Archivio del Tag ‘Sergio Mattarella’
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Giannini: farsa anti-Silvio, i 5 Stelle verso l’inciucio col Pd
Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».Non si sono mai viste pressioni ed urgenze così “infestanti” per sostenere «il neoliberismo finanziario, estremista e globale», che in Italia «è equivalso a recessioni finanziarie e politiche di macelleria sociale». Ebbene: «Sarà un caso, ma subito dopo la prima “udienza” al Colle, Di Maio si è sperticato in elogi e lodi verso la permanenza nell’euro, nell’Ue e nel “Patto Atlantico”», scrive Giannini in una riflessione su “Come Don Chisciotte”. Intanto le settimane passano, e i vincitori delle elezioni «non si sono ancora accordati per cambiare l’Italia», voltando pagina rispetto al rigore che ha disastrato il paese. Prima del voto, continua Giannini, la Lega aveva fatto promettere solennemente al Cavaliere che non avrebbe tradito la coalizione con un nuovo “Nazareno” col Pd, ma a sua volta si era impegnata a non abbandonare Forza Italia per i 5 Stelle. A proposito: «Di Maio lo sa che quando dice “non rifaremo un Nazareno” si riferisce in primis al Pd? Allora perché ha dichiarato che è disponibile ad allearcisi?». Non può non sapere, Di Maio, che Salvini non potrebbe mai abbandonare Berlusconi: «Quindi evidentemente non vuole allearsi con la Lega, bensì col Pd».Resta una sola possibilità, «per trasformare il voto democratico in un fatto». Questa: tornare alle urne con una inedita coalizione. «Se Lega, e 5S (e FdI) davvero vogliono governare insieme – scrive Giannini – devono riportarci al voto presentandosi coalizzati, dando il colpo di grazia a chi ci ha portato nella catastrofe negli ultimi 25 anni». In quel modo si avrebbe «una maggioranza chiara e solida, rispettosa della volontà dei cittadini stufi di alchimie e alleanze post-elettorali diverse dalle coalizioni pre-voto». Alchimie di quel genere, ricorda Gianni, «hanno sempre generato governi catastrofici (Ciampi, Dini, D’Alema, Monti, Letta, Renzi». Non sarà per per timore di questa inedita coalizione che Calenda (Pd) adesso vorrebbe governare coi 5 Stelle addirittura creando una Bicamerale per cambiare legge elettorale? Un cartello con Salvini e Meloni costringerebbe i grillini a uscire allo scoperto: si vedrebbe «se davvero vogliono governare per il paese o se Berlusconi è per loro solo una scusa per finire comodamente all’esecutivo col Pd (e la Bonino)». Per i 5 Stelle, in ogni caso, è finita l’epoca del rifiuto delle alleanze. Parlamentari neo-eletti già “affezionati” alla poltrona? Si può comprendere, ma un governo-salvezza vale ben di più.L’inedita coalizione tra Di Maio, Salvini e Meloni avrebbe anche il merito di saldare il Sud al Nord, mentre un governo 5 Stelle-Lega con l’appoggio esterno di Forza Italia «renderebbe Berlusconi l’ombelico del mondo, in un costante e strumentale malpancismo». Per Giannini, «i cittadini italiani hanno il diritto di comprendere se ciò che passano i partiti e le Tv è reale o virtuale». Ovvero: si lotta per avere al timone una guida patriottica (euroscettica) oppure euro-entusiasta e quindi anti-italiana? «Nel primo caso, al tavolo con Merkel e Macron a decidere qualità e entità della famosa clausola di uscita concordata dall’euro si siederebbe anche l’Italia». Giannini invece ha il fondato sospetto che Forza Italia e 5 Stelle «stiano in realtà collaborando, mediante i ben noti veti incrociati». Obiettivi: non farcela sedere, l’Italia, a quel tavolo, perché «Berlusconi non può inimicarsi i “mercati” che detengono azioni Mediaset, mentre i 5 Stelle non si sa se sono ancora una forza autonoma o se sono diretti da soggetti con sede a Londra (appunto, i “mercati”)». Giannini ricorda che accettammo un rapporto d’ingresso catastrofico nell’euro (990 lire per 1 marco), che resta «il vero motivo delle nostre attuali sofferenze, perché non rispecchiante la nostra economia reale».Non partecipare al nuovo tavolo europeo «sarebbe una ripetizione della storia in farsa, per la felicità dei vari global-entusiasti Napolitano, Mattarella, Merkel, Draghi, Clinton». Nel frattempo, Di Battista si agita a bordo campo definendo “male assoluto” Berlusconi? «Il forte sospetto – scrive Giannini – è che tutto ciò serva a far passare in secondo piano l’austerity come vero dramma per l’Italia e far digerire la prossima alleanza col Pd». E intanto, al grido “bisogna fare in fretta” (tanto caro a Monti, nel 2011) i media cercano di spaventare l’italiano medio, di manipolarlo e di convincerlo che nuove elezioni sarebbero una catastrofe economica. Così provano a «incatenarci altri anni all’ennesimo governo inciucista, venduto come al solito per “responsabile”». Che poi è la vera specialità del Pd, massimo garante italiano – almeno finora – dell’ordoliberismo europeo fondato sull’austerity. Ce l’avranno il coraggio, i 5 Stelle, si saltare l’ostacolo e puntare a premiare l’espressione popolare del 4 marzo, alleandosi con Salvini e Meloni? Viceversa, dimostrerebbero di essere solo la versione 2.0 del Pd, in salsa populista ma con lo stesso traguardo: rassicurare i grandi poteri neoliberisti e privatizzatori che stanno spolpando l’Italia.Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».
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Intesa 5 Stelle-Lega? Scordatevi Flat Tax e reddito minimo
Il governo M5S-Lega è nelle cose e si farà, è solo questione di tempo. Ne è convinto Piero Sansonetti, ex direttore di “Liberazione” oggi alla guida de “Il Dubbio”. Ma non tutto potrebbe andare come previsto. Archiviato il vertice di Arcore e la grigliata Di Maio-Grillo-Casaleggio, sono tornate le bordate tra Salvini e il capo politico dei 5 Stelle. Il veto assoluto di Di Maio nei confronti di Berlusconi rende l’ipotesi impraticabile. Elezioni anticipate più vicine? «A me pare che il problema, più che Di Maio, sia Salvini», dice Sansonetti, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. «Il 4 marzo hanno vinto i populisti, che hanno preso più del 50 per cento. Però sono divisi in due partiti, M5S e Lega. In qualsiasi altro paese al mondo avrebbero già fatto il governo insieme». Perché il problema sarebbe Salvini? Perché, senza Berlusconi, il leader della si sente debole. «Però c’è poco da fare, l’alleanza di centrodestra è innaturale», sostiene Sansonetti. «Berlusconi non è più quello di 15 anni fa, si è spostato su posizioni moderate, centriste. Oggi è vicino alla Merkel. Come può Salvini andare a braccetto con la Merkel?».Il centrodestra è quindi destinato a rompersi: «Penso che alla fine Salvini farà il governo con Di Maio», dice Sansonetti. «Però capisco che per lui è una prova complicata, perché andrebbe al governo in una posizione di debolezza». D’altro canto, «ma non può pretendere di rappresentare il centrodestra: è solo l’ala leghista e nordista del populismo». Se ha preso meno voti di Di Maio non può farci nulla. «Per il resto, tutti parlano di crisi complicata, ma non è vero. E’ tutto chiarissimo. Si sa molto bene chi ha la maggioranza». Sul programma, aggiunge Sansonetti, Di Maio e Salvini sono d’accordo: «Flat Tax e reddito di cittadinanza sono due “ballon d’essai”: nessuno dei due crede né a una cosa né all’altra». Davvero? «Ma certo. E hanno già rinunciato. Di Maio ha spiegato cos’è il reddito di cittadinanza, ma se ce lo diciamo con parole nostre ci accorgiamo che non è altro che una cassa integrazione. Dal canto suo, Salvini sa benissimo che non si possono portare le tasse al 15%». Allora dove sta la questione? «Non si trovano d’accordo su chi fa il premier». Salvini ha già fatto passi indietro, Di Maio non ci pensa.Se Di Maio accettasse si sbloccherebbe tutto, scommette Sansonetti: «Andrà così, anche se non ho facoltà divinatorie. Non c’è nessun altro accordo possibile: Berlusconi e il centrosinistra non hanno la maggioranza, come fanno a fare un governo?». A proposito, Forza Italia e Pd sono destinati a diventare un unico partito? «Destinati non lo so, ma da qui a due-tre anni può darsi che succeda. Dopotutto sono l’ala destra e l’ala sinistra di una formazione moderata». Uno scenario avvalorato dal fatto che Di Maio e il gotha grillino, secondo “Affari Italiani”, starebbe pensando di mettere nel cassetto il diktat dei “due mandati e poi a casa”. Ovvero, più possibilità di rimanere sulla scena a fare politica. Dice Sansonetti: «Se il M5S cede sul premier e va da Salvini a dire “facciamo il governo insieme, lasciamo fuori tutti gli altri, concordiamo insieme il presidente del Consiglio”, come fa la Lega a dire di no?». Dunque è solo questione di tempo? «Sì. A volte però il tempo invece di far digerire le cose le manda di traverso. E’ imprevedibile». Cosa potrebbe succedere? «Che si vada alle elezioni anche se nessuno lo vuole. Quasi nessuno».C’è chi dice che Mattarella punti su un governo nei pieni poteri per fine giugno, quando ci sarà il Consiglio Europeo sulla riforma dell’Eurozona. Secondo altri, aggiunge Ferraù, non vorrebbe sciogliere le Camere: obiettivo, permettere a Forza Italia e Pd di assorbire la botta del 4 marzo e sopravvivere. «Mattarella è molto esperto e molto bravo, ma né lui né nessun altro è in grado di prevedere i flussi elettorali», osserva Sansonetti. Elezioni anticipate? «Io non credo che il risultato si scosterebbe di molto, ma non si può escludere nulla: gli spostamenti potrebbero favorire sia il Pd sia i 5 Stelle. E poi è improbabile che in un voto a ottobre Salvini e Berlusconi si presentino ancora uniti». Salvini al nord ha conquistato i collegi uninominali anche con i voti di Forza Italia, ma da solo potrebbe anche prendere di più. «Ci sarebbe un pezzo di elettorato che vota Salvini proprio perché non è alleato a Berlusconi. Se si dividono – aggiunge Sansonetti – può darsi benissimo che Salvini rubi voti ai 5 Stelle. Anzi, Salvini secondo me è l’unico che ha da guadagnarci, a tornare al voto».Il governo M5S-Lega è nelle cose e si farà, è solo questione di tempo. Ne è convinto Piero Sansonetti, ex direttore di “Liberazione” oggi alla guida de “Il Dubbio”. Ma non tutto potrebbe andare come previsto. Archiviato il vertice di Arcore e la grigliata Di Maio-Grillo-Casaleggio, sono tornate le bordate tra Salvini e il capo politico dei 5 Stelle. Il veto assoluto di Di Maio nei confronti di Berlusconi rende l’ipotesi impraticabile. Elezioni anticipate più vicine? «A me pare che il problema, più che Di Maio, sia Salvini», dice Sansonetti, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. «Il 4 marzo hanno vinto i populisti, che hanno preso più del 50 per cento. Però sono divisi in due partiti, M5S e Lega. In qualsiasi altro paese al mondo avrebbero già fatto il governo insieme». Perché il problema sarebbe Salvini? Perché, senza Berlusconi, il leader della si sente debole. «Però c’è poco da fare, l’alleanza di centrodestra è innaturale», sostiene Sansonetti. «Berlusconi non è più quello di 15 anni fa, si è spostato su posizioni moderate, centriste. Oggi è vicino alla Merkel. Come può Salvini andare a braccetto con la Merkel?».
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Magaldi: serve ben altro che il taglio (irrisorio) dei vitalizi
Non penseranno di cavarsela con la burletta dei famosi vitalizi, vero? Ben altre prove – assai più decisive, per il popolo italiano, di quei quattro spiccioli destinati agli ex parlamentari – attenderebbero Di Maio e Salvini, nel caso dessero un taglio ai minuetti e provassero a dar vita a qualcosa che assomigli ad un governo. A oltre un mese dal voto, sarebbe ora di darsi da fare: lo dice persino un compassato gentleman come Paolo Mieli, uno dei signori del mainstream italico, la tribuna vip che accolse Mario Monti come un salvatore della patria, Enrico Letta come il naturale successore e il suo “killer” Matteo Renzi come un formidabile rinnovatore, anche lui benedetto dagli stessi dèi. Ora è di scena l’ex impresentabile Di Maio: che aspetta a muoversi, onde annunciare poi a Mattarella di avere in tasca i numeri vincenti? Dopo il voto, lo stesso Mieli era tra quanti la prendevano con calma: tempo al tempo, nella speranza forse che il Pd si decidesse a dare udienza ai 5 Stelle. Ma ora l’intervallo sta scadendo. O meglio, dice Mieli, onnipresente nei talk-show: quei due hanno “spaccato” con argomenti forti, anzi fortissimi. Reddito garantito, tasse tagliate alla radice. Vogliamo cominciare a ragiornare, seriamente, per capire da che parte cominciare?Siamo nel mezzo di una torbida palude, dice un osservatore indipendente come Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché fustigatore pubblico della massoneria più onnipotente, il regno misterioso delle superlogge-ombra come quelle in cui milita George Soros, che firmerà un contributo speciale nel sequel di “Massoni”, saggio di prossima uscita. Già nel primo volume, Magaldi sostiene che l’Italia sia un campo di battaglia decisivo, riguardo al futuro dell’Europa, anche per il mondo esclusivo delle Ur-Lodges: da una parte la fazione dominante, reazionaria, che ha impugnato la clava del rigore finanziario demolendo benessere e diritti, e dall’altra i progressisti, riemersi dall’ombra con Bernie Sanders alle primarie americane e con Jeremy Corbyn alla guida dei laburisti inglesi. La Francia? Dopo la grande delusione di François Hollande, sponsorizzato dalla “Fraternité Verte”, all’Eliseo è tornata una pedina dell’oligarchia destrorsa, il finto outsider Emmanuel Macron, sorretto dalla supermassoneria neo-aristocratica – che infatti annuncia tagli devastanti al welfare e storiche mutilazioni del pubblico impiego. “En Marche”, ma dalla parte opposta: quella raccomandata dall’élite cha trasformato l’Unione Europea in un bagno penale per “popoli superflui”, per usare un’espressione di Marco Della Luna.Siamo nella palude, dice Magaldi a “Color Radio”, ma non è detto che dal fango fertile non nasca qualche fiore. Purché, appunto, non si monti una gazzarra fuorviante sulla quisquilia dei vituperati vitalizi, pari a zero nel bilancio delle cose che contano davvero. Per esempio: reddito di cittadinanza e scure sulle tasse. Post-keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, Magaldi tiene ai suoi distinguo: non è saggio pensare a un’assistenzialismo permanente, né a una Flat Tax come quella promessa da Salvini in campagna elettorale, con l’aliquota al 15%. Ma il reddito pentastellato è qualcosa di diverso: se ben amministrato, può essere un ammortizzatore molto utile, almeno in via temporanea. Beninteso: è il lavoro, il faro della riscossa del paese. E la leva strategica sono gli investimenti pubblici, destinati alle imprese private. Non si contano le infrastrutture ormai cadenti cui mettere mano, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Idem, le tasse: passi la boutade elettorale del 15%, ma non è pensabile che si continui a taglieggiare le aziende, messe in croce da uno Stato che sa essere efficiente solo quando veste i panni di esattore. Sono argomenti forti, quelli sul tappeto. L’importante è cominciare a spacchettarli: soccorso finanziario a chi è nei guai, e riduzione netta della tassazione. Si farà sul serio? Sappiano, i vincitori del 4 marzo, che l’Europa li sta guardando – insieme agli italiani che li hanno votati.Non pensino di cavarsela con la burletta dei famosi vitalizi. Ben altre prove – assai più decisive, per il popolo italiano, di quei quattro spiccioli destinati agli ex parlamentari – attenderebbero Di Maio e Salvini, nel caso dessero un taglio ai minuetti e provassero a dar vita a qualcosa che assomigli ad un governo. A oltre un mese dal voto, sarebbe ora di darsi da fare: lo dice persino un compassato gentleman come Paolo Mieli, uno dei signori del mainstream italico, la tribuna vip che accolse Mario Monti come un salvatore della patria, Enrico Letta come il naturale successore e il suo “killer” Matteo Renzi come un formidabile rinnovatore, anche lui benedetto dagli stessi dèi. Ora è di scena l’ex impresentabile Di Maio: che aspetta a muoversi, onde annunciare poi a Mattarella di avere in tasca i numeri vincenti? Dopo il voto, lo stesso Mieli era tra quanti la prendevano con calma: tempo al tempo, nella speranza forse che il Pd si decidesse a dare udienza ai 5 Stelle. Ma ora l’intervallo sta scadendo. O meglio, dice Mieli, onnipresente nei talk-show: quei due hanno “spaccato” con argomenti forti, anzi fortissimi. Reddito garantito, tasse tagliate alla radice. Vogliamo cominciare a ragiornare, seriamente, per capire da che parte cominciare?
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Piccole alchimie parlamentari per un paese in rottamazione
Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che torna protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite finanziaria che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.Tiene banco, ancora, il surreale connubio tra i 5 Stelle e i rottami del Pd, cioè il “nemico” dei grillini; accordo invocato da quell’Eugenio Scalfari che, a Di Maio, avrebbe preferito l’odiato Berlusconi. Tra i “pontieri”, dopo Scalfari, figurano personaggi come Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, Barbara Spinelli e Massimo Cacciari. Un giornalista come Marco Travaglio accusa Di Maio di non ascoltarli. Arrivare primi con quasi il 33% significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo – scrive Travaglio sul “Fatto” – ma questo non conferisce «il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis». E’ vero che l’inciucio lo vogliono solo i due “trombati” del 4 marzo, cioè Berlusconi e Renzi, «terrorizzati dalle rispettive ininfluenze e soprattutto da nuove elezioni», ma una maggioranza parlamentare va costruita, «facendo ai partner una proposta che non possano rifiutare». Ovvero? «La cosa sarebbe meno difficile se Di Maio aprisse la sua squadra di esterni ad altri indipendenti di centrosinistra, per un governo senza ministri parlamentari, e bilanciasse la sua premiership lasciando la presidenza di una Camera alla Lega». E poi «è sul programma che dovrebbe garantire il cambiamento che gli elettori hanno appena chiesto». Già: quale programma?Travaglio ricorda la proposta di Grillo nel 2013: «Eleggiamo Rodotà al Quirinale e poi governiamo insieme». E aggiunge: «Fu il Pd napolitanizzato e lettizzato, cioè berlusconizzato, a rifiutarla» (per Travaglio, dunque, il grande manovratore era Berlusconi, cioè l’omino ricattato e brutalmente disarcionato, due anni prima, dai padroni della Borsa). L’obiettivo di Napolitano, all’epoca: mantenere i 5 Stelle lontano dall’area di governo, dato che nel 2013 i grillini facevano ancora paura (più che al “povero” Silvio, ai veri poteri forti rappresentati da Napolitano: quelli che con Draghi e Trichet firmarono la condanna dell’Italia, affidata al commissario Monti). E oggi? Tutto è cambiato; da Scalfari in giù, è il vecchio mainstream a tifare per un’intesa che pare spaventi solo Renzi. Piccoli tatticismi, dove a contare non sono tanto le mosse dei leader, quanto il futuro dei rispettivi elettorati. Un italiano su quattro si è rifiutato di votare. Tra i votanti, il 55% ha scelto Di Maio, Salvini e la Meloni per gridare un “no”, forte e chiaro. Se il reddito di cittadinanza (arma vincente per mietere voti) è una misura ascrivibile alla voce welfare (sinistra), è piuttosto la Lega a sfidare il sistema europeo, con il taglio delle tasse (destra), sia pure da un’angolazione ancora liberista.Tra veti incrociati e opposte convenienze, resta solo lo spiraglio per il mini-governo a cui starebbe lavorando Mattarella, inevitabilmente imbottito di “tecnici” per incoraggiare tiepide convergenze eterodosse. Niente a che vedere, in ogni caso, con il “no” proclamato dalla maggioranza assoluta degli elettori italiani, cui si aggiunge l’astensionismo del 25% della popolazione, che non ha letto niente di convincente (o realisticamente praticabile) né sul programma grillino né su quello leghista. Se siamo a questo non-risultato, ribadisce Gianfranco Carpeoro, è perché – ancora una volta – abbiamo votato “contro” qualcuno, innanzitutto (votare “per qualcosa”, probabilmente, era impossibile). E senza una gestione nazionale autonoma, la regia delle operazioni passerà alla consueta “sovragestione” internazionale. E’ il potere-ombra che – licenziati Andreotti e Craxi – da 25 anni fa dell’Italia quello che vuole: fabbricando partiti, movimenti e leader senza idee né progetti, costruiti per durare una sola stagione, prima di essere rottamati da altri, futuri rottamandi. Una spirale senza fine, dove a essere rottamata è l’Italia, a cui è stato raccontato che il debito pubblico (cioè lo sviluppo, il benessere diffuso) è roba che non ci possiamo più permettere.Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che deve tornare protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate alla finanza anglosassone o, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.
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Verso il “governicchio di scopo” che non cambierà niente
«Hanno imparato a fatica che devono fare politica, ora impareranno a fatica che devono trovare alleati». Per il politologo bolognese Gianfranco Pasquino, i 5 Stelle dovranno rassegnarsi alla soluzione per la quale lavorerebbe Mattarella: un “governo di scopo” destinato a durare al massino un anno e mezzo, giusto il tempo di licenziare il Def e tamponare la disoccupazione, ma senza toccare la legge Fornero né altre misure su cui si fonda il rigore imposto dall’Unione Europea. Ai vincitori l’onere del governo, avverte il Pd, con Maurizio Martina nei panni di ventriloquo di Renzi: stare alla finestra, sperando in una futura rivincita dopo aver fatto deragliare i vincitori relativi del 4 marzo, grillini e Lega. «E’ così», ammette Pasquino: il Pd «non produce la soluzione, ma impedisce di trovarne una: e Mattarella lo sa». Dal Quirinale, due appelli alla “responsabilità”. «Verrà anche il terzo appello, poi ci saranno le consultazioni: e su quella base Mattarella cercherà di individuare una soluzione praticabile». Grande coalizione? No, troppo indigesta e con aritmetica risicatissima: Renzi e Berlusconi, insieme, non avrebbero i numeri. Un asse tra Pd e M5S per tagliare fuori la Lega? «Ormai Salvini ha superato Berlusconi sia come seggi, sia come statura politica. Secondo me l’ex Cavaliere è fuori gioco definitivamente», dice Pasquino a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Unica possibilità: un governo “istituzionale”, con i 5 Stelle come baricentro.E il centrodestra? Il cartello si romperà? «Meloni e Salvini parlano la stessa lingua su controllo dell’immigrazione e sovranismo, più e meglio di quanto abbiano in comune con Berlusconi». Ma se il Cavaliere vuole sopravvivere politicamente, aggiunge Pasquino, deve stare con loro. Finora il Movimento 5 Stelle ha “recitato” da solo: è stato il suo punto di forza. Ora però si trova a dover fare politica, a stringere accordi. Ci riuscirà? Secondo Pasquino sì, «però non possono limitarsi a dire “facciamo delle cose insieme”, devono fare loro stessi delle offerte, dire quali punti sono trattabili e quali irrinunciabili. Stanno diventando possibilisti. Bene: è una delle regole cruciali delle democrazie parlamentari, dove i governi sono governi di coalizione e si fanno in Parlamento». Possibile un governo M5S-Lega? No: avrebbe troppo pochi seggi, e quindi «sarebbe troppo esposto al dissenso o al veto di pochi leghisti o pentastellati». Pasquino vede un “governo di scopo”, ovvero: «Si trova un accordo di programma su alcuni punti rilevanti, si cerca una squadra di governo sufficientemente preparata e su questa base si prova di trovare una maggioranza in Parlamento. Io credo che si possa fare».Piano-B: «Un governo di minoranza, basato sulla non-sfiducia dell’aula. In questo caso – sostiene Pasquino – l’esecutivo non potrebbe però essere fatto solo da ministri a 5 Stelle e dovrebbe essere guidato da una personalità di rilievo; qualcuno più importante di Di Maio, che dovrebbe fare un passo di lato». Nel programma ci sarebbe anche la legge elettorale, per rimediare all’orrido Rosatellum? «No, altrimenti non se ne esce più». Aggiune Pasquino, sarcastico: «I nuovi eletti si tranquillizzino, non si torna a votare in tempi brevi. Ci sono cose importanti da fare e cose da non fare». Tra le prime, affrontare il Def e le misure contro la disoccupazione. E comunque: meglio evitare di toccare l’oscena legge Fornero, «altrimenti si apre il vaso di Pandora». In pratica, un governo con le mani legate. Potrebbe prevalere la tentazione di tornare alle urne? La Lega punterebbe a conquistare altri elettori di Forza Italia, mentre i 5 Stelle finirebbero di spolpare il Pd. Pasquino però è scettico: «La Lega può pensare così, ma M5S deve fare attenzione, perché gli elettori lo hanno votato per mandarlo al governo. Se la prima cosa che fa è accettare lo scioglimento del Parlamento, il 32,8% se lo scorda. Insomma, non agiterei l’arma delle urne: anche per rispetto degli elettori». Meglio il “governicchio”, dunque? Pasquino non lo chiama così. Mattarella, dice, «vuole un governo sufficientemente autorevole, che duri per un po’ di tempo, il tempo classico dei governi italiani, 15-16 mesi, ma che sia serio». Serio: cioè ancora una volta sottomesso all’Ue, senza poter contestare la camicia di forza dell’austerity?«Hanno imparato a fatica che devono fare politica, ora impareranno a fatica che devono trovare alleati». Per il politologo bolognese Gianfranco Pasquino, i 5 Stelle dovranno rassegnarsi alla soluzione per la quale lavorerebbe Mattarella: un “governo di scopo” destinato a durare al massino un anno e mezzo, giusto il tempo di licenziare il Def e tamponare la disoccupazione, ma senza toccare la legge Fornero né altre misure su cui si fonda il rigore imposto dall’Unione Europea. Ai vincitori l’onere del governo, avverte il Pd, con Maurizio Martina nei panni di ventriloquo di Renzi: stare alla finestra, sperando in una futura rivincita dopo aver fatto deragliare i vincitori relativi del 4 marzo, grillini e Lega. «E’ così», ammette Pasquino: il Pd «non produce la soluzione, ma impedisce di trovarne una: e Mattarella lo sa». Dal Quirinale, due appelli alla “responsabilità”. «Verrà anche il terzo appello, poi ci saranno le consultazioni: e su quella base Mattarella cercherà di individuare una soluzione praticabile». Grande coalizione? No, troppo indigesta e con aritmetica risicatissima: Renzi e Berlusconi, insieme, non avrebbero i numeri. Un asse tra Pd e M5S per tagliare fuori la Lega? «Ormai Salvini ha superato Berlusconi sia come seggi, sia come statura politica. Secondo me l’ex Cavaliere è fuori gioco definitivamente», dice Pasquino a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Unica possibilità: un governo “istituzionale”, con i 5 Stelle come baricentro.
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Carpeoro: avremo la solita merda, perché votiamo con odio
Nessuno si faccia illusioni: alla fine delle procedure istituzionali di rito, lente e macchinose, al governo ci sarà il solito schifo, fatto di politici “dimezzati” e proni ai diktat dell’élite finanziaria. Detto in francese: «Avremo la solita merda». Motivo? «Abbiamo votato come sempre: contro qualcuno, anziché per qualcosa. Ha vinto l’odio, ancora una volta. Inevitabile, quindi, che il risultato finale sia il nulla, il vuoto assoluto». Gianfranco Carpeoro non ha dubbi: nascerà comunque un governo, perché la “sovragestione” dei poteri forti teme un unico scenario, quello di nuove elezioni. Quale governo? Dipende dalla formula che alla fine prevarrà, dopo aver in ogni caso rottamato Matteo Renzi: l’ex premier «verrà “garrotato” lentamente, in modo che si tolga di mezzo e cessi di ostacolare l’unica soluzione percorribile, cioè quella di un esecutivo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Pd», opportunamente de-renzizzato. La sortita di Emiliano, che tifa per la convergenza verso i grillini? «Una candidatura personale, nel caso nel Pd prevalga la tentazione di un’alleanza aperta coi pentastellati». La discesa in campo di Calenda? Solo una variazione sul tema: «Sarebbe lo scivolo perfetto per riproporre la candidatura di Gentiloni, come capo di un “governo del presidente”, in ogni caso sempre sostenuto dai 5 Stelle e dal Pd senza più Renzi», ridotto al ruolo di semplice senatore e di fatto isolato, anche se a capo di una nutrita pattuglia di parlamentari a lui fedeli.
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Colonia Italia: divisa e nata per esser governata da stranieri
Un sud pentastellato, un nord centroleghista e un’Etruria ancora (quasi) colorata di rosso, o almeno di rosa. Vista la palese ingovernabilità della penisola, butta lì Marco Della Luna, tanto varrebbe trasformare l’ennesimo voto inutile in un’occasione per spaccare il Belpaese in tre Italie, ciascuna con la sua economia. «Il dato fondamentale, confermato da questa tornata elettorale – premette Della Luna – è che l’Italia è un paese tanto diviso al suo interno, che può essere governato solo dal suo esterno, come un protettorato». E probabilmente, aggiunge, «gli architetti della City che progettarono e guidarono la costituzione del Regno d’Italia (e che poi assemblarono altri Stati-Arlecchino come Iraq, Siria, Cipro, Libano, Sudan, Jugoslavia) avevano proprio questo intendimento: creare un paese le cui divisioni interne consentissero di manipolarlo dall’esterno, e insieme incapace di una politica di interesse nazionale». Secondo Della Luna, avvocato e saggista, «l’Italia unificata è un artefatto dell’imperialismo britannico». E ora, dopo le elezioni, «non si può nemmeno dire che si sia realizzata una maggioranza in forma di convergenza antisistema tra M5S e Lega», perché il Sud allo stremo ha invocato l’aiuto statale dei 5 Stelle, mentre il Nord produttivo ha chiesto a Salvini meno tasse “per Roma”.Il Movimento 5 Stelle, sostiene Della Luna, «ha raccolto soprattutto voti di meridionali desiderosi di assistenza pubblica, intervento statale, reddito di cittadinanza a spese del Nord», mentre la Lega ha mietuto «soprattutto voti di settentrionali desiderosi di meno tasse, meno Stato, meno trasferimenti dal Nord al Sud, e più autonomia (vedi i recenti referendum di Veneto e Lombardia)». Se i 5 Stelle andassero al governo con parte della sinistra, ipotesi «possibile», secondo Della Luna l’eventuale esecutivo Di Maio «dovrà aumentare le tasse patrimoniali e successorie per finanziare il “reddito di cittadinanza” e altre generosità promesse al suo elettorato – e ciò produrrà una fortissima, forse dirompente tensione con il Nord, e un ulteriore decrescita economica». Di fatto, «nell’attuale Parlamento non si può formare alcuna maggioranza che non sia frutto di un inciucio, in beffa alle promesse fatte agli elettori». Una coalizione «anomala e intrinsecamente instabile». Istituzioni fragili: lo stesso Mattarella, oggi nei panni poco inviadibili di arbitro, è stato incoronato al Quirinale «da un Parlamento a sua volta eletto con una legge che egli stesso, come giudice costituzionale, giudicò incostituzionale».In un corpo elettorale tanto profondamente diviso, sostiene Della Luna, un eventuale premio di maggioranza sarebbe addirittura un rimedio peggiore del male: «Porterebbe una forza minoritaria (rappresentante il 35-40% dell’elettorato) nonché illegittima agli occhi di almeno metà dell’elettorato, a una posizione di potere autosufficiente non solo per l’attività di governo e di ordinaria legislazione, fisco compreso, ma anche per cambiare le regole del gioco (legge elettorale, cittadinanza, Costituzione) e per fare le nomine degli organi di garanzia (presidenti della Repubblica, delle Camere, delle autorità garanti)». Divisi gli elettori, sulla base di aree geografiche «con interessi oggettivamente contrapposti» (il Nord e il Sud), e spaccate anche le forze politiche, le quali «si negano reciprocamente la legittimazione politica e morale: “Berlusconi è un mafioso”, “il M5S è una setta pericolosa”, “la Lega e FdI sono razzisti-fascisti”, “il Pd è servo di banchieri delinquenti”, eccetera. In questo caos, una forza “dopata” dal premio di maggioranza «dovrebbe gestire periodi duri per la popolazione», e quindi «avrebbe presto una forte maggioranza popolare contro di sé». Unica via di uscita? «Una riforma costituzionale, che affidasse le funzioni di garanzia e regole comuni a un Senato eletto col metodo proporzionale puro, e le funzioni di legislazione ordinaria (e fiducia al governo) a una Camera eletta con un premio di maggioranza al ballottaggio».Sempre secondo Della Luna, la nuova Costituzione dovrebbe inoltre stabilire che il Senato «non possa essere sciolto, ma si sciolga solo alla scadenza ogni 5 anni», mentre la Camera dovrebbe sciolgiersi ogni 4 anni, se non prima (con elezioni anticipate). «In tal modo, il premio di maggioranza non comporterebbe che il partito o la coalizione che lo ottiene possa cambiare le regole di fondo a sua convenienza e nominarsi alle cariche di garanzia i personaggi che gli fanno comodo per coprire le trame dei suoi interessi». Ma persino una riforma simile non risolverebbe «il difetto fondamentale del paese», ovvero «le divisioni e contrapposizioni storiche, consolidate, oggettive, soprattutto tra Nord e Sud». L’ideale? Tre Italie distinte, indipendenti, «corrispondenti ciascuna alle rispettive caratteristiche sia politiche che economiche (Aree Monetarie Ottimali)». Ancora più semplice, chiosa Della Luna, sarebbe se il M5S e il Pd si alleassero per governare: «Allora basterebbe fare due repubbliche e il confine potrebbe correre sul crinale appenninico, se non lungo il Po».Un sud pentastellato, un nord centroleghista e un’Etruria ancora (quasi) colorata di rosso, o almeno di rosa. Vista la palese ingovernabilità della penisola, butta lì Marco Della Luna, tanto varrebbe trasformare l’ennesimo voto inutile in un’occasione per spaccare il Belpaese in tre Italie, ciascuna con la sua economia. «Il dato fondamentale, confermato da questa tornata elettorale – premette Della Luna – è che l’Italia è un paese tanto diviso al suo interno, che può essere governato solo dal suo esterno, come un protettorato». E probabilmente, aggiunge, «gli architetti della City che progettarono e guidarono la costituzione del Regno d’Italia (e che poi assemblarono altri Stati-Arlecchino come Iraq, Siria, Cipro, Libano, Sudan, Jugoslavia) avevano proprio questo intendimento: creare un paese le cui divisioni interne consentissero di manipolarlo dall’esterno, e insieme incapace di una politica di interesse nazionale». Secondo Della Luna, avvocato e saggista, «l’Italia unificata è un artefatto dell’imperialismo britannico». E ora, dopo le elezioni, «non si può nemmeno dire che si sia realizzata una maggioranza in forma di convergenza antisistema tra M5S e Lega», perché il Sud allo stremo ha invocato l’aiuto statale dei 5 Stelle, mentre il Nord produttivo ha chiesto a Salvini meno tasse “per Roma”.
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Bannon, il risveglio dell’Italia e l’astuto marketing 5 Stelle
Steve Bannon è un genio e lo ha dimostrato anche in Italia in una recente intervista non appena sbarcato. Bannon ha spiegato come le dinamiche di disinformazione di cui l’Italia è intrisa, tra cui la retorica su razzismo, su fascismo e comunismo (nel 2018), sul populismo, sul femminismo, eccetera, siano un fenomeno conosciuto e digerito in Usa, e denuncia come esse rappresentino le stesse con cui Trump ebbe a che fare in campagna elettorale prima della sua vittoria. La perfezione non esiste, ma non c’è dubbio che in Italia siano rari uomini di valore come questo americano, probabilmente soffocati dall’“eccesso dell’apparenza”, dalla melassa radical chic. In questo paese (e forse non solo) l’umanesimo, nato dall’Illuminismo, anziché stimolare l’approfondimento e la conoscenza è stato declassato in una funzione di ottundimento delle menti; il pericolo che ravvedo è che a capo di questo paese, oggi o domani, si piazzi una qualche oligarchia che costruisca (nell’immagine) in modo impeccabile politici incompetenti e li sfrutti in cambio di ingenti quantità di danaro erogate da soggetti esteri, in una sorta di “esternalità di mercato”.Non sarebbe probabilmente nemmeno una novità: si pensi a come il rapporto di ingresso in euro (marco = 990 lire) abbia danneggiato il nostro paese in favore della Germania (quando era cosa nota essere un valore ribassato di circa 200 punti dal doping finanziario) e di come nessun politico o giornalista lo abbia fatto presente all’epoca: tale rapporto fu festeggiato con giubilo – ricordo gli articoloni di “Repubblica” e “Corsera”. Troppe volte vediamo tematiche secondarie enfatizzate a spese di quelle serie, sconosciute ai più (dove, lì sì, ballano miliardi di euro); pare invece di assistere al meccanismo “trasmissione, ricezione, reazione, subcultura” presente nei reality come il Grande Fratello (che è certamente più seguito e consultato di questo articolo). Tornando a Bannon, nonostante il solco che si è scavato tra lui e Trump, ivi comprese accuse e parole grosse volate, si percepisce intatto in lui il rispetto (e la stima) verso il grande uomo, verso il presidente; e questo altissimo senso del valore è un feedback nei due sensi con quello delle istituzioni: è ciò che non si vede davanti ai riflettori.Evidentemente gli Usa, essendo un territorio meno densamente abitato del nostro (non esistono solo le metropoli) e quindi più anarchico/naturale, mantengono vivo il senso dell’“io sono americano!” (“America First”) e nonostante un senso civico in molti casi carente, permettono all’essere umano di riflettere in maniera molto più autonoma e libera che in Italia, dove invece è presente una forma di controllo e di reciproca influenza. Non è un caso che le dinamiche di gruppo stiano prevalendo in modo massiccio sull’indole autentica e libera dell’essere umano. In “Psicologia sociale dei gruppi” di Rupert Brown si chiarisce che chi ha una consistente impronta individuale difficilmente tradisce i valori in cui crede per piacere agli altri. Chi ha invece un più marcato senso del ruolo sociale si adatta all’assemblea, alla classe, al gruppo (o al branco) ed è pronto a cambiare repentinamente tipologia di rapporto con l’altro: perfino calpestando legami quali amicizia e stima proprio perché meno profondi. Questi meccanismi di norma sono evidenti in presenza di un mutato ruolo o “status” gerarchico. I gruppi possono diventare perciò formidabili centri di controllo: ormai sono in mano alle tv e al tasto “condividi” di Facebook; lascio a voi presagire cosa ciò possa comportare (vedasi discorso oligarchie).Lo stesso senso delle istituzioni qui accennato, in Italia, è lasciato in pasto all’immagine, alla forma, al marketing pilotato dagli esperti e dall’alto: il manichino con la cravatta, l’uso di terminologie complesse (spesso sconosciute in chi le usa), gli atteggiamenti distanti. Il valore che si respira nelle parole di Bannon in Italia è praticamente estinto e lascia il posto all’apparenza e quindi inevitabilmente alle sparate. Ho sentito dire addirittura (non cito la fonte) che saremmo entrati nella “Terza Repubblica”, un insulto all’educazione civica di base, quella delle scuole medie (!). A poco serve conoscere che affinché si entri in una Nuova Repubblica sia necessario modificare radicalmente la Costituzione: per finalità di marketing politico per far passare un messaggio (“faremo giustizia delle vostre sofferenze”) si arriva a tanto (e state certi che, in spregio al senso civico, questo messaggio passa). Non è un caso che Bannon comunichi agli italiani: «Siete un grande popolo, non vi percepite più come tali e dovete tornare a farlo, tutto il mondo vi guarda». Se notate sono iniezioni di quel senso dello Stato che i gangli dell’establishment hanno disperso, inquinato, ammorbidito in Italia introducendosi nelle facoltà universitarie, nei Tg, nei salotti buoni, nelle istituzioni, nelle scuole, e questo al ben noto scopo di abbattere ogni resistenza delle nazioni al predominio selvaggio della finanza (niente di più, niente di meno).Anche lo stesso uso di terminologie anglosassoni ha lo scopo di infonderci un senso di inferiorità (“siamo colpevoli, siamo corrotti”) e molti, quando votano, lo fanno in base proprio a questo senso di sudditanza: peccato che il debito estero, per fare un esempio, prima dell’euro in Italia (praticamente) non esistesse… A tal proposito, sappiamo tutti Mani Pulite a cosa sia servita: a portarci dentro la moneta unica allo scopo di alimentare un sistema di svendita costante del paese; ogni volta che qualcuno enfatizza la lotta alla corruzione in realtà ha come scopo svendere i nostri assets pigiando sul tasto “siamo colpevoli”: il malessere non lo si combatte ma si alimenta facendo credere che il problema sono i vitalizi che pesano 70 milioni (quanto il cartellino di Alex Sandro della Juve) quando sono attive leggine volute dall’establishment finanziario internazionale che pesano per decine di miliardi di euro l’anno. Non si rende un buon servizio al paese nemmeno prendendo di mira l’ultima ruota del carro bancario/finanziario, e cioè le banche italiane (allo scopo di isolarle per anticiparne la svendita all’estero). Queste banche sono state portate al collasso dalla recessione.La crisi è stata causata da quegli stessi soggetti internazionali che adesso pretendono (con l’appoggio dichiarato di Di Maio e Fioramonti) la riscossione forzata delle sofferenze bancarie (crediti). La causa delle sofferenze bancarie però non è l’avidità di qualche banchiere di Arezzo sicuramente da arrestare, ma il fatto che i cittadini non depositano, ma anzi prelevano, danaro dalle banche non arrivando alla fine del mese; se non onorano mutui e prestiti è perché hanno perso il lavoro o chiuso l’attività. Questo paese non è nelle peste per i ladri (studi empirici mostrati ad esempio da Bagnai dimostrano che pesino alla voce debito per un 5-10%) bensì per i venduti (vecchi e nuovi) che hanno accettato condizioni insostenibili per l’Italia forti del senso di autocommiserazione e della credulità popolare. Tornando a Steve Bannon quindi, egli commette due errori: essendo un uomo concreto ben distante dalle retoriche radical chic, funzionali ai poteri finanziari, utilizza il termine “populismo” come “politica nell’interesse del popolo” in contrapposizione a quella “nell’interesse della finanza internazionale”. In realtà questo da lui indicato non è “populismo”; il populismo infatti è ben altro, e cioè l’utilizzo della comunicazione per dirigere le masse verso finalità spesso oligarchiche.Ha citato come forze “populiste” Lega e 5 Stelle, e questo è il secondo errore. E’ vero che la popolazione italiana votando Lega e 5S abbia mandato un segnale inequivocabile, ancor più che nel 2013, contro l’establishment (pur in larga parte non rendendosi conto del profondo e inscindibile legame tra euro e lo stesso) ma se la Lega rappresenta il “populismo buono”, cioè quello definito da Bannon, i 5 Stelle, un po’ come il colesterolo, rappresentano l’altro populismo, quello “cattivo”, cioè una grande operazione di canalizzazione della protesta (che infatti, secondo me, verrà premiata da Mattarella con l’incarico). Mi riferisco al populismo come comunicazione finalizzata a dirigere le masse per finalità oligarchiche: per legittimare l’ennesima forzatura di un capo dello Stato contro la democrazia creando un governo 5S-Pd, le Tv stanno manipolando (in chiave establishment) la percezione del risultato elettorale, ignorando che il centrodestra (37% e oltre) è compatto nell’indicazione di Matteo Salvini come premier e cercando di inculcare che le elezioni le abbiano vinte i 5 Stelle, che invece stanno dietro a debita distanza. Se ciò avverrà, se l’incarico sarà dato a Di Maio per governare col Pd, i 5 Stelle utilizzeranno sempre il marketing per ingannare una base a cui è già stato fatto passare di tutto sopra la testa (vedasi discorso inerente i ruoli sociali dei gruppi) senza il minimo disordine: uno di questi stratagemmi sarà mostrare che Renzi non c’è più, ma la sostanza sarà il tradimento di un voto democratico che pretende che l’establishment internazionale (da cui Bannon ci mette in guardia) diventi opposizione.(Marco Giannini, “Bannon, il risveglio dell’Italia e l’astuto marketing 5 Stelle”, da “Libreidee” del 7 marzo 2018. Autore di saggi in materia economica, Giannini è stato vicino al Movimento 5 Stelle fino alla svolta ultra-europeista dei grillini al Parlamento Europeo).Steve Bannon è un genio e lo ha dimostrato anche in Italia in una recente intervista non appena sbarcato. Bannon ha spiegato come le dinamiche di disinformazione di cui l’Italia è intrisa, tra cui la retorica su razzismo, su fascismo e comunismo (nel 2018), sul populismo, sul femminismo, eccetera, siano un fenomeno conosciuto e digerito in Usa, e denuncia come esse rappresentino le stesse con cui Trump ebbe a che fare in campagna elettorale prima della sua vittoria. La perfezione non esiste, ma non c’è dubbio che in Italia siano rari uomini di valore come questo americano, probabilmente soffocati dall’“eccesso dell’apparenza”, dalla melassa radical chic. In questo paese (e forse non solo) l’umanesimo, nato dall’Illuminismo, anziché stimolare l’approfondimento e la conoscenza è stato declassato in una funzione di ottundimento delle menti; il pericolo che ravvedo è che a capo di questo paese, oggi o domani, si piazzi una qualche oligarchia che costruisca (nell’immagine) in modo impeccabile politici incompetenti e li sfrutti in cambio di ingenti quantità di danaro erogate da soggetti esteri, in una sorta di “esternalità di mercato”.
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Il potere vota Di Maio. Scalfari: è il nuovo leader, a sinistra
Per Marco Travaglio, a dare spettacolo è il noto sport nazionale: correre in soccorso dei vincitori. Sempre che i soccorritori, in questo caso, non siano i terminali italiani degli azionisti-ombra dei 5 Stelle, tranquillizzati in anticipo da Luigi Di Maio nei santuari del sommo potere, da Londra a Washington, prima ancora di presentare una lista iper-rassicurante di possibili ministri tecnici, a partire dal neoliberista Fioramonti, il cui curriculum contempla nomi come Rothschild, Rockefeller e Soros. «I poteri forti si riposizionano», titola il “Fatto Quotidiano”. O meglio: forse rendono palese ciò che prima era nascosto, e cioè che il successo firmato Di Maio fosse, fin dall’inizio, il loro Piano-B. Ovvero: non l’imbarazzante avanzata di una forza “antisistema”, ma il prevedibile boom di un’ala “populista” del sistema stesso, adatta a drenare il dissenso sociale di un’Italia in crisi. Da Marchionne a Confindustria, la convergenza su Di Maio si è fatta aperta e spettacolare, quasi quanto quella di Eugenio Scalfari, decano del “quarto potere” italico. Per il fondatore di “Repubblica”, che pochi mesi fa ai 5 Stelle avrebbe preferito persino l’odiato Berlusconi, oggi di Di Maio non è solo il legittimo capo del prossimo ipotetico governo, ma addirittura il leader del nuovo, grande partito unico della sinistra italiana, destinato a inglobare e assorbire lo stesso moribondo Pd. Questione di parole: sostituendo “sinistra” con “potere”, il cerchio si chiude.
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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
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Dopo le elezioni, tutto come prima: l’Italia resta sottomessa
Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordololiberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 25%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».Esponente del Movimento Roosevelt, scrittore, simbologo, avvocato di lungo corso con un passato socialista, Carpeoro ha le idee chiare sul voto: «Centrodestra o 5 Stelle, non cambia niente: non esiste un rischio maggiore, è la stessa cosa. Perché chiunque vince, lo fa in nome di una sovragestione unica, che porta allo stesso tipo di governo», ha detto Carpeoro, a urne ancora aperte. «E’ assolutamente irrilevante, sapere chi vince: se i partiti che vincono sono quelli che vincono per effetto della sovragestione, devono rispondere alla sovragestione». Parole che Carpeoro ha affidato a Fabio Frabetti di “Border Nights”, nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube. «Non si scappa, se fai parte di quello schema. I 5 Stelle non ne facevano parte? Ma poi Di Maio ha fatto un bel viaggio a Londra, un bel viaggio in America… E comunque c’erano già le premesse anche prima, perché non è che Casaleggio fosse una realtà così staccata dal potere. Poi però con Di Maio hanno fatto capire che cosa vogliono fare, no?». Basta vedere l’ipotetico governo presentato in anticipo a Mattarella, con il neoliberista Fioramonti all’economia. «Non è che non pretendano garanzie, quelli a cui hai chiesto aiuto a Londra e in America: impongono il tuo appoggio, la tua la non-ostilità, l’assicurazione che non verrebbe ostacolato il loro progetto». E se vai al governo e poi non ne tieni conto? «Potresti fare la fine di Craxi, o quella di Olof Palme».Per Carpeoro, cha ha lanciato l’idea di promuovere in primavera un convegno sul grande leader svedese, assassinato a Stoccolma nel 1986 mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale dell’Onu, Olof Palme – cui guardavano Craxi, il tedesco Helmut Schmidt e lo stesso Mitterrand – avrebbe cambiato volto all’Europa, impedendo l’instaurarsi del regime Ue (quello che, ancora oggi, sottrae all’Italia la possibilità di qualsiasi alternativa elettorale al dominio dell’oligarchia finanziaria). «Le sue idee sono ancora attuali, perché Olof Palme era avanti di trent’anni», sottolinea Carpeoro. «Aveva contestato agli Usa il fatto di fare guerre sempre a casa degli altri, aveva polemizzano aspramente con l’Urss per l’invasione di Praga, e soprattutto aveva un progetto economico basato su un sistema misto, pubblico-privato, con la compartecipazione dei lavoratori nelle aziende pubbliche e private, sistema che aveva consentito alla Svezia di uscire dalla crisi economica che invece colpiva gli altri paesi. In più era un ecologista, voleva affrancarsi dagli idrocarburi e dalla schiavitù del petrolio, sosteneva già progetti di energia alternativa». E’ stato fermato, colpito alla schiena da un killer invisibile e tuttora ignoto. «Faceva paura, perché avrebbe ostacolato gli interessi della sovragestione: tutta una serie di equilibri politici che su quelle realtà economiche sono fondati hanno rintenuto di farlo ammazzare. Aveva la capacità, le idee e la visione per costruire delle cose diverse».Da un gigante come Olof Palme ai nani dell’attuale politica italiana: Matteo Renzi in fuga dai giornalisti, con il Pd ridotto al 19%. La scissione di D’Alema e Bersani fermatasi sotto il 4%. Berlusconi appena sopra il 13%, dopo aver lanciato l’euro-maggiordomo Tajani, garantendo ai poteri forti europei il rispetto delle regole di ferro, l’austerity che sta devastando l’Italia. Il successo della Lega di Salvini, che sorprassa il Cavaliere e ormai tallona il Pd, è gravemente condizionato proprio dall’alleanza con Forza Italia, prona ai diktat di Bruxelles. Quanto ai 5 Stelle, hanno fatto il pieno nel centro-sud grazie alla promessa del reddito di cittadinanza, ma Di Maio ha già messo le mani avanti presentando il suo ipotetico esecutivo di tecnocrati: «Sembra il governo Monti senza Monti», commenta desolatamente Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt. Cosa accadrà ora? Se lo domandano tutti i giornalisti. Non Carpeoro: a prescindere dal nome del futuro premier e dal colore del suo partito, per gli italiani non cambierà assolutamente niente. Non cambia il programma: rigore, sofferenze, vincoli, sottomissione all’élite finanziaria che si è impadronita dell’Ue. Sono corsi a votare, gli italiani, ma – a quanto pare – è come se non avesse votato nessuno: tutto è esattamente come prima. La nave rischia di affondare, e la rotta (ancora una volta) non sarà decisa da chi siede a Roma.Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordoliberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 27%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».
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Magaldi: potessimo “votare” per Olof Palme, cioè per l’Italia
Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».Non lasciatevi ingannare dalle apparenze: quello che ci aspetta è solo «una grande palude», sostiene Magaldi, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio”. «Nel mondo che Berlusconi auspicherebbe, cioè con una centralità di Forza Italia dopo il voto del 4 marzo», il presidente del Parlamento Europeo «sarebbe la carta perfetta, perché gli consentirebbe di avere un suo uomo gradito ai salotti e agli organi istituzionali europei». In fondo, Antonio Tajani «è il Gentiloni del centrodestra: non dà troppo disturbo e sarebbe perfetto per non suscitare particolari avversioni da parte di nessuno. E’ percepito come un moderato, senza infamia né lode. Ma per vederlo a Palazzo Chigi dovrebbe vincere il centrodestra, con Forza Italia in vantaggio sulla Lega: condizioni non facilissime da realizzarsi». Di fatto, «Tajani è un candidato ecumenico che può piacere a tanti, come si fa finta che possa piacere Gentiloni». Ma in realtà, dichiara Magaldi, «sono personalità diafane, prive di un reale spessore, non in grado di imprimere una qualche direzione: sono terminali di chi sta loro dietro: lo è stato Gentiloni in rapporto a Renzi, anche se adesso Gentiloni sembra vivere di vita propria».In più, Tajani è ritenuto un valido “maggiordomo”, adatto a difendere il Cavaliere da eventuali colpi provenienti da Bruxelles: «Berlusconi è traumatizzato da quello che accadde nel 2011, cioè dall’intervento di poteri massonici molto forti, che a suo tempo lo hanno defenestrato con le buone e con le cattive». E’ ancora traumatizzato, l’uomo di Arcore, «dalla delegittimazione che poteri forti e fortissimi gli hanno imposto». Secondo Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela il ruolo della supermassoneria sovranazionale nel massimo potere mondiale, «oligarchie massoniche internazionali stanno valutando la possibilità di completare questa rilegittimazione di Berlusconi nel quadro di un governo di neo-solidarietà nazionale. A questo – aggiunge – sono funzionali anche le vicende di violenza politica, gli accenni di scontri tra neofascisti e antifascisti squadristici, che ci ricordano gli anni di piombo». C’è un clima strano, avverte Magaldi: da un lato si sostiene che bisogna «accompagnare la presunta crescita che sarebbe iniziata (ma che non c’è)», e dall’altro, sotto sotto, Pd e Forza Italia si strizzano l’occhio accampando «ragioni di argine rispetto al populismo, che – dicono – potrebbe diventare feroce, sfociando in violenza aperta».Anche per questo, da tempo, lo stesso Berlusconi «cerca di riconquistare una qualche forma di credibilità, o di addirittura di avallare l’idea che sia meglio lui, in fondo, di quei “guastafeste teppistoidi” del Movimento 5 Stelle, che sono i nuovi “barbari” nella neo-narrazione berlusconiana». In realtà non ci sono barbari, sottolinea Magaldi, e Tajani «sta solo facendo il suo compitino». Purtroppo i politici italiani sono talmente ininfluenti che non sono stati capaci nemmeno di assicurare a Milano la briciola dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco: «E’ un’Italia che pesa pochissimo, eppure ha in Tajani un alto rappresentante in sede europea: se non è in grado di fare granché per l’Italia lì, figuriamoci da primo ministro». Ma niente paura: «Non credo che ci saranno le condizioni per cui Tajani possa ricevere l’incarico da Mattarella, né credo che l’incarico sarà offerto a Di Maio». Delusione 5 Stelle: «E’ indice di trasparenza la decisione di presentare in anticipo la lista di ministri in pectore, ma perché reclutare solo tecnici? Professori, magistrati e militari dovrebbero fare il loro mestiere, non i ministri. Non c’era personale politico adeguato? Che la società civile sia meglio della società politica è un’idea antidemocratica, sdoganata da Berlusconi».Per Magaldi, il destino che ci attende è ancora una volta quello delle larghe intese: «Una prospettiva esiziale, per il popolo italiano. Non abbiamo bisogno di ulteriori governicchi come quelli di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, che hanno semplicemente accompagnato la decadenza dell’Italia in nome di presunti obiettivi superiori, guidati dalla mano autorevole degli “illuminati” reggitori di quest’Europa matrigna». Liste elettorali alla mano, «tutto dovrebbe continuare come prima». Cioè malissimo, per l’Italia. «Da qualche decennio c’è chi lavora in modo verminoso, proprio come vermi che rosicchino dall’interno, per rendere le istituzioni democratiche imbelli e anche poco gradite ai cittadini», ribadisce Magaldi. «Tutti capiscono che queste istituzioni ripiegate su se stesse sono in realtà un’élite reazionaria, che ci ha proiettato in un incubo post-democratico. Il modello Palme? Serve anche per arginare questo tumore». Il Movimento Roosevelt ha dato il suo “endorsement” a pochi, selezionati candidati: come Pino Cabras a Paolo Margari (5 Stelle), Simone Orlandini (Lega), Felice Besostri e Chiara Mariotti (“Liberi e Uguali”). «Poi ci sono altri candidati a noi vicini: una volta in Parlamento – dice Magaldi – vigileranno per impedire manovre antidemocratiche». Indicazioni generali di voto, tranne che per i candidati “amici”? «Scheda bianca o nulla, oppure astensionismo». Sperando di poter, domani, “votare” per Olof Palme.Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».