Archivio del Tag ‘scienza’
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Morte e resurrezione: è tutto scritto nella Legge dell’Ottava
L’Ottava è la gestione, sapiente, di quello che noi definiamo intuito, e volendo anche preveggenza. Noi abbiamo sempre avuto dinamiche attraverso le quali ottenere l’intuito e amministrarlo, organizzandolo. Queste dinamiche esistono tuttora. Un modo con cui creare fenomeni di tipo intuitivo, nel mondo cattolico (che è uno dei più preparati, in questo senso, cioè a livello energetico), sono i Salmi, sono i canti gregoriani fatti in un certo modo. Quindi, la metodologia attraverso la quale porre certe domande e soprattutto ricevere certe risposte esiste da tempo: l’amministrazione di queste energie è chiarissima, da moltissimo tempo. C’è l’Ottava di Pasqua, c’è l’Ottava di Pentecoste. C’è l’Ottava nei Sigilli di Gioacchino da Fiore, che inserisce l’intera storia dell’umanità in un “salto d’ottava” finale che è pazzesco, e in quel modo crea – per l’umanità e per il mondo cristiano – l’ottimismo, che non esisteva. Non esisteva, l’ottimismo, come non esiste nelle nostre vite quando siamo cocciuti, quando siamo ignoranti. Questi signori lo creano, l’ottimismo, inteso come “cose che puoi fare, devi fare, riesci a fare”. Fermarsi a dire che quello è mito, è poca roba. Non è mito, ma non solo la Bibbia: tutti i testi sacri sono questa cosa qua.I nostri sono un’evoluzione dei testi sacri ebraici, che a loro volta sono un’evoluzione di quelli egizi e mesopotamici. Lo Spirito Santo, quando ce l’hanno gli ebrei si chiama Ruach, e per loro è femminile – e giustamente: chi ti informa, infatti, è la parte umana del divino. La Legge dell’Ottava è un sapere che è presente da millenni, sulla Terra, ma non ne conosciamo la paternità. Ed è un tipo di sapere che faccio fatica a non ricondurre a una civiltà che abbia vissuto perlomeno millenni. Dimostra una proporzione evolutiva che è ben al di là del nostro progresso scientifico. Tutto il mondo biblico, comunque lo si voglia interpretare, contiene l’Ottava. Ce l’ha dentro, proprio: a livello numerico, mitico, descrittivo. Non è altro che una modalità con cui parlare dell’Ottava, sempre. E dato che, se viene interpretato in un certo modo, ha la capacità di esprimersi attraverso fenomeni energetici – che possiamo chiamate Pentecoste, resurrezione, o come volete. In molti casi, l’utilizzo della Bibbia e dei Vangeli è potentissimo, sotto il profilo intuitivo. I 150 Salmi hanno uno stra-potere, se recitati in ebraico, perché sono di per sé l’essenza di questa legge: contengono le tre energie da cui questa legge deriva. Ci sono Horus, Iside e Osiride, o comunque vogliamo chiamarli.L’evocazione dei Salmi corriponde alla percezione – nostra – di una forma emozionale che potremmo definire “morte e resurrezione”, ma in vita: sono le cose che ci fanno cambiare per sempre. Attenzione a non buttare via quello che c’è nella Bibbia: se vengono usate come si deve, quelle pagine, le interpretazioni sono plurime, come profondità. E questo, nel mondo cattolico lo sanno da duemila anni. E allora si va tranquillamente oltre gli Elohim di Biglino, ve lo posso garantire. Ve lo dico, perché ho fatto questo percorso su di me. Non mi intendo di Vangeli, non mi intendo di Bibbia o di cristianità, però mi intendo di simboli. E vi posso garantire che quello che succede osservando certi loro simboli – come è stato per me il Rosone di Collemaggio, la basilica dell’Aquila – si scopre che non c’è altro che l’impatto con questo tipo di energie, che vengono descritte. Per me, osservare quel rosone ha significato morire e rinascere. Già, perché noi abbiamo idea che si muoia solo quando questo avviene a livello fisico. Invece, durante la vita, ripetiamo continuamente ciò che la natura compie a livello pluridimensionale. Quando noi cambiamo, sentiamo la necessità reale di cambiare; il cambiamento è morte, e subito dopo c’è una resurrezione. E i meccanismi della natura, che sono sempre dentro di noi – siccome non li contempliamo e non ci vengono spiegati – quando arrivano ci spaventano.Certo, stare attenti e uscire dal coro ha un costo: richiede tempo, impegno, studio, applicazione. E siccome il mondo è questa roba qua, quando facciamo i seminari siamo sempre e solo una decina di persone, al massimo una ventina. Se invece prometti di far parlare il pubblico con i defunti allora non c’è problema, arrivano a migliaia. Quando capiamo qualcosetta della natura, del divino, di queste leggi (che esistono, e che noi non vogliamo studiare), allora quel percorso comincia. Tutte le nostre domande vanno canalizzate in un percorso ben preciso, questo sì. Ce lo vendono benissimo i russi e gli americani, ma gli amministratori principali di questo sapere sono stati gli italiani, sempre. Noi viviamo in un mondo pratico, talmente pratico che si dimentica di Dio, e così poi siamo tutti seduti dallo psicologo. Abbiamo trascurato il mondo metafisico per un bel po’ di tempo, coinvolgendo anche la scienza, che un tempo partiva proprio dal mondo metafisico per arrivare a quello fisico. Noi invece siamo ripartiti dal mondo fisico, per poi arrivare a capire che gli elettroni si parlano tra di loro. Abbiamo avuto un momento di completa confusione, per poi tornare finalmente verso il mondo metafisico.Al di là di questo, l’applicazione della Legge dell’Ottava, e quindi il coltivare dei momenti emotivi di un certo tipo, nella nostra vita quotidiana a volte dà dei risultati. Quei meccanismi poi vanno a raffinarsi e diventano “fede, speranza e carità” (il tricolore italiano) e possono essere applicati nel quotidiano. Sono le frequenze che non tempriamo, perché non sappiamo più che c’è un meccanismo, una tabella attraverso la quale tutti i giorni fare esercizi per il cuore – perché poi, quella roba là, va tutta a finire nel cuore. La fortezza, la pietà: sono tutte cose che, nell’arco della giornata, interpretiamo, bene o male. Quando poi ci sediamo in banca e firmiamo un mutuo di trent’anni, credo sia un’operazione che va al di là della fede, della speranza e della carità. E ci vanno veramente fortezza, giustizia e timore di Dio – inteso come banca, in quel caso! Non è una cosa che si compra in farmacia. L’Ottava è un percorso. E va fatto, per forza, con grande fatica – per forza, perché “lei fa noi”, se non siamo noi a fare lei. Dietro c’è la conoscenza delle modalità con cui emozionare il tempo, la percezione degli altri luoghi (delle altre dimensioni); le modalità con cui inscrivere i nostri desideri in una cosa che si chiama “campo”, che è la coscienza.C’è tutta una serie di meccanismi. Ma l’utilizzo del simbolo, cioè il percorso del sapere che riguarda il simbolo, ha un’unica funzione. Non vi è nulla di materiale, nell’Ottava, e nello stesso tempo è tutto materiale. O meglio: nel momento in cui il percorso del simbolo sta solleticando delle sinapsi che non usiamo mai, che sono quelle dell’intuito e dell’immaginazione, noi facciamo questa operazione: pensiamo. Ma se pensate che lo facciamo, nell’arco della giornata, vi sbagliate di grosso. Noi ci facciamo pensare, da tutto quello che ci circonda. Nel momento in cui, invece, siamo noi a pensare – perché abbiamo una meta, una modalità pensante (un libro, un quadro, un simbolo) – allora in quel momento pensiamo veramente. E quando pensiamo, noi “siamo”. E questo non lo dico io, ma l’ha detto qualche secolo fa un signore che si chiamava Cartesio. Cogito, ergo sum: è il percorso del pensare, quello che porta all’essere. E il percorso dell’essere è quello che porta al fare.Gli shock addizionali? Sono un momento della Legge dell’Ottava. In ambito musicale, tra le note, ci sono momenti in cui le frequenze cambiano passo e si abbassano – tra il mi e il fa, e tra il si e il do. Sono due momenti in cui, realmente, le frequenze di abbassano, per tornare poi nella loro normalità. Quelli sono i momenti in cui, nella nostra vita, avvengono dei fatti. Lo shock addizionale è qualcosa che noi dobbiamo aggiungere, ad un momento emozionale, perché venga superato. Sono i momenti in cui, nel mondo spirituale, si invoca l’aiuto dello Spirito Santo, pensando che esistano momenti ben precisi in cui invocare l’aiuto di una forma energetica – lo Spirito Santo, appunto – che dia la possibilità, a livello psichico, di dare uno shock addizionale alla sua Ottava (intesa come capacità di credere in Dio, nel caso specifico), affinché questa capacità non venga mai meno. Come avviene? Io chiedo di avere fede. La risposta quale può essere? Uno strumento? Un’immagine? Una parola? Un sogno? Noi, poi, queste cose le colleghiamo al caso, mentre c’è una forma energetica ben precisa – che non si chiama “caso” – che è evocativa e soprattutto evocabile, con una preparazione ben precisa. Nel caso nostro può essere lo studio di un certo tipo di percorso, che in qualche modo, man mano, ti svela, ti dice, ti fa fare progressi di un certo tipo. I perscorsi sono diversi, anche se poi portano tutti allo stesso posto.La precessione degli equinozi? L’evento precessionale contiene al suo interno i numeri dell’Ottava. Questo perché la legge è unica, è unico in modo in cui Dio crea: quei numeri si ritrovano anche nella fisica del movimento. Semplicemente, la precessione significa parlare dell’Ottava per X volte. Ma la precessione, così come la intendiamo noi, è una cosa molto limitante. Sarebbe utile interpellare un simbolo come lo Zodiaco di Dendera, che è egizio e appartiene da sempre, come altri, a questa strategia conoscitiva. Fa capire come la precessione sia un evento “sottile” che riguarda l’atto creante, e che soprattutto è ottemperato dalla nostra galassia, come da tutte le altre galassie. E’ sbagliato limitarsi al sistema solare, tantomeno alla Terra e al suo movimento. Se si parte da questo presupposto – e gli egizi lo sanno dire con molta precisione – allora, forse, anche la questione del misterioso pianeta Nibiru va affrontata in modo diverso (sul tema Nibiru, però, non ci sono risposte definitive).(Michele Proclamato, dichiarazioni rilasciate a Michele Stedile nella diretta in web-streaming su Skype “Domande e risposte” del 14 marzo 2018, pubblicata su YouTube).L’Ottava è la gestione, sapiente, di quello che noi definiamo intuito, e volendo anche preveggenza. Noi abbiamo sempre avuto dinamiche attraverso le quali ottenere l’intuito e amministrarlo, organizzandolo. Queste dinamiche esistono tuttora. Un modo con cui creare fenomeni di tipo intuitivo, nel mondo cattolico (che è uno dei più preparati, in questo senso, cioè a livello energetico), sono i Salmi, sono i canti gregoriani fatti in un certo modo. Quindi, la metodologia attraverso la quale porre certe domande e soprattutto ricevere certe risposte esiste da tempo: l’amministrazione di queste energie è chiarissima, da moltissimo tempo. C’è l’Ottava di Pasqua, c’è l’Ottava di Pentecoste. C’è l’Ottava nei Sigilli di Gioacchino da Fiore, che inserisce l’intera storia dell’umanità in un “salto d’ottava” finale che è pazzesco, e in quel modo crea – per l’umanità e per il mondo cristiano – l’ottimismo, che non esisteva. Non esisteva, l’ottimismo, come non esiste nelle nostre vite quando siamo cocciuti, quando siamo ignoranti. Questi signori lo creano, l’ottimismo, inteso come “cose che puoi fare, devi fare, riesci a fare”. Fermarsi a dire che quello è mito, è poca roba. Non è mito, ma non solo la Bibbia: tutti i testi sacri sono questa cosa qua.
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Migranti, il business dei predoni globalisti condanna l’Africa
Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.Esiste poi la Ong francese Positive Planete (prima Planet Finance), fondata dal francese Jacques Attali – colui che ha scoperto Macron – e dal bengalese Yunus, padre del microcredito, che si prefigge di “combattere la povertà in Africa attraverso lo sviluppo della microfinanza”. Un sodalizio, quello tra finanza, Ong ed emigrazione, molto redditizio e ben occultato. Tutti i paesi che si sono sviluppati l’hanno fatto avviando un piano di sviluppo economico basato sulla protezione dell’industria locale nascente e su politiche pubbliche di tipo keynesiano. Nell’Africa postcoloniale questo non è stato possibile, poiché le forze economiche internazionali hanno imposto il loro modello neoliberista, fatto di massima apertura al commercio estero, liberalizzazioni, privatizzazioni dei servizi pubblici e tagli alla spesa dello Stato. Ciò ha impedito qualsiasi possibilità di sviluppo dell’economia africana. Ogni tentativo in tale direzione è stato represso nel sangue, come nel caso di Lumumba in Congo e di Sankara in Burkina Faso. Questo è esattamente il modus operandi dell’attuale modello unico economico su scala globale: “keynesismo per i ricchi e neoliberismo per i poveri”, utilizzato come strumento di depredazione dei paesi.Mentre sappiamo molto della storia coloniale, quello che è accaduto in Africa con la decolonizzazione è poco conosciuto ai più e distorto da una narrazione mistificatrice che imputa ai vecchi imperi coloniali la causa dell’attuale e persistente stato di sottosviluppo del Continente Nero. Con la nascita degli Stati indipendenti in Africa, come in gran parte del Terzo Mondo, si stava avviando un percorso di crescita economica e di sviluppo locale. I paesi africani avevano adottato la cosiddetta politica di “industrializzazione per sostituzione”, secondo la quale le merci importate venivano sostituite con la produzione interna per tutelare le economie e le industrie nascenti dalla concorrenza internazionale. Questa politica, in aggiunta al riconoscimento da parte del Gatt del “diritto alla protezione asimmetrica” per i paesi in via di sviluppo (1964), generò in molti paesi dell’Africa subsahariana un periodo di crescita e relativo benessere. Ma le ingerenze esterne non tardarono a farsi sentire da parte dei grandi interessi economici internazionali.Con lo scoppiare della crisi del debito del Terzo Mondo nel 1982, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale imposero definitivamente le loro politiche macroeconomiche, che non favorivano lo sviluppo locale, non prevedevano alcun investimento nell’economia nazionale, ma incentivavano gli Stati a importare ingenti quantità di beni di consumo e a destinare la propria produzione all’esportazione per il pagamento del debito. Attraverso la previsione di “condizionalità” legate ai prestiti concessi, si venne a realizzare una nuova forma di imperialismo globale, il colonialismo del debito, da cui banche e prestatori di denaro hanno tratto enormi profitti, congiuntamente alle grandi multinazionali, che hanno depredato il Continente del suo ricco patrimonio di risorse naturali, inibendo ogni possibilità di sviluppo economico locale.La chiusura che incontro è più ideologica che scientifica. Purtroppo non si può parlare di neoliberismo e del fenomeno migratorio senza incorrere in divisioni ideologiche e pregiudizi. Dimostrare che il modello economico imposto dalle grandi istituzioni internazionali in Africa, che è lo stesso a distanza di decenni attuato ora in Italia, sia la causa del suo sottosviluppo lascia sconcertati. Sostenere poi che l’emigrazione non è una soluzione, ma anzi aggrava i problemi del continente africano, arricchendo solo chi specula sulla mercificazione degli esseri umani, suscita contrarietà da parte dei fautori acritici dell’accoglienza illimitata. Rompere dei tabù e dei luoghi comuni non è mai semplice, ma sto riscontrando anche molto interesse e consenso da parte di chi conosce e vive in prima persona la realtà africana. Da parte dei media sapevo, quando ho intrapreso questo percorso, iniziato col mio primo libro sottotitolato “Storia di una bocconiana redenta”, che non sarebbe stato per nulla facile rompere il muro nel mainstream. Tuttavia, l’interesse mostrato nei miei confronti da alcuni programmi televisivi e radiofonici è andato oltre le mie aspettative.Credo che, seppur con grande difficoltà, ci sia un piccolo spiraglio per chi affronta temi scomodi in modo serio e supportato da evidenze scientifiche. Il Decreto Dignità proposto da Di Maio? L’attuale modello economico è basato sulla precarizzazione del lavoro e, di conseguenza, della vita umana. Il Decreto Dignità ha il grosso merito di riportare al centro il lavoratore e i suoi diritti. Mettere un limite alla durata e al numero di rinnovi dei contratti a termine, aumentare la tutela e l’indennità del lavoratore nei casi di licenziamento, sanzionare le imprese che delocalizzano dopo aver usufruito di aiuti di Stato, nonché avviare una dura lotta alla ludopatia sono tutte misure che operano in questa direzione. Lo Stato in questo modo torna a occuparsi del cittadino e del lavoratore, ripudiando il ruolo di servitore dei mercati e degli interessi transnazionali, come vorrebbe il modello neoliberista universale, perfettamente rappresentato dall’attuale Unione Europea.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Marina Simeone per l’intervista “I coloni dell’austerity” pubblicata da “Il Pensiero Forte” il 25 luglio 2018. Economista attiva anche sul proprio seguitissimo blog, laureata alla Bocconi, scrittrice di libri coraggiosi e di successo sul neoliberismo, dopo la risonanza ottenuta dal primo lavoro “Neoliberismo e manipolazione di massa (storia di una Bocconiana redenta)”, Ilaria Bifarini ha presentato “I coloni dell’Austerity. Africa, neoliberismo e immigrazioni di massa”).Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.
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Tecno-vaccini per annientarci, se la scienza “impazzisse”
Hai bisogno di un cuore o un polmone di ricambio? Nessun problema: la Monsanto te ne crea uno nuovo di zecca, utilizzando una specie di maiali trans-genici alimentati da mangimi Ogm e sottoposti con regolarità ad espianto di organi mentre sono ancora in vita, per mantenere “freschi” gli organi espiantati. Avvertenza: il tuo governo ha già approvato simili pratiche. Possibile? No, ovviamente. Sono soltanto fantasie decisamente horror, sulle quali si interroga il blog “La Crepa nel Muro”. Ai confini della realtà, si esplorano aberrazioni a 360 gradi: come i vaccini “comportamentali” per rendere docili i cittadini e reprimere il dissenso, il monitoraggio “da remoto” del nostro stato di salute, la totale segretezza sull’origine degli alimenti. Un mondo da incubo: pandemie globali scatenate da armi biologiche, controllo a distanza sul codice genetico della prole, ingegneria genetica per tranquillizzare le folle o, al contrario, “fabbricare” soldati spietati. E scie in cielo, naturalmente, per “attivare metalli e nano-cristalli iniettati attraverso i vaccini”. Un film spaventoso, che comincia con l’espianto “brevettato” di organi di maiali geneticamente modificati. Ha senso, questa fantascienza abominevole? Impossibile escluderla a priori, secondo “La Crepa nel Muro”, visto che la scienza ormai assoggettata all’industria «ha in mente per noi un futuro molto diverso dai paradisi utopistici previsti dai media mainstream».Secondo l’ufficialità, come sappiamo, la scienza sarebbe sempre e comunque benigna per l’umanità: «Ogni conseguimento scientifico è sempre stato dipinto come “progresso”, anche se molti di essi alla lunga si sono rivelati disastrosi (le bombe atomiche, ad esempio, oppure gli Ogm)». E mentre la scienza pura «risulta essere una componente necessaria di qualsiasi civiltà che cerchi di espandere la propria comprensione dell’universo», il tipo di scienza che oggi domina il paesaggio «è industriale, quindi al servizio dei profitti aziendali più che della umana comprensione». E’ la scienza-business, quella che «sta per partorire una nuova nidiata di tecnologie proprio terrificanti, le quali potrebbero trasformare il mondo». Tecnologie in vitro, che di umano non hanno più niente? Il blog ne propone un intero campionario, francamente agghiacciante. Come i “vaccini comportamentali”, che potrebbero essere sviluppanti, orwellianamente, per “reprimere il dissenso”, da chi considerasse la disobbedienza una patologia, una vera e propria malattia. La “cura per la disobbedienza” (o “disturbo oppositivo”) potrebbe essere nuovo vaccino che «rimodellerà biologicamente il cervello per renderlo più socialmente mansueto e controllabile». Una sorta di lobotomia chimica: sarebbe «la pietra di fondazione dello stato di polizia globale, che non avrà tolleranza per il pensiero indipendente e il pensiero critico di qualsiasi tipo».E che dire del “monitoraggio da remoto di tutti i valori sanitari e impulsi vitali”? «Pensate che le cartelle cliniche siano davvero riservate? Pensateci bene: già attualmente il governo degli Stati Uniti detiene un database centralizzato dei campioni di sangue prelevati a tutti i neonati». E’ pensabile che nel prossimo futuro, ai cittadini, possa essere «impiantato un chip diagnostico»? In tempo reale, il dispositivo potrebbe trasmettere al governo «una serie di informazioni circa il polso, la respirazione, la presenza di droghe illegali o legali (le quali sono spesso le stesse sostanze chimiche contenute nelle droghe illegali, ripresentate sotto forma di farmaco)». Funzione: «Controllare che ogni ammalato assuma regolarmente i propri farmaci», ma anche «individuare e arrestare coloro che assumano sostanze stupefacenti senza prescrizione medica». Nella versione horror, il chip potrebbe «monitorare i livelli nutrizionali», magari elininando la vitamina D – dichiarata pericolosa, in un futuro da incubo – per fissare «soglie di tolleranza ben distanti da quella del risveglio cognitivo, facendo in modo che tutti restino prigionieri di uno stato di torpore mentale». Alla stessa strategia (perversa, demoniaca) potrebbe corrispondere anche la “totale segretezza circa qualsiasi ingrediente alimentare e luoghi di origine dei prodotti”, con un doppio risultato: spacciare alimenti-spazzatura molto redditizi e, fatalmente, pericolosi per la salute.Anche per questo, aggiunge “La Crepa nel Muro”, nel peggior futuro possibile potrebbe scattare anche la “assoluta criminalizzazione di alimenti e farmaci di produzione locale”, con “obbligo di affidarsi esclusivamente ai grandi gruppi industriali alimentari e farmaceutici”. A proposito di cibo, scrive il blog, “scienziati” corrotti potrebbero affermare che la coltivazione autonoma di un orto nel proprio giardino sia estremamente pericolosa, perché causa il diffondersi di batteri. Basterebbe a mettere al bando il giardinaggio domestico: vietato mettersi a coltivare pomodori sul balcone. «Il fine ultimo di tutto ciò è rendere la popolazione completamente dipendente dalle grandi industrie alimentari centralizzate». I soliti “scienziati” potrebbero sostenere che solo le grandi industrie alimentari producono cibo sicuro, «in quanto completamente pastorizzato, irradiato e sottoposto a fumigazione». Senza contare, poi, gli scenari di guerra. Esempio: “Scatenamento di una pandemia globale a colpi di armi biologiche aggregate ai vaccini”.«L’intero sistema dei vaccini – si legge nel fanta-post della “Crepa nel Muro” – fa ovviamente capo ad una politica di eugenetica su larga scala». Ovvero: «Qualcuno ha progettato di eliminare tutti i quozienti intellettivi più bassi del pianeta, persone così stupide da lasciarsi iniettare qualsiasi cosa sia spacciata per un vaccino», comprese le inutili vaccinazioni antinfluenzali. «E’ realmente un programma di eugenetica, con cui i globalisti sono convinti di poter estirpare la stupidità dal genere umano, non importa quale sia il costo in termini di sofferenza». Per questa via completamente folle, si potrebbe arrivare un giorno anche al “totale controllo del governo sulla riproduzione e sul codice genetico della prole”. «Copulare con una persona di vostra scelta e produrre la vostra discendenza a vostro piacimento non sarà più permesso, nello stato di polizia scientifica», si sbilancia “La Crepa nel Muro”. «La riproduzione sarà attentamente controllata tramite la concessione di licenze per assicurarsi che non vi siano risultati imprevisti». Orrore: «Prima di avere figli, i genitori dovranno chiedere al governo il permesso di riprodursi». A quel punto «saranno analizzati geneticamente e psicologicamente, dopodiché sarà loro concesso un permesso di riproduzione controllata il cui iter dovrà essere rigorosamente seguito per evitare il carcere».«Alle persone che mostrino tendenze ribelli e atteggiamenti anti-statali – va da sé – sarà negato il privilegio della riproduzione». E quindi, «solo agli schiavi più obbedienti e bianchi saranno concessi i privilegi di riproduzione, di cui gli schiavi andranno orgogliosi, data la responsabilità di mettere al mondo le successive generazioni di schiavi». Paranoia letteraria? Universi paralleli? Quanto può esservi, di verosimile, nella dilatazione – volutamente provocatoria e spettacolare – delle più recenti mostruosità (tragicamente autentiche) di alcune sperimentazioni tecno-scientifiche? Un abisso, nel quale “La Crepa nel Muro” arriva a ipotizzare “impianti cerebrali attivabili da remoto per la sedazione delle folle”. E’ un fatto: il futuro ormai coinvolge tutti i tipi di apparecchiature elettroniche impiantabili nel corpo umano. Una di quelle più convenienti potrebbe essere il “chip pacificazione”, addirittura «imposto ai cittadini in cambio di una somma di crediti virtuali». Un dispositivo subdolo, «attivato in modalità remota da parte del governo attraverso flussi cellulari, o attraverso impulsi locali emessi dalle forze di polizia, per placare immediatamente qualsiasi grande folla di manifestanti e rivoltosi». Gli studenti stanno protestando in favore della libertà di parola? «Basterà attivare il “chip pacificazione”, e tutti si sdraieranno sul prato e per qualche minuto faranno qualche sogno ad occhi aperti».Al bisogno, un simile chip potrebbe essere usato anche per “eccitare” il cervello in frangenti politicamente convenienti: «Per esempio, se un altro attacco terroristico dovesse compiersi sul territorio americano, il chip potrà essere d’aiuto per stimolare il sostegno della gente ad una ritorsione bellica». Ed ecco quindi il passo successivo, “ingegneria genetica e allevamento di super-soldati obbedienti”. «In un lontano futuro – ipotizza il blog – i soldati sul campo di battaglia saranno effettivamente degli umanoidi dotati di armi da fuoco e armature. Pensate al modello Terminator T-1000. Tutto ciò al momento resta abbastanza fuori portata, data la incredibile complessità di una simile tecnologia. Nel frattempo le nazioni più potenti investono denaro nella tecnologia dei super-soldati geneticamente modificati, i quali sono concepiti, allevati e addestrati per pensare ed agire come automi». Potrebbero essere “fabbricati” nuovissimi soldati-Ogm, dotati di elevati valori biologici (alta ossigenazione del sangue, cornice corporea di grandi dimensioni) in combinazione con piccoli cervelli, «in grado di elaborare solo le informazioni sufficienti per eseguire gli ordini ricevuti senza metterli in discussione». Invitabilmente, «saranno anche dotati di numerosi impianti elettronici che li renderanno più simili a cyborg che ad esseri umani». E quindi, «potenziamenti ottici applicati alle retine, chip Gps connessi al cervello, cablaggi nelle orecchie».Dulcis in fondo, ecco “l’attivazione di metalli e nano-cristalli iniettati attraverso i vaccini”. «Oltre che per la diffusione di malattie infettive – scrive il blog, nella sua “profezia” da incubo – i vaccini potranno essere utilizzati per iniettare nano-cristalli sintonizzati per risuonare a determinate frequenze». Nano-cristalli? «Sono stati rinvenuti anche nelle scie chimiche». Potrebbero rimanere inerti in un organismo anche per decenni, per poi essere di colpo “attivati” con l’emissione di specifiche frequenze. «Le applicazioni pratiche sarebbero infinite; dalla follia collettiva ai focolai di violenza di massa (tumulti, ecc) o a poche decine di milioni di persone che di colpo muoiono contemporaneamente. Una qualsiasi di tali applicazioni potrebbe essere sfruttata dal governo per vendere la versione ufficiale di un “attacco terroristico”. E tutto ciò potrebbe essere fatto in nome della “scienza”». Per “La Crepa nel Muro”, si tratta di «possibili tecnologie future» con cui la “scienza abusiva” potrebbe «supportare futuri governi tirannici e industrie corrotte». Nulla di tutto ciò è ancora in agenda, per fortuna, ma alcune idee aberranti «sono sulla buona strada per diventare realtà già nei prossimi anni». Fantascienza a parte, il problema sull’impiego della scienza è ovviamente serissimo: guai, se viene utilizzata «per dominare e ridurre in schiavitù le persone». Troppo spesso si è rivelata il grande alibi per operazioni “sporche”, progettate sulla pelle di tutti.Hai bisogno di un cuore o un polmone di ricambio? Nessun problema: la Monsanto te ne crea uno nuovo di zecca, utilizzando una specie di maiali trans-genici alimentati da mangimi Ogm e sottoposti con regolarità ad espianto di organi mentre sono ancora in vita, per mantenere “freschi” gli organi espiantati. Avvertenza: il tuo governo ha già approvato simili pratiche. Possibile? No, ovviamente. Sono soltanto fantasie decisamente horror, sulle quali si interroga il blog “La Crepa nel Muro”. Ai confini della realtà, si esplorano aberrazioni a 360 gradi: come i vaccini “comportamentali” per rendere docili i cittadini e reprimere il dissenso, il monitoraggio “da remoto” del nostro stato di salute, la totale segretezza sull’origine degli alimenti. Un mondo da incubo: pandemie globali scatenate da armi biologiche, controllo a distanza sul codice genetico della prole, ingegneria genetica per tranquillizzare le folle o, al contrario, “fabbricare” soldati spietati. E scie in cielo, naturalmente, per “attivare metalli e nano-cristalli iniettati attraverso i vaccini”. Un film spaventoso, che comincia con l’espianto “brevettato” di organi di maiali geneticamente modificati. Ha senso, questa fantascienza abominevole? Impossibile escluderla a priori, secondo “La Crepa nel Muro”, visto che la scienza ormai assoggettata all’industria «ha in mente per noi un futuro molto diverso dai paradisi utopistici previsti dai media mainstream».
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Patrizia Scanu: smettiamo di avere paura, l’Italia risorgerà
Qualunque cambiamento a livello politico e sociale passa attraverso un cambiamento di livello della coscienza, perché la realtà che viviamo rispecchia i nostri pensieri e le nostre aspettative. Ne sono profondamente convinta. Nessuno schiavo è più impotente di chi si sente schiavo nell’animo. E anche se Marx non sarebbe d’accordo, perfino i sistemi economici rispecchiano uno stato globale della coscienza. Al Movimento Roosevelt sono arrivata attraverso il tema della scuola, partecipando con una relazione al convegno “Le forme della democrazia”. Ma la spinta mi è venuta dalla lettura del libro di Gioele Magaldi “Massoni: società a responsabilità illimitata”. Fu una vera rivelazione. Pur avendo studiato storia, solo leggendo quel libro vidi molti tasselli andare a posto e cominciai a capire che cosa fosse successo davvero nel mondo negli ultimi decenni. Perché ho deciso di candidarmi alla segreteria generale del Movimento Roosevelt? Mi hanno convinta l’entusiasmo che mi hanno mostrato gli amici rooseveltiani e la constatazione che il momento storico che viviamo richiede il massimo sforzo da parte di tutte le persone non soddisfatte del clima pesante e post-democratico che ci opprime. Se non si impegna chi ha maturato qualche consapevolezza, chi lo deve fare?Generare disgusto e disaffezione verso la politica per indebolire la democrazia era uno degli obiettivi del gruppo oligarchico che nel 1975 produsse “The crisis of democracy”, scritto da Michel Crozier, Samuel P. Huntington, e Joji Watanuki per la Trilateral Commission e che potremmo definire come il manuale per la transizione dalla democrazia all’oligarchia tecnocratica. Bisogna assolutamente invertire la rotta. Però l’aria sta cambiando: sta finendo un mondo, anche se le transizioni non sono mai indolori. Occorrerà il contributo di tutti, ed io ho deciso di non tirarmi indietro, proprio in quanto donna. C’è bisogno di un riequilibrio fra maschile e femminile. Il Movimento Roosevelt è un metapartito, ovvero un soggetto politico del tutto originale, nel quale si confrontano e dialogano laicamente persone di ogni credo religioso e politico, accomunate dalla convinzione che le etichette di destra, sinistra e centro siano ormai sorpassate dagli eventi. Quello che conta è la comune visione progressista della società, fondata sulla democrazia sostanziale, sulla Costituzione del ’48, deturpata da successive e indebite cessioni di sovranità a danno del popolo, sui diritti civili e sociali, sulla partecipazione popolare e sulla valorizzazione delle ricchezze culturali, ambientali, produttive di questo meraviglioso paese.La linea di demarcazione passa ormai fra chi difende la democrazia e i diritti e chi ci ha imposto questo modello economico predatorio neoliberista, di stampo feudale, che drena continuamente ricchezza dai poveri ai ricchi. Perciò mi sono impegnata a favorire il dialogo, a cui ci hanno disabituati la prevaricazione cialtrona e l’insulto sguaiato di vent’anni di mala politica; a sviluppare nel movimento la formazione degli iscritti; a diffondere, in forma divulgativa, la conoscenza sulla realtà economica e politica, camuffata quotidianamente dai media asserviti; a riorganizzare il movimento e a radicarlo a livello territoriale; a dialogare con altri soggetti politici orientati allo stesso fine di superare questa fase storica e di istituire una Terza Repubblica, si spera migliore della seconda, caratterizzata dal tradimento eversivo della casta. Benché il Movimento Roosevelt sia un laboratorio di idee politiche e di iniziative sociali, contribuirà, con le sue proposte e con alcuni iscritti, a costituire con altri soggetti un partito nuovo, di cui ora si sente il bisogno.Come si può vincere il “piano nero” del neoliberismo che toglie diritti, serenità, benessere e futuro ai tanti a favore di pochi? Il primo passo è la conoscenza. La gente è stata narcotizzata da decenni di informazione di regime, pilotata per nascondere quello che conta e per mostrare quello che fa comodo a chi tiene in mano il potere reale. Le battaglie più importanti si giocano sull’informazione e sulla scuola. Non è un caso che proprio su questi due ambiti si siano accaniti i poteri sovranazionali e oligarchici che hanno pianificato l’asservimento dell’Italia. Il fatto che in Europa si continui a presentare le cosiddette “fake news” come una priorità politica, dopo decenni di mostruose menzogne raccontate dai vertici istituzionali nazionali ed europei, la dice lunga sul nervosismo di chi teme un’informazione libera e critica. La scuola è stata impoverita, snaturata e ridotta a centro di formazione per il mondo del lavoro, priva ormai quasi del tutto del potere emancipante che il sapere dovrebbe avere in base alla Costituzione. Quindi la cancellazione della Buona Scuola e delle riforme neoliberiste diventa una priorità assoluta. Ma poi bisogna rendersi conto che il potere esercitato abusivamente su di noi per tanto tempo si regge sulla paura. Bisogna smettere di avere paura, per non farsi manipolare ogni giorno.Dobbiamo renderci conto, ciascuno di noi e tutti insieme, che chi ci ha ridotti così ha potere solo perché noi glielo abbiamo permesso. Dobbiamo smettere di credere alle bugie depressive che ci hanno raccontato. Non siamo condannati alla precarietà, alla povertà, alla svendita dei nostri beni più preziosi, alla corruzione, alle mafie, alla crisi perpetua. L’Italia è una terra benedetta dalla natura, dal clima e dalla storia. Arrivò ad essere nel 1991 la quarta potenza industriale del mondo e poteva diventare la seconda economia europea. E’ stata svenduta per ragioni inconfessabili da una classe politica ed economica che meriterebbe un processo per alto tradimento per la sofferenza e il dolore che ha prodotto consapevolmente e intenzionalmente, come spiega con cognizione di causa Gioele Magaldi nel suo libro “Massoni”. Non c’è nulla di cui avere paura. Ci serve invece alimentare la speranza e riprenderci ciò che ci è stato rubato. Ma questa è responsabilità di ciascuno di noi, per quello che può fare. Nel Movimento Roosevelt vorrei un concentrato di persone piene di idee e di voglia di futuro – e tanti, tanti giovani. Questo è un appello rivolto a tutti, ma proprio tutti i cittadini italiani che vogliono sentirsi orgogliosi del loro paese. Più numerosi saremo, più sarà realizzabile il progetto di riprendersi la democrazia.(Patrizia Scanu, dichiarazioni rilasciate a Enzo Di Frenna per l’intervista “La rivoluzione politica e pedagogica di Patrizia Scanu con il Movimento Roosevelt”, pubblicata sul blog dello stesso Di Frenna il 9 luglio 2018. Eletta segretaria generale del movimento presieduto da Gioele Magaldi, Patrizia Scanu è insegnante, psicologa e ricercatrice nei territori di confine fra le discipline, tra scienza e spiritualità. Laureata in filosofia, lettere classiche e psicologia clinica, ha insegnato filosofia e storia, lettere, latino, greco, pedagogia; ora insegna scienze umane, ovvero psicologia, sociologia, antropologia culturale, etologia, statistica e metodologia della ricerca. Esperta in Fiori di Bach e consulente del Bach Centre di Wallingford, Regno Unito, ha inoltre conseguito un diploma in Gestalt Counselling. Dichiara: «Ci vuole una grande presunzione per poter insegnare, ma è così che si comincia ad imparare; quando sei costretto a farti capire, devi sforzarti prima di capire tu: così scopri quanto sia immensa la tua ignoranza». E aggiunge: «Per me, che in fondo mi sento un po’ guerriera, insegnare è combattere una strenua battaglia contro l’ignoranza: la mia, intanto, e poi quella dei miei giovani pupilli. La conoscenza, per me, è il bene e il potere più grande. Come diceva Socrate, nella testimonianza di Platone, una vita senza farsi domande non è degna di essere vissuta»).Qualunque cambiamento a livello politico e sociale passa attraverso un cambiamento di livello della coscienza, perché la realtà che viviamo rispecchia i nostri pensieri e le nostre aspettative. Ne sono profondamente convinta. Nessuno schiavo è più impotente di chi si sente schiavo nell’animo. E anche se Marx non sarebbe d’accordo, perfino i sistemi economici rispecchiano uno stato globale della coscienza. Al Movimento Roosevelt sono arrivata attraverso il tema della scuola, partecipando con una relazione al convegno “Le forme della democrazia”. Ma la spinta mi è venuta dalla lettura del libro di Gioele Magaldi “Massoni: società a responsabilità illimitata”. Fu una vera rivelazione. Pur avendo studiato storia, solo leggendo quel libro vidi molti tasselli andare a posto e cominciai a capire che cosa fosse successo davvero nel mondo negli ultimi decenni. Perché ho deciso di candidarmi alla segreteria generale del Movimento Roosevelt? Mi hanno convinta l’entusiasmo che mi hanno mostrato gli amici rooseveltiani e la constatazione che il momento storico che viviamo richiede il massimo sforzo da parte di tutte le persone non soddisfatte del clima pesante e post-democratico che ci opprime. Se non si impegna chi ha maturato qualche consapevolezza, chi lo deve fare?
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Parlare con gli alberi cambia la vita, ve lo spiega Giovagnoli
«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.Alchimista e scrittore, Giovagnoli si dichiara «animato dalla pulsione alla verità e da un universale senso di giustizia». Dalla frequentazione quotidiana dei boschi sostiene di apprendere «l’infinita arte dell’autotrascendenza». Qualcosa che ricorda, misteriosamente, il Giovanni Francese che poi passò alla storia come San Francesco, l’uomo di Assisi che elevò il primo Cantico delle Creature, mettendo l’uomo al pari delle stelle, del sole, dell’acqua e degli uccelli. Giovagnoli condivide le sue conoscenze “di frontiera” attraverso conferenze e seminari. Ha esordito nel 2004 con il saggio “Assoluta. Analisi logica della Rivelazione” (Edizioni Il Grappolo). Dieci anni dopo, ecco il sorprendente “Alchimia Selvatica” (Macroedizioni), seguito a ruota da “La Messa è finita” (2017) e “Impara a parlare con gli Alberi” (2018). Perplessi, di fronte al rischio di consolatorie vaghezze di sapore new age? Peccato, perché Giovagnoli è innanzitutto uno scienziato degli alberi: li studia, li cerca e li scova in tutta Italia, sulle tracce delle piante secolari che popolano i nostri versanti. Gli alberi millenari, invece – con l’eccezione di qualche olivastro pugliese e sardo – li fece abbattere la Chiesa medievale dopo il Concilio Namnetense, come ad eliminare dei pericolosi “concorrenti”, oggetto di devozione popolare.In questo svolge anche la funzione dello storico, l’alchimista “selvatico” Giovagnoli: prima del suo libro-denuncia “La messa è finita”, quell’oscuro concilio vaticano – vero e proprio atto di guerra contro la tenace resistenza del panteismo pagano – era praticamente irrintracciabile su Google. Si dirà che nel frattempo l’umanità si è evoluta, per fortuna. Punti di vista: da quando abbiamo smesso di “parlare con gli alberi”, sono sparite le foreste vergini europee, mentre le altre (in Amazzonia, in Congo, nel Sud-Est Asiatico) sono ormai al lumicino, assediate da ruspe e motoseghe. Dove sarebbe, allora, quest’umanità improvvisamente pronta a tornare a guardare al bosco con altri occhi? Teorie: quelle dell’astrofisica Giuliana Conforto parlano di eventi cosmici in pieno corso, vento solare in rapidissima evoluzione – con pioggia notturna di microparticelle sul nostro cervello in apparenza dormiente. Ieri, nessun lettore scolastico avrebbe potuto prenderli sul serio, i tipi come Giovagnoli. Da qualche anno – lo dice la crescita vertiginosa di nicchie di consumo culturale – si sta invece diffondendo una nuova forma di curiosità collettiva, la stessa che affolla seminari e conferenze, gonfiando gli scaffali di libri semplicemente impensabili nei decenni precedenti.Quelli di Giovagnoli hanno il passo incantato dell’infanzia che sopravvive, adulta, nella maturità della poesia. Il bosco come preesistenza individuale e collettiva, fisica e metafisica, alla quale fare finalmente ritorno. Tornare là è indispensabile, scrive, in “Alchimia selvatica”: «La crescita è un viaggio in profondità, uno scavare e penetrare, ed è quindi indispensabile tornare indietro, tornare nel bosco». Sappiamo che esiste, ma restiamo sempre a distanza di sicurezza, perché «guardarlo significa sfidarsi». Tra gli alberi, «sentiamo di aver lasciato qualcosa in sospeso, come il vuoto di un tassello staccato da un mosaico. E guardando il bosco – scrive l’autore – si attiva un ingranaggio strano che recupera una corda da un abisso». C’è qualcosa di vivo, legato a quella corda. «Il bosco incute paura, una paura talmente forte da essere attrazione. Tentazione. Ci riguarda, ecco il punto!». Sembra “solo” una foresta, ma è anche uno specchio: «Ci piace parlarne come fosse un’entità esterna, ma intimamente sappiamo che parliamo di noi stessi». Il bosco è misterioso, intricato, buio: un reticolo di forze incontrollabili. «Tutto ciò che è scomodo e minaccioso racchiude in sé una forza propulsiva e creativa immane, e l’atto di affrontare il bosco è quindi il gesto coraggioso di chi affronta la propria immensità occulta, consapevole che dentro agli aspetti più ombrosi e inquietanti troverà un nutrimento essenziale per la propria crescita».Ciò che ci spaventa va quindi cercato, sostiene Giovagnoli: occorre chiamarlo per nome e raggiungerlo. «La crescita si compie attraverso un contatto, un abbraccio, e un riconoscere nel lato oscuro uno strumento di congiunzione con l’assoluto». E così, assicura l’autore, «ci si avvolge anche di innocenza e di stupore, rendendo lecita e obbligata ogni meraviglia». Si intenerisce, Giovagnoli: «Nel suo farsi specchio dell’animo del visitatore, il mondo selvatico risponde con un gesto protettivo fatto di ineguagliabile bellezza e armonia». A modo suo, lo scrittore-alchimista si sbarazza di qualsiasi residuo antropocentrico: niente ci appartiene davvero, siamo noi – semmai – ad appartenere al tutto, di cui il bosco è un simbolo-madre, potentemente archetipitico. L’albero, scrive Giovagnoli nel suo ultimo libro, è un essere senziente in grado di comunicare anche con l’essere umano. Lo stesso bosco «è un organismo dotato di una intelligenza superiore, capace di interagire con l’essere umano e indurre processi evolutivi sani». Parlare con gli alberi? E’ un gesto antico, quasi sovrumano. Aiuta a scoprire sensibilità inimmaginabili. «C’è una potenza smisurata in te: va risvegliata, accolta e poi protetta», si legge, nel manuale “Impara a parlare con gli alberi”, dedicato al nostro «patto ancestrale col Cosmo Natura».Facile declinarla in poesia, la filosofia alchemica di Giovagnoli. «Quando eri poco più che una cellula – scrive – nell’ossigeno che assorbivi ruotava già il ciclo delle stagioni selvatiche. Dagli stomi ti giungeva il fresco della primavera, l’indaco dei crochi e la caduta infinita di ogni foglia d’autunno. Era lì con te la neve, la luce dell’alba e anche l’influsso di Orione. Il mondo vegetale si faceva liquido e aria per diventare animale. Fedele a un accordo incomprensibile, diventavi Bosco in una forma nuova. Cellula dopo cellula, atomo dopo atomo. E su di un punto invisibile chiamato Anima si addensava il canto di un cosmo intero: la Natura!». L’albero quindi è con noi da sempre, aggiunge il poeta, e continua a “nutrirci” di ossigeno a ogni respiro. Un’antenna potente, capace di «trasmette al cuore le informazioni del cielo». Aggiunge Giovagnoli, rivolto al lettore: «Tu sei un albero, un albero che cammina. Quindi sai già tutto del Bosco, del pianeta Terra e del concilio infinito degli astri. Di ciò che è stato e di ciò che è pronto a venire. Ti occorre solo ricordare. Ed è proprio questo “ricordare” che significa saper parlare con gli alberi».In fondo, basta considerare il bosco come «l’archivio vivente, per eccellenza, di tutto l’universo emozionale umano». Per questo, assicura Giovagnoli, a chi lo “consulta” offre «infinite possibilità per il risveglio interiore». Seguendo le ciclicità delle stagioni «in accordo con le fasi alchemiche», l’autore di “Alchimia selvatica” guida un percorso pratico di interazione con gli elementi selvatici, mantenendo una posizione intermedia tra il narratore poetico e il “life coach”. Gli attrezzi da usare sono svariati tipi di comunicazione: quella dell’incanto e quella dell’osmosi, la comunicazione estetica e quella onirica. Teoria e pratica, dalla “comunicazione epidermica” alla “comunicazione invocativa”. Quasi giocoso l’approccio dell’ultima fatica, “Impara a parlare con gli alberi”: istruzioni per “ricordare” dov’è sepolta la sorgente misteriosa della nostra ancestrale parentela originaria con il bosco, la foresta di esseri “fatti di mente e cuore”, fieramente immobili sul terreno, incapaci di menzogna e portatori di una verità che ci sfugge: il sentimento della Terra, non più vista come oggetto di conquista ma finalmente dall’interno, come universo orbitante cui si deve, semplicemente, la vita.(I libri: Michele Giovagnoli, “Alchimia selvatica. La via del risveglio attraverso le arti magiche del bosco”, MacroEdizioni, 135 pagine, euro 10,20; “Impara a parlare con gli alberi”, UnoEditori, 109 pagine, euro 13,90. Giovagnoli li presenterà entrambi in valle di Susa domenica 26 agosto 2018 all’ombra degli alberi nel Parco Scholzel Manfrino in borgata Cresto a Sant’Antonino di Susa, ore 19. Nel pomeriggio, dalle ore 14 alle 19, animerà il seminario “Il mondo magico degli alberi, come interagire con loro ed attingere ad una conoscenza superiore”. Prenotazioni per il seminario: AncheAncora, più la pagina Facebook di Giovagnoli).«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.
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Tutti hanno più dipendenti pubblici, l’Italia è la Cenerentola
Un sito si è preso la briga di parametrare effettivamente la dimensione della pubblica amministrazione italiana rispetto ad alcune grandi economie mondiali. Il nome lo farò alla fine, e capirete il perché. Ora vi presento i dati ottenuti da elaborazioni sui dati Ocse. Iniziamo dalla parametrizzazione del numero di dipendenti pubblici sul numero degli abitanti per alcuni paesi, esclusi i militari. Il numero di dipendenti pubblici per 1.000 abitanti è il più basso fra i paesi-parametro, molto inferiore a Francia ed a Germania, l’80% in meno degli Usa, un terzo rispetto alla Svezia. Forse questo fenomeno può essere spiegato dalle privatizzazioni nei servizi pubblici avvenute negli ultimi 30 anni: se i servizi essenziali sono privati, anche i dipendenti relativi sono privati. Vediamo quindi il numero dei dipendenti di settori parapubblici: in questo caso l’Italia non è più ultima, è penultima, e i dipendenti di tutti gli altri paesi, per 1.000 abitanti, la superano in numero, tranne che per quanto riguarda la Grecia. L’osservazione sui settori para-pubblici è significativa solo per la Svezia. Ora il pezzo forte: quale sarebbe la disoccupazione negli altri paesi se il numero dei loro dipendenti pubblici fosse proporzionalmente uguale all’Italia? Qui le sorprese: avrebbero una disoccupazione ben superiore a quella italiana!Insomma, l’Italia ha un numero di dipendenti pubblici troppo basso, e questo viene a ricadere sulla qualità dei servizi pubblici, oltre che sull’occupazione, soprattutto l’occupazione dei laureati. Il risultato è che l’Italia è fra i paesi con il maggior numero di disoccupati. Tra l’altro non è vero che i laureati italiani sbagliano laurea, dato che se consideriamo le lauree Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) dal penultimo passiamo al terzultimo posto. Insomma, anche gli ingegneri non trovano lavoro decente in Italia, come del resto mi riferiscono molti tecnici del settore. I vari detrattori della “spesa pubblica improduttiva” ci rimarrebbero di sale… Ora queste interessanti informazioni sono state pubblicate nel sito “Valori.it”, che ringraziamo per i dati, ma di cui critichiamo le conclusioni. L’idea dei redattori dell’articolo è di creare un milione di posti pubblici. Come? Con un’imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria, cioè quella mobile. L’idea è di fare un’imposta una tantum e con il risultato far partire le assunzioni, che poi si auto-manterrebbero con l’effetto moltiplicatore della spesa pubblica.Peccato che ci siano una serie di fondamentali problemi concettuali: se la spesa viene finanziata dalla tassazione non vi è effetto di moltiplicazione, o meglio questo è molto ridotto. Non sarebbe una patrimoniale una tantum, ma “una semper”, sino ad esaurimento del bene da tassare; la ricchezza finanziaria si chiama, per sua natura, mobile. Se la tassa fosse di carattere “personale” cioè colpendo le ricchezze mobili dei cittadini italiani, assisteremmo al più colossale fenomeno di spoliazione e di trasferimento all’estero della ricchezza mobiliare della storia, con la creazione di schermi societari etc, tutte forme difficilmente superabili. Se invece colpisse su base territoriale, cioè la ricchezza finanziaria generata dall’Italia, avremmo un’imposta patrimoniale essenzialmente fondata sul debito pubblico… ci sarebbero effetti distorsivi devastanti sulla ricchezza mobile. La spesa non può essere finanziata con una tassa, se no non c’è moltiplicatore; inoltre, ogni tassa patrimoniale comporta forti distorsioni nell’allocazione dei fattori produttivi. In realtà, se veramente si vuole una crescita autosostenibile, considerato che le spese correnti hanno il moltiplicatore più alto, l’iniezione non può che essere con debito o liquidità. Qualsiasi altro metodo non porterà ad una crescita, ma solo ad un trasferimento di risorse.(Fabio Lugano, “Alcuni dati sorprendenti sulla pubblica amministrazione italiana: troppo piccola”, da “Scenari Economici” del 22 luglio 2018. Il post propone, a corredo, svariate tabelle comparative. In Italia, sono occupati nel pubblico impiego meno di 49 abitanti su mille, mentre in Germania sono 52, in Francia 83, in Gran Bretagna 78, in Svezia 141).Un sito si è preso la briga di parametrare effettivamente la dimensione della pubblica amministrazione italiana rispetto ad alcune grandi economie mondiali. Il nome lo farò alla fine, e capirete il perché. Ora vi presento i dati ottenuti da elaborazioni sui dati Ocse. Iniziamo dalla parametrizzazione del numero di dipendenti pubblici sul numero degli abitanti per alcuni paesi, esclusi i militari. Il numero di dipendenti pubblici per 1.000 abitanti è il più basso fra i paesi-parametro, molto inferiore a Francia ed a Germania, l’80% in meno degli Usa, un terzo rispetto alla Svezia. Forse questo fenomeno può essere spiegato dalle privatizzazioni nei servizi pubblici avvenute negli ultimi 30 anni: se i servizi essenziali sono privati, anche i dipendenti relativi sono privati. Vediamo quindi il numero dei dipendenti di settori parapubblici: in questo caso l’Italia non è più ultima, è penultima, e i dipendenti di tutti gli altri paesi, per 1.000 abitanti, la superano in numero, tranne che per quanto riguarda la Grecia. L’osservazione sui settori para-pubblici è significativa solo per la Svezia. Ora il pezzo forte: quale sarebbe la disoccupazione negli altri paesi se il numero dei loro dipendenti pubblici fosse proporzionalmente uguale all’Italia? Qui le sorprese: avrebbero una disoccupazione ben superiore a quella italiana!
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Magaldi: ma non ha vinto Macron, e il mondo sta rinascendo
Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio di Mosca, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».“The times they are a-changing”, sostiene Magaldi nella sua narrazione a puntate, ogni lunedì ai microfoni di “Colors Radio”. Trump e Putin? Appunto: come ampiamente previsto dal presidente del Movimento Roosevelt, l’istrionico Maverick della Casa Bianca sta facendo piazza pulita degli antichi pregiudizi su cui si è fondato il “partito della guerra”, più mercenario che patriottico. Lo Zar del Cremlino? «Non privo di una sua grandezza», riconobbe Magaldi, quando Putin rifiutò di espellere diplomatici americani dopo la cacciata dei funzionari dell’ambasciata russa disposta da Obama. Tutto sta davvero cambiando, giorno per giorno: e infatti ad essere “en marche”, oggi, non è la Francia imbrigliata da Macron, ma l’Italia di Conte: «Il nostro paese – dice Magaldi – potrà tornare a rivestire il suo storico ruolo di “ponte”, con la Russia ma anche con l’Africa e il Medio Oriente: è tempo infatti che vengano archiviate le storiche clausole segrete, connesse a Yalta e ad altri trattati del dopoguerra, che limitavano la nostra libertà d’azione – trattati comunque aggirati, a suo tempo, dalla politica mediterranea dei Mattei e dei Moro».Lo ricorda Giovanni Fasanella in “Colonia Italia”: le superpotenze ci “affidarono” al controllo britannico, a limitare la nostra sovranità. Ora basta, però: «E’ è venuto il tempo di dare all’Italia piena indipendenza e autonomia politica, consentendole di recitare un ruolo di “cerniera di pace” e prima promotrice di un Piano Marshall per l’Africa», dice Magaldi, che – insieme a Patrizia Scanu, neo-segretaria del Movimento Roosevelt – ne riparlerà in autunno a Milano, in un evento dedicato anche all’eredità politica del leader sovranista africano Thomas Sankara. Grande la confusione, intanto, sotto le stelle: restano le sanzioni contro Mosca innescate dalla crisi ucraina, mentre l’Europa «non si capisce cosa voglia e non esiste come soggetto geopolitico». Iperboli: «Trump accusato in casa di “intelligenza col nemico russo” poi rimprovera la Merkel di eccessiva familiarità e connivenza con alcuni interessi russi». E non mancano intrecci personali: «Il “fratello” Putin e la “sorella” Merkel – ricorda Magaldi – furono iniziati già molti anni fa nella stessa Ur-Lodge», la Golden Eurasia. Massoni, appunto: il problema, insiste Magaldi, non è il grembiulino che indossano, ma l’orientamento politico che promuovono.L’ipocrita massonofobia di Di Maio, estesa alla Lega nel “contratto” di governo? I vertici “gialloverdi”, dice Magaldi, temono che i loro elettori (non informati sulla storia patria) scambino la massoneria per un’associazione a delinquere. Magaldi punta il dito contro Elio Lannutti, esponente 5 Stelle, «in passato protagonista di battaglie meritorie». Ora vorrebbe una legge che vietasse ai massoni l’accesso alle cariche statali, sbarrando loro le porte di polizia e magistratura: «Siamo alla follia liberticida, queste cose le hanno fatte i regimi comunisti e fascisti», protesta Magaldi. E attenzione: il tema massoneria (compresa l’avversione ai “grembiulini”) va maneggiato con cura: «Nel 1800 negli Usa sorse un Anti-Masonic Party fondato però da massoni: spesso le campagne antimassoniche, nella storia, sono state progettate da massoni di altro segno, per colpire circuiti massonici opposti ai loro». Non è il caso dell’Italia, dove secondo Magaldi si sconta una semplice ignoranza della materia: si confonde la libera muratoria democratica degli eredi di Garibaldi, Mazzini e Cavour con la P2 di Gelli, braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, di natura pericolosamente oligarchica e spesso eversiva. In massoneria, ricorda Magaldi, non possono entrare pregiudicati né possono restarvi soggetti che non rispettino la Costituzione e le leggi. «Aiuteremo gli amici “gialloverdi” a chiarirsi le idee, ma se il pregiudizio antimassonico perdurerà – avverte il gran maestro – faremo i nomi dei massoni progressisti, leghisti e penstastellati, che siedono nel governo Conte e nelle altre istituzioni».Comunque, a parte gli ultimi «untori del culturame antimassonico», nella narrazione magaldiana – massonico-progressista, avversa al lungo dominio della supermassoneria neo-aristocratica – all’indomani dei Mondiali di calcio (e del vertice di Helsinki) c’è posto solo per un cauto ma tenace ottimismo nella riscossa democratica di un mondo globalizzato in modo autoritario. Lo si può vedere, sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, a partire dalla cruciale trincea italiana. Al netto delle pretattiche, dice Magaldi, vedrete che arriveranno cambiamenti sostanziali: «E’ vero, in molti sono allarmati perché il ministro Tria insiste troppo sul contenimento del debito pubblico, sul rigore dei conti e sulla rassicurazione dei mercati. Ma si tratta di non fare il gioco degli strumentalizzatori, che a suo tempo hanno infierito su Savona per cercare di impedire la nascita del governo “gialloverde”. Quando però arriveranno misure importanti – pronostica Magaldi – allora sarà chiaro quale paradigma economico si adotterà, rispetto all’Europa e alle voci di spesa. Il povero Tria? E’ stato chiamato per un ruolo in copione che è quello del rassicuratore, ma poi le decisioni non saranno nel senso della continuità. Tant’è che proprio alcune esternazioni di Savona fanno capire qual è la vera sceneggiatura», con un’Italia non più prona ai diktat di Bruxelles.Idem sul capitolo vaccini: non brilla per chiarezza, Giulia Grillo, che infatti non ha sconfessato la legge Lorenzin. «E’ però un passo avanti notevolissimo l’aver eliminato l’odiosa costrizione in stile Gestapo che privava i bambini non vaccinati del diritto all’istruzione». Insomma, si respira un’altra aria, pur in un terreno minato da troppi dogmi – che non la scienza non dovrebbero aver nulla a che fare. Può anche funzionare il concetto dell’immunità di gregge (più vaccinati, meno possibilità di contrarre malattie) ma occorrerebbe un’indagine scientifica molto seria su quanti e quali vaccini vadano somministrati, e se l’eccesso di vaccini non produca effetti controproducenti, come nel caso dei vaccini militari cui il Movimento Roosevelt ha dedicato un convegno a Torino con il vicepresidente della commissione difesa. Non possono mancare libertà e confronto critico, aggiunge Magaldi: «Bisogna denunciare ad alta voce, anzitutto sul piano metodologico, che in Italia – durante il clima plumbeo del governo Gentiloni – chiunque della comunuità scientifica osasse discutere l’idea che andassero propinati 12 vaccini veniva escluso, ghettizzato, calunniato e demonizzato (e parlo di medici anche di grande spessore). Chi osava contrapporsi a quel clima veniva emarginato, se non sanzionato. Sono cose da paese del quarto mondo».Libertà scientifica: chi sostiene la bontà dell’attuale sistema vaccinale, insiste Magaldi, abbia il coraggio e l’onestà di confrontarsi con chi è scettico. «E c’è un problema di mancata sperimentazione: di troppi vaccini non si conoscono gli effetti. Sono tanti gli interrogativi, e solo nell’orizzonte del dubbio (in cui dovrebbe essere connaturata la scienza) il problema si può risolvere». Invece, scontiamo «l’indottrinamento disdicevole da parte di divulgatori come Piero Angela, secondo cui la scienza non è democratica e ha sempre ragione». Per Magaldi, sono «vistosi casi di insipienza storica e ignoranza profonda sulla genesi del metodo scientifico, fondato proprio sul dubbio: la scienza moderna, da cui nasce la nostra tecnologia, è fondata sulla messa in discussione del principio di autorità – che appartiene invece al mondo pre-moderno». Una cosa è vera solo perché lo dicono i detentori di quel sapere? Concezione antica: «Nella comunità scientifica moderna ci devono essere posizioni dissonanti: nessuna ipotesi può essere vera a prescindere». Il nostro paese, aggiunge Magaldi, «è ostaggio anche di cattivi divulgatori di un’idea della scienza che è inconsistente e contraria ai principi della contemporaneità». Ma attenzione: neppure questo “muro” dogmatico resisterà per sempre. Verrà il giorno in cui avremo finalmente «un confronto pacato», che riconosca il ruolo storico di alcuni vaccini per la nostra salute ma, al tempo stesso, valuti – seriamente – l’opportunità e la sicurezza di altri vaccini, nient’affatto scontate.«L’affermazione della democrazia – ricorda Magaldi – è coeva dell’affermazione della scienza moderna: è essenziale la libertà nel valutare le opzioni terapeutiche». Vale per tutto: se si applica il “filtro” della democrazia anche al contesto scientifico, finiscono per crollare miti e verità di fede. Lo stesso principio funziona ovunque si guardi, persino nella polveriera del Medio Oriente: «Credo che verrà il tempo per una pacifica soluzione del conflitto israelo-palestinese», auspica Magaldi, osservando la scena con lucidità: «In fondo l’estremismo di Hamas e quello di Netanyahu si sostengono a vicenda, sono due facce della stessa medaglia: si reggono sull’ostilità reciproca e quindi hanno bisogno l’uno dell’altro. Non a caso ad essere assassinato fu Yitzhak Rabin, il massone progressista che voleva davvero la pace e quindi uno Stato palestinese». Se la ride, Magaldi, pendando agli amici che il 15 luglio davanti al televisore hanno trepidato per la Croazia per avversione nei confronti di Macron. Il capo dell’Eliseo? «Si è reso odioso: è un cicisbeo politico, continuatore delle politiche di Hollande e rappresentante di questo establishment puzzolente dell’attuale Disunione Europea. Con rara ipocrisia e faccia di bronzo ha detto parole inammissibili nei confronti del governo italiano e dell’Italia, nel corso di questa crisi sui migranti». Ma Macron non è la Francia, così come Bush non era l’America: «Guardiamo con amore a questi paesi – chiosa Magaldi – perché tantissimi francesi (come tantissimi statunitensi) insieme a noi cittadini del mondo – italiani, europei, cinesi, giapponesi – dovranno costruire un pianeta più equo, che abbia come faro la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: diritti non solo civili ma, finalmente, anche economici e sociali».Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio moscovita, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».
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Belano contro Salvini e tacciono sul martirio degli italiani
La parola “intellettuale” deriva dal latino intus-legere, e in quanto tale dovrebbe essere riferita ad un individuo in grado di “leggere dentro” e di non accontentarsi della sola parte emersa di una informazione. L’intellettuale, stando al senso etimologico, dovrebbe essere dunque l’opposto del superficiale – colui che approfondisce, appunto. Invece, gli intellettuali con cui abbiamo a che fare sui media tradizionali e sui social, in linea di massima tendono ad aggregarsi come una classe sociale qualunque. Esistono dunque gli operai, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i colletti bianchi e… gli intellettuali. Sono divenuti una professione, e come tale autoreferenziali e inclini a salvaguardare i propri interessi di casta. Manca solo che ne venga istituito l’ordine professionale e il quadro si completa. Ecco allora che gli intellettuali di oggi si smarcano completamente dalla funzione tradizionalmente loro attribuita di dotti perennemente curiosi che esercitano il dubbio, per abbracciare l’appartenenza ad una élite culturale. Caso emblematico, quello della rivista “Rolling Stone” che ha appena lanciato un manifesto contro il ministro dell’interno Salvini, in cui compaiono le adesioni di oltre 50 artisti e personaggi del mondo dello spettacolo.Il messaggio, prontamente copiaincollato sui social da tutti i “Napalm51” del web, ha come sfondo una copertina arcobaleno con scritto: “Noi non stiamo con Salvini. Da adesso chi tace è complice”. E’ del tutto evidente che il politico di punta oggi in Italia, il leader della Lega, possa portarci alla rovina e che le sue politiche possano legittimamente essere considerate sbagliate. Quello che però dovrebbe destare non poca preoccupazione è il format che sta dietro (e davanti) alla protesta: un format visto mille volte e che, francamente, ha stufato anche i santi. La bandiera arcobaleno ancora una volta diventa un brand per tutte le stagioni e rinuncia a selezionare davvero opinioni e analisi: ci mettiamo dentro i pacifisti (bandiere esposte sui balconi ai tempi della guerra in Iraq), ci mettiamo dentro partiti politici (la sinistra radicale o pseudotale), ci mettiamo dentro anche i gay. Ora, a questo varipinto calderone si aggiunge anche l’individuazione dell’uomo nero, un nemico, che, come tutta la storia della propaganda insegna, è il modo migliore per raggiungere obiettivi identitari. Per dirla senza tanti giri i parole: con questa operazione, rivolta contro un singolo uomo, si prova a riunificare la sinistra, ma identificandola con la categoria degli intellettuali. Non con i lavoratori, non con gli operai, non con la classe media, non con gli impiegati, ma con i maître à penser.Quante volte abbiamo visto in moto questo meccanismo? Come fenomeno sarebbe anche divertente da analizzare, visto che le prime aggregazioni degli intellettuali italiani sotto l’ombrellone multicolore arcobaleno proponevano temi alquanto “salviniani”. Li ricordate i no-global di inizio millenio? Per non parlare delle battaglie degli artisti come Jovanotti contro il debito pubblico dei paesi in via di sviluppo. “Cancella il debito”, urlava il Jova a squarciagola dal palco, per poi scordarsi sbadatamente di tutto quanto predicato fino ad ora contro il debito, quando a soffrire dell’inganno finanziario sul debito sono i suoi connazionali. La serie degli appelli ai “valori” è così diventata sempre più lunga. Si tratta però di riferimenti – come i diritti umani o i diritti civili – che non potrebbero nemmeno essere concettualmente compresi se per paradosso non esistesse, a renderli credibili, ciò che essi stessi aspramente criticano, e cioè gli Stati ed i confini. Il vero guaio non sta nel legittimo e sacrosanto dissenso, ma nel fatto che, così formulati, portano l’intellettuale alla definitiva abdicazione al suo ruolo.In un’indimenticabile intervista, il filosofo torinese Costanzo Preve riassumeva il problema degli intellettuali superficiali con questo duro giudizio: «Mentre ai tempi di Hegel e Schopenhauer, ma anche ai tempi di Adorno, gli intellettuali erano generalmente più intelligenti delle persone comuni, oggi ci troviamo in una situazione nuova: gli intellettuali sono nella stragrande maggioranza più stupidi delle persone comuni. E’ una novità degli ultimi 50 anni e lo vediamo quando vengono interpellati nei talk show televisivi, perchè dicono una quantità di stupidaggini molto maggiore di quelle che si sentono pronunciare dai tassisti, dai baristi o dalle casalinghe al mercato. Adorno, Marcuse e Sartre, ad esempio, si possono contestare, io ad esempio non sono d’accordo con loro – concludeva Preve – ma senza dubbio dicevano cose intelligenti, che fanno riflettere. Oggi questo non accade più e dobbiamo aspettarci solo scemenze». La constatazione di Preve, che risale al 2011, è oggi più attuale che mai. Resta da chiedersi: perchè accade ciò? Secondo Preve questa situazione è da ascrivere alla sudditanza di filosofia, letteratura, arte, ecc. all’economia, la scienza triste che si è presa tutti gli spazi del sapere. A questo dato di fatto, aggiungerei però anche la modalità di selezione della classe dirigente, in Italia determinata da circoli ristretti e salotti, impenetrabili a tutti coloro i quali non si lasciano omologare. Nell’ultimo demenziale appello ad una civiltà nemmeno pensabile senza lo Stato di diritto e la sovranità questi circoli chiusi sono tornati a belare.(Massimo Bordin, “Gli intellettuali di oggi sono stupidi”, dal blog “Micidial” del 6 luglio 2018).La parola “intellettuale” deriva dal latino intus-legere, e in quanto tale dovrebbe essere riferita ad un individuo in grado di “leggere dentro” e di non accontentarsi della sola parte emersa di una informazione. L’intellettuale, stando al senso etimologico, dovrebbe essere dunque l’opposto del superficiale – colui che approfondisce, appunto. Invece, gli intellettuali con cui abbiamo a che fare sui media tradizionali e sui social, in linea di massima tendono ad aggregarsi come una classe sociale qualunque. Esistono dunque gli operai, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i colletti bianchi e… gli intellettuali. Sono divenuti una professione, e come tale autoreferenziali e inclini a salvaguardare i propri interessi di casta. Manca solo che ne venga istituito l’ordine professionale e il quadro si completa. Ecco allora che gli intellettuali di oggi si smarcano completamente dalla funzione tradizionalmente loro attribuita di dotti perennemente curiosi che esercitano il dubbio, per abbracciare l’appartenenza ad una élite culturale. Caso emblematico, quello della rivista “Rolling Stone” che ha appena lanciato un manifesto contro il ministro dell’interno Salvini, in cui compaiono le adesioni di oltre 50 artisti e personaggi del mondo dello spettacolo.
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Sos Disruption: entro 15 anni sparirà un mestiere su due
Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».Le nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence stanno cambiando davvero tutto: sarà la fine del mondo, così come l’abbiamo conosciuto. E nessuno, a quanto pare, se ne sta accorgendo. Parlano i numeri, già drammatici secondo tutte le proiezioni ufficiali: a livello globale, da 1 a 2 miliardi di lavoratori perderanno il posto entro il 2030, la maggioranza in Occidente. A farne le spese saranno impiegati contabili e amministrativi, aziende manifatturiere e manodopera produttiva, insieme a costruzioni ed estrazioni minerarie, ma anche avvocatura e giudici, lavori di installazione e manutenzione, operatori di gru e trattoristi, meccanici e riparatori. Spariranno posti di lavoro nelle arti e nel design, nell’intrattenimento, nello sport e nei media, insieme a molte mansioni nel settore turistico. In compenso, dalla rivoluzione tecnologica usciranno rafforzati business e finanza, manager, informatica e matematica, architettura e ingegneria, ma anche rappresentanti, camerieri, specialisti in istruzione e formazione, pensatori creativi e manager per la Disruption – nonché farmacisti, infermieri e operatori socio-sanitari.«Entro il 2030 si stima che fino a 375 milioni di posti di lavoro, globalmente, dovranno essere “reskilled”, cioè riqualificati», scrive Barnard nel suo blog. Ad esempio: nel settore manifatturiero, dicono gli esperti, cadranno mansioni nelle mani dell’Artificial Intelligence e della robotica, ma il lavoratore potrà essere re-impiegato in fasi diverse del lavoro, aumentando la produttività: gli servirà però un “reskilling”. Alibaba, colosso cinese dell’e-commerce, ha calcolato che i suoi robot da magazzino risparmiano a ogni magazziniere almeno 50.000 mosse fisiche al giorno, riducendone molto lo stress fisico ma soprattutto liberandogli tempo per aumentarne la produttività ma senza prolungare l’orario di lavoro. Naturalmente, scrive Barnard, Alibaba i suoi dipendenti li ha “reskilled”. Quindi, «l’impresa del “reskilling” di milioni di italiani non è un optional, è l’aria da respirare, e ogni singolo analista al mondo oggi lo dice chiaro: i governi giocano qui il ruolo principale con un intervento generoso nei bilanci». Ma una nazione con vincoli di budget «al limite del sadismo sociale», per citare l’economista Giulio Sapelli, come diavolo farà a riqualificare sul lavoro due o tre milioni di persone?Oltretutto, il “reskilling” è ormai un ordine di scuderia a tappe forzate: «Lasciar languire nella terra di nessuno i lavoratori in transito significa perderli per strada, con danni economici enormi». Si domanda Barnard: «Come farà l’Italia, soffocata nei bilanci dall’Eurozona, quando tutti gli esperti mondiali invocano chiaramente interventi di governo?». Già ora la Disruption, nelle parole di 20.000 imprenditori europei di tutti i settori, «sta imponendo un aumento vertiginoso nella richiesta di alcune professioni, che si prestano per assorbire sia una quota di futuri licenziati (“reskilled”), che i giovani post-laurea». La rivoluzione in arrivo, dice Barnard, avrà bisogno di nuovissime figure professionali, come i rappresentanti di ultima generazione: «Occorrono disperatamente venditori che siano formati prima di tutto a spiegare quei prodotti, poi a venderli a privati e governi, ma anche per raggiungere nuove fasce di clienti». Poi gli analisti dei dati: «Non occorre un dottorato per questa mansione, ma di certo un buon “reskilling” anche in assenza di laurea». Le aziende, aggiunge Barnard, oggi sanno che Big Data è la scoperta “nucleare” del commercio di prodotti e servizi: bisogna quindi «saper analizzare e trarre conclusioni intelligenti dall’immane massa di dati che la Disruption mette a disposizione».«Il successo si gioca qui, nel terzo millennio: la richiesta di analisti dei dati è destinata a esplodere fra pochissimi anni». Per i laureati brillanti «c’è già ora spazio per ricoprire un ruolo dirigente richiestissimo nei maggiori settori di commercio e servizi, cioè il Manager della Disruption: è colui che si specializza nel guidare l’azienda (piccola, media, grande) ma anche il settore pubblico, nella tempesta di cambiamenti che l’era digitale porta ogni minuto». In generale, proprio grazie alla Disruption, entro il 2030 sono previste globalmente 130 milioni di nuove assunzioni in sanità generale e assistenza agli anziani, nonché 50 milioni nelle tecnologie e altri 20 milioni nel settore energetico. Le professioni del tutto nuove che si prevede nascano grazie alla Disruption, spiega Barnard, sono «gli specialisti intra-umani, cioè intelligenza emotiva, capacità di persuasione, gestori delle emozioni umane nel sociale, e i creatori di motivazione; i pensatori creativi in ogni settore, sia scientifico che industriale che amministrativo, poiché essere super-specializzati ma ottuse ‘scatole di dati’ non innova nulla in azienda». E ancora: serviranno «gli ottimizzatori delle energie rinnovabili e gli operatori nella lotta al cambiamento climatico».Ogni singolo esperto in “occupazione & Disruption”, aggiunge Barnard, “grida” sempre la medesima cosa, che la Consultancy McKinsey & Co. ha espresso nel dicembre 2017 con una frase lapidaria: «La moltiplicazione dei lavori potrebbe più che compensare le perdite a causa dell’automazione. Ma nulla accadrà per magia – richiederà che i governi e il business sappiano creare le opportunità». E qui esplode il problema-Italia: chi si farà carico della formazione permanente imposta dalla Disruption, dati gli attuali limiti drammatici imposti alla spesa pubblica? La scuola, scrive Barnard, deve avere una conoscenza avanzatissima della Disruption in continuo aggiornamento, perché è molto probabile che una parte delle competenze insegnate oggi saranno obsolete per il mondo del lavoro nel giro di 5-8 anni, in media. Con un ritardo di questo genere, nelle scuole e università, cosa farà l’Italia? Ha qualche idea in proposito, il governo gialloverde? Il Miur, ministero dell’istruzione, università e ricerca, ammette di essere in emergenza: i dati Ocse dicono che ogni quindicenne italiano usa il computer in classe molto al di sotto della media europea (molto meno dei greci, e quasi un terzo del tempo di un australiano).Sempre per l’Ocse, i docenti italiani sono in assoluto i meno preparati, in Europa, all’era digitale. Ancora: nel Digital Economy Index, l’Italia languisce al 25mo posto su 28 paesi, ha lacune dappertutto. E nella velocità di connessione alla Rete è in fondo alla classifica europea con un umiliante 9.2 Mbps, davanti solo a Grecia e Cipro. Nelle aule si soffre moltissimo, di questo:«Il processo di diffusione della scuola digitale negli ultimi anni è stato piuttosto lento», confessa il Miur, che denuncia «azioni spesso non incisive e non complessive». Aggiunge Barnard: «Sapere è lavoro, ma un buon lavoro – oggi, nella Disruption – significa sapere molto. E con una situazione del genere c’è da mettersi le mani nei capelli». Nessuna area italiana è inclusa tra gli “Innovator leaders” europei. Solo il Piemonte figura tra gli “Strong innovators”, mentre il resto della penisola è in terza posizione, tra i “Moderate innovators”, mentre la Sardegna è relegata tra i “Modest innovators” come Croazia, l’Estremadura, l’Est Europa più povero e arretrato. Una mappa impetosa: «L’Italia non solo sprofonda nell’economia tradizionale (a causa soprattutto dell’Eurozona), ma colpevolmente i suoi governi degli ultimi 15 anni l’hanno tenuta fuori dalla realtà, cioè dalla Disruption, e infatti siamo “gialli”, cioè quasi ultimi nell’innovazione, e dunque fra gli ultimi nelle prospettive di lavoro dei nostri figli».Generalmente, aggiunge Barnard, un paese moderno ospita oltre 900 mestieri. E dato che «una buona parte delle nuove tecnologie della Disruption stanno sbocciando in queste ore o sbocceranno appena domani», è impossibile essere precisi. Ma una cosa è più che evidente: a dettare legge sarà la tecnologia dell’intelligenza artificiale di Machine Learning, «perfetta per sostituire i lavori ripetitivi d’ufficio, per far funzionare la logistica aziendale, per far “pensare” i robot nelle industrie, ma anche per sostituirsi all’umano in compiti complessi all’interno di molti mestieri sofisticati». Giusto per dare al pubblico un’idea del grado di penetrazione del Machine Learning, cioè del fatto che davvero saranno pochissimi i lavori di domani che non avranno almeno in qualche segmento un’intelligenza artificiale a sostituire qualcosa o qualcuno, la Mit Initiative sull’economia digitale «afferma che il mestiere in assoluto più “blidato” contro la Disruption è il… massaggiatore». All’altro estremo, invece, figurano «le mansioni che sembrano davvero destinate a essere falcidiate», ovvero «gli impiegati, i contabili, gli amministrativi in generale».Se è scontato che fra i “colletti blu” (diplomati, ma senza laurea) tanto dovrà cambiare, «molti genitori e studenti ancora non comprendono purtroppo cosa accadrà alle professioni dei “colletti bianchi”, degli specializzati, che siano medici, avvocati, commercialisti, o persino ingegneri informatici (esempio estremo, ma anche fra loro cadranno teste con l’Artrificial Intelligence)». Parla da solo il caso americano: nei primi 15 anni di digitalizzazione dell’economia Usa, ricorda Barnard, le disparità di redditi fra “colletti blu” (licenza liceale) e “colletti bianchi” (lauree) schizzò in alto, perché i secondi – grazie alla formazione digitale universitaria – poterono approfittare dei nuovi lavori ben pagati, gli altri no e subirono in pieno l’impatto devastante del crash bancario del 2008. Addirittura, il fenomeno ha raggiunto un tale livello di gravità che fra i “colletti blu” in America c’è un’epidemia di suicidi per disperazione, descritti in uno studio del 2014 firmato da Anne Case insieme ad Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia. «Vero è che gli Stati Uniti sono un incubo d’abbandono sociale dei deboli, dove il welfare quasi non esiste», ammette Barnard. In compenso, l’Europa si sta auto-sabotando con i tagli sanguinosi al suo welfare.«I criminosi limiti di spesa pubblica che l’Ue impone agli Stati membri – dice Barnard – escludono in via categorica che i vari schemi di Reddito di Cittadinanza abbiano un potere di fuoco sufficiente a evitare al nostro paese un’apartheid fra inclusi ed esclusi nella Disruption». In altre parole: «Finché Eurozona sarà – insiste il giornalista, rivolto ai lettori – il realismo mi costringe a dirvi che l’unica arma che rimane ai vostri figli per difendersi dal destino denunciato da Angus Deaton e Anne Case è una formazione solidissima ai nuovi lavori della Disruption (che non sono solo tecnologia)». Dunque il messaggio per genitori e ragazzi è chiarissimo: «La seconda ondata di digitalizzazione in corso oggi con la Disruption porta soprattutto con sé il pericolo di un enorme divario nei redditi, oltre a una sostanziale dose di lavori perduti». Per mettere al riparo i nostri figli, e i giovani già oggi al lavoro, secondo Barnard c’è una sola arma concreta: per i giovanissimi una formazione scolastica e universitaria più aggiornata possibile, che li presenti al mondo del lavoro come appetibili, e per i già impiegati l’impegno di Stato e aziende nella riqualificazione “a vita”. Il rischio fatale, per l’Italia del lavoro, è di rimanere tragicamente indietro: «Significherebbe un prossimo secolo di arretratezza e bassa economia per tutti i nostri giovani e per i loro figli». Nel 2016 il World Economic Forum lo disse senza mezzi termini: «Chi non si prepara affronterà costi sociali ed economici enormi».Attenzione: qualcosa di analogo a quanto sta per accadere (e di cui nessuno parla) è già avvenuto, nella storia. Per dare un’idea della dimensione planetaria del problema, Barnard cita lo scozzese James Watt: «Nel 1775 diede vita alla più dirompente Disruption della storia con l’invenzione della macchina a vapore». Fece morire di colpo i vecchi mestieri, ma al tempo stesso fece esplodere lo sviluppo sociale umano, il che significa benessere e quindi possibilità democratiche. Per 9.700 anni filati, scrive Barnard, le condizioni di vita del popolo comune «rimasero sostanzialmente identiche, a un livello abominevole, spesso peggio degli animali selvatici». Poi arrivò la Disruption di Watt – e delle scienze post-Galileo con l’elettromagnetismo di Faraday e di Maxwell – e in Occidente tutto cambiò di colpo, perché cambiò il lavoro, aumentarono i redditi e con essi la rivendicazione dei diritti. «E’ vero che la Disruption di allora si portò dietro una buona dose di lacrime e sangue prima di darci la modernità del benessere, che tuttavia furono nulla in confronto a 9.700 anni di standard di vita abietti oltre l’immaginabile. Ma l’altra faccia, gloriosa, di quell’esplosione tecnologica fu di fornire alle lotte sociali mezzi tecnologici di diffusione, e quindi di successo, impensabili prima, fino appunto alla moderna civiltà».Oggi, sottolinea Barnard, la Disruption delle nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence «sta scatenando un’altra storica impennata dell’umanità, che è però di molto superiore a quella di Watt per l’enorme potere tecnologico odierno. E di nuovo, tutto si gioca su come cambierà il lavoro: non chissà quando, ma entro il 2030». Demis Hassabis, Ceo di Google DeepMind (azienda che sta al centro della galassia “Ai”), ha detto: «Il nostro goal è di conquistare l’intelligenza, poi di usarla per risolvere tutti gli altri problemi». Macchine intelligenti, al posto di esseri umani. Ed enorme disparità tra chi resterà al passo e chi sarà tagliato fuori. Lo confermano gli studi delle maggiori “Consultancies” del mondo: Pwc Uk, Deloitte, McKinsey, Accenture. Tutti d’accordo, insieme agli accademici: almeno nella prima fase, la Disruption fondata sull’intelligenza artificiale (robotica, nuove tecnologie), falcerà milioni di posti di lavoro. Ma la stessa Disruption, spiega Barnard, offre possibilità di recupero nella riqualificazione, nell’aumento di richiesta per certe professioni e nel fatto che nasceranno lavori che oggi non esistono.Tutto dipende da due fattori decisivi: la velocità dei governi nel legiferare misure per cavalcare la Disruption, favorendo la nascita dei nuovi lavori, e l’intelligenza dei datori di lavoro «nel capire che l’epoca dell’egoismo del profitto è morta, gli porterà solo fallimenti certi». Il futuro digitale «impone intelligenza», il che significa «coordinamento fra aziende, e fra di esse e lo Stato». Di fatto, avverte Barnard, con la Disruption «oggi saltano le politiche di creazione di lavoro, in Occidente, che i nostri padri e noi abbiamo conosciuto finora». Problema: «I contemporanei di un fenomeno epocale di cambiamento faticano sempre a svegliarsi di fronte al nuovo, e questo si traduce in drammi». Per dire: «Quanti italiani oggi leggono i giornali al mattino cercando ansiosamente notizie sulle politiche del lavoro del ministro Di Maio per la Disruption? Nessuno. Eppure la leadership mondiale non ha più dubbi sul fatto che essa ribalterà, come mai prima nella storia, proprio l’occupazione di numeri impressionanti nel globo». Certo, i politici «hanno il vincolo del breve mandato e l’ossessione cieca del voto-subito entro il mandato, per cui non s’impegneranno mai in politiche e dibattiti che all’italiano medio sembrano fantascienza». Idem per i media: «Sanno che la Disruption è una news che oggi si può vendere agli italiani solo al 300esimo posto dopo la casta, la corruzione, il politici-ladri, gli immigrati, le polemiche Tv, e trattano il tema principalmente come folklore da futuristi. Risultato: non un singolo organo di stampa italiano sta davvero informando su come sarà stravolta l’economia, la politica e la fabbrica sociale di ogni paese moderno per mano della Disruption».E così si compie un circolo vizioso devastante per l’Italia, destinata ad arrancare come fanalino di coda «mentre Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Cina, Sud-Est Asiatico e ovviamente gli Usa si saranno già spartiti l’immensa torta del lavoro e del Pil da Disruption». Risultato: «I giovani italiani nel precariato, in preda alla disoccupazione e ancora disperatamente dipendenti da quel rivolo che gli rimane del risparmio di nonni e genitori degli anni 70’-90’», prigionieri di un paese sempre più confinato tra i “Pigs” con Portogallo, Grecia e Spagna – non più Piigs, annota Barnard, «perché invece l’Irlanda sta capendo e cavalcando la Disruption, è ha già preso il volo da quell’acronimo infame». Ma non è destino degli dèi che debba davvero andare così, aggiunge il giornalista: a sta a noi capire la Disruption per sapere come inciderà sul Pil e sull’occupazione. Ma non c’è tempo da perdere: «La velocità di sviluppo delle nuove tecnologie per il lavoro è talmente forsennata che è già stato calcolato che diversi “skills” – così si chiamano le competenze centrali per la Disruption – che vengono insegnati agli studenti oggi, tempo che gli studenti si presenteranno ai colloqui di lavoro in aziende saranno già obsoleti».In parole semplici: «Mentre tu studi intensamente un’applicazione di Machine Learning per l’edilizia, Machine Learning ne ha scovata una migliore, tu ti presenti al colloquio di lavoro e il datore se ne fa poco, di te». Scrive il Mit di Boston: le tecnologie cambiano i modelli di business e molto spesso questi si traducono in uno sconvolgimento simultaneo del set di “skills” che le aziende richiedono, e questo già oggi crea difficoltà nell’assumere personale. Velocità: «Sarà un problema enorme proprio sul mercato del lavoro dei giovani, e altrettanto enorme per eventuali programmi di apprendistato, che rischiano di diventare degli autogoal con sprechi di finanziamenti enormi», osserva Barnard. Attenzione, però: le stesse tecnologie di Big Data possono dare al governo «un inimmaginabile potere di efficiente governanace». La stessa “cloud” potrà essere usata da tutto il sistema produttivo italiano di beni e servizi in un dialogo diretto, in tempo reale, col ministero dell’istruzione. Pubblico e privato potrebbero scambiarsi informazioni istantanee su «come sta cambiando la natura degli “skills” dentro le aziende, gli ospedali e le varie istituzioni». Lo stesso Miur, come sollecitano gli esperti internazionali, «dovrà avere l’elasticità e la prontezza di riflessi di trasmettere immediatamente a scuola e università il messaggio dei datori di lavoro», per armonizzare domanda e offerta in base ai nuovi parametri in costante evoluzione.Fantascienza? Non ci sono alternative, par di capire. «Questo è il tipo di ambizioso progetto che un paese oggi deve essere in grado d’intraprendere se davvero è serio sulla difesa del lavoro», sostiene Barnard, auspucando «un salto innovativo, in linea con gli attori vincenti nella Disruption». Scrive McKinsey Global: «I governi devono totalmente riconsiderare i modelli scolastici odierni. La questione è urgente, e devono mostrare una leadership di grande coraggio nel riscrivere i curricula. E’ un’elasticità che da decenni il mondo del lavoro attende». Oggi, infatti, il “reskilling” è sulla bocca di tutti gli operatori economici. Per Barnard, a salvare il sistema-Italia sarà un “reskilling” (o “upskilling”) dei lavoratori, da condurre a vita, per ogni settore del Pil italiano. «Dovrà essere intelligente, il che significa innanzi tutto che va fatto in partnership con il settore privato dell’Italia, il quale deve saper dimostrare una “vision” ben oltre la sua tradizionale e provinciale parcellizzazione». Soprattutto, le tecnologie di Big Data «dovranno essere usate da governo e datori di lavoro per “better forecasting data and planning metrics”, cioè saper prevedere le svolte e pianificare con largo anticipo la richiesta dei talenti, su cui poi appunto lanciare in tutto il paese programmi di “reskilling” (o di “upskilling”) con chirurgica precisione».Dunque, secondo Barnard, l’Italia è alla storica sfida dell’occupazione nell’era della Disruption. «Il potere globale di quest’ultima è senza limiti, ma gli Stati possono governarla per tutelare l’impiego nella colossale tempesta dei cambiamenti». In questo sforzo, aggiunge, il governo deve comprendere un aspetto cruciale che distingue le tecnologie della Disruption: si dividono infatti in due rami, quelle di tipo Enabling e quelle di tipo Replacing. «La Disruption porterà sia una richiesta di lavori già esistenti riformulati in nuove versioni, che nuove professioni che oggi non esistono». In questo caso, nella versione Enabling, aprirà vasti bacini di posti di lavoro ma, al tempo stesso, spazzerà via schiere di mestieri perché le macchine “pensanti” li rimpiazzeranno (Replacing, appunto). Ne consegue una scelta politica di orizzonte: «E’ totalmente futile ed economicamente distruttivo continuare a spendere sia fondi pubblici che fondi privati (delle famiglie) per formare giovani, o per incoraggiare lavori, destinati alla categoria dove le tecnologie saranno di tipo Replacing, poiché significa destinare esseri umani a un suicidio lavorativo certo».Per Barnard, l’Italia dovrà quindi «investire massicciamente nell’adozione del maggior numero di tecnologie Enabling per ovvi motivi di creazione di lavoro», ma dovrà anche «essere scaltra nell’incoraggiare quelle che si adattano meglio alla struttura sociale, alla conformazione territoriale e produttiva del nostro paese». Un esempio concreto? «Siamo uno dei popoli più longevi del mondo, perciò la cura extra-ospedaliera dei nostri anziani arricchita dalle nuove tecnologie Enabling del settore è garanzia di creazione d’innumerevoli mansioni a ogni livello di complessità (settore del Personal Care). Sono mansioni che saranno utili a nuovi impieghi sia per i cittadini meno “skilled” che per gli specialisti. La medesima strategia va applicata alla nostra struttura architettonica, geografica, energetica, sempre per generare ampio impiego». Al problema della Disruption, in questi mesi, Barnard ha dedicato il massimo impegno, lavorando in solitudine, convinto che l’umanità sia ormai di fronte «al più dirompente cambiamento occupazionale dal 1775 a oggi», dai tempi della macchina a vapore. «Continuo a ripeterlo: le soluzioni a problemi sistemici devono essere sistemiche, il resto sono truffe vendute da politici cinici a un pubblico stupido, i cui figli poi piangeranno per generazioni».Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».
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Fusione Bayer-Monsanto: l’inferno che attende l’umanità
In che universo è possibile che a due delle corporations mondiali più moralmente corrotte, Bayer e Monsanto, venga permesso di unire le forze, in quello che promette di essere il prossimo stadio nell’acquisizione delle risorse agricole e farmaceutiche del pianeta?Attenzione, anticipo della trama. In questa horror-story di epiche proporzioni non si trova un Mr. Hyde: c’è solo il Dr. Jeckyll. Come nella sceneggiatura di un horror di David Lynch, la Bayer Ag, famosa per i suoi gas venefici, ha finalizzato (per la cifra di 66 miliardi di dollari) l’acquisizione di Monsanto, la multinazionale agro-chimica che dovrebbe essere sul banco degli imputati nel carcere di Guantanamo e appellarsi al Quinto Emendamento [la facoltà di rifiutarsi di rispondere alle domande], invece di godere dell’equivalente societario di protezione ed impunità per i suoi crimini contro l’umanità. Questi sono i privilegi che derivano dall’essere una corporation trasnazionale al di sopra della legge. Com’era prevedibile, la prima cosa che ha fatto Bayer dopo l’acquisizione di Monsanto, carica com’è di bagaglio extra e irregolarità etiche, è stata quella di dare inizio ad una campagna per il miglioramento dell’immagine. Come un cattivo di Hollywood, che cade in un crogiuolo di acciaio fuso e riappare più tardi sotto un’altra forma, la Monsanto è stata orwellianamente ribattezzata “Bayer Crop-Science Division”, il cui motto è: “La scienza per una vita migliore.”E comunque, la stessa Bayer è uno schermo protettivo ben piccolo per la Monsanto, considerando che lei stessa ha una storia costellata di malpratiche corporative. Oltre al suo ben noto business in rimedi per l’emicrania, questa azienda tedesca ha avuto un ruolo significativo nell’introduzione dei gas venefici sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale. Nonostante il divieto all’uso di armi chimiche risalisse alla Convenzione dell’Aia del 1907, l’amministratore felegato della Bayer, Carl Duisberg, che faceva parte di una speciale commissione istituita dal ministero tedesco per la Guerra, sapeva riconoscere un’opportunità di affari, quando ne vedeva una. Duisberg aveva assistito ai primi test con i gas venefici ed era rimasto favorevolmente impressionato dalla nuova, terribile arma: «Il nemico non saprà neanche se una certa area sarà stata irrorata oppure no, e rimarrà tranquillamente al suo posto fino all’apparire dei sintomi». La Bayer, che aveva appositamente istituito un dipartimento per la ricerca e lo sviluppo degli agenti gassosi, aveva continuato a mettere a punto armi chimiche sempre più letali, come il fosgene e il gas mostarda. «Questo fosgene, che io sappia, è l’arma peggiore», aveva rimarcato Duisberg, con uno stupefacente disprezzo per la vita, quasi stesse parlando dell’ultimo tipo di insetticida. «Raccomando caldamente di utilizzare l’opportunità di questa guerra per provare anche le granate a gas».Duisberg aveva coronato il suo demoniaco desiderio. La possibilità di usare il campo di battaglia come laboratorio e i soldati come cavie era arrivata nella primavera del 1915, quando la Bayer aveva inviato al fronte circa 700 tonnellate di armi chimiche. E’ stato stimato che, il 22 aprile 1915 ad Ypres, Belgio, siano state usate, per la prima, volta circa 170 tonnellate di cloro gassoso contro le truppe francesi. Nell’attacco erano morti quasi 1000 soldati e molte migliaia erano rimasti intossicati. In totale, circa 60.000 persone erano morte nella Prima Guerra Mondiale per l’utilizzo, iniziato dalla Germania, delle armi chimiche prodotte dall’azienda di Leverkusen. Secondo Axel Koehler-Schnura, della “Coalition against Bayer dangers” [Coalizione contro i pericoli della Bayer], «il marchio Bayer richiama alla mente, in modo particolare, lo sviluppo e la produzione di gas venefici. Nondimeno, l’azienda non si è mai ravveduta del suo coinvolgimento negli orrori della Prima Guerra Mondiale. La Bayer non ha neanche preso le distanze dai crimini di Carl Duisberg».Questo comportamento pseudocriminale è continuato praticamente fino in tempi moderni. Mike Papantonio, procuratore degli Stati Uniti e presentatore televisivo, aveva parlato di una delle azioni più esecrabili di questa azienda chimica durante il programma di Thomas Hartmann, “The Big Picture”: «Negli anni ‘80 producevano un agente coagulante per emofiliaci chiamato Fattore VIII. Questo agente coagulante era risultato contaminato da Hiv, e poi, dopo il divieto governativo a venderlo qui, lo avevano esportato in tutto il mondo, infettando gente in tutto il mondo. Questa è solo una parte della storia della Bayer». Papantonio, citando il resoconto annuale della Bayer per il 2014, afferma che sull’azienda pendono 32 differenti procedimenti giudiziari in tutto il mondo. Prima di buttare nel gabinetto i vostri prodotti Bayer e tirare lo sciacquone, mettete magari da parte un’aspirina o due, perché la storia è ancora più brutta. Una delle conseguenze dirette del mostro “Baysanto” sarà un’impennata dei prezzi per gli agricoltori, che hanno già dovuto ridurre il loro tenore di vita a causa di costi insostenibili. «Gli agricoltori, negli ultimi anni, hanno già sperimentato aumenti di prezzo del 300% su ogni cosa, dalle sementi ai fertilizzanti, tutti controllati dalla Monsanto», ha riferito Papantonio ad Hartmann. «E tutti gli analisti sono del parere che questi prezzi sono destinati a salire ancora più in alto a causa di questa fusione».E comunque è difficile immaginare che la situazione possa peggiorare ancora per gli agricoltori americani, che attualmente hanno la percentuale di suicidi più alta di tutte le professioni del paese. Il tasso di suicidi per gli americani impiegati in agricoltura, pesca e silvicoltura è di 84,5/100.000 persone, più del quintuplo di quello di tutta la popolazione in generale. Questa tragica tendenza ricorda quella dell’India dove, una decina di anni fa, milioni di agricoltori avevavno iniziato la transizione dalle tecniche di agricoltura tradizionale a quelle che invece utilizzavano le sementi geneticamente modificate della Monsanto. In passato, seguendo una tradizione millenaria, gli agricoltori conservavano, come sementi, una parte del raccolto e lo riseminavano l’anno successivo. Quell’epoca, dove si seguivano gli schemi e i ritmi ben collaudati della natura, è ormai praticamente finita. Oggi, le sementi geneticamente modificate della Monsanto contengono la cosiddetta tecnologia-Terminator, e le coltivazioni risultanti sono sterili e non più in grado di germinare. In altre parole, la società produttrice delle sementi sta letteralmente giocando a fare Dio con la natura e con le nostre vite. Così, gli agricoltori indiani sono obbligati, ogni anno, a ricomprare a costi proibitivi una nuova fornitura di sementi (insieme al pesticida della Monsanto, il Round-Up).Ma il mondo avrebbe dovuto forse aspettarsi qualcosa di diverso dalla stessa azienda che è stata coinvolta nella produzione dell’agente Orange, usato dall’esercito (americano) nella guerra del Vietnam (1961-1971)? Più di 4,8 milioni di vietnamiti hanno sofferto di patologie connesse al defoliante, sparso su vaste estensioni di terreno coltivabile durante la guerra, che ha distrutto la fertilità del terreno e la produzione agricola del Vietnam. Circa 400.000 vienamiti sono morti a causa dall’uso da parte dell’esercito americano dell’agente Orange, mentre milioni hanno sofferto per la fame, le malattie invalidanti e le malformazioni congenite. Questa è l’azienda a cui abbiamo permesso, insieme alla Bayer, di controllare un quarto delle risorse alimentari del mondo intero. Tutto questo porta a chiedersi: chi è più pazzo? Bayer e Monsanto, o noi, la gente? E’ importante ricordare che la fusione Bayer-Monsanto non avviene in un vuoto corporativo. Fa parte della gara delle aziende agrochimiche mondiali per accaparrarsi le risorse alimentari del mondo. ChemCina ha acquisito la svizzera Syngenta per 34 miliardi di dollari, per esempio, mentre Dow e DuPont hanno costituito un loro impero da 130 miliardi di dollari. In ogni caso, nessuna di queste aziende ha un’immagine lorda di sangue come Bayer e Monsanto, un matrimonio diabolico che minaccia tutta la vita sulla Terra.(Robert Bridge, “Un matrimonio infernale: la fusione Bayer-Monsanto segna la condanna a morte per l’umanità”, da “Strategic Culture” del 30 giugno 2018, tradotto da “Markus” per “Come Don Chisciotte”).In che universo è possibile che a due delle corporations mondiali più moralmente corrotte, Bayer e Monsanto, venga permesso di unire le forze, in quello che promette di essere il prossimo stadio nell’acquisizione delle risorse agricole e farmaceutiche del pianeta?Attenzione, anticipo della trama. In questa horror-story di epiche proporzioni non si trova un Mr. Hyde: c’è solo il Dr. Jeckyll. Come nella sceneggiatura di un horror di David Lynch, la Bayer Ag, famosa per i suoi gas venefici, ha finalizzato (per la cifra di 66 miliardi di dollari) l’acquisizione di Monsanto, la multinazionale agro-chimica che dovrebbe essere sul banco degli imputati nel carcere di Guantanamo e appellarsi al Quinto Emendamento [la facoltà di rifiutarsi di rispondere alle domande], invece di godere dell’equivalente societario di protezione ed impunità per i suoi crimini contro l’umanità. Questi sono i privilegi che derivano dall’essere una corporation trasnazionale al di sopra della legge. Com’era prevedibile, la prima cosa che ha fatto Bayer dopo l’acquisizione di Monsanto, carica com’è di bagaglio extra e irregolarità etiche, è stata quella di dare inizio ad una campagna per il miglioramento dell’immagine. Come un cattivo di Hollywood, che cade in un crogiuolo di acciaio fuso e riappare più tardi sotto un’altra forma, la Monsanto è stata orwellianamente ribattezzata “Bayer Crop-Science Division”, il cui motto è: “La scienza per una vita migliore”.
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Summa Symbolica: conoscere i simboli per sfuggire al Mago
Ecco, arriva il mago e risolve tutto. Si chiama Macron? Libera i francesi dall’Uomo Nero,che in quel caso era una donna, Marine Le Pen – l’unica, peraltro, a denunciare le cause eurocratiche delle sofferenze sociali della nazione. Siamo in Italia e il mago si chiama Matteo Renzi? Ha in mano quei famosi 80 euro, che infatti gli valgono il 40% dei consensi alle europee. Ha poi risolto qualcosa, il mago Renzi? Assolutamente no: infatti, in capo a pochi mesi, l’Harry Potter di Rignano sull’Arno ha dovuto sloggiare dal palazzo, dove oggi altri ipotetici maghi – di diversa scuola – provano a loro volta a convincere l’opinione pubblica con analoghe trovate, sempre nel campo miracoloso del “tutto e subito”. E’ colpa loro, dei maghi? Sì e no, dice Gianfranco Carpeoro, esoterista coltissimo e dotato di un raro talento nel diffondere generosamente il suo sapere anche presso i non addetti, quelli che i massoni – bontà loro – chiamano profani, cioè rimasti fuori dalla porta del tempio dove si tramanda, “da bocca a orecchio”, la cosiddetta conoscenza iniziatica. Non sarebbe ora di farlo uscire dalle segrete stanze, quel benedetto corpus di informazioni e codici? E’ esattamente la missione che si prefigge Carpeoro con la pubblicazione, a puntate, dei volumi di “Summa Symbolica”, primo studio sistematico – destinato a tutti – sulla “scienza dei simboli”.Una disciplina oscura perché non svelata, che persino Umberto Eco – per poterla introdurre in ambito universitario – ha dovuto camuffare, chiamandola “semiotica”. Tuttora, la simbologia non è materia di insegnamento, da nessuna parte: lo è stata, solo per un certo periodo, nell’università statunitense di Princeton, nel New Jersey, da cui – non a caso – transitarono personaggi come Albert Einstein, il presidente americano Thomas Woodrow Wilson e il matematico John Nash, Premio Nobel per l’Economia come gli altri “princetoniani” Paul Krugman e Angus Deaton. Niente di strano, direbbe Michele Proclamato, allievo di Carpeoro ed eminente simbologo italiano, autore di libri straordinari sui “numeri dell’universo” che emergono, sempre gli stessi, dai rosoni delle cattedrali e dagli antichi zodiaci egizi, dai “sigilli ermetici” di Giordano Bruno e dalla fisica di Newton, dalla matematica “metafisica” di Cartesio e dalle opere di Leonardo, di Arcimboldo, di Vitruvio, di Bach e Mozart, e persino dai “cerchi nel grano”. «Se penetri il simbolo e ne impari a cogliere il messaggio, alla fine diventi più intelligente», sostiene Proclamato: «Il linguaggio dei simboli è fondato sull’analogia e stimola la nostra capacità di intuizione. E in fondo, anche ridotto alla sua essenza numerica, racconta sempre la stessa cosa: la dinamica delle emozioni, che mette gli esseri umani in relazione diretta con qualsiasi altra forma di vita, terrestre e celeste».Da Proclamato a Carpeoro, il passo è breve. Entrambi scrivono libri e animano appassionate conferenze. Tutte cose impensabili, vent’anni fa: «All’epoca – sorride Carpeoro – ad ascoltarmi c’era solo mia sorella, più il gestore della sala». Cos’è successo? Deluso dal consumismo e dalla politica post-ideologica, il pubblico ha scoperto la “new age”, «di cui si è prontamente impossessato il potere, quello che oggi sforna guru, corsi e libri che ti spiegano come avere successo, in modo istantaneo, in ogni campo della vita». Carpeoro presidia strade assai meno battute, quelle dei leggendari Rosacroce, regolarmente maltrattati: l’ufficialità nega ostinatamente la loro esistenza storica, mentre associazioni come l’Amorc – di marca statunitense – ne propongono una versione mistico-occultistica. Sono fuori strada, sostiene Carpeoro: la ricerca dei Rosacroce – fratellanza iniziatica “fantasma”, sempre in clandestinità per sfuggire al dominio cattolico – ha ben poco di mistico. Riguarda casomai la metafisica e soprattutto l’estetica, il codice della bellezza: «Attraverso i loro artisti, tra cui i massimi esponenti del Rinascimento italiano, i Rosacroce hanno creato innanzitutto un linguaggio, ben sapendo che soltanto l’estetica può alimentare l’etica, dal momento che ognuno di noi – pur non essendone consapevole – ha dentro di sé quella stessa bellezza che l’artista riproduce, emozionandoci».L’operazione? Sofisticata e decisiva: «Elevare tutto questo alla portata della nostra consapevolezza. Ecco a cosa serve conoscere il linguaggio simbolico: a non subire più il potere del mago». In materia, Carpeoro è categorico: «Siamo pieni di cosiddetti maestri, che rappresentano la nostra schiavitù psicologica. Nessuno può dirsi maestro, tantomeno io, perché ognuno di noi è maestro in qualcosa: insegnamo e impariamo gli uni dagli altri». Ed è quello che il mago, cioè il cattivo maestro, si guarda bene dall’ammettere: finirebbe disoccupato. «In realtà non ci serve nessun maestro», taglia corto Carpeoro. «Tutto quello che dobbiamo sapere è già dentro di noi. Abbiamo già tutto ciò che ci serve, per raggiungere i nostri obiettivi. La domanda, semmai, è questa: siamo proprio sicuri di sapere che cosa vgliamo? Perché in questo sta la libertà: non nel fare quello che si vuole, ma nel sapere di cosa abbiamo davvero bisogno». E questo, assicura Carpeoro, te lo “insegna” proprio il linguaggio dei simboli, i segni ricorrenti che popolano il mondo, spesso in incognito e a nostra insaputa: li subiamo, facendocene condizionare, ma senza coglierne il significato.Il potere – politico, economico, religioso – fa un uso massiccio dei simboli. Perché funzionano? Lo spiega benissimo il primo volume di “Summa Symbolica”: i simboli sono una traduzione degli archetipi, che sono eterni. Si tratta di eventi materiali (fatti) o immateriali (pensieri) che vivono, da sempre, in una dimensione impalpabile, che Carpeoro chiama “memoria ancestrale dell’universo”. «Entrano in contatto diretto con noi soltanto in un modo: attraverso i sogni che facciamo durante il sonno profondo. Sogni che non possiamo ricordare, perché il nostro linguaggio – limitato – non riesce a catturare l’assoluto archetipico». Ci restano due strade: quella del mito, che l’archetipo lo racconta, e quella – parallela – del simbolo, dove l’archetipo viene rappresentato: con un segno, un numero, una parola, un suono, un colore, persino un odore. In base una “legge” identificata dall’esoterista francese René Guénon, il simbolo è un microcosmo che allude a un macrocosmo: il piccolo contiene il grande, non viceversa. «Il simbolo ti interroga, ti costringe a pensare». E il “pensiero” del simbolo – che spinge a domandarsi “perché” – è il contrario esatto del non-pensiero del mago, che ti spiega solo il “come” (che è una semplice conseguenza del “perché”).Secondo Carpeoro, la nostra società – ormai interamente “magica” – ha saltato sistematicamente il “perché”, concentrandosi solo sul “come” (avere successo, fare soldi, conquistare una donna). Ed è proprio su questa nostra debolezza che il mago, anche politico, gioca facile. Traccia sempre lo stesso cerchio, nel quale ti rinchiude. Prima ti astrae dal tuo mondo reale, dettando le sue regole. Si chiama: astrazione. Poi ti ci trasloca mentalmente, nella nuova casa (estrazione). Ti insegna come abitarla (istruzione) ma fa in modo che tu non possa tornare indietro (ostruzione). Quando ti accorgi che hai vissuto in una bolla immaginaria, ormai è troppo tardi (distruzione). Oggi, oltre il 60% dei francesi reputa Macron una specie di cialtrone, deludente e addirittura pericoloso. E’ il finale perfetto di ogni parabola “magica” che si rispetti. Macron è un mago politico di prima grandezza. Viene da un’alta scuola di esoterismo finanziario. Lo conosce, eccome, il linguaggio dei simboli. Il guaio è che, a non conoscerlo affatto, sono le sue “vittime”.Non si sono accorte, dice Carpeoro, della simbologia – non islamica, ma templare – nascosta dietro ai più atroci attentati recenti, da Charlie Hebdo al Bataclan, all’epoca in cui Macron “studiava” da presidente in pectore. Né si sono accorti, i belgi, del terribile significato del doppio attentato di Bruxelles, dove stati colpiti l’aeroporto e la metropolitana. «Il messaggio? Come in Cielo, così in Terra. Che significa: noi siamo Dio». Puro delirio di onnipotenza, scrive Carpeoro nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, in cui svela la natura massonica della “sovragestione” occidentale che ha organizzato, in Europa, la strategia della tensione affidata a servizi segreti deviati e manovalanza islamista targata Isis. Risultato finale: ecco il mago Macron all’Eliseo. Veniva dalla Banca Rothschild, ma è stato presentato come outsider. Cerchio magico: uno slogan imbecille, “En Marche”. Et voilà, il gioco è fatto: il mago getta la maschera e annuncia di voler tagliare un terzo del pubblico impiego, di “tosare” il mitico welfare francese. Gli elettori gridano al tradimento? Troppo tardi: ostruzione, distruzione.Leggere “Summa Symbolica” non basta, ovviamente, per liberarsi dei Macron. Ma forse aiuta a non cadere in trappola così facilmente. Il primo volume, uscito nel 2017, svela il legame che unisce i simboli agli archetipi. Il secondo, da poco in libreria e già ottimamente piazzato nelle classifiche, si addentra in un viaggio affascinante: si parte dalla croce (l’Ankh egizio, il Tau ebraico, la croce cristiana, il Cardo e il Decumano dei romani nonché la “croce laica” di Cartesio) per arrivare al Cerchio, al Quadrato, all’Ottagono. Creazione e distruzione? Ecco la tradizione biblica, quella cristiana e quella islamica. Poi il millenarismo e l’alchimia, per verificare “tutte le volte che il mondo doveva finire”, incluso il mitico 2012 dei Maya. “Summa Symbolica” è un sentiero: tra nascita, vita, morte e resurrezione. Il Natale e Orione, le tante nascite “divine”. Stelle e divinità: Sirio e Iside. Il Cigno: la croce nelle stelle. Carpeoro si interroga sul ruolo archetipico di Thanatos e sulla morte di Mario Monicelli, preconizzata nel film “Brancaleone alle Crociate”. Cinema, arte e letteratura propongono anche i simboli (rosacrociani) della resurrezione, dal Pellicano alla Fenice. E poi ci sono gli schemi simbolici collegati a un archetipo fondamentale, quello dell’eroe, che si riverbera nelle maschere immortali create da Omero e Virgilio.«Dopo l’inatteso e imprevedibile successo della prima parte di quest’opera – scrive l’autore, in premessa – è con comprensibile timore che ci accingiamo alla pubblicazione della seconda, consistente nel primo volume della trattazione degli archetipi». Se infatti era insolita e originale la parte precedente (sulle dinamiche dei simboli e sui metodi d’analisi), questo intero volume dedicato a singoli archetipi di particolare rilievo affronta contesti di maggiore complessità. «Quindi – avverte Carpeoro – sicuramente questa lettura sarà più faticosa. Ma – aggiunge – non ci stancheremo mai di ripetere che la vera ricerca esoterica non può mai essere agevole». In altre parole: «Grande la ricompensa, maggiore è la fatica del percorso per ottenerla». Ovvero: questo libro non è per chi cerca risposte facili. Ovvio, ci vuole impegno: «Se voglio farti apprezzare la buona tavola posso cucinarti un’ottima cena», dice Carpeoro, che è anche gastronomo. «Ma se vuoi imparare a cucinare non c’è alternativa: posso darti istruzioni, ma il lavoro devi farlo tu». Socrate la chiamava: maieutica. Tradotto: meglio se ci arrivi da solo, alle conclusioni.E’ la “scuola”, senza tempo, del simbolo. E può portare molto lontano – fino al centro di se stessi – grazie alla regina delle domande: “perché”. Vanno bene tutte le risposte, concede Carpeoro, purché non siano definitive e non precludano la domanda successiva. Lo sanno bene i vari cercatori di Graal: la meta è il vaggio, il Graal è la ricerca stessa. Lo scopre, con struggente dolcezza, il grande Toma Alistar, musicista nomade, alla fine dei suoi giorni, dopo un’intera esistenza consacrata al vano inseguimento del grande amore della sua vita. Toma Alistar è il protagonista di un film che fece epoca, “I Lautari”, diretto dal moldavo Emil Loteanu, iniziato Rosacroce. La sua missione: commuovere il pubblico, costringedolo a specchiarsi nella purezza archetipica dell’eroe. “Bello di fama e di sventura”, scrive Foscolo di Ulisse. Quella bellezza – che il simbolo si incarica di trasferire intatta, alludendo all’archetipo sovrastante – ha un messaggio per ognuno di noi: ci rende più consapevoli di appartenere a un universo infinito e senza tempo, che frequentiamo soltanto in sogno. Proprio da lì viene il mondo sulle cui tracce si mette in cammino, la preziosa “Summa Symbolica” di Carpeoro.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Summa Symbolica. Istituzioni di studi simbolici e tradizionali. Vol. 2\1: Studi sugli archetipi”, edizioni L’Età dell’Acquario, 334 pagine, 28 euro).Ecco, arriva il mago e risolve tutto. Si chiama Macron? Libera i francesi dall’Uomo Nero, che in quel caso era una donna, Marine Le Pen – l’unica, peraltro, a denunciare le cause eurocratiche delle sofferenze sociali della nazione. Siamo in Italia e il mago si chiama Matteo Renzi? Ha in mano quei famosi 80 euro, che infatti gli valgono il 40% dei consensi alle europee. Ha poi risolto qualcosa, il mago Renzi? Assolutamente no: infatti, in capo a pochi mesi, l’Harry Potter di Rignano sull’Arno ha dovuto sloggiare dal palazzo, dove oggi altri ipotetici maghi – di diversa scuola – provano a loro volta a convincere l’opinione pubblica con analoghe trovate, sempre nel campo miracoloso del “tutto e subito”. E’ colpa loro, dei maghi? Sì e no, dice Gianfranco Carpeoro, esoterista coltissimo e dotato di un raro talento nel diffondere generosamente il suo sapere anche presso i non addetti, quelli che i massoni – bontà loro – chiamano profani, cioè rimasti fuori dalla porta del tempio dove si tramanda, “da bocca a orecchio”, la cosiddetta conoscenza iniziatica. Non sarebbe ora di farlo uscire dalle segrete stanze, quel benedetto corpus di informazioni e codici? E’ esattamente la missione che si prefigge Carpeoro con la pubblicazione, a puntate, dei volumi di “Summa Symbolica”, primo studio sistematico – destinato a tutti – sulla “scienza dei simboli”.
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Magaldi: Renzi riposi in pace, il progressista oggi è Salvini
«I progressisti devono capire la gente: il mondo va verso situazioni molto dure e le persone chiedono, giustamente, protezione. Invece, sino ad oggi, il Pd ha trattato le persone che hanno paura come se fossero imbecilli». Viva la sincerità, anche se fuori tempo massimo. Suonano comunque lucide, finalmente, le parole dell’ex manager Ferrari e poi ministro post-renziano Carlo Calenda, nipote di Luigi Comencini, approdato al Pd dopo l’esordio politico prima con Montezemolo e poi con Monti. «Dobbiamo dar vita ad un progetto con nuove parole», dice Calenda a “Otto e mezzo”: «Ma pretendere questo dal Pd – ammette – non è possibile». Tra le macerie elettorali dell’ex centrosinistra, forse anche Calenda pensa al “partito che serve all’Italia”, su cui il Movimento Roosevelt si confronterà il 14 luglio a Roma con politologi e sociologi. Tra gli invitati anche il sindaco milanese Beppe Sala e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. A Matteo Renzi, che in un tweet dopo il disastro dei ballottaggi alle amministrative prova a gettare la croce sul povero Martina («con tutto il rispetto, nel Pd manca una leadership: per questo mi riprendo la guida del partito»), Zingaretti risponde a stretto giro: troppo tardi, «un ciclo storico si è chiuso». Tradotto: abbiamo sbagliato tutto, Renzi in primis. Primo errore, capitale: il Pd ha preso per cretini gli italiani spaventati dalla crisi. «Salvini invece li ha saputi ascoltare», dice Calenda, «e questo è il suo grande merito». Infatti, per Gioele Magaldi, il vero progressista sulla scena, oggi, è proprio il leader della Lega.