le regole restrittive, in nome dello sviluppo e della crescita, e al diavolo i geologi. Proprio un geologo, Fausto Pani, sul sito “sardiniapost.it”, in veste di autore del Pai (Piano stralcio per l’assetto idrogeologico) e del Piano delle fasce fluviali, si toglie oggi qualche detrito dalla scarpa: «Solo pochi giorni fa i sindaci interpellati dicevano che nei loro paesi non pioveva così tanto, che il Piano stralcio delle fasce fluviali era tutto sbagliato e bloccava lo sviluppo dei Comuni. Oggi chiederei a quegli stessi amministratori locali se la pensano ancora allo stesso modo».Infatti il problema non è solo Olbia. Uno dei comuni più colpiti dall’alluvione è Terralba, nell’oristanese. Ho visto in Tv il sindaco di centrosinistra Pietro Paolo Piras con la faccia tesa del tipico sindaco in lotta sincera con il disastro, circondato da uomini della protezione civile. Poche settimane fa proprio Piras partecipava a una manifestazione a Cagliari contro il Piano per le fasce fluviali. Lo considerava troppo rigido. Persino le norme di una giunta post-Soru, teoricamente più morbida con chi vuole sviluppo edilizio, non andavano bene a una parte della gente di Terralba. Lo scorso 15 giugno un comitato locale aveva impiccato decine di fantocci per opporsi «con fermezza al piano delle fasce fluviali previsto dalla Regione e ai vincoli idrogeologici che limitano lo sviluppo del territorio». Uno dei promotori spiegava: «Devono fare una scelta politica, con questi vincoli ci stanno condannando a morte. Tutte le attività rischiano di scomparire e non ci sarà uno sviluppo futuro per il nostro paese».Alle magnifiche sorti e progressive di Terralba ha però bussato il Rio Mogoro, un torrentello spesso asciutto che per un giorno è diventato l’Orinoco. Gli impiccatori di fantocci hanno maneggiato in modo molto imprudente i simboli. Parafrasando una vecchia storia, l’ultimo sviluppista è disposto a vendere la corda con la quale verrà impiccato. Adesso la ricostruzione, nel far girare denaro, farà bene al Pil. È forse cinico dirlo, ma dopo le catastrofi naturali, questo succede in molti casi. E, nel crescere, il Pil dimostrerà ancora una volta di non essere la misura corretta del vero benessere. Quel pezzo di società civile che rimuove in modo dissennato e cocciuto la vera natura del nostro suolo, quelle classi dirigenti la cui mentalità è intimamente modellata dalla stessa concezione del territorio, si trovano davanti a una scelta. La scelta non è “costruire oppure no”: è semmai cosa costruire senza consumare ancora di più il suolo, cosa costruire per salvaguardarlo nella sua integrità, fare manutenzione costante e piccoli interventi sulle infrastrutture che già ci sono, e finirla con le grandi opere e le eterne emergenze. Finirla con il fantoccio della crescita infinita. Magari così ci sarà più lavoro, e meno senno del poi.Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d’acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l’elenco di piaghe descritte nel Libro dell’Esodo, gli ha dato la definizione di “piena millenaria”. La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d’acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie. I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l’Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e “prevalente” che sta a monte.
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Datagate, ovvero: a che serve la Nato senza più l’Urss
Siamo rimasti al guinzaglio della Nato anche dopo la fine dell’Urss? Non stupiamoci, allora, se il “grande alleato” ci sorveglia in modo invadente: teme la nostra libertà. E i leader europei – che fingono indignazione di fronte al Datagate – lo sanno benissimo. Com’era prevedibile, sullo scandalo sta calando una coltre di silenzio. Si improvviseranno «improbabili protocolli di garanzia della privacy» e Obama prometterà misure draconiane, ma poi tutto riprenderà come prima, in attesa della prossima puntata. Già, perché prima o poi, profetizza Aldo Giannuli, spunterà un altro “pentito” della Cia o della Nsa a risollevare la questione. Ma come mai nessuno si è chiesto perché i servizi europei abbiano docilmente collaborato con l’agenzia americana nello spionaggio dei loro leader? «Nessuno ha preso in considerazione il peso che in tutto questo ha la Nato», che è decisivo. Per un ufficiale europeo, la partecipazione a programmi Nato «è il modo migliore per fare una carriera folgorante. E se poi si riesce ad essere distaccati presso la sede centrale a Bruxelles, è il top».
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Casta, cosca e cupola: le tre C che ci stanno divorando
Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo si sono guadagnati un posto nella storia recente di questo sfortunato paese usando una definizione di una categoria sociale privilegiata e separata – la casta – per intitolare il più famoso dei loro instant-book: quello che metteva in fila nomi, cognomi e indirizzi dello sperpero del denaro pubblico e degli abusi di potere. Ma, dopo sei anni, ci si domanda: il loro indagare è servito a qualcosa? Oggi si scopre che «parlare di casta ha rappresentato quantomeno un limite», nonostante l’irrompere sulla scena di un movimento anti-casta come il 5 Stelle. «Quel che caratterizza infatti la causa prima della decadenza conclamata del nostro paese – osserva Claudio Giorno – non è ascrivibile solo alla inettitudine e alla corruzione, cresciute in modo esponenziale negli ultimi vent’anni, ma al legame indissolubile con altri due fenomeni di cui si parla, e molto, ma come fossero collegati solo occasionalmente tra di loro». La cosca e la cupola. Insieme alla casta, formano «le tre C che io credo siano indissolubilmente legate tra di loro». Sono «metastasi del cancro di cui l’Italia sembra affetta in forma terminale».