Archivio del Tag ‘scienza’
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D’Attorre: per l’euro noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa
Bene la discussione scientifica sui problemi dell’uscita, ma riconoscendo due cose: la moneta unica ci impoverisce ed è incompatibile con la Costituzione. Il dibattito sul futuro dell’euro che si è aperto recentemente fra intellettuali e economisti di sinistra sulle colonne di diversi giornali, tra i quali il “Fatto Quotidiano”, è una novità positiva. Per chi si professa progressista non dovrebbero esistere tabù, e invece l’intangibilità della moneta unica ha rappresentato a sinistra, tranne isolate eccezioni, una sorta di articolo di fede, sottratto al vaglio empirico e a una laica valutazione dei costi e dei benefici. Un confronto più razionale sulla sostenibilità economica dell’euro e sulle conseguenze del suo eventuale superamento può aiutare ad aprire un’altra discussione urgente nel campo del centrosinistra, a maggior ragione se si porrà l’esigenza di una sua riorganizzazione politica e programmatica dopo la sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale. Il punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista riproporsi credibilmente alla guida del paese senza fare un bilancio onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il centrosinistra ha compiuto nell’ultimo ventennio, ossia l’adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell’euro?Se gli economisti discutono sulla praticabilità di un’uscita dalla moneta unica, su altri due punti la discussione scientifica è chiusa, nel senso che le evidenze empiriche conducono univocamente nella stessa direzione: Primo: l’euro è stato costruito in una maniera radicalmente sbagliata, funzionale solo agli interessi della Germania e dei suoi satelliti, ha enormemente accresciuto la divergenza e l’ostilità tra i popoli europei e si è rivelato incompatibile con una logica di sana cooperazione politica ed economica su base paritaria fra i diversi Stati. Secondo: l’Italia è uno dei paesi per i quali la scelta dell’euro ha prodotto gli effetti più negativi. Basta prendere in considerazione un qualsiasi grafico che illustri comparativamente l’andamento della produttività, della bilancia commerciale, del reddito pro capite o del Pil fra Italia e Germania prima e dopo l’introduzione della moneta unica per aver un quadro impressionante. Si pensi solo al fatto che ancora nel 2015 l’Italia era l’unico paese dell’Eurozona, Grecia compresa, in cui il livello del Pil pro capite rimaneva inferiore a quello del 1999, l’anno in cui siamo stati ammessi nella moneta unica e sono stati fissati i cambi tra le diverse valute nazionali.Di fronte all’evidenza di tale disastro economico e sociale, a cui vanno aggiunti gli effetti sulla qualità della nostra democrazia, le forze progressiste dovrebbero riconoscere apertamente l’errore storico compiuto nell’appoggiare un progetto fallimentare e, ciascuna per la propria parte di responsabilità, chiedere scusa agli italiani. Si tratterebbe, a mio avviso, di un atto politico in grado di riaprire un rapporto con settori della società italiana un tempo vicini alla sinistra e che oggi rischiano di essere consegnati irreversibilmente alla destra xenofoba o all’avventurismo del M5S. L’altra riflessione che si dovrebbe aprire fra gli intellettuali e i politici progressisti, specie tra quelli più impegnati per il No al referendum, riguarda il rapporto fra euro e Costituzione repubblicana. Se si fa della battaglia referendaria la strada non solo per sconfiggere il renzismo, ma per restituire alla Costituzione il ruolo di bussola fondamentale dello sviluppo del paese, è arrivato il tempo di interrogarsi sulla compatibilità fra il progetto di società tracciato dalla Carta costituzionale e quello contenuto nei Trattati europei, su cui il funzionamento della moneta unica si regge.Le famigerate “riforme strutturali” richieste dall’Europa in materia di lavoro, pensioni, sanità, istruzione, risparmio non sono un accidente della storia, ma la diretta conseguenza di un modello economico chiaramente alternativo a quello disegnato nella prima parte della nostra Costituzione e strettamente funzionale al mantenimento della moneta unica. Decine di studi hanno ormai chiarito che per le economie della periferia dell’Eurozona l’austerità, gli alti livelli di disoccupazione e la conseguente deflazione salariale non sono una condizione transitoria legata a una fase di crisi, ma il presupposto per mantenere le economie di quei paesi su una linea di galleggiamento dentro la moneta unica, in una situazione in cui essi hanno rinunciato al controllo della leva fiscale e di quella monetaria.Se non si riconoscono questi dati di realtà, protestare contro la svalutazione del lavoro o invocare il ritorno a un livello di investimenti pubblici incompatibili con i vincoli finanziari della moneta unica significa semplicemente abbaiare alla luna. Per quanto possa considerare difficile e rischiosa l’uscita dalla moneta unica, la sinistra non può più permettersi di considerare l’euro un Moloch sovraordinato rispetto ai principi costituzionali. Se la vittoria del No al referendum impedirà un ulteriore svuotamento della sovranità democratica nazionale a vantaggio dei poteri tecnocratici europei e rimetterà al centro della politica italiana la Costituzione a tutto tondo, bisognerà mettere in atto una strategia di resistenza costituzionale rispetto a ogni ulteriore trasformazione economica, sociale e democratica imposta dalla logica di funzionamento della moneta unica. Prendere di nuovo sul serio la Costituzione potrà difendere gli italiani dalle conseguenze dell’euro molto più di quanto abbia fatto la classe politica di destra o di sinistra nell’ultimo ventennio.(Alfredo D’Attorre, “Noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa per l’euro”, dal “Fatto Quotidiano” del 26 ottobre 2016, articolo ripreso da “Sinistra Lavoro”).Bene la discussione scientifica sui problemi dell’uscita, ma riconoscendo due cose: la moneta unica ci impoverisce ed è incompatibile con la Costituzione. Il dibattito sul futuro dell’euro che si è aperto recentemente fra intellettuali e economisti di sinistra sulle colonne di diversi giornali, tra i quali il “Fatto Quotidiano”, è una novità positiva. Per chi si professa progressista non dovrebbero esistere tabù, e invece l’intangibilità della moneta unica ha rappresentato a sinistra, tranne isolate eccezioni, una sorta di articolo di fede, sottratto al vaglio empirico e a una laica valutazione dei costi e dei benefici. Un confronto più razionale sulla sostenibilità economica dell’euro e sulle conseguenze del suo eventuale superamento può aiutare ad aprire un’altra discussione urgente nel campo del centrosinistra, a maggior ragione se si porrà l’esigenza di una sua riorganizzazione politica e programmatica dopo la sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale. Il punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista riproporsi credibilmente alla guida del paese senza fare un bilancio onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il centrosinistra ha compiuto nell’ultimo ventennio, ossia l’adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell’euro?
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Sids: 300 neonati morti in Italia ogni anno, uno su mille
Morti bianche: 300 neonati ogni anno, in Italia, muoiono “in culla”. Uno su mille. Si chiama Sids, sindrome da morte infantile improvvisa (Sudden Infant Death Syndrome). Il sistema sanitario, accusa il naturopata Marcello Pamio, sottovaluta il problema: «Poco importa se tutti i bambini morti in culla hanno sempre fatto le vaccinazioni qualche giorno o qualche settimana prima». Casi archiviati come coincidenze, fatalità. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, la Sids «colpisce i bambini tra un mese e un anno di età», cioè nel periodo in cui vengono fatti i primi inoculi. A riferire di questa “strage silenziosa” è un giornale come “Il Gazzettino”: il 25 maggio 2016, il quotidiano di Venezia titola: “Vaccini, bimba a due mesi muore nel sonno a Torino dopo esavalente”. Sempre per l’Istituto Superiore di Sanità, «dopo le malformazioni congenite, la Sids è la causa principale di morte post-neonatale negli Stati Uniti». Secondo il National Vital Statistics Report del 2004, «l’incidenza della Sids è di circa 1,7 per mille nati vivi. Dati simili sembrano essere registrati anche in Europa. In Italia, la stima fornita dal centro di riferimento della Regione Lombardia, è di 1 su 1000 nati vivi».Quindi in Italia vi sarebbe un morto ogni mille bambini nati, sintetizza Pamio sul blog “Riflessioni”, in cui segnala il bugiardino del vaccino trivalente “Tripedia” per difterite-tetano-pertosse. Secondo Sanofi-Pasteur, «la percentuale di morti in culla, secondo alcuni studi osservazionali, negli Stati Uniti (periodo dal 1985 al 1991) è pari a 1,5 bambini ogni 1000 nati, mentre in Germania è di circa 0,4». Sempre dal bugiardino del trivalente Tripedia: «In uno studio caso-controllato tedesco e in uno studio di sicurezza negli Stati Uniti, su 14.971 neonati che hanno ricevuto il vaccino Tripedia ne sono morti 13». Quindi, sottolinea Pamio, 13 morti su circa 15.000 neonati significa una percentuale pari a 0,86 morti per ogni 1000 nati. «In Italia sono nati nel 2016 circa 470.000 bambini. Se la percentuale di mortalità del Tripedia è di circa 0,86/1000 nati, tenuto conto che da noi sono nati 470.000 l‘anno scorso, il vaccino se ne è portati via circa 400. Morti per cosa? Da Sids, ovviamente, ma non solo. Almeno 300 ne muoiono per Sids ogni anno, ma se teniamo conto che non è l’unica causa di morte, si fa presto ad ottenere le cifre riportate».Ancora il bugiardino del Tripedia segnala che «gli eventi avversi riportati durante l’uso post-approvazione del vaccino Tripedia includono: porpora trombocitopenica idiopatica, Sids, reazione anafilattica, autismo, convulsione, encefalopatia, ipotonia, neuropatia, sonnolenza e apnea». Lo dicono gli stessi produttori dei vaccino, commenta Pamio: «Lo mettono nero su bianco nel bugiardino», mentre da noi «i grandi medici e la grande scienza ufficiale negano con tutte le forze e con ogni mezzo la correlazione tra vaccini-autismo e la correlazione tra vaccini-Sids. Beata ignoranza e soprattutto malafede, e intanto i bambini continuano a morire». Pamio definisce “olocausto” la morte in massa dei neonati, e sollecita un’azione legale, da parte della magistratura, per accertare eventuali responsabilità delle autorità italiane, per esempio «il ministro della salute, il direttore dell’Istituto Superiore di Sanità e il direttore dell’Aifa, nonché il presidente della Repubblica che ha firmato e avvallato la conversione del decreto in legge», quello sui 10 vaccini obbligatori voluto dalla “ministra” Beatrice Lorenzin.Se l’Italia è un caso unico al mondo per il numero di vaccini resi obbligatori, conclude Pamio, ha viaggiato a lungo in direzione esattamente opposta (e con ottimi risultati) il Giappone, che ha cambiato il calendario d’inizio per la vaccinazione «spostandolo dai tre mesi a due anni». Risulato: «Subito il loro tasso di Sids è crollato. Come mai?». E’ un fatto: al ritardo della vaccinazione “trivalente” Dpt (difterite-pertosse-tetano) posticipata all’età successiva ai 2 anni, ha corrisposto «un drastico calo di effetti collaterali». Nel periodo 1970-1974, quando la vaccinazione Dpt veniva effettuata dai 3 a 5 mesi di età, il Giappone erogò indennizzi per ben 57 casi gravi di bambini danneggiati da vaccino (danni permanenti) e 37 bambini morti. Durante il periodo 1975-1980, quando le iniezioni di Dpt venivano effettuate in ritardo, le gravi reazioni al vaccino sono state ridotte a un totale di tre morti. Il che significa una enorme riduzione – dall’85 al 90% – dei casi più gravi di danni, fino alla “morte bianca”. E ancora: «Nel 1988 il governo giapponese raccomandò la non-vaccinazione fino a due anni di età». La Sids però è ricomparsa, anche in Giappone, «da quando il governo è tornato a raccomandare le vaccinazioni a tre mesi», come afferma la dottoressa Viera Scheibner sul “New England Journal of Medicine”.Morti bianche: 300 neonati ogni anno, in Italia, muoiono “in culla”. Uno su mille. Si chiama Sids, sindrome da morte infantile improvvisa (Sudden Infant Death Syndrome). Il sistema sanitario, accusa il naturopata Marcello Pamio, sottovaluta il problema: «Poco importa se tutti i bambini morti in culla hanno sempre fatto le vaccinazioni qualche giorno o qualche settimana prima». Casi archiviati come coincidenze, fatalità. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, la Sids «colpisce i bambini tra un mese e un anno di età», cioè nel periodo in cui vengono fatti i primi inoculi. A riferire di questa “strage silenziosa” è un giornale come “Il Gazzettino”: il 25 maggio 2016, il quotidiano di Venezia titola: “Vaccini, bimba a due mesi muore nel sonno a Torino dopo esavalente”. Sempre per l’Istituto Superiore di Sanità, «dopo le malformazioni congenite, la Sids è la causa principale di morte post-neonatale negli Stati Uniti». Secondo il National Vital Statistics Report del 2004, «l’incidenza della Sids è di circa 1,7 per mille nati vivi. Dati simili sembrano essere registrati anche in Europa. In Italia, la stima fornita dal centro di riferimento della Regione Lombardia, è di 1 su 1000 nati vivi».
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Psyops: come ci hanno manipolato e ingannato per 70 anni
Un percorso da brividi. Proprio così: questo il testo predisposto da Solange Manfredi con la redazione di “Psyops”. Un percorso ben documentato, che suscita ripetutamente il brivido di una conferma lungamente attesa: «Ma allora era proprio così, non ero uscito di senno…». In tanti avevamo sospettato, in parte anche saputo per esperienza diretta, di essere oggetto di trame per condizionarci in certe direzioni di scelta politica. E avevamo compreso che potenze straniere, spesso legate ad oscuri poteri manipolatori, avevano “talvolta” operato per influenzarci. E come sempre tutti i grandi media, gli accademici “riconosciuti” e le persone “sensate”, ribattevano con grande sicurezza che non era così. Che tutto era trasparente, e che questo era il solito “complottismo” privo di fondamento. Un coretto così diffuso e “autorevole” da insinuarci talvolta qualche dubbio… Ma era solo l’antico coretto plaudente degli inconsapevoli condizionati o dei servi del potere. Da questo rigoroso studio di Solange Manfredi emerge invece con forza qualcosa di ben più solido del momentaneo sospetto: la certezza che il disegno di manipolazione delle masse, delle classi politiche e delle dirigenze italiane è un vero e proprio, costante modus operandi.Sempre in funzione di condizionamento e stravolgimento delle regole e dei principi di democrazia. E per nulla sporadico. E che a questo gioco perverso si sono prestate schiere di traditori del loro paese e della propria coscienza, spesso dentro le strutture dello Stato. Talmente “dentro” da risultare normalmente del tutto, ancora, impuniti. Se i cittadini o i politici si orientano liberamente in certi modi, c’è sempre qualcuno che fa di tutto per porli nelle condizioni di scegliere diversamente, in direzioni che corrispondono non agli interessi o alle autonome opzioni dei cittadini, ma ai disegni schiavizzanti dei grandi poteri di manipolazione che si muovono dietro le quinte. E questo avviene di norma nella pressoché totale impunità e senza badare ai mezzi che freddamente e cinicamente si adoperano: corruzione, stragi, bombe, omicidi, terrorismo… persino guerre. Si creano tensioni e inimicizie che non esistevano, si imbrogliano generazioni di ragazzi, di cittadini e di politici con falsi problemi, false ideologie, falsi leader, falsi profeti, falsi schemi mentali. E ad organizzare queste trame, personaggi spesso oscuri ma insolitamente potenti, una strana commistione tra esoterismo deteriore, capacità di corruzione, affarismo e profili morali bassissimi.E sono loro a cucire insieme ordini oscuri, servizi segreti, ideologie depravate, ragazzi immaturi, servitori deviati dello Stato, carrieristi politici senza scrupoli, industriali e finanzieri impauriti o affamati, giornalisti venduti, pezzi di logge massoniche e di ordini religiosi. Per eseguire precise strategie di manipolazione che come primo obiettivo hanno quello di ridurre gli spazi di crescita e di libertà delle nostre coscienze. Perché rimangano schiave di quegli stessi antichi poteri che, pur cambiando di epoca in epoca volti e modalità, proprio grazie alle catene psichiche che ci opprimono continuano a dominare il mondo della politica, della scienza, della cultura e dell’economia. Ecco, sono proprio queste “catene psichiche” – che noi normalmente già nutriamo nella nostra vita individuale – che gli stessi poteri amplificano e sfruttano in modo raffinato, freddo e calcolato.Aggiungendo al momento opportuno paure, ansie, seduzioni, con quegli antichi meccanismi che ora gli anglosassoni – amanti delle sigle e delle abbreviazioni – chiamano Psyops, Psychological Operations. Questo libro documenta con chiarezza come questo sia avvenuto con costanza e pervicacia per settanta anni della nostra storia recente, e getti ancora un’ombra sinistra sul presente e sul futuro, facendo sorgere un’ovvia domanda: lo stanno facendo anche adesso? Nulla è cambiato nelle strutture di potere, che stanno anche ora continuando a manipolare le nostre coscienze con gli stessi intenti, e certamente continueranno a farlo. Basta guardarsi intorno con occhi lucidi e pensiero libero per rendersene conto. Volti e temi nuovi sono solo le maschere aggiornate di vecchissimi poteri. Sia negli schieramenti di maggioranza che nelle opposizioni, che vengono accuratamente selezionate, condizionate o create per alimentare il gioco della manipolazione, come risulta ottimamente documentato dal testo di Solange Manfredi.E le efficaci manovre occulte dell’ineffabile spia crowleyana Cambareri traggono alimento da una ideologia “mondialista” che si ritrova decenni dopo nelle motivazioni occulte dell’assassinio di Aldo Moro, e tuttora nei pesanti condizionamenti eurocentrici alla sovranità delle democrazie europee. La firma dietro le manovre di Cambareri appare la stessa che è dietro al caso Moro e alle pesanti spinte accentratrici odierne. Esiste una qualche possibilità di difendersi da queste manovre? Certamente, e risiede nelle stesse coscienze che vengono da sempre aggredite per essere schiavizzate e vampirizzate. Quelle stesse coscienze possono informarsi, scoprire le manipolazioni, destarsi, resistere, decidere liberamente del proprio destino… E proprio in questi anni stanno cominciando a farlo in numeri ancora minoritari ma crescenti, sempre più difficili da manipolare. Solo questo renderà “un giorno” le Psyops inutili, e noi più liberi.(Fausto Carotenuto, “Psyops, un importante libro rivelatore di Solange Manfredi – da leggere”, dal blog “Coscienze in Rete” del 20 giugno 2014. Il libro: Solange Manfredi, “Psyops”, ovvero “70 anni di guerra psicologica in Italia: come ci hanno manipolato, messi l’uno contro l’altro e mandato in guerra, per controllarci meglio”, edito da “Narcissus.me”, disponibile in ebook a euro 9,99 e in versione cartacea a euro 17,30. Propaganda, provocazioni, falsi incidenti e false flag terroristiche: il libro affronta un vasto arco storico, dalla Prima Guerra Mondiale al Trattato di Lisbona, attraverso Rivoluzione Russa e Trattato di Versailles, Seconda Guerra Mondiale, mafia e massoneria, Portella della Ginestra, l’attentato a Togliatti, il Piano Solo e la strategia della tensione, il golpe Borghese e gli opposti estremismi, il golpe Sogno, le Br e il sequestro Moro, Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica, fino all’instaurazione dell’Eurozona).Un percorso da brividi. Proprio così: questo il testo predisposto da Solange Manfredi con la redazione di “Psyops”. Un percorso ben documentato, che suscita ripetutamente il brivido di una conferma lungamente attesa: «Ma allora era proprio così, non ero uscito di senno…». In tanti avevamo sospettato, in parte anche saputo per esperienza diretta, di essere oggetto di trame per condizionarci in certe direzioni di scelta politica. E avevamo compreso che potenze straniere, spesso legate ad oscuri poteri manipolatori, avevano “talvolta” operato per influenzarci. E come sempre tutti i grandi media, gli accademici “riconosciuti” e le persone “sensate”, ribattevano con grande sicurezza che non era così. Che tutto era trasparente, e che questo era il solito “complottismo” privo di fondamento. Un coretto così diffuso e “autorevole” da insinuarci talvolta qualche dubbio… Ma era solo l’antico coretto plaudente degli inconsapevoli condizionati o dei servi del potere. Da questo rigoroso studio di Solange Manfredi emerge invece con forza qualcosa di ben più solido del momentaneo sospetto: la certezza che il disegno di manipolazione delle masse, delle classi politiche e delle dirigenze italiane è un vero e proprio, costante modus operandi.
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Sankara: basta rapinare l’Africa, col debito. E lo uccisero
Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore. Abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia, intervenuta qui. Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No, signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua.Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato. Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica. Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate. Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla molto poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato. Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.Il debito è anche conseguenza degli scontri. Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individi. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali, che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassifondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio. Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario. Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari. No! Non possiamo essere complici. Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine. Signor presidente, sentiamo parlare di club – Club di Roma, Club di Parigi, Club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei Cinque, dei Sette, del Gruppo dei Dieci, forse del Gruppo dei Cento o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire, oggi, che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma, al contrario, intenzioni fraterne.Del resto, le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano, e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire, al contrario, che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi.Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo. Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe, qui, che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani”, senza maturità ed esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto. E posso citare, tra quelli che dicono di non pagare il debito, dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani. Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare. Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario. Ma posso citare anche François Mitterrand, che ha detto che i paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare. Posso citare la signora primo ministro di Norvegia. Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo, è solo un esempio.Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny. Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che, quanto al suo paese, la Costa d’Avorio, non può pagare. Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona. E per questo, d’altronde, è normale che paghi un contributo maggiore, qui. Signor presidente, la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adottasse la risoluzione di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellico. Questo per evitare di farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, io non sarò qui alla prossima conferenza! Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, col sostegno di tutti potremo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo consacrare le nostre magre risorse al nostro sviluppo.E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma, è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. E’ contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma, signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano.Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che, a partire da Addis Abeba, decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i machete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo. Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonella, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione e io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda, ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E’ il solo modo di vivere liberi e degni.(Thomas Sankara, estratto dal “discorso sul debito” pronunciato al vertice panafricano di Addis Abeba, Etiopia, il 29 luglio 1987. Un anno dopo, il 28 ottobre, Sankara verrà assassinato a Ouagadougu, capitale del Burkina Faso, che quattro anni prima aveva liberato, con la sua rivoluzione, dal colonialismo francese. Il presidente dell’Organizzazione per l’Unità Africana, cui Sankara si rivolge nel discorso, è il congolese Denis Sassou-Nguesso, mentre la citata premier norvegese è Gro Harlem Brundtland, progressista e ambientalista. Riletto oggi, il celebre discorso di Sankara – martire socialista della sovranità democratica dell’Africa – è particolarmente illuminante, di fronte alla tragedia quotidiana dell’esodo dei migranti africani).Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.
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Twin Towers, esplosivi: le prove. Ma l’America non le vuole
Le torri del World Trade Center di New York non sarebbero state distrutte dall’impatto di due aerei di linea, ma da un’operazione di “demolizione controllata”, condotta con esplosivi militari a base di nano-termite. Un’accusa pesantissima, che costringe a rileggere sotto una nuova e drammatica luce l’attentato dell’11 Settembre 2001, confermando i sospetti iniziali sull’assoluta inattendibilità della versione ufficiale. A muoverla è l’associazione americana no-profit “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, architetti & ingegneri per la verità sull’11 Settembre. E’ costituita dai 2.363 architetti e ingegneri statunitensi che nell’autunno 2016 hanno firmato una petizione indirizzata al Congresso Usa per riaprire una vera investigazione indipendente sulla distruzione del World Trade Center. Lo ricorda Rino Di Stefano in un’accurata ricostruzione, sul suo blog, del maxi-attentato di New York che ha innescato le guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite dai conflitti a catena in Libia e Siria, in cui la sigla terroristica iniziale, Al-Qaeda, ha lasciato il posto alla sua filiazione diretta, Isis, in una spirale di violenza e orrore che, da allora, ha giustificato l’impiego sistematico di eserciti, impensabile prima dell’11 Settembre.Gli “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, ricorda Di Stefano, hanno inviato un dettagliato report (“Oltre la disinformazione”) a oltre 20.000 americani: professionisti, professori, legislatori e giornalisti. L’autore del dossier è Ted Walter, alla guida di un team dal curriulum ragguardevole: tra i membri Sarah Chaplin, architetto (università londinese di Kingston), Mohibullah Durrani (docente di ingegneria e fisica al Montgomery College del Maryland), Richard Gage (fondatore dell’associazione per la verità sull’11 Settembre), Robert Korol e Graeme McQueen (Università McMaster dell’Ontario), più l’architetto Roberto McCoy e l’ingegnere Oswald Rendon-Herrero, docente dell’Università Statale del Mississippi. «Secondo la versione ufficiale rilasciata dal governo Bush – ricorda Di Stefano – le Torri Gemelle del World Trade Center di New York (entrambe di 110 piani per un’altezza di 415 metri) sono crollate a causa dell’impatto, e del conseguente incendio, provocato da due aerei di linea nel corso di un attentato portato a termine da un gruppo di terroristi mediorientali. Inoltre, anche la terza Torre, chiamata Wtc 7, un edificio di 47 piani alto 174 metri, sarebbe crollata simmetricamente su se stessa nel pomeriggio di quel giorno, in seguito all’incendio provocato dai detriti della Torre 1».Ebbene, questa soluzione non viene accettata, in quanto definita “non scientifica”, da buona parte degli architetti e degli ingegneri americani. «Questi esperti dell’edilizia dichiarano, infatti, che le tre torri siano state fatte crollare in seguito ad un’accurata operazione di demolizione controllata provocata dalla disposizione di esplosivi e altri dispositivi, fatti detonare al momento opportuno per far crollare le strutture nel modo desiderato». Non solo. «L’associazione degli Architetti & Ingegneri – continua Di Stefano – dice chiaramente che l’operazione sarebbe stata preparata prima dell’11 Settembre da specialisti della demolizione che hanno avuto libero accesso alle torri nei giorni precedenti l’attentato». L’analisi offerta è esclusivamente scientifica. La storia del crollo di edifici a completa struttura metallica (come le Torri Gemelle) è lunga almeno cento anni: durante questo periodo, non si è mai verificato che un edificio di quel genere fosse crollato a causa di un incendio. Tutti, infatti, sono stati abbattuti nel corso di operazioni di demolizione controllata. Nonostante questo dato di fatto, il Nist (National Institute of Standards and Technology), incaricato dal governo Bush di indagare sul disastroso attentato, nei risultati della sua indagine ufficiale ha scritto che ha trovato 22 casi di incendio che tra il 1970 e il 2002 hanno portato al crollo di altrettanti palazzi.Di questi 22 casi, 15 furono crolli parziali, dei quali cinque superavano i 20 piani di altezza. Analizzando invece ogni singolo caso, prosegue Di Stefano, lo studio accertò che soltanto in quattro casi si verificò un totale crollo dell’edificio interessato all’incendio, ma nessuno di questi aveva una struttura metallica, e il più alto era di appena 9 piani. «Vennero fatti anche diversi test presso il Building Research Establishment (Bre) Laboratories di Cardington, in Inghliterra, ma in nessun caso risultò che edifici con una struttura metallica potessero crollare completamente a causa di un incendio, per quanto devastante». La probabilità che un’evenienza di questo tipo potesse accadere, venne scritto, era “extremely low” (estremamente bassa). «Se poi si confrontano gli effetti di un crollo dovuto ad incendio rispetto ad un crollo da demolizione controllata, le differenze saltano agli occhi. Nel primo caso, infatti, il collasso dell’edificio è sempre parziale e si ferma ai piani inferiori. In una demolizione controllata, invece, il collasso è totale, avviene in pochi secondi e la caduta è libera, con una discesa simmetrica sul proprio asse».C’è poi il discorso delle esplosioni, sottolinea Di Stefano: mentre un crollo da incendio, se mai si dovesse verificare un’esplosione, avverrebbe là dove le fiamme si sono sviluppate, «nel crollo da demolizione controllata le esplosioni si vedono chiaramente piano per piano, all’esterno dell’edificio: ed è quello che è accaduto nelle Torri Gemelle». La probabilità di un incendio che possa aver causato il crollo totale di un edificio molto alto con una struttura metallica è estremamente basso, sostengono gli “Architetti & Ingegneri”. «Un evento di questo genere non è mai accaduto prima dell’11 Settembre 2001. D’altra parte, nella storia, ogni crollo totale di un edificio molto alto a struttura metallica, è stato causato da demolizione controllata». Secondo punto: un incendio che induce un cedimento delle strutture, di fatto, non mostra alcuna delle caratteristiche di una demolizione controllata. Inoltre, come può essere visto in ciò che è accaduto l’11 Settembre 2001, la distruzione di Wtc 1, Wtc 2 e Wtc 7 mostra «quasi tutte le caratteristiche della demolizione controllata e nessuna caratteristica del collasso provocato da un incendio». Aggiunge Edward Munyak, ingegnere specializzato in misure anti-incendio: «Un collasso globale progressivo potrebbe anche essere straordinario. Ma averne tre in un giorno va oltre ogni comprensione».Buio pesto dalle indagini ufficiali: «Per oltre un anno dal disastro, il governo Bush ha impedito qualunque investigazione su quanto accadde quel giorno», premette Di Stefano. Prima del Nist, le indagini ufficiali erano state condotte dalla Fema (Federal Emergency Management Agency). «Il primo a parlare di bombe situate all’interno delle Torri Gemelle fu l’ingegner Ronald Hamburger della Asce (American Society of Civil Engineers), che collaborava con la Fema». Tuttavia, Hamburger «si rimangiò i propri dubbi quando gli venne detto che nessuno aveva sentito esplosioni nei pressi delle Torri Gemelle». Non fu il solo a smentire la propria prima impressione: Van Romero, un esperto di esplosivi della New Mexico Tech, rilasciò un’intervista al quotidiano “Albuquerque Journal” sostenendo: «Il crollo dei palazzi è stato troppo ordinato per essere il risultato fortuito dell’impatto di aeroplani contro le strutture». E aggiunse: «La mia opinione, basata su quanto ho visto nei filmati, è che dopo che gli aerei hanno colpito il World Trade Center, ci siano stati dei congegni esplosivi dentro i palazzi che hanno causato il crollo delle torri».Il 21 settembre, dopo aver parlato con non meglio identificati “ingegneri strutturali”, Romero ritrattò tutto. Il fatto è che il fuoco dell’incendio doveva essere ufficialmente la causa del disastro, spiega Di Stefano. I dubbi, però, non mancavano. Il 29 novembre del 2001 William Baker, uno degli ingegneri della Fema, rilasciò al “New York Times” la seguente affermazione: «Noi sappiamo che cosa è accaduto alle Torri 1 e 2, ma perché la 7 è venuta giù?». Come scrissero i cronisti James Glanz ed Eric Lipton del “New York Times”, per mesi dopo l’11 Settembre gli investigatori non riuscirono a ottenere i progetti dettagliati degli edifici crollati, ad ascoltare i testimoni del disastro, a fare ispezioni a Ground Zero e ad ascoltare le voci registrate della gente che era rimasta intrappolata all’interno delle torri. Inoltre, la Fema «impedì che gli investigatori si rivolgessero al pubblico per ottenere fotografie e video che avrebbero potuto aiutarli nelle indagini».Un comportamento “incomprensibile”, da parte del governo. «Gli investigatori non riuscirono neppure a prelevare campioni dei detriti delle Torri in quanto, con una fretta sospetta, le migliaia di tonnellate di macerie vennero prelevate, caricate su alcune navi e inviate in Cina e in India per essere smaltite». Così, il 1° maggio 2002, la Fema presentò un dossier preliminare «nel quale non forniva una spiegazione definitiva per la distruzione di ogni singolo edificio», preferendo proporre la cosiddetta “teoria pancake”. Ovvero: le singole solette di cemento dei vari piani superiori, colpiti dall’aereo, sarebbero crollate sul piano inferiore determinando un effetto domino. «Il punto, però, è che il piano sottostante in condizioni normali avrebbe resistito all’impatto», obiettano i tecnici indipendenti. Se non è accaduto, «è perché è venuta meno la forza della sua resistenza». In altre parole, sintetizza Di Stefano, «quando un piano crollava su quello inferiore, alcune cariche esplosive distruggevano le colonne portanti di quella seconda soletta, innescando un effetto a catena».Il Nist si è fermato alla “teoria del pancake”, mentre per il terzo edificio, il Wtc 7, se l’è cavata sostenendo di non aver notato «alcuna prova» che il crollo dell’Edificio 7 sia stato «causato da bombe, missili o demolizione controllata». Ultimo verdetto nell’agosto 2008: edificio crollato anch’esso a causa del fuoco. A smentire il Nist è un libro firmato da due ricercatori, Frank Legge e Anthony Szamboti, il cui libro è intitolato, esplicitamente “9/11 and the Twin Towers: Sudden Collapse Initiation was Impossible”, cioè “Torri Gemelle, l’inizio del crollo repentino era impossibile”. Sostengono gli autori: «Un lento, prolungato e cedevole collasso non è stato osservato». Lo confermano i video: «La sezione più alta improvvisamente ha iniziato a cadere e a disintegrarsi». Un punto di vista tecnico largamente condiviso nel dossier degli “Architetti & Ingegneri”. Il governo sostiene che le colonne portanti delle torri si sarebbero deformate diversi minuti prima del crollo? I tecnici indipendenti smentiscono: non si sono visti affatto gli «inconfondibili segni d’avvertimento» e le «grandi deformazioni» che ci si aspetterebbe prima di un crollo.Se questo processo è avvenuto, scrivono i professionisti, allora è stato invisibile. Ed è avvenuto nel singolo istante in cui le strutture sono crollate. Secondo Kevin Ryan, un ex direttore della Underwriters Laboratories, «la diffusione dell’instabilità avrebbe richiesto molto più tempo e non risulterebbe nella caduta libera delle sezioni superiori sulle strutture inferiori». Il Nist, ricorda Di Stefano, afferma che il Wtc 1 è crollato in appena 11 secondi, mentre la Torre 2 in 9 secondi. Sempre il Nist afferma che la “caduta libera” delle Torri Gemelle è dimostrata dai video, in quanto «i piani inferiori al livello del crollo hanno offerto una minima resistenza alla tremenda energia rilasciata dalla massa dell’edificio che stava cadendo». Per gli scienziati indipendenti, autori di un primo esposto insieme a familiari delle vottime, le motivazioni del Nist «non erano scientificamente valide». L’autorità non avrebbe affatto spiegato le cause tecniche: che cosa è realmente accaduto, e perché. In altre parole, come poi lo stesso Nist fu costretto ad ammettere, gli esperti del governo «non erano in grado di fornire una spiegazione completa del crollo totale».Un’altra osservazione che mette in forte dubbio i risultati del Nist, continua Di Stefano nella sua ricostruzione, riguarda l’assoluta mancanza di decelerazione durante il crollo delle torri. «Una mancanza di decelerazione – riporta il dossier – indicherebbe con assoluta certezza che la struttura inferiore è stata distrutta da un’altra forza, prima che la parte superiore la raggiungesse». Il primo studio a mettere in dubbio i risultati ufficiali (“Il colpo mancante”) è stato firmato da Anthony Szamboti, ingegnere meccanico, e Richard Johns, professore di filosofia della scienza. La tesi: il Nist aveva calcolato male la resistenza delle colonne all’interno delle Torri Gemelle. Successivi studi hanno accertato che «la costante accelerazione e la mancanza di una osservabile decelerazione, per se stesse, costituiscono una irrefutabile evidenza che siano stati usati esplosivi per distruggere le Torri Gemelle». Inoltre, una delle caratteristiche più evidenti della distruzione delle Twin Towers è stata la quasi totale polverizzazione del cemento. L’allora governatore di New York, George Pataki, scrisse nella sua relazione sul disastro: «Non c’è cemento. C’è veramente poco cemento. Tutto quello che si vede è alluminio e acciaio. Il cemento è stato polverizzato».Oltre a questo, continua Di Stefano, le strutture d’acciaio delle torri erano quasi interamente smembrate. A parte alcuni muri esterni ancora in piedi alla base di ogni edificio, virtualmente tutti gli scheletri d’acciaio erano rotti in diversi pezzi, con la parte centrale separata dalle colonne esterne. «Che cosa potrebbe mai spiegare la quasi totale polverizzazione di circa 3 milioni di metri quadrati di solette di cemento e il quasi totale smembramento di 220 piani di struttura d’acciaio? Il Nist non fornisce alcuna spiegazione e la sola forza di gravità non appare plausibile. Anche perché, viene spiegato nel dossier, l’energia necessaria per polverizzare il cemento e smembrare le strutture d’acciaio è calcolabile in 1.255 gigajoule. Una misura decisamente lontana dagli stimati 508 gigajoule di potenziale energia gravitazionale contenuta negli edifici». L’enorme nuvola di cemento polverizzato che ha sommerso Manhattan «diventa ancora più incomprensibile se si pensa che il crollo è avvenuto “essenzialmente in caduta libera”». Secondo il dottor Steven Jones, ex professore di fisica presso la Brigham Young University, «il paradosso è facilmente risolvibile con l’ipotesi della demolizione esplosiva, là dove gli esplosivi facilmente rimuovono i materiali dei piani inferiori, incluse le colonne portanti, permettendo di fatto un crollo in caduta libera».Altro fattore “inspiegabile”, il lancio di materiali verso l’alto e lateralmente, piuttosto distanti dal perimetro degli edifici. Secondo la Fema, i materiali dei due edifici sono stati lanciati fino a oltre 150 metri dalla base di ogni torre. In video prodotto dal fisico David Chandler, si nota l’espulsione esplosiva di materiali dalla Torre 1, «continui e molto estesi», anche alla velocità di 170 chilometri orari. «Il palazzo – afferma – è stato progressivamente distrutto, a partire dalla cima, da ondate di esplosioni che hanno creato una spessa coltre di detriti». E aggiunge: «Insieme alla nuvola di polvere vi sono pesanti travi e intere sezioni di frammenti d’acciaio che sono stati lanciati fuori dal palazzo: alcuni sono finiti così lontano, come due campi di football dalla base della torre». A chi sostiene che l’espulsione “esplosiva” di quei frammenti sia stata un semplice prodotto del crollo, il professor Chandler risponde: «Non abbiamo visto isolate travi lanciate all’esterno. Noi abbiamo visto la maggior parte della massa dell’edificio ridotta in piccoli pezzi di pietrisco e polvere fina, espulsa esplosivamente in tutte le direzioni».Secondo lo scienziato Kevin Ryan, l’espulsione esplosiva dei materiali dalle Torri Gemelle è spiegabile soltanto come «scoppi ad alta velocità di detriti espulsi da precisi punti degli edifici». L’ipotesi della demolizione, afferma Ryan, «suggerisce che questi scoppi di detriti siano il risultato della detonazione di cariche esplosive piazzate in punti chiave della struttura, per facilitare la rimozione della resistenza». E specifica: «Ognuno di questi scoppi era costituito da un’improvvisa e secca emissione che appariva provenire da un preciso punto, espellendo approssimativamente tra i 15 e i 30 metri dal lato del palazzo, in una frazione di secondo». Dai fotogrammi estratti da un video, «possiamo stimare che uno di questi scoppi è durato complessivamente 0,45 secondi: questo ci fornisce una velocità media di circa 52 metri al secondo». Rileva Di Stefano: «E’ significativo che il Nist non abbia nemmeno parlato di questi scoppi nella sua relazione finale, mentre nelle sue “Faq” cita gli scoppi come “sbuffi di fumo”, sostenendo che “la massa crollante del palazzo aveva compresso l’aria sottostante – quasi come l’azione di un pistone – forzando il fumo e i detriti fuori dalle finestre mentre i piani inferiori crollavano sequenzialmente».Secondo Ryan, la spiegazione del Nist non è valida. «I piani delle torri – sostiene lo scienziato – non erano containers chiusi e altamente pressurizzati in grado di generare alte pressioni abbastanza forti da far scoppiare le finestre. La massa crollante avrebbe dovuto agire come un disco piatto che esercita una pressione uniforme su tutti i punti. Ma le sezioni superiori, esse stesse disintegrate come si vede nei video, non possono esercitare una pressione uniforme». Anche prendendo in considerazione un ipotetico perfetto container e una pressione uniforme, usando la “Legge del Gas Ideale” per calcolare il cambiamento della pressione, «possiamo determinare che la pressione dell’aria non potrebbe aumentare abbastanza per far scoppiare le finestre». Tanto più che «gli scoppi contenevano detriti polverizzati, non fumo e polvere». Inoltre, «i detriti del palazzo da 20 a 30 piani sotto la zona del crollo, non potevano essere polverizzati ed espulsi lateralmente dalla pressione dell’aria».Oltre al ricco materiale fotografico e televisivo riguardante la distruzione delle Torri Gemelle, continua Rino Di Stefano, bisogna considerare anche il numero delle testimonianze raccolte dai vigili del fuoco (Fdny, New York Fire Department) nella loro relazione, più di 10.000 pagine di dichiarazioni giurate di oltre 500 pompieri. In più, come documentato dal dottor Graeme McQueen, ben 156 testimoni oculari hanno parlato esplicitamente delle esplosioni che hanno visto e sentito durante il crollo delle torri. Tra questi, 121 sono pompieri e 14 sono agenti della polizia portuale (Port Authority Police Department). Altri 13 sono giornalisti presenti sul posto. In caso di normali incendi, si registrano quattro tipi di esplosioni: da vapore, da impianti elettrici, da fumo e da combustione. I vigili del fuoco di New York «sanno riconoscere questi fenomeni, anche perché sono irregolari e certamente non sincronizzati». Invece, nel caso delle Torri Gemelle, «i testimoni hanno parlato di esplosioni precise e distanziate di pochi secondi l’una dall’altra», tanto che alcuni si sono spinti ad affermare che «le Torri Gemelle sono state distrutte dalle esplosioni».«Si è arrivati al punto che è infuriata una discussione sulla percezione che abbiamo avuto circa il fatto che il palazzo sembrava fosse stato fatto saltare in aria con delle cariche», racconta Cristopher Fenyo in un’intervista rilasciata al “Wtc Task Force”. «In effetti, ho pensato che stava esplodendo», ricorda John Coyle, un altro testimone: «Questo è ciò che ho pensato in seguito per diverse ore. Penso che chiunque a quel punto pensasse che quei palazzi fossero esplosi». Nonostante il Nist si ostini ad ignorare le testimonianze, sostenendo invece che non ci siano prove di esplosioni nelle Torri Gemelle, il professor McQueen, riferendosi alla relazione dei vigili del fuoco di New York, afferma: «Abbiamo avuto 118 testimoni su 503 intervistati. Circa il 23% del gruppo sono testimoni delle esplosioni. A mio avviso, questa è un’alta percentuale di testimoni, specialmente considerando che a queste persone non sono state rivolte domande circa le esplosioni e, nella maggior parte dei casi, neanche sono state poste domande circa il crollo delle torri». In conclusione, il dossier sostiene che il Nist, decidendo di non indagare a fondo su quelle che sono state le vere cause del crollo delle Torri Gemelle, ha condotto una “piccola analisi” sul comportamento tenuto dalle strutture edilizie, ignorando volutamente qualunque prova ne potesse derivare. Di conseguenza, il Nist non è riuscito a fornire convincenti prove scientifiche.Poi c’è il “mistero” del crollo, quasi simmetrico dell’Edificio 7, a parecchia distanza dalle due torri colpite dagli aerei. La terza torre, ricorda Di Stefano, è crollata su se stessa intorno alle 17 dell’11 settembre 2001, senza essere stata colpita da nessun jet o comunque coinvolta nel crollo delle altre due torri principali. Per il Nist, l’evento è normale e rientra nella logica delle cose. L’incendio si sarebbe esteso anche al terzo edificio del complesso, indebolendone le strutture e facendolo crollare. «Oltre alla spiegazione verbale, il Nist non ha fornito alcuna motivazione strutturale o scientifica». Secondo David Chandler, docente di fisica, questa spiegazione non regge. «La caduta libera – afferma – non è compatibile con qualunque scenario naturale che abbia a che fare con la debolezza, la deformazione o la frantumazione delle strutture, in quanto in ognuno di questi scenari ci sarebbero grandi forze di interazione con le sottostanti strutture, che avrebbero fatto rallentare la caduta… Il crollo naturale risultante da caduta libera, semplicemente non è plausibile». Per Chandler, il crollo del Wtc 7 è la prova lampante della demolizione controllata. Il Nist obietta: non vi fu vera “caduta libera”, poiché 18 piani dell’edificio sono crollati in 5,4 secondi, cioè con un margine del 40% più lungo (circa 1,5 secondi) rispetto al tempo stimato della caduta libera. Ma Chandler taglia corto: «Il crollo non è avvenuto per il cedimento di una colonna, o di alcune colonne o di una sequenza di colonne. Tutte le 24 colonne interne e le 58 perimetrali sono state rimosse simultaneamente nell’arco di otto piani e in una frazione di secondo. In questo modo la metà superiore dell’edificio è rimasta intatta».Così come le Torri Gemelle, anche la struttura metallica dell’Edificio 7 è stata completamente smembrata. E i detriti hanno formato un compatto cumulo di rifiuti lungo il perimetro del palazzo. Anche in questo caso, sospetta Di Stefano, lo smembramento dell’edificio si può spiegare soltanto con la demolizione controllata. Lo spiegava già nel 1996 Stacey Loizeaux, della Controlled Demolition Inc., azienda specializzata: i demolitori agiscono da due a sei piani, a seconda dell’altezza del palazzo, per colpire le colonne portanti e far crollare l’edificio su se stesso, riducendo anche la grandezza degli eventuali detriti. Inoltre, più che di “esplosione” si dovrebbe parlare di “implosione”, in quanto il palazzo deve crollare senza uscire dal proprio perimetro. Come, appunto, è accaduto nel caso del Wtc 7. Altra omissione del Nist, le testimonianze: l’agenzia governativa sostiene che non esistano, ma è smentita da svariati video. «Improvvisamente ho guardato verso l’alto e ho visto che il palazzo crollava su se stesso», racconta Craig Bartmer, ex agente della polizia di New York. «Ho cominciato a correre e per tutto il tempo ho sentito “thum, thum, thum, thum, thum”. Credo di riconoscerla, un’esplosione, quando la sento».Conferma un volontario, Kevin McPadden: «Abbiamo sentito delle esplosioni, come ba-booom! Era un suono distinto, ba-boom. Si poteva sentire un rombo nel terreno, come se ci si volesse aggrappare a qualcosa». La reporter televisiva Ashleigh Banfield della “Msnbc” era sul posto. Nel servizio in diretta a un certo punto si sente una forte esplosione e lei dice: «Oh, mio Dio… Ci siamo». Circa 7 secondi dopo, il Wtc 7 è crollato. E appena un’ora dopo la distruzione delle Torri Gemelle, le autorità hanno cominciato a parlare del crollo dell’Edificio 7 con un alto grado di sicurezza e di precisione. «Le loro anticipazioni erano talmente certe – scrive Di Stefano – che alcuni giornali hanno scritto del crollo del Wtc 7 ancora prima che avvenisse». Una previsione azzeccata? Non esattamente: «Quando i filmati video furono esaminati con calma, ci si accorse che la notizia era basata su una precisa conoscenza dei fatti. Dal momento che gli ingegneri si definivano sbalorditi per quanto era accaduto al Wtc 7, come facevano le autorità a “predire” un evento che neanche gli ingegneri sapevano spiegarsi quattro anni e mezzo dopo?». Del resto, aggiunge Di Stefano, «ci sono prove inconfutabili di esplosioni avvenute nell’edificio: durante una ripresa televisiva, la “Cnn” ha registrato l’inconfondibile suono di un’esplosione proveniente dal Wtc 7 e l’urlo di un operaio che avvertiva come l’edificio “stava esplodendo”, pochi secondi prima del crollo. Nonostante tutto questo, il Nist si è rifiutato di prendere in considerazione qualunque prova».Secondo la Nfpa 921, cioè la guida ufficiale americana le cui norme devono essere seguite in caso di indagini inerenti eventuali incendi o esplosioni, è necessario valutare tutte le possibili fonti per accertare le cause dei disastri sui quali si indaga. Una di queste fonti, da prendere in considerazione nell’eventualità di fusione dell’acciaio, è la termite. Si tratta – spiega Di Stefano – di una miscela esplosiva altamente incendiaria, a base di polvere di alluminio e triossido di ferro, in grado di sciogliere istantaneamente l’acciaio. Normalmente, la termite viene usata per saldare i binari e per usi militari (all’interno delle granate). «Ebbene, per evitare di parlare della termite nel caso dell’11 Settembre, il Nist si è rifiutato di adottare la consueta procedura della Nfpa 921», secondo “Architetti e Ingegneri” «negando, ignorando o accampando spiegazioni di carattere speculativo, non basate su analisi di tipo scientifico». E questo, afferma il dossier, «in quanto non esiste alcuna plausibile e logica spiegazione della presenza di reazioni chimiche ad alta temperatura, se non quella di una demolizione controllata, usando meccanismi a base di termite».Secondo il Nist, i rivoli di metallo fuso che fuoriuscivano già dalla Torre 2 prima del crollo totale, erano di alluminio fuso. «C’è un problema, però. Come si vede distintamente dai video sul disastro di New York, i rivoli di metallo fuso che fuoriuscivano dalle Torri Gemelle erano di un giallo-fuoco brillante, mentre l’alluminio fuso è di colore argenteo». Come spiega il dottor Steven Jones nel suo “Why Indeed Did the Wtc Buildings Completely Collapse” (Perché davvero gli edifici del Wtc sono completamente crollati), «il color giallo implica un metallo fuso con una temperatura approssimativa di 1000 °C, evidentemente al di sopra di quella che l’incendio da idrocarburi avvenuto all’interno delle Torri avrebbe potuto produrre». Inoltre, «il fatto che il metallo liquido tendesse ad una sfumatura color arancio in prossimità del terreno esclude ulteriormente la presenza di alluminio». Non appena si è reso conto che la sua posizione era indifendibile, il Nist ha cercato di correre ai ripari sostenendo che «il color arancio era dovuto al fatto che l’alluminio liquido si era mescolato con solidi materiali organici, cambiando colore». Ma Jones smentisce categoricamente: «L’alluminio fuso non altera affatto il suo colore».A complicare la situazione, ci sono altre testimonianze. Leslie Robertson, uno dei progettisti delle Torri Gemelle, racconta: «Eravamo al livello B-1 e uno dei vigili del fuoco ha detto: “Credo che questo dovrebbe interessarvi”. E ci ha mostrato un grosso blocco di cemento sul quale scorreva un piccolo rivo di acciaio fuso». Ma non è l’unico testimone. Il capitano Philip Ruvolo ricorda la scena a cui assistette insieme ad altri vigili del fuoco: «Se guardavi sotto, vedevi acciaio fuso, acciaio fuso che scorreva giù, lungo i canali delle inferriate, come se fossimo stati in una fonderia, come lava». Secondo il Nist, il più alto grado di temperatura raggiunto nelle Torri in fiamme è stato di 1.100 gradi. Ma l’acciaio delle strutture non comincia a fondere con meno di 1.482 gradi. Come si spiega, dunque, la presenza del metallo fuso? «Il Nist semplicemente non risponde, ignorando il problema». Altro guaio: come riportato da James Glanz e Eric Lipton sul “New York Times” già nel febbraio del 2002, i detriti delle Torri Gemelle (analizzati dal Worcester Polytechnic Institute) hanno rivelato la presenza di residui di zolfo combinatosi con l’acciaio, «formando un composto che si scioglie a temperature più basse». Com’era potuto accadere? La risposta, per Steven Jones, sta proprio nella termite, l’esplosivo della demolizione controllata: quel composto infiammabile, dice, «viene prodotto quando lo zolfo è aggiunto alla termite, e questo fa in modo che l’acciaio fonda a una temperatura molto più bassa e più velocemente, grazie alla solforazione e all’ossidazione dell’acciaio attaccato».Ancora una volta, aggiunge Di Stefano, il Nist ha ignorato l’evidenza, rispondendo che di fatto non era più possibile analizzare rottami di acciaio provenienti dall’Edificio 7, in quanto tutti i detriti erano stati portati via da un pezzo, già all’inizio delle indagini. La situazione si aggrava ulteriormente, con vari studi tecnici: il primo, “The Rj Lee Report” (maggio 2004), rileva nella polvere «sfere di ferro e vescicole di particelle di silicio», prodotte a temperature altissime. Il microscopio elettronico ha individuato «sferette di ferro» nella polvere della Torre 2 (“The Usgs Report, prodotto nel 2005 dall’Us Geological Survey). Un terzo studio, del 2008, prodotto da otto scienziati, ha confermato la presenza di sfere di ferro, più silicati e sfere disciolte di molibdeno, materiale che fonde a 2.623 gradi. Ma le sorprese non sono finite, continua Di Stefano. Nell’aprile del 2009, un gruppo di scienziati guidati dal dottor Niels Harrit, un esperto di nano-chimica che ha insegnato per oltre 40 anni all’Università di Copenaghen, ha pubblicato sulla rivista internazionale “Open Chemical Physics Journal” un articolo che denuncia la presenza di “materiali termitici attivi” scoperti nella polvere della catastrofe dell’11 Settembre. «Questo studio ha rivelato la presenza di nano-termite (e cioè una specie di termite esplosiva progettata a livello di nano-particelle) nella polvere seguita al disastro».I campioni da analizzare furono prelevati in due riprese: il primo venti minuti dopo il crollo del Wtc 1, gli altri due nel giorno successivo. Lo studio giunse alla conclusione che i grattacieli di Mahnattan, le due Torri Gemelle più l’Edificio 7, «furono tutti distrutti da demolizione controllata e altri materiali incendiari». Inutile dire che, anche questa volta, le autorità hanno ignorato i ricercatori indipendenti. «In tutti i modi il Nist ha provato a ribattere alla pioggia di critiche di chi portava prove e fatti a dimostrazione che le tre Torri siano state intenzionalmente distrutte con esplosivi», conclude Di Stefano. «Il problema è che, in realtà, non ci sono prove a supporto della teoria che gli incendi abbiano fatto crollare edifici a struttura metallica come quelli». Il Nist ha anche fornito modelli digitali per dimostrare le proprie tesi, «ma sono sempre mancate le prove scientifiche per poter affermare senza possibilità di dubbio che, in effetti, siano proprio stati gli incendi ad abbattere quei giganti della moderna edilizia e ad uccidere quasi tremila persone». Servirebbe una nuova indagine, ma c’è un problema a monte. Enorme: «L’americano medio non può e non vuole accettare l’idea che il proprio governo sia implicato in un atto criminale di quelle proporzioni». L’unica certezza è che le 2.974 vittime degli attentati (2.999 se si calcolano anche quelle morte in seguito) restano ancora in attesa di giustizia: di fronte all’America, e all’umanità intera.Le torri del World Trade Center di New York non sarebbero state distrutte dall’impatto di due aerei di linea, ma da un’operazione di “demolizione controllata”, condotta con esplosivi militari a base di nano-termite. Un’accusa pesantissima, che costringe a rileggere sotto una nuova e drammatica luce l’attentato dell’11 Settembre 2001, confermando i sospetti iniziali sull’assoluta inattendibilità della versione ufficiale. A muoverla è l’associazione americana no-profit “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, architetti & ingegneri per la verità sull’11 Settembre. E’ costituita dai 2.363 architetti e ingegneri statunitensi che nell’autunno 2016 hanno firmato una petizione indirizzata al Congresso Usa per riaprire una vera investigazione indipendente sulla distruzione del World Trade Center. Lo ricorda Rino Di Stefano in un’accurata ricostruzione, sul suo blog, del maxi-attentato di New York che ha innescato le guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite dai conflitti a catena in Libia e Siria, in cui la sigla terroristica iniziale, Al-Qaeda, ha lasciato il posto alla sua filiazione diretta, Isis, in una spirale di violenza e orrore che, da allora, ha giustificato l’impiego sistematico di eserciti, impensabile prima dell’11 Settembre.
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Indagine-choc: fibre di plastica nell’acqua del rubinetto
Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».Yunus, il fondatore della banca di microcredito Grameen Bank, progetta di lanciare un’iniziativa contro lo spreco di plastica nei prossimi mesi. Ricerche sempre più numerose, aggiungono Morrison e Tyree, dimostrano la presenza di microscopiche fibre di plastica negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria: «Questo studio è il primo a provare l’esistenza di una contaminazione da plastica nell’acqua corrente di tutto il mondo». Attenzione: «Gli scienziati non sanno in che modo le fibre di plastica arrivino nell’acqua di rubinetto, o quali possano essere le implicazioni per la salute. Qualcuno sospetta che possano venire dai vestiti sintetici, come gli indumenti sportivi, o dai tessuti usati per tappeti e tappezzeria. Il timore è che queste fibre possano veicolare sostanze chimiche tossiche, come una sorta di navetta che trasporta sostanze pericolose dall’acqua dolce al corpo umano». Negli studi su animali, «era diventato chiaro molto presto che la plastica avrebbe rilasciato queste sostanze chimiche, e che le condizioni dell’apparato digerente avrebbero facilitato un rilascio piuttosto rapido», racconta Richard Thompson, direttore della ricerca all’università di Plymouth, Gran Bretagna.Dalle osservazioni sulla fauna selvatica e l’impatto che sta avendo questa cosa abbiamo dati a sufficienza per essere preoccupati, aggiunge Sherri Mason, una delle pioniere della ricerca sulla microplastica, che ha supervisionato lo studio della “Orb Media”: «Se sta avendo un impatto sulla fauna selvatica, come possiamo pensare che non avrà un impatto su di noi?». La contaminazione, scrive “Repubblica”, sfida le barriere geografiche e di reddito: il numero di fibre trovate nel campione di acqua di rubinetto prelevato nei bagni del Trump Grill, il ristorante della Trump Tower a New York, è uguale a quello dei campioni prelevati a Quito, la capitale dell’Ecuador. “Orb Media” ha rilevato fibre di plastica persino nell’acqua in bottiglia, e nelle case in cui si usano filtri per l’osmosi inversa. Le autorità sono spiazzate: gli Usa non hanno nemmeno inserito le particelle di plastica nella lista delle possibili sostanze contaminanti rintracciabili nell’acqua di rubinetto. Dei 33 campioni d’acqua prelevati in varie città degli Stati Uniti, il 94% è risultato positivo alla presenza di fibre di plastica. E’ la stessa media dei campioni raccolti a Beirut, Libano. Fra le altre città monitorate figurano Delhi (India, 82%), Kampala (Uganda, 81%), Giacarta (Indonesia, 76%), nonché Quito (Ecuador, 75%) e varie città europee (72%).La ricerca, precisa “Repubblica”, è stata progettata dal dipartimento di geologia e scienza ambientale dell’università statale di New York, e i test sono stati eseguiti dalla ricercatrice Mary Kosuth, della scuola di salute pubblica dell’università del Minnesota. «E’ la prima indagine a livello globale sull’inquinamento da plastica nell’acqua di rubinetto», afferma la Kosuth. I risultati rappresentano «un primo sguardo sulle conseguenze dell’uso e dello smaltimento della plastica». I campioni sono stati raccolti da scienziati, giornalisti e volontari addestrati, seguendo i protocolli stabiliti. «Questa ricerca si limita a scalfire la superficie, ma ha l’aria di essere una questione molto seria», ammette Hussan Hawwa, amministratore delegato della società di consulenze ambientali Difaf, che si è occupata della raccolta dei campioni in Libano. «La ricerca sulle conseguenze per la salute umana è appena agli inizi», dice Lincoln Fok, studioso dell’ambiente presso l’Education University di Hong Kong. In ogni caso, la ricerca «solleva più interrogativi di quelli che risolve», secondo Albert Appleton, già commissario alle acque del Comune di New York. «C’è un bioaccumulo? Influisce sulla formazione delle cellule? È un vettore per la trasmissione di agenti patogeni nocivi? Se si scompone, che cosa produce?».Il mondo, riassume “Repubblica”, sforna ogni anno 300 milioni di tonnellate di plastica. Oltre il 40% di questa massa «viene usato una volta soltanto, a volte per meno di un minuto, e poi buttato via». Ma la plastica «rimane nell’ambiente per secoli». Secondo un recente studio, dagli anni ‘50 a oggi sono stati prodotti in tutto il mondo oltre 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Sono migliaia di miliardi le scorie plastiche disseminate sulla superficie dell’oceano: fibre di plastica sono state ritrovate «dentro i pesci venduti nei mercati, nel Sudest asiatico, nell’Africa orientale e in California». E la plastica dal rubinetto di casa? «È una cosa brutta: si sentono così tante cose sul cancro», ha detto Mercedes Noroña, 61 anni, dopo essere stata informata che un campione di acqua prelevato dal suo rubinetto di casa, a Quito, conteneva fibre di plastica. «Forse esagero, ma ho paura delle cose che ci beviamo con l’acqua». Non è sola, nella sua inquietudine: un recente sondaggio Gallup svela che il 63% degli americani è «fortemente preoccupato» per l’inquinamento dell’acqua potabile.Tra le fonti inquinanti, aggiungono Dan Morrison e Chris Tyree, c’è anche l’abbigliamento: gli indumenti sintetici emettono fino a 700.0006 fibre a lavaggio, ma gli impianti di depurazione delle acque ne intercettano solo la metà (il resto finisce nei corsi d’acqua, per un totale di 29 tonnellate di microfibre di plastica al giorno, secondo l’università di Plymouth). E poi l’aria: uno studio del 2015 calcolava che a Parigi, ogni anno, si depositano sulla superficie fra le 3 e le 10 tonnellate di fibre sintetiche. Laghi e fiumi possono essere contaminati da deposizioni atmosferiche cumulative, afferma Johnny Gasperi, professore dell’università di Parigi-Est Créteil: «Nelle ricadute atmosferiche è presente un’enorme quantità di fibre». Questo, osserva “Repubblica”, potrebbe spiegare perché si trovano fibre di plastica anche in sorgenti idriche sperdute, in tutto il mondo. Ma la “Orb” ha trovato fibre di plastica anche in acque di rubinetto provenienti da falde sotterranee. Tante le incognite: quanto è grande il pericolo se le fibre di plastica assorbono “perturbatori endocrini” che alterano i nostri sistemi ormonali? «Non abbiamo mai veramente preso in considerazione questo rischio prima», ammette Tamara Galloway, ecotossicologa all’università di Exeter.Le città stanno appena cominciando a fare i conti con l’inquinamento da fibre di plastica e con il ruolo che giocano in tutto questo le lavatrici di casa, continua il report su “Repubblica”. Rallentare il processo di trattamento delle acque reflue consentirebbe di intercettare una maggior quantità di fibre di plastica, dice Kartik Chandran, ingegnere ambientale della Columbia University. Ma potrebbe anche accrescere i costi. «I grandi marchi dell’abbigliamento dicono che stanno lavorando per migliorare i loro tessuti sintetici in modo da ridurre l’inquinamento da fibre. E sta venendo fuori tutta una serie di filtri, di prodotti da inserire nel cestello della lavatrice durante il lavaggio e di altri prodotti per ridurre le emissioni di fibre durante i lavaggi. Test indipendenti mostreranno quale di questi metodi è più efficace». Sherri Mason, la prima ricercatrice a scoprire la forte presenza di inquinamento da microplastica nella regione americana dei Grandi Laghi, si dice «sconvolta» dai risultati dei test sull’acqua potabile: «La gente mi chiedeva sempre: “Ma queste cose ci sono anche nell’acqua che beviamo?”. Io rispondevo sempre che non lo sapevo». Ora invece, purtroppo, lo sa.Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».
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Scordatevi i parchi italiani: fanno gola, vogliono mangiarseli
Di fronte a un aumento galoppante dell’effetto serra, alla minaccia di estinzione di migliaia di specie animali e vegetali importantissime sia per l’equilibrio di interi habitat sia per il sostentamento umano, quale obiettivo si dovrebbe prefiggere un governo? Il buon senso direbbe un obiettivo di salvaguardia e incremento delle aree protette, di incentivi politici ed economici per la protezione del territorio e degli esseri viventi che lo abitano. E infine un obiettivo culturale per sviluppare nella popolazione e soprattutto nei giovani amore, rispetto e conoscenza della natura. Ma nel nostro paese sta succedendo esattamente il contrario. Con 249 voti a favore, 115 contrari e 2 astenuti, la Camera dei Deputati ha approvato la nuova legge in materia di parchi ed aree protette. E chi ne è stato informato, se ha a cuore l’ambiente, ha fatto davvero fatica a non cadere nello sconforto. La nuova legge è un’accozzaglia di concessioni e favoritismi nei confronti dei privati, di lobbies potenti come i cacciatori, di categorie come gli agricoltori. La politica entra a gamba tesa nella gestione dei parchi e lo fa come una ruspa in una foresta vergine, con protervia e ignoranza e con l’unico obiettivo di favorire interessi economici e speculazioni.Ma vediamo nel dettaglio cosa comporta questa legge e perché ha fatto levare un coro di proteste da parte di tutte le associazioni ambientaliste. In primo luogo, a chi governerà i parchi, ovvero i presidenti e i direttori, non sarà più richiesta alcuna competenza scientifica e i presidenti saranno nominati dal ministro e dalle Regioni, cioè dai politici; nei consigli direttivi dei parchi la metà dei membri sarà scelta dalle amministrazioni comunali, un quarto sarà composto di sindaci, ma ci sarà posto anche per gli agricoltori. Si apre la strada a interessi economici privati, interessi politici e clientelistici (d’altra parte si dichiara che questa riforma è fatta per lo sviluppo economico), alle ditte del legname e all’industria del turismo. Viene scardinata l’idea che un’area naturale protetta sia prima di tutto necessaria alla salvaguardia dell’ambiente, a preservare il futuro di un territorio, oltre che il presente. Passa l’idea che l’economia e il profitto siano l’unico obiettivo e metro di giudizio nei riguardi della natura. Il mondo scientifico viene emarginato nella gestione dei parchi, e anche il mondo ambientalista è messo in un angolo, a favore di categorie politiche ed economiche.Si apre la strada a possibili trivellazioni ed estrazioni petrolifere, si potrà inquinare pagando delle royalties, si apre alle attività di caccia col pretesto del controllo degli ungulati, con le conseguenze di disturbo, danneggiamento e migrazione di altre specie anche rare e protette. Una serie di vergognose scelte difese con assoluta facciatosta da voltagabbana dell’ambientalismo come Ermete Realacci, che da presidente di Legambiente è passato armi e bagagli al carrozzone politico e riesce a elogiare con accanimento una legge “mostro” inqualificabile. Tale legge, tra l’altro, considera marginali le aree marine protette, privandole dei fondi e delle organizzazioni che spettano ai parchi naturali. C’è poi la questione del delta del Po, da anni tema di proteste e proposte per realizzare un parco nazionale. Un’area che l’Unesco ha dichiarato area prioritaria, che rientra nella Convenzione di Ramsar sugli uccelli migratori, e che ora è spezzettata in tre provincie con diverse concezioni e gestioni.Questa legge-pastrocchio indecente ha fatto infuriare il Wwf Italia, che parla di aree naturali protette «usate come merce di scambio da mettere in mano ai poteri di parte e locali, invece che un bene comune che appartiene ai cittadini», e rincara la dose dichiarando: «La Camera ha portato indietro di 40 anni la legislazione di salvaguardia della natura». Anche la Lipu parla di «mortificazione di una legge storica fondamentale per la conservazione della natura in Italia, e una delle pagine più grigie della legislazione ambientale italiana». Ecco dunque le disastrose decisioni prese dal nostro governo e avvallate da una parte dell’opposizione. Le ricadute ambientali, sociali e anche economiche potrebbero essere devastanti ma, per avvantaggiare interessi economici privati, si buttano alle ortiche i nostri beni più preziosi. Beni che non appartengono solo a noi ma anche alle generazioni future e che con questa legge saranno invece compromessi. Ancora una volta una decisione politica antipopolare e che distrugge il patrimonio e l’immagine dell’Italia.(Martino Danielli, “Addio parchi italiani”, da “Il Cambiamento” dell’11 agosto 2017).Di fronte a un aumento galoppante dell’effetto serra, alla minaccia di estinzione di migliaia di specie animali e vegetali importantissime sia per l’equilibrio di interi habitat sia per il sostentamento umano, quale obiettivo si dovrebbe prefiggere un governo? Il buon senso direbbe un obiettivo di salvaguardia e incremento delle aree protette, di incentivi politici ed economici per la protezione del territorio e degli esseri viventi che lo abitano. E infine un obiettivo culturale per sviluppare nella popolazione e soprattutto nei giovani amore, rispetto e conoscenza della natura. Ma nel nostro paese sta succedendo esattamente il contrario. Con 249 voti a favore, 115 contrari e 2 astenuti, la Camera dei Deputati ha approvato la nuova legge in materia di parchi ed aree protette. E chi ne è stato informato, se ha a cuore l’ambiente, ha fatto davvero fatica a non cadere nello sconforto. La nuova legge è un’accozzaglia di concessioni e favoritismi nei confronti dei privati, di lobbies potenti come i cacciatori, di categorie come gli agricoltori. La politica entra a gamba tesa nella gestione dei parchi e lo fa come una ruspa in una foresta vergine, con protervia e ignoranza e con l’unico obiettivo di favorire interessi economici e speculazioni.
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Il piccolo ‘mistero’ della fiamma che brucia sotto la cascata
Negli Stati Uniti, a sud della città di Buffalo, c’è un luogo ricco di fascino e di mistero. È la riserva naturale del Chestnut Ridge County Park, all’interno dello Stato di New York. È qui che, sotto le acque di una piccola cascata, protetta dalle rocce, splende l’Eternal Flame. Una piccola fiammella nascosta, che non si spegne mai e che – a lungo – è stata al centro di un vero e proprio mistero. Una spiegazione scientifica, per quello strano fenomeno, per decenni non era stata individuata. Come se, a mantenere in vita la fiamma, fosse qualcosa di soprannaturale. In realtà, questa, non è l’unica fiamma al mondo a bruciare senza spegnersi mai. A renderla unica è però il suo processo geologico; perché, a differenza delle sue “gemelle”, non è mantenuta viva dai gas che fuoriescono da rocce sottostanti. Oggi, a dare una spiegazione a questo fenomeno, è intervenuta l’Indiana University: i suoi studi hanno infatti dimostrato che, temperature nel sottosuolo superiori ai 100°, sono in grado di spezzare le molecole di carbonio che formano le rocce sedimentarie, dando così vita ai gas.Alta circa 30 centimetri, la fiammella del Chestnut Ridge County Park consuma ogni giorno un chilo di gas, contenuto in una sacca naturale posta 400 metri sotto il suolo. Al metano presente, qui, si combinano il propano e l’etano, in una concentrazione mai riscontrata in nessun altro luogo al mondo. Ed è proprio il metano, a tenerla costantemente accesa; anche perché, le rare volte in cui le acque della cascata la spengono, c’è sempre qualcuno pronto a riaccenderla. Per tenere in vita la leggenda secondo cui, ad accenderla per la prima volta, furono – centinaia di anni fa – gli Indiani d’America. Ciò che è certo, è che la fiammella porta con sé un’aura di magia. Capace di affascinare i turisti che, qui, arrivano da ogni parte del mondo. Del resto, quella nascosta nella riserva naturale poco distante da Buffalo, è l’unica fiamma ad essere accolta tra i getti di una cascata. In quell’unione, d’eterno e indissolubile fascino, tra il fuoco e l’acqua. Due elementi opposti, ma capaci d’incontrarsi. Magicamente.(“La misteriosa fiamma che brucia sotto la cascata”, da “Libero Notizie” del 30 luglio 2017).Negli Stati Uniti, a sud della città di Buffalo, c’è un luogo ricco di fascino e di mistero. È la riserva naturale del Chestnut Ridge County Park, all’interno dello Stato di New York. È qui che, sotto le acque di una piccola cascata, protetta dalle rocce, splende l’Eternal Flame. Una piccola fiammella nascosta, che non si spegne mai e che – a lungo – è stata al centro di un vero e proprio mistero. Una spiegazione scientifica, per quello strano fenomeno, per decenni non era stata individuata. Come se, a mantenere in vita la fiamma, fosse qualcosa di soprannaturale. In realtà, questa, non è l’unica fiamma al mondo a bruciare senza spegnersi mai. A renderla unica è però il suo processo geologico; perché, a differenza delle sue “gemelle”, non è mantenuta viva dai gas che fuoriescono da rocce sottostanti. Oggi, a dare una spiegazione a questo fenomeno, è intervenuta l’Indiana University: i suoi studi hanno infatti dimostrato che, temperature nel sottosuolo superiori ai 100°, sono in grado di spezzare le molecole di carbonio che formano le rocce sedimentarie, dando così vita ai gas.
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Guénon e l’aria condizionata, l’inizio della fine (del mondo)
Nel suo libro “Oriente e occidente”, René Guénon credeva fosse ancora possibile recuperare spiritualmente l’Occidente e porlo entro una prospettiva più serena, meno materialista e meno neospiritualista, oserei dire. Sono trascorsi quasi cent’anni da allora. Ciò che vedeva era un Oriente ancora tradizionale, nemmeno troppo logorato dalle conquiste coloniali, capace ancora di opporsi alla supremazia materialista e scientista occidentale. Si deve notare che se da un lato siamo andati ben oltre il declino dell’Occidente (come dice un amico, professore di informatica in una facoltà euroamericana, l’Occidente ha toccato il fondo, ma continua a scavare – pensate ai debiti), dall’altro l’Oriente ha smesso da tempo di interessarci spiritualmente e di farci sognare. Il tempo dei guru per i Beatles e degli hippies (sic) è passato. Il Dalai Lama festeggia il suo compleanno con George Bush e si aspetta la scelta del suo successore. Da più di cinquant’anni anche l’Oriente si è gettato a testa bassa e voracemente nel capitalismo, nella corruzione, nell’inquinamento, nella distruzione-recupero del suo patrimonio spirituale e culturale (a quando una grande muraglia contro il turismo, una grande muraglia della quale Guénon intravedeva le crepe nella sua ultima e fondamentale opera, “Il regno della quantità e i segni dei tempi”?). L’Oriente è diventato come noi, stanco, materialista, inquinato e civilizzato.Il demiurgo di questa umanità luciferina resta l’America e ciò che essa rappresenta. Sono i messicani (povero Antonin Artaud), gli indiani e i cinesi che fanno incrementare il mercato immobiliare statunitense (“Zerohedge.com” e “Nbc”). E ciò dimostra che il sogno americano, per quanto malridotto, continui ad affascinare gli infelici che nel giro di una o due generazioni sono passati dalla loro società tradizionale alle periferie degradate, agli alti e bassi della Borsa, ai deliri immobiliari, alla competizione dei mercati – che necessitano di rinchiudere cento o duecento milioni di contadini e bambini sottopagati in ripugnanti fabbriche tessili, il tutto per soddisfare un gruppetto di grossi azionisti. Mille uomini (entità?) sono diventati più ricchi del resto dell’umanità, che tra l’altro sognano di rimpiazzare. Come si è arrivati a ciò? Una breve spiegazione. Noi tutti conosciamo il nome di un qualsiasi scrittore di seconda categoria, di un cantante bidone, di un pittore di terzo livello, di un attore televisivo, di un politico cretino, di uno stupido sapientone. Ma non conosciamo il nome di coloro che hanno realmente cambiato il mondo – e bypassato le idee guenoniane e soprattutto le ultime società tradizionali.Tra questi Willis Haviland Carrier. Io non sono un ingegnere né un erudito, pertanto consultate direttamente Wikipedia e poi i manuali professionali. Carrier è l’inventore dell’aria condizionata. Proprio lei ha liquidato René Guénon, il sud, l’Oriente, le terre spirituali e cavalleresche che avevano preservato la loro identità spirituale e religiosa. E’ stata messa ovunque, sul posto di lavoro, nelle fabbriche, negli uffici, ovunque vogliate. Wikipedia ci informa che lo sfruttamento e lo sviluppo (dunque la distruzione delle autoctone strutture antropologiche e culturali, questa brutta espressione ereditata dalle scienze umane offre suggerimenti poco guenoniani) della Sunbelt è stata resa possibile grazie all’aria condizionata. L’aria condizionata ha posto fine a ciò che restava del vecchio sud e poi al resto del mondo. Pensateci e vedrete che non mi sbaglio di molto. L’aria condizionata ha condizionato, accelerato e accompagnato la degenerazione (chi osa parlare ancora di decadenza?) irreversibile del nostro mondo. Willis Haviland Carrier. L’uomo che ha vinto Guénon e le tradizioni. Non è un caso che la Russia sia il solo paese spirituale rimasto.(Nicolas Bonnal, “L’aria condizionata e la fine del mondo”, dal blog “Dedefensa.org” del 23 luglio 2017, tradotto per “Come Don Chisciotte”).Nel suo libro “Oriente e occidente”, René Guénon credeva fosse ancora possibile recuperare spiritualmente l’Occidente e porlo entro una prospettiva più serena, meno materialista e meno neospiritualista, oserei dire. Sono trascorsi quasi cent’anni da allora. Ciò che vedeva era un Oriente ancora tradizionale, nemmeno troppo logorato dalle conquiste coloniali, capace ancora di opporsi alla supremazia materialista e scientista occidentale. Si deve notare che se da un lato siamo andati ben oltre il declino dell’Occidente (come dice un amico, professore di informatica in una facoltà euroamericana, l’Occidente ha toccato il fondo, ma continua a scavare – pensate ai debiti), dall’altro l’Oriente ha smesso da tempo di interessarci spiritualmente e di farci sognare. Il tempo dei guru per i Beatles e degli hippies (sic) è passato. Il Dalai Lama festeggia il suo compleanno con George Bush e si aspetta la scelta del suo successore. Da più di cinquant’anni anche l’Oriente si è gettato a testa bassa e voracemente nel capitalismo, nella corruzione, nell’inquinamento, nella distruzione-recupero del suo patrimonio spirituale e culturale (a quando una grande muraglia contro il turismo, una grande muraglia della quale Guénon intravedeva le crepe nella sua ultima e fondamentale opera, “Il regno della quantità e i segni dei tempi”?). L’Oriente è diventato come noi, stanco, materialista, inquinato e civilizzato.
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Sos, rischiamo un’estinzione di massa: la sesta, sulla Terra
Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.Resa popolare dal Nobel per la chimica Paul Crutzen per designare un nuovo periodo geologico separato dall’Olocene (l’ultimo periodo geologico dell’era Quaternaria), la nozione di Antropocene ci richiama all’impatto determinante, permanente e irreversibile del comportamento umano sulla superficie terrestre. Nel suo libro tradotto in italiano come “Benvenuti nell’Antropocene”, Crutzen argomenta che le prove per stabilire l’inizio del nuovo periodo sono già visibili sia nelle rocce (in forma di isotopi nucleari, sedimenti, scorie, particelle di alluminio, cemento, plastica e carbone), sia negli oceani e nelle zone costiere, con l’innalzamento del livello del mare conseguente allo scioglimento dei ghiacci. L’aumento rapido dei gas serra è probabilmente segna l’inizio della nuova era, che si può collocare all’incirca verso la metà del 20º secolo. Negli ultimi decenni, aggiungono Conversi e Moreno in un’analisi su “Micromega”, la crescita abnorme dei consumi di gran parte della popolazione terrestre ha prodotto gravi effetti sul nostro pianeta, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il futuro di tutte le specie viventi.Purtroppo però questa massa di studi fatica a trovare spazio sui grandi media, spesso «ostacolata e contraddetta dalla visibilità istrionica di pseudo-scienziati portavoce, riconosciuti o meno, delle lobbies petrolifere e dei combustibili fossili». Data l’assenza di vere informazioni, «non c’è da sorprendersi che il pubblico sia più orientato a crucciarsi per i prezzi di consumo dell’energia elettrica piuttosto che a chiedersi come ridurre le emissioni». Come ridurre il climate change? Nebbia fitta. «Raggiungendo livelli sempre più alti, l’aumento costante dei gas serra, accoppiato alla diffusione della fratturazione idraulica (fracking), è in grado di produrre un impatto incontrollabile, minacciando la continuità stessa della vita sulla Terra». L’attuale modello iper-consumistico «è stato responsabile non solo di un aumento senza precedenti delle emissioni di CO2, ma anche di un processo a senso unico di omogeneizzazione culturale, a seguito del quale mai prima d’ora così tante persone hanno assunto abitudini di consumo originariamente proprie delle vecchie élites occidentali». Processi che «hanno contribuito ad aumentare i livelli di povertà e di emarginazione sociale, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo».Secondo un noto rapporto di Oxfam, la stragrande maggioranza delle vittime del cambiamento climatico sono proprio coloro che vivono in paesi che contribuiscono di meno al fenomeno. «E per di più, le regioni più vulnerabili ospitano circa la metà più povera della popolazione mondiale: un grafico assai rivelatore dell’ingiustizia climatica, che non lascia dubbi su come la metà più povera della popolazione mondiale produca solo il 10% delle emissioni globali di carbonio, mentre il 10% più ricco del pianeta contribuisce a oltre il 50% delle emissioni», aggiungono Conversi e Moreno. Inoltre, questo sembra dimostrare che, sebbene il problema demografico non debba essere sottovalutato, l’impatto più consistente non è prodotto dai numeri di bocche da sfamare, ma da modelli acquisiti di consumo, sperpero, abitudini e stili di vita insostenibili. Intanto, sempre secondo Oxfam, l’81% dei decessi causati dai disastri ambientali colpisce le aree a reddito basso e medio-basso. Secondo un altro studio, “Carbon and inequality from Kyoto to Paris”, diretto da Lucas Chancel e Thomas Piketty della Paris School of Economics, l’1% delle famiglie statunitensi, singaporesi o saudite a reddito più elevato sono annoverabili tra i maggiori responsabili di inquinamento, con più di 200 tonnellate annuali di emissione di CO2.Di conseguenza, continuano Conversi e Moreno, una visione semplicistica della frattura Est-Ovest o Nord-Sud, appare inadeguata: tra l’1% dei super-emettitori vanno anche incluse le élites dei super-ricchi di Cina, Russia, India e Brasile, per fare un esempio. E un terzo studio, pubblicato di recente (“The Carbon Majors Report” 2017) mostra che circa 100 aziende sono responsabili del 71% delle emissioni globali, cioè un numero significativamente infimo di grandi produttori legati ai combustibili fossili arreca un danno assolutamente sproporzionato rispetto ai guadagni astronomici di pochi. In America Latina, quasi tre quarti dei cittadini – una delle percentuali più alte al mondo – riconoscono fermamente la gravità e la serietà del cambiamento climatico: i paesi latinoamericani e caraibici sono molto vulnerabili al problema del riscaldamento globale. «Un aumento rilevante e sostenuto delle temperature porterebbe in un intervallo non molto lungo a una riduzione drastica dei terreni coltivabili, alla scomparsa di atolli, barriere coralline, isole basse e intere regioni costiere, così come ad una estrema variabilità del tempo».Per Conversi e Moreno, non sarebbe realistico ipotizzare una risposta unica ai difficili e complessi problemi legati al cambio climatico. I punti di vista normativi variano: dall’illusione di “miracoli tecnologici” all’espansione massiccia delle energie rinnovabili (dal 2019 la Volvo produrrà solo auto elettriche o ibride), dalla decrescita volontaria dei consumi alla rivalutazione delle conoscenze ecologiche tradizionali. Si pensa alla protezione delle economie pre-industriali residue, all’economia circolare, al riciclaggio, alla pratica della “sovranità alimentare” (km zero, filiere corte), fino all’opzione estrema della geo-ingegneria, «che implicherebbe la costruzione di dighe per proteggere città o paesi dall’innalzamento delle maree e altre soluzioni provvisorie per tamponare effetti localizzati di un fenomeno che non ha nulla di locale». In ogni caso, aggiungono Conversi e Moreno, sarà vitale «ambire alla massima eterogeneità e creatività in termini di soluzioni, adattamento, conoscenze o tecniche di sopravvivenza».Da parte sua, l’Ue si sta adoperando per trasformare i rifiuti in materiali rinnovabili in una nuova “economia circolare”. Secondo la Commissione Europea, l’Europa produce più di 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, oltre la metà dei quali (63%) è derivata dal settore minerario e delle costruzioni. Ma spesso l’accento è posto sul cittadino, nonostante solo l’8% dei rifiuti sia di origine domestica. «Così l’Europa perde ogni anno circa 600 milioni di tonnellate di materiali contenuti nei rifiuti che potrebbero essere riciclati o riutilizzati – mentre si ricicla solo il 40% dei rifiuti prodotti dalle famiglie». A livello planetario, i problemi restano di portata incalcolabile. «Questa nuova geografia del cambiamento climatico, accompagnata dall’aumento delle disuguaglianze di reddito e dell’emarginazione sociale, rende più che mai urgente un’azione concertata da parte di tutti i paesi». Unica possibilità di salvezza, trovare i mezzi per «controllare questa ristretta élite, detentrice di un potere economico e mediatico immenso». Ma le cose non stanno andando esattamente così: restano modesti gli obiettivi dei trattati internazionali finora firmati, da Rio (1992) all’accordo di Parigi del 2015, in vigore dal 2016 «in vista della sua piena applicabilità nel 2020», a seguito del Protocollo di Kyoto del 1997.Non mancano ulteriori complicazioni: «Donald Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, in conformità alle promesse elargite durante la campagna elettorale in combutta con le élites dei combustibili fossili». In contrasto con l’allarme che si sta diffondendo in molti paesi, il nuovo protezionismo degli Stati Uniti, accompagnato dalle iperboli della negazione, «indica che ci stiamo avvicinando a passi da gigante verso il suicidio climatico, incoraggiato da un modello economico neoliberista inarrestabile», concludono Conversi e Moreno. «Di fronte al pressoché unanime consenso scientifico sulle origini antropogeniche di un riscaldamento globale indotto da modelli di consumo selvaggio, si erge un revisionismo corporativo militante impostato sulla manipolazione dei mezzi di comunicazione e ostile a ogni possibile mobilitazione sociale volta a salvare il pianeta». Ciò che si profila è un mondo nuovo, un “brave New World”, come annunciava Aldous Huxley, condannato a finire in tempi brevissimi. «Un mondo, insomma, in cui una percentuale irrisoria ma ultra-potente del genere umano sembra pronta a immolare i destini della Terra sull’altare dei propri guadagni mai soddisfatti».Conmversi e Moreno parlano di “classicidio”, vista l’enorme sproporzione numerica tra vittime e carnefici, ancora più accentuata tra i redditi delle vittime e quelli dei carnefici. «Ma nessuno potrà ritenersi al sicuro ed esente dal pericolo di estinzione: se il secolo 20º è stato spesso definito il “secolo del genocidio”, c’è da temere che il secolo 21º potrebbe essere identificato, da un punto di vista terminologico, come il “secolo dell’omnicidio”, dello sterminio potenziale della gran parte delle specie viventi, tra cui bisognerà annoverare gli esseri umani». Ma, onestamente, «piuttosto che di un epilogo casuale, è bene comprendere che si tratta una “cronaca” lungamente preannunciata». Bisognerà quindi «combattere il negazionismo, incarnato successivamente nell’anti-scienza, nella marginalizzazione degli esperti e nell’anarchia informativa della post-verità». Appello inevitabile: «Contro quest’Idra dalle multipli teste, siamo chiamati a mobilitarci. Meglio tardi che mai».Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.
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Tempo Fantasma, tre secoli inventati (anche Carlo Magno)
Non saremmo nel 2017, ma nel 1721. Di mezzo ci sarebbero tre secoli “mai esistiti, completamente inventati”. «Se fosse vero, non sarebbe semplicemente una cospirazione, ma la madre di tutte le cospirazioni: un vero e proprio complotto temporale: ben 297 anni di storia, quelli tra il 614 e il 911, non sarebbero mai avvenuti e quindi deliberatamente inventati o volutamente datati in maniera erronea», scrive il blog “Il Navigatore Curioso” a proposito della teoria del Tempo Fantasma, in base alla quale, ricorda Wikipedia, in quei quasi trecento anni «gli eventi accaduti in Europa e nelle regioni limitrofe in realtà sono accaduti in un altro lasso temporale oppure non sono affatto accaduti». E’ una teoria conosciuta come “Ipotesi del Tempo Fantasma”, formulata da tre studiosi in tempi diversi: l’ingegnere tedesco Hans-Ulrich Niemitz, ex direttore del Centro di Storia della Tecnologia di Berlino (1946-2010), lo storico tedesco Heribert Illig (nato nel 1947), e il matematico e fisico russo Anatolij Timofeevič Fomenko, professore all’università statale di Mosca (nato nel 1954). L’ipotesi: è stato un “errore voluto”, nel 1582, al momento di sostituire il vecchio calendario giuliano con il nuovo calendario gregoriano, dal nome del Papa Gregorio XIII.Questa tesi suggerisce una cospirazione ad opera dell’imperatore del Sacro Romano Impero Ottone III, di Papa Silvestro II e forse anche dell’imperatore bizantino Costantino VII per costruire artificiosamente il sistema di datazione “Anno Domini”, «in modo che essi potessero trovarsi a cavallo dell’anno 1000: per fare ciò avrebbero riscritto la storia aggiungendo interi secoli e inventando di sana pianta la figura di Carlo Magno», scrive il “Navigatore Curioso”. Nel suo articolo “The Phantom Time Hypothesis”, del 2014, il dottor Hans-Ulrich Niemitz espone la sua tesi fondamentale: centinaia di anni fa, il nostro calendario è stato manipolato aggiungendovi 297 anni che non si sono mai verificati. La teoria del Tempo Fantasma suggerisce che il medioevo (614-911 d.C.) non sia mai avvenuto, ma che questo periodo sarebbe stato aggiunto al calendario molto tempo fa, per caso, o per errata interpretazione dei documenti, o per falsificazione deliberata da cospiratori del tempo. «Ciò significa che tutti gli eventi attribuiti a questi tre secoli appartengono ad altri periodi, o che si siano verificati nello stesso momento, o che sono stati inventati di sana pianta». Ma che prove ci sono a sostegno di queste affermazioni?Sembrerebbe che gli storici siano afflitti da una quantità significativa di documenti falsificati in età medievale: questo è stato, infatti, il tema di un convegno archeologico tenutosi a Monaco nel 1986, ricorda il “Navigatore Curioso”. Nel suo intervento, Horst Fuhrmann, presidente di Monumenta Germaniae Historica, ha spiegato come alcuni documenti siano stati falsificati durante il medioevo, creando eventi datati centinaia di anni prima, entrando poi nella cronologia storica ufficiale. «Questo implicava che chiunque abbia prodotto le falsificazioni, aveva voluto molto abilmente anticipare il futuro, oppure introdurre qualche discrepanza nelle date». Tanto è bastato per suscitare la curiosità di Heribert Illig, diventato uno dei principali sostenitori della teoria. «Illig si è chiesto perchè qualcuno avrebbe dovuto falsificare documenti centinaia di anni prima che potessero diventare utili. Così, lui, insieme al suo gruppo, ha esaminato altri falsi dei secoli precedenti».La ricerca, continua il blog, li ha portati a indagare sull’origine del calendario gregoriano, introdotto da papa Gregorio XIII nel 1582 e che ancora oggi utilizziamo. Il calendario gregoriano fu progettato per sostituire il calendario giuliano (45 a.C.), per correggere una differenza di dieci giorni causata dal fatto che l’anno Giuliano è 10,8 minuti più lungo. Ma, secondo i calcoli matematici di Illig, l’accumulo dei dieci giorni si sarebbe realizzato solo dopo 1.257 anni, e non dopo “appena” 16 secoli. «Sulla base di questi calcoli, il ricercatore suggerisce che il calendario sia stato riavviato, introducendo 297 anni di storia mai avvenuti, o riformulati cronologicamente. La conclusione più sconcertante di Illig è che la dinastia carolingia non sia mai esistita e che Carlo Magno sia un personaggio di fantasia!». Per sostenere ulteriormente la sua ipotesi, Illig «sottolinea la scarsità di prove archeologiche attendibili», databili al periodo tra il 614 e il 911 dopo Cristo, nonché «l’eccessiva dipendenza degli storici medievali dalle fonti scritte e la presenza di architettura romanica nell’Europa occidentale del X secolo». Tuttavia, la comunità scientifica ha proposto diversi metodi di datazione che sembrerebbero contraddire l’ipotesi di Illig. Innanzitutto, le osservazioni astronomiche antiche concordano nelle datazioni, come gli avvistamenti della cometa di Halley.Inoltre, per quanto riguarda la riforma gregoriana, «l’intento non era quello di portare il calendario in linea con quello giuliano, come era stato concepito nel 45 a.C., ma come era nel 325 d.C., anno del Concilio di Nicea, nel quale era stato stabilito il criterio per la data della domenica di Pasqua, fissando l’equinozio di primavera al 20 marzo del calendario giuliano». Nel 1582, l’equinozio di primavera cadeva il 10 marzo del calendario giuliano, ma la Pasqua era ancora calcolata sull’equinozio nominale del 20 marzo. «C’era, dunque, una discrepanza tra le osservazioni astronomiche e la data nominale del calendario giuliano». Così, i “tre secoli mancanti” di Illig corrispondono ai 369 anni tra l’istituzione del calendario giuliano, nel 45 avanti Cristo, e la fissazione della Pasqua nel Concilio di Nicea del 325 dopo Cristo. Ma, nonostante la difesa della cronologia ufficiale da parte della comunità scientifica, un altro ricercatore ha proposto una teoria simile in maniera indipendente. E’ il russo Anatolij Timofeevič Fomenko, matematico e fisico. Uno scienziato autorevole: si occupa di topologia ed è membro dell’Accademia Russa delle Scienze, nonché autore di 180 pubblicazioni scientifiche, 26 monografie e libri di testo.Fomenko, aggiunge il “Navigatore Curioso”, è noto per essere autore della teoria conosciuta come Nuova Cronologia, secondo la quale tutti gli avvenimenti storici della storia del mondo sarebbero avvenuti in tempi diversi da quelli comunemente riconosciuti. La teoria di Anatolij Fomenko vuole che la cronologia tradizionale consista in realtà di quattro copie della “vera” cronologia (ciò che è veramente accaduto) che si sovrappongono, spostate indietro nel tempo di intervalli significativi (da 300 a 2000 anni), con alcune revisioni. «Tutti gli eventi e i personaggi convenzionalmente datati prima dell’XI secolo sono o fittizi, o più comunemente rappresentanti “immagini riflesse fantasma” di eventi e personaggi medievali, trasportati da errori intenzionali o errate datazioni accidentali di documenti storici». La nuova cronologia è radicalmente più corta della cronologia convenzionale, perché «tutta la storia dell’Antico Egitto, quella della Grecia antica e la storia romana vengono comprese nel medioevo, e l’Alto Medioevo viene eliminato». Secondo Fomenko, la storia dell’umanità «risale solo fino all’anno 800», visto che – a suo dire – non avremmo quasi informazioni sugli eventi fra l’800 ed il 1000, e la maggior parte degli eventi storici che conosciamo «sarebbero avvenuti tra il 1000 ed il 1500».Dunque, i nostri antenati erano tutti dei gran bugiardi? Oppure l’Ipotesi del Tempo Fantasma è solo il parto di menti pseudoscientifiche particolarmente fervide? È possibile che la figura di Carlo Magno, ricca di aneddoti leggendari, sia simile a quella che ci ha tramandato la figura di Re Artù? Esistono migliaia di falsi riconosciuti prodotti nel medioevo: testamenti, testi di storia, cronache. Come riconoscere i documenti veritieri da quelli fittizi? Inoltre, continua il “Navigatore Curioso”, l’alfabetizzazione non era molto diffusa: e dato che i più non sapevano leggere né scrivere, come potevano verificare i fatti registrati nei documenti ufficiali? Non esistevano organi di informazione real-time: dunque, di quali eventi storici la popolazione medievale era realmente al corrente? In realtà, come rivela la “Bbc”, le confutazioni sull’Ipotesi del Tempo Fantasma non sono approfondite, si limitano a «commenti sprezzanti e indignati». È difficile trovare testi accessibili che dimostrino, in dettagliom perché quella teoria sarebbe inverosimile. Ad ogni modo, conclude il blog, staremo a vedere: gli studiosi accetteranno di ri-verificare l’intera cronologia che abbiamo studiato sui banchi di scuola, oppure continueranno a difenderla strenuamente “a prescindere”? «L’unica riflessione che sembra suggerire questa teoria è che anche la cultura, se ci fosse ancora bisogno di conferme, può diventare uno strumento di controllo e di potere».Non saremmo nel 2017, ma nel 1721. Di mezzo ci sarebbero tre secoli “mai esistiti, completamente inventati”. «Se fosse vero, non sarebbe semplicemente una cospirazione, ma la madre di tutte le cospirazioni: un vero e proprio complotto temporale: ben 297 anni di storia, quelli tra il 614 e il 911, non sarebbero mai avvenuti e quindi deliberatamente inventati o volutamente datati in maniera erronea», scrive il blog “Il Navigatore Curioso” a proposito della teoria del Tempo Fantasma, in base alla quale, ricorda Wikipedia, in quei quasi trecento anni «gli eventi accaduti in Europa e nelle regioni limitrofe in realtà sono accaduti in un altro lasso temporale oppure non sono affatto accaduti». E’ una teoria conosciuta come “Ipotesi del Tempo Fantasma”, formulata da tre studiosi in tempi diversi: l’ingegnere tedesco Hans-Ulrich Niemitz, ex direttore del Centro di Storia della Tecnologia di Berlino (1946-2010), lo storico tedesco Heribert Illig (nato nel 1947), e il matematico e fisico russo Anatolij Timofeevič Fomenko, professore all’università statale di Mosca (nato nel 1954). L’ipotesi: è stato un “errore voluto”, nel 1582, al momento di sostituire il vecchio calendario giuliano con il nuovo calendario gregoriano, dal nome del Papa Gregorio XIII.
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Giuttari: morto Chelazzi, silenzio sui mandanti delle stragi
Gabriele Chelazzi era il titolare dell’inchiesta sulle stragi di mafia del ‘93: a Firenze il 27 maggio ‘93, a Roma e Milano quasi in concomitanza, nella notte tra il 27 e il 28 luglio del ‘93. E il 14 aprile, sempre del ‘93, l’attentato di via Fauro a Roma, ai danni di Maurizio Costanzo. Io ho avuto il piacere e l’onore di collaborare con Chelazzi per questa inchiesta sulle stragi, in veste di responsabile del settore investigativo del centro Dia di Firenze, prima di assumere l’incarico di capo della Mobile. Gabriele Chelazzi era alla Procura nazionale antimafia con Vigna a Roma, ma aggregato a Firenze per continuare le indagini sui possibili mandanti delle stragi di mafia. Viveva a Roma in una caserma della Finanza, e una mattina la scorta lo trova morto. Aveva 56 anni. E sul comodino trovano una lettera, che lui aveva scritto nella notte, indirizzata al procuratore capo di Firenze (Ubaldo Nannucci), nella quale lamentava di esser stato lasciato solo, di sentirsi isolato. E’ morto. A me piace, quando ne ho la possibilità, ricordare questo magistrato. La società civile gli deve tantissimo. E’ il magistrato che, poco prima che morisse, per primo andò nella sede dei servizi segreti, a Roma, a sequestrare quelle carte che son tornate alla ribalta alla vigilia dell’interrogatorio del presidente della Repubblica, Napolitano, sulla trattativa mafia-Stato.Lui è stato il primo: magistrato serio. Ebbene, è morto. E quell’indagine sui possibili mandanti delle stragi dei mafia? S’è sentito più niente? Niente, come sui possibili mandanti dei delitti fiorentini (del “Mostro”). Non si sa più nulla. Grandissimo magistrato, Chelazzi. Purtroppo i migliori se ne vanno – nei momenti meno opportuni, peraltro. E’ vero che nessuno è indispensabile, ma ci sono anche le eccezioni: alcuni sono davvero indispensabili. Gabriele, per questa vicenda delle stragi di mafia, era insostituibile: hanno continuato, due suoi colleghi, ma non s’è risolto nulla. Era insostibuibile – per la conoscenza che ormai aveva acquisito, per la sua capacità, la sua professionalità. E quindi ci sono, le eccezioni. Mi piacere ricordarlo, questo magistrato, di cui l’opinione pubblica non sa nulla. Perché ha sempre lavorato in sordina, ha saputo fare il suo dovere. E con lui instaurai un bellissimo rapporto, perché fui mandato alla Dia di Firenze (dalla Dia di Napoli) proprio per collaborare all’inchiesta sulla strage di via dei Georgofili. Indagavano la Digos e i carabinieri, però la Dia – organismo antimafia – non aveva delega. Allora, arrivato a Firenze, mi metto a esaminare gli atti, compresi quelli della Dia di Roma per la cattura di latitanti di Cosa Nostra in Versilia, e trovo un elemento che mi incuriosisce: un contatto telefonico 24 ore prima dell’attentato, a Firenze, tra l’allora sconosciuto Gaspare Spatuzza e il titolare di una ditta palermitana di trasporti.Io arrivo a Firenze, alla Dia, il 5 dicembre ‘93, quindi sei mesi dopo l’attentato di via dei Georgofili. La mia attività di analisi si protrae fino al 28 febbraio, quando porto la mia nota al pm Gabriele Chelazzi, che conosco in quella circostanza. Mi presento con l’esito dell’attività svolta e, nello stesso tempo, con delle proposte investigative – perché io ho sempre inteso in un certo modo l’operato dell’investigatore: non deve appiattirsi sulle posizioni del pubblico ministero, aspettando le deleghe, ma deve essere anche propositivo, creativo, e deve manifestare le proprie idee. Per me, l’ufficiale della polizia giudiziaria – della polizia, dei carabinieri – deve essere il centro motore della vera indagine. Così a Chelazzi ho portato anche proposte investigative, chiedendo delle deleghe. Bene, ho ancora presente questo magistrato: mentre legge la mia nota, annuisce. Alla fine mi dice: «Ipotesi interessante, però noi stiamo seguendo un’altra pista, con la Digos. Le farò sapere, ne devo parlare con Vigna», che era il suo capo. Mi chiama dopo neppure 48 ore e mi dà le deleghe, poi io ne chiedo altre e, insomma, il lavoro di sviluppa. Per farla breve: con questa pista, abbiamo identificato 28 mafiosi, poi risultati colpevoli di tutti i quattro attentati del ‘92-93 a Firenze, Milano e Roma – tra cui Bagarella, Riina, i fraelli Graviano.Da un dettaglio che già c’era, negli atti, ma non era stato letto nella maniera giusta, si è riusciti a individuare i covi di questi latitanti, cioè i luoghi dove avevano preparato le autombombe poi fatte esplodere – due alloggi a Roma e una villetta a Fiano Romano: covi in cui quei latitanti palermitani avevano preparato gli ordigni, dopo aver portato l’esplosivo a Roma. E mi ricordo che, in queste perquisizioni, venne anche Chelazzi. Guardate che un pm, in una perquizione, non lo vedete mai. Chelazzi è venuto, e ha fatto intervenire la scientifica con un’apparecchiatura, l’Egis, per il rilevamento di tracce di esplosivo. E in tutti quei posti, infatti, abbiamo trovato tracce di contaminazione dello stesso esplosivo utilizzato negli attentati: ecco il risultato scientifico che a va a coniugarsi con i risultati delle indagini classiche, tradizionali. Questa è la vera attività investigativa – oggi invece si parte dalla scienza, per trovare il Dna, ma non si arriva mai a una certezza sul colpevole. Ecco, quel magistrato è venuto addirittura a coordinare l’attività di perquisizione sul posto – figura rara.Sempre indagando sui covi, abbiamo trovato anche la villa di Forte dei Marmi (presa in affitto per tre mesi, nel ‘93, da un prestanome dei fratelli Graviano, per 25 milioni di lire, in contanti) dove qui mafiosi avevano trascorso parte della latitanza, insieme a un altro grosso personaggio, oggi indicato come l’imprendibile primula rossa e nuovo capo di Cosa Nostra: Matteo Messina Denaro. Fu un’attività di investigazione “pura”, tradizionale, senza il contributo di pentiti – i pentiti sono intervenuti dopo la loro cattura, a dare conferme e ad ampliare l’orizzonte investigativo, però sono tutti frutti dell’investigazione “pura” (così l’ho definita, in un libro scritto per l’Università di Pisa). E la pista che stava seguendo la Digos di Firenze prima che intervenissi io, come funzionario Dia (tre giovani parlemitani, riconducibili a un’area mafiosa, che avevano dormito in un albergo di via Scala la notte dell’attentato) non era una pista fondata. E allora mi chiedo: se avessero continuato su quella pista, magari avremmo avuto una condanna in primo grado e un’assoluzione in appello, senza una vera certezza giurisprudenziale. Certezza che invece abbiamo avuto con la condanna definitiva dei 28 mafiosi, in appena quattro anni. E’ stata l’unica volta che, in Italia, sono stati scoperti i colpevoli delle stragi. In genere, delle stragi non si sa mai nulla di preciso? Di queste sappiamo, invece. Non sappiamo se ci sono stati possibili mandanti esterni. Forse l’avremmo saputo se Gabriele Chelazzi avesse avuto la possibilità di proseguire nel suo cammino investigativo.(Michele Giuttari, dichirazioni rilasciate nell’ambito dell’incontro pubblico “Il Salotto d’Europa” a Pontremoli il 12 agosto 2015, in occasione della presentazione della sua autobiografia “Confesso che ho indagato”. Poliziotto di razza, formatosi alla Direzione Investigativa Antimafia, Giuttari è noto per il successo nelle indagini sulle stragi del ‘92-93 e per quelle sul Mostro di Firenze, concluse con la condanna di Pacciani, Lotti e Vanni; ulteriori indagini sui possibili mandanti occulti dei “compagni di merende” furono ostacolate dall’allora capo della polizia, Gianni De Gennaro, che ordinò il trasferimento di Giuttari, e dall’allora procuratore capo Nannucci, che inquisì Giuttari insieme al pm perugino Mignini, poi prosciolti entrambi da ogni accusa – ma dopo 8 anni, nei quali nel frattempo l’inchiesta era “defunta”. Giuttari, lasciata la polizia, è divenuto un autore “cult” di romanzi “noir” tradotti in tutto il mondo, come “Scarabeo”, “La loggia degli innocenti” e “Il basilisco”, accanto a memoir come “Il Mostro, anatomia di un’indagine”).Gabriele Chelazzi era il titolare dell’inchiesta sulle stragi di mafia del ‘93: a Firenze il 27 maggio ‘93, a Roma e Milano quasi in concomitanza, nella notte tra il 27 e il 28 luglio del ‘93. E il 14 aprile, sempre del ‘93, l’attentato di via Fauro a Roma, ai danni di Maurizio Costanzo. Io ho avuto il piacere e l’onore di collaborare con Chelazzi per questa inchiesta sulle stragi, in veste di responsabile del settore investigativo del centro Dia di Firenze, prima di assumere l’incarico di capo della Mobile. Gabriele Chelazzi era alla Procura nazionale antimafia con Vigna a Roma, ma aggregato a Firenze per continuare le indagini sui possibili mandanti delle stragi di mafia. Viveva a Roma in una caserma della Finanza, e una mattina la scorta lo trova morto. Aveva 56 anni. E sul comodino trovano una lettera, che lui aveva scritto nella notte, indirizzata al procuratore capo di Firenze (Ubaldo Nannucci), nella quale lamentava di esser stato lasciato solo, di sentirsi isolato. E’ morto. A me piace, quando ne ho la possibilità, ricordare questo magistrato. La società civile gli deve tantissimo. E’ il magistrato che, poco prima che morisse, per primo andò nella sede dei servizi segreti, a Roma, a sequestrare quelle carte che son tornate alla ribalta alla vigilia dell’interrogatorio del presidente della Repubblica, Napolitano, sulla trattativa mafia-Stato.