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Nessuno può sperare di fermare il cambiamento climatico
Il dibattito sulla questione ambientale negli ultimi anni va sempre più focalizzandosi sui pericoli del cambiamento climatico e finalmente anche l’informazione alternativa comincia ad approfondire l’argomento. In questo contesto, però, c’è una sorta di pregiudizio che rende sterile la discussione. Siccome la controinformazione su Internet è nata e ha tratto la sua forza dal mettere in dubbio le versioni ufficiali di eventi storici come l’11 Settembre e lo sbarco sulla Luna, c’è la tendenza a diffidare a priori di qualsiasi notizia proveniente dai media di regime. Quello che viene definito complottismo ha il merito di mettere sulla graticola la narrazione ufficiale del potere, ma spesso scade in polemiche senza capo né coda; e non solo su argomenti che sfiorano la paranoia come scie chimiche, armi psicotroniche o maremoti artificiali. Io non posso essere matematicamente certo che sia in atto un cambiamento climatico con o senza aumento della temperatura, perché i dati scientifici a cui posso accedere provengono da istituzioni governative quali la Nasa, il Noaa o l’Iccp. Grandi istituzioni su cui io, povero diavolo qualunque, non ho alcun controllo. Mi devo fidare. Tuttavia, dopo che l’ente spaziale americano, molto probabilmente, ci ha rifilato uno finto sbarco sulla Luna, prendere per veritiere le sue dichiarazioni diventa problematico.Le cospirazioni esistono e so che anche i paranoici hanno nemici. Di conseguenza non posso escludere che anche in questo frangente ci sia un secondo fine con lo scopo di inchiappettare l’umanità per l’ennesima volta. Il mio stesso subconscio cospira costantemente contro di me, mi sabota, e io inciampo e non ho certezza alcuna. Questa è l’epoca in cui viviamo, la realtà si è frammentata in miriadi di cocci impalpabili, ma ancora ci sono cercatori di Verità che spesso hanno seguaci pugnaci. Terrapiattisti ed altri poveracci impauriti sono sintomo di un reale vanificarsi di ogni punto di riferimento per interpretare l’esistente. Si è costretti a dubitare di tutto. Insomma, non mi sorprenderei se scoprissi di essere di fronte ad un ulteriore frode planetaria. E questo sarebbe un atteggiamento tutto sommato salutare, se non si rischiasse di essere vittime di quegli stessi interessi che controllano i media di regime, ma che non possiamo essere sicuri che non siano anche dietro molte fonti alternative. In questo caso, però, la versione ufficiale, apparentemente sostenuta da una percentuale altissima di specialisti del settore, è parecchio sensata: l’attività dell’uomo sta sconvolgendo in tempi rapidissimi tutta la biosfera e di conseguenza anche il clima. Ciò sta avendo ed avrà sempre più conseguenze catastrofiche. Tutto qui, ed è incredibilmente ragionevole.Eppure lo scetticismo, giustificatissimo, nei confronti della narrazione del potere dominante ha fatto sì che questo fatto lapalissiano e preoccupante fosse annacquato da mille dubbi inconsistenti. L’aumento di CO₂ determina un aumento di temperatura? Non lo so, non sono uno scienziato. Ma so che la CO₂ fa crescere le piante. Non c’è nessun aumento della temperatura, quelli dell’Iccp si sono inventati tutto. L’aumento della temperatura c’è, ma è dovuto alle macchie solari e l’attività umana non c’entra niente… non sono uno scienziato, ma ne sono convinto. Basta un Trump infinocchiante qualsiasi, eroe proletario che si batte contro le menzogne dei potenti, per finire a fare il gioco proprio di quei poteri che la controcultura dovrebbe smascherare. Continuiamo così, il ciclo produzione-consumo è salvo e siamo tutti più sollevati. Ci siamo ben resi conto che smantellare il sistema è abbondantemente al di sopra delle nostre possibilità. In realtà, dare la colpa ad impalpabili poteri occulti, sedicenti illuminati e cupole segrete, fa molto comodo. È pieno di zombie di nome Giovanni e Giuseppe che non rinuncerebbero mai alla loro auto per raggiungere il tabacchino all’angolo. Ma anche questo è irrilevante.Ammettiamolo, per quante prove si trovino in favore di una tesi, su Internet se ne possono trovare alrettante in favore della tesi opposta. Comprensibile in politica, se parliamo di scienza un po’ meno. Eppure ci sono indizi che, pur non essendo forse scientificamente validi, in quanto basati su percezioni limitate e soggettive, mi inducono ad essere scettico piuttosto nei confronti di chi nega il cambiamento climatico di origine antropica. Per esempio, i miei genitori mi dicevano che decenni fa il clima era più stabile, nel senso che si sapeva che a fine agosto, dopo la festa del santo patrono arrivavano i temporali che segnavano la fine dell’afa. E accadeva ogni anno immancabilmente. Nelle rare eccezioni, bastava mettere una sarda salata in bocca a sant’Oronzo e quello per la sete faceva piovere. Semplice. Ora i nuvoloni arrivano, ma non è detto che piova. Del resto, la vita di quelle popolazioni contadine dipendeva da quelle piogge, noi ne possiamo fare tranquillamente a meno. Forse è per questo che cominciano a disertarci.Magari la pioggia si presenta con un bel po’ di ritardo e ne cade un ettolitro per centimetro quadrato. Si dice addirittura che uno scienziato pazzo in vena di conquistare il mondo stia usando una macchina di sua invenzione per controllare il tempo a dispetto di Occam e del suo rasoio. La neve era un’altra visitatrice abituale. Pare che ogni inverno ne cadesse tanta e gli anni senza erano piuttosto sporadici, ma già quando io ero piccolo era il contrario. L’inverno con la neve era un’eccezione. Me lo ricordo bene perché appena vedevamo qualche fiocco decidevamo che non si poteva andare a scuola, ma era perfettamente praticabile la strada per andare a scivolare dalle colline con le buste di plastica sotto il sedere. Inoltre, in tutti i miei viaggi ho notato effetti sull’ambiente, evidentemente frutto di manomissioni umane. In Tanzania, la mia prima volta fuori dall’Europa, scalai la vetta del Kilimangiaro insieme ad altre centinaia di turisti e vidi che il ghiacciaio rimane ormai solo sulla porzione più alta della cresta del vulcano. Pare che in cento anni sia regredito dell’85%. Uno scioglimento un po’ troppo veloce per essere dovuto ai normali cicli cosmici.Il fenomeno non è direttamente attribuibile all’aumento della temperatura globale o locale, ma piuttosto alla deforestazione alla base della montagna che ha causato una diminuzione della traspirazione e quindi del vapore acqueo che poi si trasformava in precipitazioni nevose. Quella volta capii che scalare montagne, soprattutto se in compagnia di una mandria di occidentali in cerca d’avventura Alpitur, non faceva per me, quindi non ho informazioni di prima mano su altri ghiacciai in altre zone del pianeta, ma pare che lo stesso stia accadendo un po’ ovunque. Qualche anno dopo mi trovavo ancora in Africa ma dall’altro lato e i locali mi raccontarono che il mare in pochi anni aveva mangiato una quindicina di metri di spiaggia. Non posso essere certo della causa, ma consiglio di non fare mai un bagno nell’Oceano Atlantico al largo delle coste dell’Africa Occidentale. Ci buttano di tutto. Per quanto riguarda il livello del mare, anche dalle mie parti qualche spiaggia si è ristretta misteriosamente negli ultimi anni, ufficialmente a causa di una non meglio specificata ‘erosione’. Ma io non sono uno scienziato.In Giappone visitai una spiaggia nei pressi di Suzuka, dove fanno il moto-Gp, un paio d’anni dopo lo tsunami e il disastro di Fukushima. Una vista apocalittica. Questo non c’entra niente col cambiamento climatico. Era giusto per dire. Quest’anno mi trovavo in Amazzonia e, per il secondo anno consecutivo, a quanto mi è stato riferito, il periodo delle piogge e la relativa piena dei fiumi stagionale, che per quelle popolazioni segna l’arrivo dell’inverno, è arrivata con due mesi di ritardo. Al momento mi trovo in Svizzera per la prima volta. Mi sono sentito un po’ come Totò e Peppino che arrivano a Milano incappottati aspettandosi un tempaccio artico, invece è stato un ottobre fenomenale che, a sentire chi vive qui da molti anni, non si era mai visto. Ma un ottobre eccezionale non sarà di certo la fine del mondo. Con tutto questo bighellonare in lungo e in largo per il pianeta avrò contribuito in maniera sostanziale al casino climatico-ambientale. Non lo nego. Merito la lapidazione. Chi non ha peccato inizi pure. Ma non c’è da avere sensi di colpa. Non è proprio colpa di nessuno. Non c’è colpa. Faccio un esempio: 49 milioni di anni fa, millennio più millennio meno, accadde ciò che gli scienziati chiamano The Azolla Event. Nel mezzo dell’eocene, l’oceano artico aveva temperature ed ecosistemi tropicali. Una serie di condizioni idriche e geologiche favorirono la crescita esplosiva di una felce chiamata appunto azolla. Per circa 800.000 anni questa pianta prosperò su 4 milioni di km² sequestrando l’80% della CO₂ dall’atmosfera sul fondo anaerobico del mare, dove si trova tuttora sedimentata in uno strato geologico esteso lungo tutto il bacino artico.La concentrazione di CO₂ nell’atmosfera passò da 3.500 ppm a 650 ppm. La temperatura si abbassò da 13°C agli attuali -9. Forse per la prima volta nella storia della Terra ci fu una calotta di ghiaccio al polo nord. Ehi, questa è l’ipotesi di un gruppo di scienziati olandesi dell’università di Utrecht che potrebbero benissimo far parte del complotto. Tra l’altro, tutto ciò ha implicazioni geopolitiche, perché proprio in questi depositi organici può essersi formato il gas e il petrolio che le superpotenze si contendono, ora che quei luoghi diventano accessibili. E quegli scienziati magari lavorano per la Shell. Che mondo… Prendo per vera l’ipotesi solo per esplicitare un concetto: l’azolla ha sconvolto il suo stesso habitat in accordo con la natura o contro la natura? Per inciso, l’azolla non si è estinta, continua a prosperare a latitudini più basse. Ovviamente, l’episodio fu un evento del ciclo della natura. Si crearono le condizioni per una crescita eccezionale dell’azolla, la quale scatenò un cambiamento climatico epocale. Niente di innaturale in tutto ciò. L’azolla ha solo svolto la sua parte. Perché invece quelle stesse dinamiche sono innaturali se protagonista è l’uomo?Dall’inizio dell’era industriale la CO₂ nell’atmosfera è aumentata di quasi il 40%. Questo ha prodotto cambiamenti a livello climatico? Non lo so, ma probabilmente sì, non me ne stupirei. L’era geologica in cui viviamo si chiama antropocene. Cioè, la nostra specie altera l’ambiente così profondamente da caratterizzarne l’epoca a livello geologico. Oltre a riprocessare l’atmosfera, abbiamo alterato il corso dei fiumi, spianato colline e sventrato montagne, stravolto gli ecosistemi di interi continenti, alterato la radioattività di fondo, saturato lo spazio di elettrosmog. E volete che tutto questo non abbia alterato il clima? E perché, di grazia? Perché quel signore onnipotente che abita in cielo ha detto che potevamo fare il cazzo che ci pareva in eterno, tanto il clima l’avrebbe tenuto costante lui, perché gli siamo simpatici e proteggerà sempre e comunque il divino ordine capitalista? Si dice che il battito di una farfalla in Cina possa far scoreggiare un alieno insettoide in una dimensione parallela, figuriamoci se la superloffa della specie umana non sia capace di modificare il clima del pianeta. Quindi abbiamo fatto una cazzata immane? Probabilmente sì, ma non avevamo scelta.Non siamo diversi dall’azolla, proprio perché non ci abbiamo pensato due volte a cacciarci in questo guaio e non abbiamo la più pallida idea di come uscirne. Perché non ne siamo responsabili. Agiamo secondo le direttive della natura di cui non siamo consci per permettere alla terra di iniziare un nuovo ciclo di vita. Giovanni che prende la macchina per andare a comprare le sigarette contribuisce a cuor leggero. È questa la nostra hubris: illuderci di essere al di fuori ed al di sopra dei cicli naturali ed addirittura capaci di alterarli. Non è così, noi facciamo parte di questo scorrevole tutto e non possiamo che recitare la nostra minuscola comparsata in uno spettacolo i cui atti durano milioni di anni. Non possiamo fare proprio nulla. Secondo gli scienziati più pessimisti, come per esempio Guy McPherson e i suoi “abrupt climate change” e “near term extinction”, anche se fermassimo tutte le attività umane domani, la temperatura schizzerebbe alle stelle; infatti, oltre ad immettere gas serra nell’atmosfera che inducono un riscaldamento nel lungo termine, immettiamo anche particolato (non so se si riferisca anche alle scie chimiche), che fermando i raggi solari ne blocca l’effetto nel breve periodo. Se ci fermassimo, questo particolato cadrebbe al suolo e la schermatura che fornisce verrebbe meno, facendo salire la temperatura oltremodo.Per altro, fermare tutto l’ambaradan dall’oggi al domani è irrealizzabile, non solo praticamente, ma perché il caos sociale che ne deriverebbe sarebbe assolutamente distruttivo e quindi controproducente. McPherson prevede il collasso entro dieci anni. Hai voglia a proporre soluzioni innovative e trabiccoli succhiacarbonio con scappellamento triplo carpiato. Ormai da anni non mi occupo più di iperborei, rettiliani e altri argomenti à la Martin Mystère, ma ricordo di aver letto su un loro testo che i Rosacroce credono che nella storia della Terra si siano succedute sei civiltà evolute con esseri intelligenti più o meno simili a noi, ognuna sviluppatasi dopo la catastrofe che segnò la fine della precedente. Secondo loro siamo vicini all’avvento della settima razza e di conseguenza alla fine della sesta, cioè noi. C’è qualcosa di simile nella scienza ufficiale che ci dice che ci sono state cinque estinzioni di massa sul pianeta, e stiamo avvicinandoci con estrema velocità alla sesta. Mio padre, classe ’24, diceva che rispetto a quando era piccolo lui c’era stato un crollo impressionante nel numero degli animali che abitavano il paese e le campagne.Non sappiamo cosa ci riserva il futuro. Del resto nemmeno di ciò che sia successo nel passato possiamo essere tanto certi e molti di noi vagano in un presente ovattato. Non si può sapere se gli allarmisti abbiano edificato un castello di falsità per poter un giorno lucrare sullo scambio di quote di emissioni o se invece dobbiamo credere a quell’amico del popolo di Trump, che non è amico dei petrolieri, ci mancherebbe, che ci assicura che tutto va a meraviglia. Una cosa però a me sembra certa. Se non fosse ormai troppo tardi, ci sarebbe un solo obbiettivo da perseguire: dovremmo smettere di ritenerci nel bene o nel male al di fuori della natura. Per secoli è stato il nostro sogno proibito, perché la natura ci dava sostentamento, ma allo stesso tempo portava carestie, epidemie e tutto doveva essere ottenuto col sudore della fronte. Come sarebbe stato bello finalmente dominarla, la natura, anzi meglio, semplicemente tirarsene fuori. Non dover sottostare alle stagioni, alle piogge e alle siccità, alla grandine che poteva distruggere un anno di lavoro in un pomeriggio, alle cavallette, alla peste bubbonica. Anche a costo poi di dover vivere col senso di colpa e la paura che la natura si vendicasse. Abbiamo creduto di riuscirci. Ma non è possibile. Ci siamo dentro, nel bene e nel male, e non c’è via d’uscita. Parafrasando l’esimio Bill Clinton: it’s nature, stupid!(“Il cambiamento climatico è del tutto naturale”, post pubblicato da “Amago” su “Come Don Chisciotte” il 9 dicembre 2018).Il dibattito sulla questione ambientale negli ultimi anni va sempre più focalizzandosi sui pericoli del cambiamento climatico e finalmente anche l’informazione alternativa comincia ad approfondire l’argomento. In questo contesto, però, c’è una sorta di pregiudizio che rende sterile la discussione. Siccome la controinformazione su Internet è nata e ha tratto la sua forza dal mettere in dubbio le versioni ufficiali di eventi storici come l’11 Settembre e lo sbarco sulla Luna, c’è la tendenza a diffidare a priori di qualsiasi notizia proveniente dai media di regime. Quello che viene definito complottismo ha il merito di mettere sulla graticola la narrazione ufficiale del potere, ma spesso scade in polemiche senza capo né coda; e non solo su argomenti che sfiorano la paranoia come scie chimiche, armi psicotroniche o maremoti artificiali. Io non posso essere matematicamente certo che sia in atto un cambiamento climatico con o senza aumento della temperatura, perché i dati scientifici a cui posso accedere provengono da istituzioni governative quali la Nasa, il Noaa o l’Iccp. Grandi istituzioni su cui io, povero diavolo qualunque, non ho alcun controllo. Mi devo fidare. Tuttavia, dopo che l’ente spaziale americano, molto probabilmente, ci ha rifilato uno finto sbarco sulla Luna, prendere per veritiere le sue dichiarazioni diventa problematico.
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Tutta la verità, sempre. Grazie a Mazzucco, giornalista vero
«Ragazzi, ricordarvi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpini spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.Quella mattina, infatti, l’intera difesa aerea degli Stati Uniti sulla costa orientale era affidata a due soli intercettori armati di missili e pronti a decollare, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano impegnati in esercitazioni concomitanti in Canada, Alaska e California: fatto fino ad allora mai verificatosi, nella storia degli Usa, né più ripetutosi in seguito. Il cielo della superpotenza mondiale era più sguarnito di quello del Burkina Faso. Questo (e molto altro) ha messo insieme, Massimo Mazzucco, dopo anni di impegno ininiterrotto alla ricerca della verità. A partire dal primo documentario, “Inganno globale”, mandato in onda da Mentana a “Matrix” su Canale 5 in prima serata, nel 2006, di fronte a milioni di attoniti telespettatori, il video-reporter più scomodo d’Italia ha dedicato alla truffa dell’11 Settembre anche il maxi-documentario del 2013, “11 Settembre, la nuova Pearl Harbor”, raccogliendo prove e testimonianze che smentiscono la versione ufficiale sull’attentato alle Torri Gemelle. Tante le teorie: le Twin Towers abbattute da armi speciali ad energia, demolite con la nano-termite, incenerite con mini-atomiche? Mazzucco non sposa nessuna tesi: «Non spetta a me stabilire cosa sia stato usato per far crollare le Torri, a me basta dimostrare che non possono esser stati quegli aerei», ha ripetuto, anche in web-streaming su YouTube il sabato mattina con Fabio Frabetti di “Border Nights”.Anzi, aggiunge: «Il parteggiare per una tesi o per l’altra finisce per produrre contraddizioni tecniche utili solo a chi vuol farla dimenticare, quella storia, squalificando di fronte all’opinione pubblica chi ricerca la verità con serietà e impegno, come i tremila architetti e ingegneri americani che, mettendo a repentaglio il proprio posto di lavoro, sono riusciti a dimostrare in modo definitivo la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle». Cercare la verità, appunto, senza trarre conclusioni affrettate: nel suo ultimo lavoro, “American Moon”, Mazzucco si avvale dei maggiori fotografi internazionali per dimostrare che le immagini del mitico allunaggio del ‘69 non sono state realizzate sulla Luna, ma in studio. «Il che non significa che non siamo mai stati sulla Luna: significa che le immagini mostrate al mondo erano false». Il potere statunitense è finito nel mirino di Mazzucco in svariate occasioni: nel 2007 ha firmato il documentario “L’altra Dallas – Chi ha ucciso Robert Kennedy?”. Un giallo tutt’altro che chiuso, quello che circonda la morte del fratello di Jfk, assassinato il 6 giugno 1968 nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles per fermare la sua corsa alla Casa Bianca: «Nonostante vi siano almeno venti persone che hanno visto Sirhan Sirhan sparare a Kennedy, sono emersi nel corso del tempo svariati elementi che tendono decisamente a scagionarlo».Lo chiamano Deep State, ed è qualcosa che affonda le sue radici nella nebulosa che tiene insieme esponenti della supermassoneria sovranazionale neo-oligarchica messa a nudo da Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni”, con propaggini nella Cia e nell’Fbi, al Pentagono, alla Casa Bianca, in centri di comando assoluti come il Council on Foreign Relations. Da quegli ambienti scaturì il Pnac, Piano per il Nuovo Secolo Americano, attraverso cui i neocon – i Bush e Cheney, Wolfowitz, la Rice, Donald Rumsfeld – pianificarono apertamente la “guerra infinita” a cui il maxi-attentato dell’11 Settembre avrebbe spianato la strada. Massimo Maazzucco ne parla nel documentario “Il nuovo secolo americano”, uscito nel 2008 per illuminare «tutti i retroscena storici, politici, economici e filosofici che avrebbero portato agli attentati dell’11 Settembre per vie ben diverse da quelle che ci sono state raccontate». Non è possibile, infatti, comprendere gli attacchi alle Torri «se non si conosce la storia che c’è alle loro spalle». Ma lo sguardo di Mazzucco – giornalista vero – si estende anche oltre l’agenda geopolitica: nel video “I padroni del mondo”, uscito sempre nel 2008, esplora il territorio misteriosamente ibrido che comprende avvistamenti Ufo, ruolo dei militari e pericolo atomico.“I padroni del mondo”, spiega, non è un classico film sugli Ufo, ma «un film che cerca di comprendere il motivo per cui tutte le informazioni raccolte fino ad oggi sugli Ufo ci vengano tenute nascoste dai militari del Pentagono». E’ forse trovando questa risposta, ipotizza il video-reporter milanese, che si può scoprire qualcosa anche sull’esistenza di «esseri provenienti da altri pianeti, e sulle loro eventuali intenzioni». Tanto per essere espliciti: l’ufologo Roberto Pinotti, da decenni in contatto l’aeronautica militare italiana, ricorda che i gesuiti hanno speso milioni di dollari per allestire sul Mount Graham, in Arizona, un potente osservatorio astronomico dedicato allo studio dell’esobiologia, cioè la vita aliena. “L’extraterrestre è mio fratello”, titolò clamorosamente “L’Osservatore Romano” intervistando padre José Gabriel Funes, astronomo e gesuita, direttore della Specola Vaticana: un centro «che possiede anche un telescopio ad alta tecnologia e vanta un team di scienziati che fa invidia a quello della Nasa», ricorda Agnese Pellegrini su “Famiglia Cristiana”. Ma se padre Funes scruta il cielo in attesa dello sbarco dei “fratelli dello spazio”, Massimo Mazzucco – al solito – scava dietro le verità ufficiali, prendendo per le corna il toro del potere: perché i militari non ci raccontano tutto quello che sanno?Inutile sperare che sui giornali si riscontri altrettanto impegno, nella ricerca delle notizie che contano, anche – per dire – in un settore delicatissimo come quello della salute. E’ del 2009 la dirompente indagine sulle cure alternative per il tumore (“Cancro, le cure proibite”), nel quale Mazzucco mette a nudo il silenzio assordante che copre i clamorosi risultati già ottenuti da decine di medici, in tutto il mondo, per i quali il cancro non è più una malattia incurabile. Negli ultimi 100 anni, riassume il trailer del documentario, dozzine di scienziati, medici e ricercatori hanno trovato diverse cure valide per il cancro, spesso supportate anche da migliaia di testimonianze di pazienti guariti – ma noi non lo abbiamo mai saputo: perché? Statistiche: cent’anni fa si ammalava di cancro solo una persona su 20, oggi invece una su 3 (e negli Usa, un individuo su 4 muore di cancro). Chi sopravvive, viene semi-distrutto dalla chemio: dolori, gonfiore, febbre, nausea, vomito e svenimenti, senza contare l’abbattimento delle difese immunitarie e quindi il rischio elevatissimo di contrarre altri tumori, di cui l’organismo ormai indifeso diviene facile preda. Quando mai se ne parla, sui giornali, di cure di successo contro lo stramaledetto cancro?«Da cent’anni – dichiara Mazzucco – la medicina ufficiale nega che esista una cura risolutiva». Il video mostra sanitari come Max Gerson, che guarisce pazienti considerati “terminali”, così come il collega Harry Hoxsey. Medici per i quali il cancro non è più invincibile: da Tullio Simoncini a René Caisse. Racconta un anziano paziente: «Mi avevano detto che sarei morto in 24 ore, e invece eccomi qua». L’elenco di medici anti-cancro è lungo quasi quanto il Novecento: Chas Ozina e Josef Issels, Emanuel Revici, Royal Rife. E poi Gaston Naessens e Linus Pauling, senza contare Wilhelm Reich e Ryke Hamer. «Perché tutti coloro che hanno proposto una nuova cura, negli ultimi cento anni, sono stati sistematicamente ignorati, derisi, combattuti e spesso anche messi in prigione?». Nel video, rispondono operatori della sanità: «Il cancro è un grosso affare, uno dei più grandi che ci siano». Nel solo 2004, Big Pharma ha fatturato oltre mezzo “biliardo” (“550 billion”, cioè 550 miliardi di dollari). I medici intervistati da Mazzucco parlano di «inviti a pranzo, cene gratis, Champagne». Scandisce il norvegese Per Lonning, dell’Haukeland Hospital di Bergen: «Arriveremo a trovare la cura? La questione non è “se”, ma “quando”». Solo questione di volontà politica, in altre parole. E di soldi, tanto per cambiare.Dice Mark Abadi, psicologo: «La farmaceutica è l’industria di maggior successo nel mondo. Quello che non vogliono è che tu guarisca». Chiosa un’anziana, fissando la telecamera: «Se i medici sanno che c’è una cura, eppure mandano i pazienti a casa a morire, quella è un’atrocità peggiore dell’Olocausto». Tra i rimedi anti-cancro recentemente ammessi c’è anche la marijuana, le cui infiorescenze sono ricchissime di Tch, un principio attivo (già usato da Big Pharma in modo non dichiarato) che in molti casi distrugge le cellule tumorali, oltre ad alleviare le sofferenze dei pazienti. Mazzucco ne parla nel documentario “La vera storia della marijuana”, uscito nel 2010. Domanda: «Che cosa si nasconde dietro alla ossessiva, incessante e terrificante guerra alla droga?». La realtà che si cela sotto la proibizione di questa pianta è «qualcosa di assolutamente impressionante e sconvolgente, con una portata storica che condiziona in modo determinante la vita quotidiana di tutti noi, compreso chi non ha mai visto da vicino nemmeno uno spinello». Tanto per dire, in tutte le civiltà, la marijuana è stata la pianta più utile per l’intera umanità: se ne ricavano carta e tessuti per abiti, olio, corde, medicine. Dalla canapa è possibile produrre anche un’ottima plastica naturale. Ecco il punto: il boom della cannabis avrebbe tagliato le gambe all’industria (sanguinosa) del petrolio.La cannabis, aggiunge Mazzucco nel suo video, è stata usata fin dall’antichità per combattere malaria, reumatismi e dolori mestruali, epilessia, coliche e anche gastriti, anoressia e tifo. Non ci credete? Il medico personale della regina Vittoria, Sir John Russell Reynolds, nel 1890 la definì «una delle medicine più importanti a disposizione dell’uomo». Poi, da un giorno all’altro, questa pianta miracolosa è diventata il frutto proibito, la radice di ogni male: fonte di peccato, perversione e immoralità. Una pericolosa scorciatoia verso la devianza e la follia. Una demonizzazione devastante, improvvisa e sospetta, proprio in prossimità del boom del petrolio. Mazzucco ricorda che Harry Anslinger, del Federal Bureau of Narcotics, fece proibire la marijuana in tutto il mondo: chi lo finanziava? Lo spiega il suo filmato, ora proposto anche come strenna – in cofanetto – insieme a tutti gli altri: un’ottima occasione per fare scorta di informazioni serie, comprovate da documentazioni a prova di bomba.A Mazzucco, naturalmente, il mainstream dà del complottista: un modo facilotto per tentare di sbarazzarsene. Se c’è una dote nella quale l’autore eccelle è proprio la prudenza. Regola numero uno: verificare le notizie in modo da avere sempre almeno 3-4 conferme incrociate. Cosa che i giornalisti hanno smesso di fare da secoli, limitandosi per lo più a passare veline governative. A lettori e telespettatori rifilano quasi solo robaccia, semplice gossip politico, guardandosi bene dall’impensierire il potere. Mazzucco rimpiange il Mentana dei bei tempi, che a suo modo era coraggioso. «Poi, col tempo, si è integrato nel sistema. Arrivato a La7, poteva diventare “il primo degli ultimi”. Invece, si è accontentato di essere “l’ultimo dei primi”». A chi ha fame di notizie vere, naturalmente, resta il web: «Oggi sulla Rete troviamo informazioni impensabili, dieci anni fa, grazie al lavoro tenace e paziente di migliaia di attivisti». Lavoro che “dà fastidio”, come auspicava l’anziano Nuto Revelli, tant’è vero che la politica – italiana, europea – continua a tentare di imbavagliare i blog. E i giornalisti? Silenti, su tutta la linea. Si consolino: se vogliono scoprire come sono andate davvero le cose, in molti tornanti dell’attualità, possono sempre guardarsi i dvd di Massimo Mazzucco. Vere e proprie miniere di notizie.(Tutti i dvd ideati, prodotti e diretti da Massimo Mazzucco sono acquistabili singolarmente, on-line, attraverso il sito “Luogo Comune”. Per il Natale 2018, è anche possibile acquistarli in un’unica soluzione – versione cofanetto – al prezzo scontato di 49 euro).«Ragazzi, ricordatevi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpine spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.
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Noi sfruttati senza pietà, caduto lo spauracchio dell’Urss
Da quando sono scoppiati gli spread e la Germania detta l’agenda politica europea a suon di austerità, lo slogan più battuto è stato: “Siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”. Tuttavia, da un punto di vista scientifico, nel senso quantitativo del termine e cioè misurabile, la ricchezza in Occidente è di molto aumentata nell’ultimo mezzo secolo, e niente affatto diminuita. Detto diversamente, se per ricchezza intendiamo i beni prodotti e creati manipolando la materia, la ricchezza è aumentata, così come quel fluidificante degli scambi che chiamiamo denaro. Oggi, rispetto a 50 anni fa ci sono più immobili, più infrastrutture, più bicchieri, più vestiti, più occhiali, più scarpe, più libri, più telefoni, più televisori, più automobili, più mutande, più apparecchi per chi vuole raddrizzare i denti e sexy toys per chi si vuole divertire. Per il più banale dei ragionamenti logici, allora, non ha alcun senso sostenere che gli occidentali sono vissuti al di sopra delle loro possibilità. Tramite le loro “possibilità”, europei, americani e australiani hanno moltiplicato in modo esponenziale la ricchezza sul pianeta.C’è un momento chiave nella nostra storia recente che spiega bene il vero motivo per cui il mainstream, gli accademici ed i grandi capitalisti recitano la favoletta del “siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”, ed è il 1989. Che in molte aree del socialismo reale si vivesse male rispetto agli standard occidentali, ma anche rispetto a quelli autoctoni del passato, non c’è alcun dubbio. I protagonisti di quella stagione sono ancora quasi tutti vivi, e dunque per quanto molta letteratura sia stata ammaestrata dalla narrazione anticomunista, è agli atti, ad esempio, che a Bucarest durante la presidenza Ceausescu il cibo fosse razionato. Dunque, non si tratta di spulciare di qua e di là un’area del blocco comunista o di quello capitalista per stabilirne il benessere. Il punto sta nel paradigma plurale che caratterizzava il mondo prima del 1989. E per paradigma plurale si intende la possibilità che un governo in qualsiasi parte del mondo potesse assumere forme comuniste, socialdemocratiche, teocratiche o capitalistiche.Il caso europeo è emblematico. Nel vecchio continente, infatti, c’era un capitalismo molto temperato, perennemente spaventato dalla possibilità che il modello dei vicini paesi del blocco comunista potessero convincerci ad assumere altre forme di governo. Detto diversamente, il capitalismo del dopoguerra ci concesse di tutto, ma senza rinunciare ad accumulare ricchezza. In quella stagione – per paura che arrivasse il comunismo – il capitalismo occidentale rinunciò ad accumulare tutta la ricchezza, come sarebbe nella sua natura, ma ne distribuì una minima parte. Il che, tradotto, significò orari di lavoro ridotti, il tempo indeterminato, il reintegro sul luogo di lavoro a seguito di vittoria ad un processo contro l’azienda, l’accesso gratuito o semigratuito a beni essenziali come la salute, l’istruzione, la casa ed il trasporto. Tutto questo – che passa sotto il nome di welfare State – contenne la ricchezza dei capitalisti senza che questi si impoverissero.Semplicemente, con questa modalità, le ricchezze che si accumulavano vennero ridistribuite, seppur in parti davvero risibili. Le modalità di ridistribuzione furono diverse, ma su tutte i contratti di lavoro e gli investimenti pubblici tramite l’emissione di debito pubblico. Dopo il 1989, finita la paura che i governi potessero assumere forme inclini alla pianificazione economica statale, il capitalismo si tolse la maschera e mostrò il suo vero volto. Il volto di chi non intende distribuire la ricchezza creata, ritenendo di poterlo fare non a seguito di presunti meriti, ma in virtù di rinnovati rapporti di forza. Nemmeno negli anni ’50, ’60, ’70 e ’80 il capitalismo voleva distribuire la ricchezza, ma voleva accumularla perché questo è nella sua natura. Dunque, in quella stagione, noi e chi ci ha preceduto non è vissuto al di sopra delle sue possibilità, ma al di sopra della volontà dei capitalisti.Conti alla mano, tenuto conto della capacità produttiva mondiale, anche allora si visse al di sotto delle proprie possibilità, ma in misura effettivamente meno drastica di quanto avviene oggi. Il motivo per il quale – in Europa – non si accettano revisioni alle regole e non si trova uno sbocco al problema euro non sta dunque in considerazioni tecniche alla Mario Draghi, ma in una precisa volontà lobbystica. Risulta quanto mai ingenuo, o stupido chi, come Varoufakis ieri o Savona/Borghi/Bagnai oggi, pensa di poter convincere i burocrati europei sul deficit. Anche i tecnocrati conoscono le soluzioni, ma non le vogliono applicare perché non vogliono scientemente operare nella direzione di una ridistribuzione di ricchezza.(Massimo Bordin, “Siamo vissuti al di sopra delle loro volontà”, dal blog “Micidial” del 7 dicembre 2018).Da quando sono scoppiati gli spread e la Germania detta l’agenda politica europea a suon di austerità, lo slogan più battuto è stato: “Siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”. Tuttavia, da un punto di vista scientifico, nel senso quantitativo del termine e cioè misurabile, la ricchezza in Occidente è di molto aumentata nell’ultimo mezzo secolo, e niente affatto diminuita. Detto diversamente, se per ricchezza intendiamo i beni prodotti e creati manipolando la materia, la ricchezza è aumentata, così come quel fluidificante degli scambi che chiamiamo denaro. Oggi, rispetto a 50 anni fa ci sono più immobili, più infrastrutture, più bicchieri, più vestiti, più occhiali, più scarpe, più libri, più telefoni, più televisori, più automobili, più mutande, più apparecchi per chi vuole raddrizzare i denti e sexy toys per chi si vuole divertire. Per il più banale dei ragionamenti logici, allora, non ha alcun senso sostenere che gli occidentali sono vissuti al di sopra delle loro possibilità. Tramite le loro “possibilità”, europei, americani e australiani hanno moltiplicato in modo esponenziale la ricchezza sul pianeta.
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La lotteria dell’universo e i numeri sbagliati del pianeta
La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.Il messia. Alla mia destra, aveva detto, e alla mia sinistra. Sedevano a tavola, semplicemente. Avevano sprecato un sacco di tempo in chiacchiere inconcludenti, e lo sapevano. Con colpevole ritardo, dopo inenarrabili vicissitudini dai risvolti turpemente malavitosi, si erano infine rimessi al nuovo sire, l’inviato dall’alto. Familiarmente, tra loro, lo chiamavano messia, essendo certi che avrebbe fatto miracoli e rimesso le cose al loro posto, ma non osavano consentirsi confidenze di sorta: ne avevano un timoroso rispetto. Quell’uomo incuteva soggezione, designato com’era dal massimo potere superiore. Non restava che ascoltarlo, in composto silenzio, assecondandolo in tutto e sopportandone la postura da tartufo. La sua grottesca affettazione si trasformava inevitabilmente, per i servi, in squisita eleganza. Gareggiavano, i sudditi, in arte adulatoria. Stili retorici differenti, a tratti, permettevano ancora di distinguere i servitori seduti a destra da quelli accomodati a sinistra.Tungsteno. L’isoletta era prospera e felice, o almeno così piaceva ripetere al governatore, sempre un po’ duro d’orecchi con chi osava avanzare pretese impudenti, specie in materia di politica economica, magari predicando la necessità di sani investimenti in campo agricolo. Il popolo si sentì magnificare le virtù del nuovo super-caccia al tungsteno, ideale per la difesa aerea. Ma noi non abbiamo nemici, protestarono. Errore: potremmo sempre scoprirne. Il dibattito si trascinò per mesi. I contadini volevano reti irrigue, agronomi, serre sperimentali, esperti universitari in grado di rimediare alle periodiche siccità. Una mattina il cielo si annuvolò e i coloni esultarono. Pioverà, concluse il governatore, firmando un pezzo di carta che indebitava l’isola per trent’anni, giusto il prezzo di un’intera squadriglia di super-caccia al tungsteno.Stiamo pensando. Stiamo pensando alla situazione nella sua inevitabile complessità, alle sue cause, alle incidenze coincidenti ma nient’affatto scontate. Stiamo pensando a come affrontare una volta per tutte la grana del famosissimo debito pubblico, voi capite, il debito pubblico che è come la mafia, la camorra, l’evasione fiscale, l’Ebola, gli striscioni razzisti negli stadi, la rissa sui dividendi della grande fabbrica scappata oltremare, l’abrogazione di tutto l’abrogabile. Perché abbiamo perso? Stiamo pensando a come non perdere sempre, a come non farvi perdere sempre. Stiamo pensando, compagni. E, in confidenza, di tutte queste problematiche così immense, così universali, così globalmente complicate, be’, diciamocelo: non ne veniamo mai a capo. Il fatto è che non capiamo, compagni. Non capiamo mai niente. Ma, questa è la novità, ci siamo finalmente ragionando su. Stiamo pensando. Una friggitoria di meningi – non lo sentite, l’odore?Unni. Scrosciarono elezioni, ma il personale di controllo era scadente e il grande mago cominciò a preoccuparsi, dato che i replicanti selezionati non erano esattamente del modello previsto. Lo confermavano a reti unificate gli strilli dei telegiornali, allarmati anche loro dall’invasione degli Unni. Non si capiva quanto fossero sinceri i loro slogan, quanto pericolosi. Provò il dominus ad armeggiare con i soliti tasti, deformando gli indici borsistici, ma non era più nemmeno certo che il trucco funzionasse per l’eternità. Vide un codazzo di Bentley avvicinarsi alla reggia e si sentì come Stalin accerchiato dai suoi fidi, nei giorni in cui i carri di Hitler minacciavano Mosca. Ripensò ai tempi d’oro, quando gli asini volavano e persino gli arcangeli facevano la fila, senza protestare, per l’ultimissimo iPhone.(Estratto da “La lotteria dell’universo”, di Giorgio Cattaneo. “Siamo in guerra, anche se non si sentono spari. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo: e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie. Fotogrammi: 144 pillole narrative descrivono quello che ha l’aria di essere l’inesorabile disfacimento di una civiltà”. Il libro: Giorgio Cattaneo, “La lotteria dell’universo”, Youcanprint, 148 pagine, 12 euro).La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.
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Cbs News: uno studio presenta le scie chimiche “buone”
Come probabilmente ricorderete, nell’aprile dell’anno scorso era stata la prestigiosa università di Harvard a proporre la ricetta di spargere in cielo una nube di particelle di ossido di alluminio per bloccare i raggi solari e raffreddare il pianeta. L’azione e il metodo si rendevano necessari, dicevano i ricercatori, per combattere l’odioso global warming, e la giustificazione esplicita era che sarebbe impensabile che il capitalismo e l’industrializzazione possano rallentare la loro corsa a produrre co2 e altri tipi d’inquinamento. Quindi, la soluzione: inquiniamo un po’ di più, volontariamente, ma fin di bene! Quest’anno invece si sono esposti due ricercatori, Wake Smith e Gernot Wagner, che hanno pubblicato uno studio peer-reviewed per studiare le strategie di iniezione di aereosol nella stratosfera, e il loro costo. La ricerca è stata raccontata al grande pubblico in un articolo dello scorso 23 novembre di “Cbs News”, che ci informa dei principali risultati, sempre con la consueta ricetta: “Una flotta di 100 aerei che facesse 4000 missioni all’anno nel mondo potrebbe aiutare a salvare il mondo dal cambiamento climatico. E sarebbe relativamente economico”.Questa volta, quindi, il riferimento a spargere tali sostanze dagli aerei è esplicito fin nella stesura finale, mentre nella proposta di Harvard gli aerei erano presenti nella fase preliminare del progetto, ed erano stati rimossi nel testo finale in favore di fantomatici palloni sonda. Cade quindi la prima delle principali obiezioni dei mistificatori nostrani ed esteri, secondo cui occorrerebbe un impegno troppo vasto ed un numero troppo alto di aerei per portare a termine modificazioni significative tramite le scie chimiche. Più precisamente l’articolo spiega che «nel loro piano ipotetico, la flotta inizierebbe con otto aerei nel primo anno e arriverebbe ad appena meno di 100 in 15 anni. Nell’anno uno, ci sarebbero 4.000 missioni, fino ad arrivare a poco più di 60.000 missioni nell’anno quindici». Anche questo dato, ovviamente, smonta le obiezioni dei mistificatori: 60.000 missioni all’anno non sono assolutamente proibitive, quando in una giornata tipica vengono messi in volo 40.000 aerei, e nella giornata record si è arrivati a 200.000.L’articolo puntualizza anche i costi: «Questo tipo di geoingegneria sarebbe tecnicamente possibile, valutandola da un punto di vista strettamente ingegneristico. Sarebbe inoltre rimarcabilmente economico, con un costo medio tra 2 e 2,5 miliardi di dollari l’anno, per i primi 15 anni». Quindi, scie chimiche di particolato spruzzate da aerei messi in volo appositamente per questi scopi. Come hanno fatto i ricercatori a pubblicare roba del genere, proponendo queste cose nel dettaglio, dicendo che sono fattibili, spiegandole, ma senza raccontarci che le stanno effettivamente già facendo da più di vent’anni? Semplice! Hanno detto che la quota ottimale per fare queste irrorazioni è di 18.000 metri, non certo i 10.000 metri a cui volano gli aerei di oggi, quindi si può fare tutto e a basso prezzo, ma nel futuro! Tutto perfettamente in linea con la decennale strategia di normalizzazione conosciuta come “finestra di Overton”, cioè in parole povere alla nostra capacità di accettare cose altrimenti inaccettabili se i cambiamenti sono lenti, costanti, e dilazionati nel tempo.E per fare ciò hanno dovuto darci conferme ufficiali, e certificate, sulla fattibilità e sull’esiguo numero di voli, e sull’economicità di queste attività mondiali. E questo resterà agli atti. Ma c’è anche un tema ancor più spinoso, e anche più importante per noi comuni cittadini, un tema che questo studio reintroduce in maniera indiretta facendo un dietrofront rispetto agli studi di Harvard: quello dei materiali da spruzzare. Già all’epoca c’è stato raccontato che il materiale che gli scienziati reputano migliore per essere spruzzato in atmosfera è qualcosa che faccia da specchio per i raggi solari e li rimandi verso lo spazio, e per questo scopo non ci sarebbe niente di meglio dei solfati; peccato che i solfati in atmosfera si combinino con l’ossigeno e con l’acqua presenti in sospensione, e generino ricadute di acido solforico, diventando un vero incubo per le pubbliche relazioni nel tentare di convincere la gente che per ridurre il global warming dobbiamo accettare le piogge acide. Ecco perchè nell’ultimo anno delle ricerche di Harvard ai solfati era stato sostituita l’allumina, un particolare ossido d’allumino sottoprodotto della Bauxite usato nell’industria del vetro per aumentare la riflettività delle superfici. Roba che comunque nessuno vorrebbe respirare, particolato Pm1 di metalli pesanti, ma comunque roba molto meno scomoda da accettare dell’acido solforico.Invece gli articolisti della “Cbs” fingono di ignorare questa “piccola” problematica dei solfati, e semplicemente tengono ben distanti la notizia di qual è secondo questa ricerca il miglior materiale da spruzzare, spiegato all’inizio, con la considerazione sul problema dell’acidificazione degli oceani, raccontata invece alla fine: «Mentre l’anidride carbonica continua ad aumentare, gli oceani stanno diventando sempre più acidi. Secondo il National Oceanic and Atmosferic Administration statunitense (Noaa), l’acidificazione degli oceani può confluire attraverso la catena alimentare oceanica, riducendo la capacità dei gusci e dei coralli che costruiscono le barriere coralline di produrre i loro scheletri. L’iniezione di aerosol nella stratosfera limita semplicemente il sole, non affronta l’accumulo di anidride carbonica sottostante. L’oceano continuerebbe ad acidificare». Ecco, figuriamoci spargendo solfati! Buon appetito!(Riccardo Pizzirani, “Scie Chimiche: continua la strategia della normalizzazione”, dal blog “Luogo Comune” del 30 novembre 2018).Come probabilmente ricorderete, nell’aprile dell’anno scorso era stata la prestigiosa università di Harvard a proporre la ricetta di spargere in cielo una nube di particelle di ossido di alluminio per bloccare i raggi solari e raffreddare il pianeta. L’azione e il metodo si rendevano necessari, dicevano i ricercatori, per combattere l’odioso global warming, e la giustificazione esplicita era che sarebbe impensabile che il capitalismo e l’industrializzazione possano rallentare la loro corsa a produrre co2 e altri tipi d’inquinamento. Quindi, la soluzione: inquiniamo un po’ di più, volontariamente, ma fin di bene! Quest’anno invece si sono esposti due ricercatori, Wake Smith e Gernot Wagner, che hanno pubblicato uno studio peer-reviewed per studiare le strategie di iniezione di aereosol nella stratosfera, e il loro costo. La ricerca è stata raccontata al grande pubblico in un articolo dello scorso 23 novembre di “Cbs News”, che ci informa dei principali risultati, sempre con la consueta ricetta: “Una flotta di 100 aerei che facesse 4000 missioni all’anno nel mondo potrebbe aiutare a salvare il mondo dal cambiamento climatico. E sarebbe relativamente economico”.
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Magaldi: se cedono sul deficit i gialloverdi perdono la faccia
Riscrivere, insieme, le regole del mondo. Ingenuo? Forse, ma necessario. “Se non così, come? E se non ora, quando?”, si potrebbe dire, parafrasando Primo Levi. E’ la premessa – implicita – da cui sembra muovere, sempre, l’analisi che dell’attualità politica offre Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), libro-evento che svela la natura supermassonica del potere mondiale. Da presidente del Movimento Roosevelt, meta-partito che si propone di rigenerare la politica italiana partendo da una piattaforma realmente progressista, fondata sul ripristino della sovranità democratica, Magaldi guarda con attenzione al possibile cantiere rappresentato dal governo gialloverde. Ipotesi: ribaltare la narrazione mainstream, ai cui diktat ideologici «si sono appecoronati l’ex sedicente centrodestra e l’ex sedicente centrosinistra», entrambi proni alle direttive dell’élite finanziaria – in sintesi: smantellare l’industria italiana e privatizzare il paese consegnandolo a un oligopolio di grandi poteri economici finto-europeisti, che in realtà utilizzano l’Ue per i loro obiettivi privatistici. Contro questo establishment, almeno fino a ieri, si era levata la voce dei 5 Stelle, gradualmente sovrastata da quella di Salvini. E ora, dopo tanto abbaiare, il governo Conte si appresta a calare clamorosamente le brache rinunciando al pur misero 2,4% di deficit previsto per il 2019?
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Tav, razza padrona: le fate ignoranti della Torino defunta
Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.Esattamente all’opposto del movimento contro cui tutte quelle persone sono state chiamate in piazza, il movimento No-tav, che ha sempre fatto, fin dalla sua origine, per più di vent’anni, puntigliosamente, quasi ossessivamente, dei dati tecnici dell’opera (flussi di traffico, impatto ambientale, dimensione dei costi e dettagliate voci di spesa, alternative operative), e dell’informazione su di essi, il principale argomento della sua opposizione. Se un aspetto ha colpito coloro che si sono occupati, anche in chiave scientifica – politologica, sociologica, antropologica – di quel movimento, è stato la costante abbondanza di documentazione e di informazione tecnica presente nei loro siti, al contrario degli opposti siti “Si-Tav” (a cominciare da quello di Telt), generici e reticenti. E a me personalmente ha fatto sempre molta impressione, fin dal 2005, dai tempi di Venaus quando incominciai a osservare la valle, la competenza non solo degli “attivisti” e dei promotori dei comitati e delle manifestazioni, ma dei manifestanti stessi. Irsuti montanari e madri di famiglia o nonne, ragazzotti delle superiori o artigiani di valle, pensionati, operai, commercianti, sapevano di logistica e trasportistica, del “Corridoio V” e delle “rotture di carico” con il loro aggravio di costo, di flussi di traffico su gomma e su ferro e di sistemi idrogeologici, dell’impatto degli scavi sulla qualità e quantità delle acque e sulle polveri sottili.Nessuno di loro si è mai sottratto al confronto sui contenuti dicendo di esserne all’oscuro! Ora, che nella rappresentazione da parte dei “giornaloni”, quegli uomini e quelle donne vengano dipinti come rozzi cultori del “nimby”, sorta di nuovi barbari pre-illuministici in conflitto con la modernità, mentre la folla di piazza Castello viene promossa a esempio di buona cittadinanza, fa parte del mondo alla rovescia prodotto da una sfera mediatica intossicata da interessi predatori e per questo generatrice di sfiducia su scala allargata. Esemplare, d’altra parte, l’atteggiamento nei loro confronti esibito, senza reticenze, da un’altra delle “fatine” torinesi, Giovanna Giordano, che a proposito della resistenza dei valligiani ha detto, testualmente, ad “Agorà”: «Se ci credono veramente e amano la decrescita felice, qui intorno in Piemonte ci sono tante meravigliose valli dove possono comprarsi una mucca e una pecora e decrescere felicemente. Ma che lascino vivere noi».Giovanna Giordano, detta “Nana” dagli amici, nominata sul campo da “Repubblica” «madamina di ferro, informatica e nonna», nell’enfasi del suo speach, dimentica che “loro” – i valsusini refrattari – stanno nella loro valle, dove vorrebbero che li si “lascino vivere” senza avere il proprio territorio devastato dal treno degli altri, mentre “noi” – il “noi” di Giovanna, intendiamoci – abitiamo in città ignorando del tutto, come si è visto, l’impatto su “quel” mondo che evidentemente non ci riguarda. Le ha già risposto, in modo esemplare, in questo stesso sito, il sindaco di Susa Sandro Plano. Qualcun altro ha ricordato la Maria Antonietta del “mangino brioches”. Ma si potrebbe anche evocare il Marchese del Grillo, quello del “Io sono io, e voi…”. In quel “che lascino vivere noi!” (abbandonando le case “loro”) c’è tutto un programma, o meglio un profilo: da razza padrona. Da ceto medio-alto predatorio, che non vede l’altro perché ripiegato su di sé, sulle proprie credenze infondate ma indiscutibili, la propria rete di pari elevata a mondo, i propri piccoli interessi promossi a Nomos. Il salotto di nonna Speranza con le sue “piccole cose di pessimo gusto” proposto come modello estetico assoluto.Certo, si potrebbe non farla troppo grossa. E considerare quell’esternazione un “refuso retorico”, una sorta di incidente comunicativo – insomma, una voce dal sen fuggita – ma sarebbe in qualche modo riduttivo. Perché in realtà c’era in quelle due righe, sintetizzato, un po’ tutto il mood di buona parte del management torinese: il sentimento sotteso alla parte più determinata di quella piazza – il suo nocciolo duro – costituito da quel mondo delle imprese e delle professioni cittadine che eleva se stesso a misura dell’universo avendo perduto però le proprie capacità propulsive. Declinante, ma determinato tuttavia a non mollare la presa sul proprio contesto, considerando ogni bene comune “disponibile”. Ogni dimensione pubblica privatizzabile. E ogni alterità – quali che ne siano le ragioni – irrilevante. Altro che cittadini con il senso del dovere di cui vaneggia Vladimiro Zagrebetsky (Vladimiro, si badi! non Gustavo) su “La Stampa”.Un esempio per tutti: il presidente della Camera di Commercio, tal Vincenzo Ilotte, che dichiara senza un attimo di resipiscenza che «la città si è formalmente espressa sulla Tav, non credo ci sia molto da discutere». Sì, proprio così: non crede che ci sia più “molto da discutere” perché – in piazza, evidentemente – la città si è “formalmente espressa”. Formalmente! Che, se le parole hanno ancora un qualche senso, dovrebbe voler dire: seguendo una qualche procedura di legittimazione. E dimentica che l’unica espressione “formale” è stata la deliberazione del Consiglio comunale (che la si giudichi opportuna o meno) con cui si è dichiarata “formalmente” Torino città No-Tav. E che i 20 o 25 o 30mila di piazza Castello sono pressoché un decimo dei torinesi che due anni fa hanno eletto a maggioranza quel Consiglio e quella giunta. Questo sarebbe un esempio di coscienza civica? O anche solo di cultura democratica? Personalmente mi sembra un perfetto esempio di quel “populismo” contro cui si dice al contrario di volersi opporre.Il problema però non sono le singole persone. Il problema, inquietante, per certi aspetti disperante, è che quello “stile” ha animato tutta la preparazione della mobilitazione di sabato 10 novembre. L’asfissiante campagna mediatica, guidata dai giornali cittadini “Stampa” e “Repubblica”, appartenenti ora al medesimo gruppo finanziario assai interessato all’opera. Nei dieci giorni di bombardamento mediatico non una voce fuori dal coro, non un dato, una documentazione, una valutazione indipendente. Niente pensiero, niente ragionamento, niente argomentazione razionale. Molti, troppi slogan. Spacciati a piene mani come verità sacrali (di quelle che non hanno bisogno di conferme fattuali perché sarebbero auto-evidenti). Nessuno ha detto ai cittadini chiamati al giudizio di dio della piazza, che quel treno è fatto per le merci e non per i passeggeri. Che tra Torino e Lyon (e Parigi) c’è già un treno veloce – un Tgv – cinque volte al giorno, sulla linea storica, che attualmente è utilizzata a meno di un quinto della sua capacità. Che i flussi di traffico tra Italia e Francia sulla direttrice alpina sono in calo da anni, sia su rotaia che su autostrada.Che supposto che si facesse il “tunnel di base” di 57,5 km, la linea si fermerebbe a St. Jean de Maurienne, tra i pascoli, sul versante francese (perché la Francia non ha deliberato le infrastrutture di raccordo e non ne ha per ora intenzione) e a Susa sul versante italiano. E, a proposito di tunnel di base (il cui impatto sul sistema idrogeologico della valle ma anche di Torino sarebbe pesantissimo), che nonostante viaggi per quasi l’80% in territorio francese sarebbe pagato per circa il 60% da noi!). Che del mitico “Corridoio V” (il quale secondo le allucinazioni dei nostri politici regionali dovrebbe collegare Lisbona con Kiev, anzi, secondo le ultime esternazioni, l’Alantico e il Pacifico) non c’è traccia, non esiste più perché Portogallo e Spagna si sono chiamati fuori e dalla Slovenia in là nessuno ci pensa, per cui le tanto decantate merci dovrebbero proseguire verso est sui famigerati camion o arrivare in camion per andare verso ovest (dove? mah?)…E’ assai probabile che una parte almeno del successo di pubblico di quella manifestazione sia dovuta – oltre alla mobilitazione dei “media” e delle corporazioni cittadine – alla pessima prova offerta in questi due anni dalla giunta Appendino: dal suo pressapochismo, dalle troppe assenze dai luoghi dolenti del tessuto cittadino, dalla promesse non mantenute, dall’isolamento sociale in cui si è confinata. C’era, in quella piazza, anche tanto giustificato disagio. Ma il giudizio sulla promozione dell’“evento” e sulla sua gestione non cambia. Resta imbarazzante – francamente imbarazzante – che l’imprenditoria di una città che è stata, per buona parte del Novecento, un esempio di livello mondiale di “company town” – un modello di capacità industriale potentissimo – si riduca oggi ad affidare il proprio futuro a un’idea vuota – a impiccarsi a un totem fradicio, abbiamo scritto – cioè a un simbolo quale il Tav fallito in partenza, immaginato in un tempo e in un mondo finiti, destinato allo spreco massiccio di risorse che – con un uso più assennato – potrebbero rivelarsi importanti.Fa male vedere che gli operatori economici di una città un tempo abitata da produttori orgogliosi di sé si riducano a pietire eventi e opere quali che siano purché alimentino flussi di denaro octroyé, concesso da Roma o dall’Europa, anziché contare sulla propria capacità innovativa e sulla creatività del sistema urbano. E’, in qualche modo, il “sistema Torino” – la configurazione di interessi economici, politici e bancari che ha gestito il declino di Torino nel trentennio trascorso e che si è mossa in piazza per riperpetuarsi, con gli stessi volti, le stesse sigle (il Pd buttato fuori dalla porta alle amministrative e rientrato dalla finestra in piazza) allargate ora alla destra, Forza Italia in primis, ma anche Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega. La Lega di Salvini, aggiuntasi all’ultimo momento perché sa che, in casi come questi, gli ultimi saranno i primi e, con molta probabilità, sarà lei l’utilizzatore finale di tutto ciò. Come dire che le fatine turchine di Torino hanno lavorato, in fondo, per il Re di Prussia.(Marco Revelli, “Le fate ignoranti di Torino”, dal blog NoTav.info del 19 novembre 2018).Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.
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Violenta e totalitaria: la dittatura della religione monoteista
Tutti i monoteismi religiosi, come i totalitarismi ideologici, storicamente sono stati processi rivoluzionari, intolleranti e illiberali, che mediante violenze, persecuzioni e propaganda hanno cercato di cancellare la cultura, i valori e i “mores” delle civiltà in cui prendevano il potere. Lo sostiene Marco Della Luna, avvocato e saggista, autore di analisi acute sul rapporto tra dominanti e dominati, anche nell’Europa di oggi. Sul suo blog, esplorando le forme di dominio dell’umanità, invita a considerare la storia oggettiva delle varie religioni monoteiste, ma anche enoteiste o monolatriche: atonismo (il culto solare di Amenhotep IV alias Ekhnaton), giudaismo, mazdeismo, cristianesimo e islamismo. «Se guardiamo in particolare a ciò che esse hanno fatto ogniqualvolta hanno scalato e preso il potere – scrive Della Luna – troviamo che ciascuna di esse non solo crede, monomaniacalmente, di essere l’unica detentrice della verità, ma anche ha cercato di realizzare un nuovo uomo, una nuova società, un nuovo ordinamento giuridico». Hanno cioè proceduto «cancellando il preesistente» (demonizzando, perseguitando, travisando) e «imponendo un pensiero e una verità unica, un unico modo di esperienza spirituale». Identica la promessa: il nuovo “verbo” risolverà tutti i mali, essendo la religione l’unica detentrice del bene (e chi la contesta, ovviamente, è un eretico).Ovviamente, aggiunge Della Luna, per realizzare il loro progetto – l’uomo nuovo, il nuovo ordine mondiale – le regioni devono eliminare rapidamente il vecchio, vincendone le resistenze «con la violenza, che è sempre risultata indispensabile», perché il “vecchio”, il tradizionale, «è storicamente consolidato nell’animo della gente, nella sua sensibilità e nei mores come “fisiologia” del funzionamento culturale, sociale, politico, economico, spirituale». Che siano monoteiste (c’è un solo Dio), enoetistiche o monolatriche (gli dèi sono tanti, ma solo uno è prevalente), secondo Della Luna le religioni hanno la stessa impostazione delle ideologie politiche totalitarie: fascismo, nazismo, comunismo, maoismo. «Infatti sono tutte “species” di quella fallacia illuministica, costruttivistica, che con Karl Popper possiamo chiamare “utopismo”, ingegneria sociale “olistica”». Vale a dire: il convincimento che, in base a una nuova teoria o scoperta o rivelazione, sia possibile e doveroso ristrutturare l’uomo e la società come si ristruttura una casa – basta un buon progetto, molta buona volontà, la giusta forza e fermezza, e tutto funzionerà per il meglio: si realizzerà un ordine perfetto che durerà fino alla fine dei tempi.Puntualmente, invece, ogni tentativo di quel genere «manca la meta prefissa e causa immense sofferenze, immense stragi e persecuzioni, immensi danni civili e materiali, prima di cadere o di trasformarsi in qualcos’altro», dal momento che «un corpo sociale non è una casa, non è un corpo inerte che si possa modificare a piacimento, ma un corpo vivente, e vivente secondo un ordine, una fisiologia, sviluppatisi lentamente nel corso della sua storia, cioè di secoli». Mentre le religiosità politeistiche «esprimono e sostengono questi equilibri organici e assettati, rispettosi perlopiù delle varie componenti etniche, culturali, cultuali e censuarie del corpo sociale», essendo quindi «religiosità mature, includenti», al contrario, le religioni monoteiste – sempre per Della Luna – sorgono tutte, storicamente, «come progetti monomaniacali, rivoluzionari, escludenti, olistici e utopistici nel predetto senso, aggravati dal fatto di essere prescritti da un dio (o da una ‘scienza’ sentita come verbo divino, come è il caso del mercatismo), quindi dall’essere indiscutibili». Per questo, inevitabilmente, «generano violenza, così come le ideologie totalitarie», non solo perché «devono eliminare la religione già esistente per sostituire ad essa il loro modello», ma anche perché «promettono la soluzione rapida dei problemi esistenziali – la morte, il senso della vita, la giustizia».La religione usa la violenza per affermarsi, dice Della Luna, ma poi continua a usare la violenza anche per nascondere il fatto di non essere riuscita a mantenere le sue promesse: «Recentemente si è visto il fallimento pratico del governo dei Fratelli Musulmani in Egitto». I devoti sono scossi da onde di frustrazione: non potendo le religioni riconoscere il loro fallimento, questa frustrazione «deve essere scaricata all’esterno, affinché non crei lacerazione interna o dubbi – deve essere scaricata, cioè, su un capro espiatorio, che può essere interno (gli eretici) oppure esterno (gli infedeli, chi non si converte alla nuova religione): tutti questi capri espiatori vanno uccisi per volere di Dio». I primi cristiani, come si legge nel Nuovo Testamento, si aspettavano «il ritorno in gloria e potenza del Redentore entro pochi anni», letteralmente: prima che l’ultimo dei viventi al tempo di Gesù fosse morto. La tempistica è stata allungata e infine «proiettata su un orizzonte indefinito, solo poiché questa predizione non si avverava». Similmente, aggiunge Della Luna, i Testimoni di Geova «predicevano il Giudizio per il 1914, ma poi ovviamente hanno dovuto cambiare le loro pubblicazioni».L’islamismo è propriamente monoteista, annota Della Luna, perché afferma l’esistenza di un unico essere di natura divina – onnipotente, onnisciente, eterno, creatore di tutti gli altri esseri. «Le altre religioni non sono monoteiste». L’atonismo era monolatrico, ossia «tributava culto a un unico dio, pur ammettendo l’esistenza di altri dei». Il mazdeismo crede in due dei: Ahura Mazda, il bene, e Arei Manyu (Ahriman), il Male. Anche il giudaismo, dice Della Luna – presentando il libro di Nicola Bizzi “Ipazia di Alessandria e l’enigma di Santa Caterina” (Aurora Boreale, 2018) – riconosce una pluralità di Elohim (parola di origine ignota, che noi traduciamo impropriamente come “dei”), di cui Jahvè è uno (gli altri sono Milkom, Kamosh, Baal Peor, El Elion). Inoltre, aggiunge Della Luna, nella Bibbia questi Elohim vengono descritti come esseri tangibili, materiali, simili agli dei greci e romani, mentre nella cultura ebraica antica «non esistono nemmeno i concetti di ente immateriale, di eternità, di onnipotenza, di creazione dal nulla – concetti tipicamente greci». Quindi anche il giudaismo – che adora l’Elohim Jahvè in mezzo a tanti altri Elohim – potrebbe essere classificato come «monolotria politeistica».E il cristianesimo? «Parte come monoteismo, mai in seguito, col Concilio di Nicea, viene ad affermare esplicitamente l’unità della sostanza divina e la pluralità (trinità) delle persone di Dio. Poi, nei secoli, assorbe – soprattutto nella sua confessione cattolica – il vissuto devozionale della pluralità dell’esperienza e della manifestazione divina attraverso la creazione di un esercito di figure intermedie, dagli angeli ai santi alla Madre divina». Oggi fa notizia il radicalismo islamico jihadista coltivato dall’imperialismo occidentale per frantumare la regione petrolifera, mentre il giudaismo – che si impose con la violenza (la tribù di Gioacobbe che stermina i consenguinei, tutti discendenti di Abramo) si riberbera nell’Israele armato fino ai denti, in guerra perenne coi vicini. Lo stesso Nicola Bizzi afferma che il cristianesimo, dopo essersi imposto con la massima ferocia, in tempi recenti si è “civilizzato”, prendendo le distanze da quella stessa violenza che aveva praticato per 17 secoli. Il cristianesimo moderno, secolarizzato e non più politicamente al potere, è stato «ridimensionato dalla critica epistemologica, storica, filologica». La frustrazione per la sua mancata promessa «è stemperata dallo stesso stemperarsi, assieme al senso del divino, dell’aspettativa di quella soluzione». Quel che ne resta si scarica perlopiù all’interno: il credente viene educato a imputare a se stesso – peccatore – la causa del malandare delle cose. «Quindi è ora facile per questa religione far dimenticare, presso le masse non istruite, il suo prevalente passato», cioè un millennio e mezzo di potere violento e totalitario.(Il libro: Nicola Bizzi, “Ipazia di Alessandria e l’enigma di Santa Caterina”, Aurola Boreale, 162 pagine, 15 euro).Tutti i monoteismi religiosi, come i totalitarismi ideologici, storicamente sono stati processi rivoluzionari, intolleranti e illiberali, che mediante violenze, persecuzioni e propaganda hanno cercato di cancellare la cultura, i valori e i “mores” delle civiltà in cui prendevano il potere. Lo sostiene Marco Della Luna, avvocato e saggista, autore di analisi acute sul rapporto tra dominanti e dominati, anche nell’Europa di oggi. Sul suo blog, esplorando le forme di dominio dell’umanità sulla scorta dell’ultimo libro di Nicola Bizzi, “Ipazia di Alessandria e l’enigma di Santa Caterina”, Della Luna invita a considerare la storia oggettiva delle varie religioni monoteiste, ma anche enoteiste o monolatriche: atonismo (il culto solare di Amenhotep IV alias Ekhnaton), giudaismo, mazdeismo, cristianesimo e islamismo. «Se guardiamo in particolare a ciò che esse hanno fatto ogniqualvolta hanno scalato e preso il potere – scrive Della Luna – troviamo che ciascuna di esse non solo crede, monomaniacalmente, di essere l’unica detentrice della verità, ma anche ha cercato di realizzare un nuovo uomo, una nuova società, un nuovo ordinamento giuridico». Hanno cioè proceduto «cancellando il preesistente» (demonizzando, perseguitando, travisando) e «imponendo un pensiero e una verità unica, un unico modo di esperienza spirituale». Identica la promessa: il nuovo “verbo” risolverà tutti i mali, essendo la religione l’unica detentrice del bene (e chi la contesta, ovviamente, è un eretico).
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Scie chimiche? Il generale Mini: si decidano a spiegarle
Scie chimiche? «I cittadini pretendano un’inchiesta precisa, rigorosamente scientifica, per chiarire una volta per tutte la natura di un fenomeno ormai vistoso: cieli velati da centinaia di scie bianche rilasciate dagli aerei». Lo afferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Kfor in Kosovo, interpellato da Fabio Frabetti a “Border Nights”. Tema dell’intervista: clima “impazzito” e manipolato, sperimentazioni clandestine in corso, nuove armi segrete di distruzione di massa. Mentre l’attualità italiana propone eventi meteorologici di inaudita, devastante potenza – la distruzione delle foreste nelle Dolomiti, sradicate da trombe d’aria – da più parti ci si domanda se vi sia un nesso tra l’apocalisse del clima e il recente spettacolo dei cieli quotidianemente “sporcati” dai voli di linea. «Trovo inaccettabile e sospetto – dichiara Mini – l’atteggiamento di chi stronca in partenza queste voci, deridendo chi paventa una eventuale irrorazione dei cieli». Non è ammissibile, sottolinea Mini, che l’argomento venga sempre liquidato senza spiegazioni, facendo passare per pazzi visionari i cittadini preoccupati per la comparsa di quelle scie nel cielo. Ribadisce: è giusto pretendere spiegazioni finalmente esaurienti, da parte dei militari (a cominciare dall’aeronautica) e dagli stessi politici che hanno responsabilità di governo. E’ giunto il momento di chiarire cosa sta succedendo, lassù.Lo stesso Mini, che peraltro precisa di non disporre delle necessarie competenze tecnico-scientifiche in materia, dichiara di non credere alla “teoria della cospirazione”, secondo cui saremmo oggetto di una sorta di infernale esperimento progettato per nuocere deliberamente alla nostra salute e a quella dell’ambiente. Recente la denuncia di un ex operatore aeroportuale di Milano Malpensa, Enrico Gianini, che parla di aerei che una volta a terra perdono liquidi inquinati da metalli pesanti. «Credo alla buona fede di Gianini», afferma Mini: «Non condivido la conclusione che lui trae, ma certamente ha visto qualcosa di strano». Il vero problema? Mancano le spiegazioni, per quelle scie nel cielo. Vietato lamentarsi, quindi, se si moltiplicano le domande. Fabio Mini è stato il primo, in ambito militare, a parlare apertamente di guerra climatica. Fonti ufficiali: Nazioni Unite e aeronautica Usa, autrice quest’ultima del dossier “Owning the wheather”, che – prima ancora del Duemila – annuncia che entro il 2025 sarà raggiunto il pieno controllo del clima, a scopo militare. «Siamo nel 2018, cioè a oltre metà strada: ed è certo che test sono in corso, perché i militari non esitano a sperimentarle, le nuove tecnologie, anche se non sono ancora mature: non lo erano neppure le atomiche sganciate sul Giappone nel 1945».E’ questione di intendersi, ribadisce Mini: oggi disponiamo certamente di potenti dispositivi in grado di determinare cambiamenti climatici. Vari paesi, come la Cina, ne parlano apertamente: i “rainmaker” cinesi utilizzano aerei, razzi e cannoni per “bombardare” le nubi con ioduro d’argento e aumentare l’intensità delle precipitazioni. Possibile che qualcosa del genere stia accadendo anche in Italia, là dove si registrano eventi catastrofici? Mini è prudente: siamo nel campo del possibile, certo, ma si tratta di un’ipotesi altamente improbabile. Anche perché non è facile maneggiare certe tecnologie in spazi ristretti e densamente popolati: gli effetti potrebbero rivelarsi pericolosamente imprevedibili. Inoltre, aggiunge il generale, è impossibile affrettare conclusioni: prima bisognerebbe analizzare con estrema precisione statistica anche la ciclicità naturale degli eventi atmosferici “estremi”. Anche per questo, insiste Mini, probabilmente non è il caso di prendere alla lettera lo scienziato del Cnr, Antonio Raschi, che a “Porta a porta” ha detto che «è in corso un esperimento planetario», riguardo alla modificazione del clima. Solo una frase infelice, come ammesso dallo stesso Raschi? Intervistato da Massimo Mazzucco, il tecnico si è anche dichiarato all’oscuro di un dossier scientifico dello stesso Cnr, che documenta “l’aviodispersione” di sostanze chimiche condotta già nel 1966, per incrementare le precipitazioni nell’Italia centrale, alla vigilia della disastrosa alluvione dell’Arno.Oggi la realtà è sotto gli occhi di tutti: si assiste a violentissime piogge tropicali, mentre a cedere in modo rovinoso è un territorio iper-cementificato o in stato di degrado a causa dell’incuria, in preda a un gravissimo deterioramento idrogeologico. Purtroppo, aggiunge Mini, a essere ormai oltre la soglia di sicurezza è il livello di manipolazioni che stiamo progressivamente infliggendo all’ecostema nel suo complesso. «Non c’è un grande complotto, secondo me, ma ci sono tantissimi complotti, piccoli e grandi, che stanno seriamente compromettendo la stabilità ecologica del pianeta». I militari? «Fanno certamente la loro parte, ma la “guerra climatica” non è che una delle tante, in corso: Usa, Russia e Cina stanno inseguendo la super-arma che dia loro la supremazia assoluta». E poi c’è l’arma quotidiana per eccellenza, l’informazione: «Persino il web è diventato uno strumento di divisione e di odio. E l’odio è frutto di manipolazione: stimolare l’odio è facilissimo». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Mettere le persone l’una contro l’altra», divide et impera. Aggiunge Mini: «Non ci vogliamo più bene, è venuto meno il rispetto per la dignità umana». Il movente? «L’avidità, la sete di denaro». Tutto il resto è valle, comprese le super-armi segrete e i misteri, forse “chimici”, dei nostri cieli. Vie d’uscita? Informarsi, protestare, pretendere spiegazioni.Scie chimiche? «I cittadini pretendano un’inchiesta precisa, rigorosamente scientifica, per chiarire una volta per tutte la natura di un fenomeno ormai vistoso: cieli velati da centinaia di scie bianche rilasciate dagli aerei». Lo afferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Kfor in Kosovo, interpellato da Fabio Frabetti a “Border Nights”. Tema dell’intervista: clima “impazzito” e manipolato, sperimentazioni clandestine in corso, nuove armi segrete di distruzione di massa. Mentre l’attualità italiana propone eventi meteorologici di inaudita, devastante potenza – la distruzione delle foreste nelle Dolomiti, sradicate da trombe d’aria – da più parti ci si domanda se vi sia un nesso tra l’apocalisse del clima e il recente spettacolo dei cieli quotidianamente “sporcati” dai voli di linea. «Trovo inaccettabile e sospetto – dichiara Mini – l’atteggiamento di chi stronca in partenza queste voci, deridendo chi paventa una eventuale irrorazione dei cieli». Non è ammissibile, sottolinea Mini, che l’argomento venga sempre liquidato senza spiegazioni, facendo passare per pazzi visionari i cittadini preoccupati per la comparsa di quelle scie nel cielo. Ribadisce: è giusto pretendere spiegazioni finalmente esaurienti, da parte dei militari (a cominciare dall’aeronautica) e dagli stessi politici che hanno responsabilità di governo. E’ giunto il momento di chiarire cosa sta succedendo, lassù.
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Strinati: Lillo Zucchetto, il “cacciatore” di mafiosi latitanti
«Poliziotto d’altri tempi, a caccia di delinquenti e scempi». Così il poeta Fabio Strinati celebra la memoria di Calogero Zucchetto, detto Lillo, ucciso dalla mafia che non gli ha perdonato l’impegno con cui braccava gli inafferrabili latitanti di Cosa Nostra, protetti dall’omertà generale nella Palermo dei primi anni ‘80. Aveva solo 27 anni, Zucchetto, quando – la sera di domenica 14 novembre 1982 – all’uscita dal bar Collica nell’elegante via Notarbartolo, in pieno centro, fu freddato con cinque colpi di pistola alla testa sparati da due killer in sella a una moto. Erano Pino Greco detto “Scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo: Lillo li aveva entrambi frequentati quando ancora non erano mafiosi. Zucchetto, ricorda Pietro Alongi nel suo blog, era uno degli uomini di fiducia di Ninni Cassarà, vicequestore aggiunto e vicecapo della squadra mobile di Palermo, a sua volta assassinato in un agguato mafioso, tre anni dopo. Era «un poliziotto della prima linea, da strada, di quelli veri che provano passione per il loro lavoro: di tasca sua si pagava la benzina e col suo Vespone andava a scovare e spiare i soldati e i boss di Cosa Nostra in quei luoghi per loro sicuri». Era affabile e simpatico. Infaticabile: non aveva orari. Ed era pronto a parlare con tutti per recuperare informazioni. Qualità che gli sono probabilmente costate la vita.Quella maledetta domenica Lillo Zucchetto era con un collega, Eugenio Franco Palumbo: avevano trascorso la giornata con le rispettive fidanzate, erano stati anche allo stadio a vedere la partita. Poi, congedate le ragazze, i due poliziotti decidono di proseguire la serata in discoteca, ma per lavoro: la loro specialità era tenere d’occhio i “picciotti” per risalire ai boss latitanti. Davanti al bar, la separazione momentanea: forse, ricorda il collega, prima di raggiungere la discoteca, Zucchetto contava di incontrare (da solo) qualche informatore. Il tempo di un panino e una birra, poi il poliziotto lascia il bar e viene crivellato di proiettili. «Ero a pochi isolati di distanza», ricorda Palumbo: «Ho sentito i colpi e sono accorso, ma ormai era tardi». Lillo Zucchetto era a terra. Nel cranio, cinque pallottole calibro 38. In capo a qualche mese si sarebbe dovuto sposare. Tristemente celebri i suoi killer, esponenti di rilievo della famiglia mafiosa di Ciaculli, frazione del comune di Palermo “famosa” per la spietata abilità nell’uccidere. Uno dei due, Giuseppe Greco, su proposta di Totò Riina venne nominato capomandamento di Ciaculli: a lui sono attribuiti 58 omicidi tra cui quelli del magistrato Rocco Chinnici, del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, dell’onorevole Pio La Torre e del boss mafioso Stefano Bontade.Mandanti dell’omicidio Zucchetto: lo stesso Riina, insieme a Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci e altri esponenti della “cupola” di Cosa Nostra. Perché “doveva” morire, Lillo Zucchetto? Si occupava di mafia e, in particolare, collaborava alla ricerca dei latitanti, allora molto numerosi. Con Cassarà collaborò alla stesura del cosiddetto “rapporto Greco Michele + 161”, che tracciava un quadro della guerra di mafia iniziata nel 1981 e dei nuovi assetti delle cosche, segnalando in particolare l’ascesa del clan dei Corleonesi (Liggio, Riina e Provenzano). Riuscì a entrare in contatto anche con il pentito Totuccio Contorno, che si rese molto utile con le sue confessioni per la redazione del “rapporto dei 162”. Sempre con il commissario Cassarà, Zucchetto andava in giro in motorino per i vicoli di Palermo e in particolare per quelli della borgata periferica di Ciaculli, che conosceva bene, a caccia di ricercati. In uno di questi giri, con Cassarà, incontrò due killer al servizio dei corleonesi: erano Greco e Prestifilippo, gli stessi che poi lo avrebbero ucciso. Pochi giorni prima di morire, all’inizio di novembre del 1982, dopo una settimana di appostamenti tra gli agrumeti di Ciaculli, Zucchetto riconobbe il latitante Salvatore Montalto, boss di Villabate. Essendo solo e non avendo mezzi per arrestarlo, Lillo rinunciò alla cattura (avvenuta poi il 7 novembre con un blitz dello stesso Cassarà). Di seguito, la commossa rievocazione poetica con cui Strinati – su Libreidee – ricorda il giovane poliziotto ucciso.A CALOGERO ZUCCHETTOAnima dal valore immenso,gli occhi accesi sul mondoe quel doloroso vento tra i vicolidi Palermo insanguinati,che ti hannosottratto giovine gioviale sguardoe aperto al cielo, uno squarcio oleoso,profondo e sventurato.Poliziotto d’altri tempi,a caccia di delinquenti e scempispento troppo prestoda tuono mafioso, e un accidiosolampo caduto sopra il tuo corpo esile,che riecheggia ( rumoroso ) ancor nel ventoquel suono oscuro, nefasto e miserabile.(Fabio Strinati)Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista “Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Laura Margherita Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).«Poliziotto d’altri tempi, a caccia di delinquenti e scempi». Così il poeta Fabio Strinati celebra la memoria di Calogero Zucchetto, detto Lillo, ucciso dalla mafia che non gli ha perdonato l’impegno con cui braccava gli inafferrabili latitanti di Cosa Nostra, protetti dall’omertà generale nella Palermo dei primi anni ‘80. Aveva solo 27 anni, Zucchetto, quando – la sera di domenica 14 novembre 1982 – all’uscita dal bar Collica nell’elegante via Notarbartolo, in pieno centro, fu freddato con cinque colpi di pistola alla testa sparati da due killer in sella a una moto. Erano Pino Greco detto “Scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo: Lillo li aveva entrambi frequentati quando ancora non erano mafiosi. Zucchetto, ricorda Pietro Alongi nel suo blog, era uno degli uomini di fiducia di Ninni Cassarà, vicequestore aggiunto e vicecapo della squadra mobile di Palermo, a sua volta assassinato in un agguato mafioso, tre anni dopo. Era «un poliziotto della prima linea, da strada, di quelli veri che provano passione per il loro lavoro: di tasca sua si pagava la benzina e col suo Vespone andava a scovare e spiare i soldati e i boss di Cosa Nostra in quei luoghi per loro sicuri». Era affabile e simpatico. Infaticabile: non aveva orari. Ed era pronto a parlare con tutti per recuperare informazioni. Qualità che gli sono probabilmente costate la vita.
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Popolo, non people: democratizzare il globalismo di Davos
Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».Migliorare la comprensione per pianificare il cambiamento. I risultati della ricerca sociale di orientamento costruttivista e psicoanalitico evidenziano come il comportamento umano sia guidato dai significati condivisi dell’esperienza sociale soggettiva (Blumer 1969, Mead 1934, Berger and Luckmann 1966, Moscovici 1961, Matte Blanco 1975, Carli 1993). Questa prospettiva di analisi dei fenomeni sociali può essere utilizzata per comprendere i fattori culturali alla base dell’azione politica ed economica delle élites globali, che ci ha portato all’attuale stato di crisi sociale, economica ed ambientale. La comprensione di questi significati, infatti, può consentire di identificare possibili efficaci strategie di intervento per indurre un cambiamento mirato dello status quo, orientato a sviluppare una maggiore democrazia nei processi di governance globale, una maggiore giustizia economico-sociale e qualità della vita, volte a rafforzare i processi di convivenza civile a livello globale. Questo tipo di conoscenza orientata all’intervento per il cambiamento, come evidenziato dalla recente letteratura di matrice psicosociologica (Carli e Paniccia 2002), può essere ottenuta attraverso l’analisi dei discorsi socialmente prodotti intorno a temi di rilevanza collettiva, come in questo caso quello della globalizzazione, considerabile come il comune orizzonte di senso (weltanschauung) che guida l’azione sociale nel mondo di oggi. Sulla base di questi presupposti, ho condotto un’analisi del discorso sulla globalizzazione del World Economic Forum.L’immagine della globalizzazione. La rappresentazione della globalizzazione nell’élite di Davos che emerge da questa ricerca non appare univoca e monolitica, ma piuttosto composta da quattro differenti dimensioni culturali corrispondenti ai raggruppamenti (cluster) di parole dense ottenuti attraverso l’analisi statistica dei testi in esame. La prima dimensione è caratterizzata dai seguenti elementi: una rappresentazione negativa dell’altro da sé come una massa anonima di persone che agisce esclusivamente sulla base di fattori emotivi, invece che razionali, sulla base di parole dense quali people e believe; la proposizione di tre principali frame simbolici per l’attribuzione di significato alle esperienze di vita nell’era della globalizzazione, espressi dalle parole dense world, time e growth; l’impatto concreto che la globalizzazione ha sulla vita delle persone e soprattutto su quella dei giovani (in relazione a parole dense quali impact e young people); una forma di pensiero basata sul determinismo genetico e una conoscenza pragmatica orientata a prendere possesso della realtà attraverso la tecnologia (sulla base di parole dense quali engineer, think, history, ready, accelerate, life, industry).La seconda dimensione ruota attorno ai seguenti tre aspetti: la speranza messianica nella dimensione della grandezza o grandiosità, espresse dalle parole dense big e hope, in relazione ad istituzioni finanziarie internazionali quali l’African Development Bank e l’International Monetary Fund); la dinamica di dipendenza che queste istituzioni istituiscono con i loro interlocutori, in funzione di un obbligo a pagare (in termini di “condizionalità” ed interessi per restituire i prestiti ricevuti) che appare quasi come un dono riparatore volto a placarne le possibili ritorsioni, rappresentate dalla minaccia dell’inflazione e dell’imposizione di condizioni di vita al limite della sopravvivenza (l’austerity), che tengono costantemente sotto pressione i paesi europei (in relazione a parole dense quali stress, European countries, inflation, growth, strong, pay, price, Greece, shock); il predominio del fattore economico nella definizione delle politiche pubbliche, secondo i dogmi del libero mercato e del vantaggio personale (relativi a parole dense come policy, interest, Gdp, economy).La terza dimensione è focalizzata sui seguenti cinque punti: il perseguimento del rafforzamento della capacità di fornire, investire e gestire budget e fondi (relativo a parole dense come strengthen, invest, budget, fund, manage, provide); una visione distorta della competizione, basata sulla ricerca di condizioni di privilegio per battere i propri concorrenti attraverso l’eliminazione di ogni costrizione alla propria espansione, quali ad esempio le tasse, vissute come un’imposizione autoritaria che limita la soddisfazione dei propri bisogni (legata alle parole dense competition, advantage, need, tax); la conseguente esigenza di sviluppare un ordine sociale basato su un’idea di libertà concepita come assenza di restrizioni alla continua espansione e sviluppo di potere delle élites, ai danni però dei suoi interlocutori, rappresentati ad esempio da lavoratori posti in condizioni di sempre maggiore precariato (espressa dalle parole dense freedom, forecast, rule, boost, employee); l’importanza chiave degli strumenti cognitivi riguardo a capacità come percepire, riconoscere, distinguere, scegliere e stabilire, nel perseguimento di questo ideale di successo (relativi alle parole dense know, crisis, solve).La quarta dimensione comprende i seguenti elementi fondamentali: il ruolo delle istituzioni finanziarie sovranazionali (esemplificate in questo caso dall’InterAmerican Development Bank Group) nella creazione di un nuovo tipo di colonialismo attraverso la pratica degli aiuti allo sviluppo, che di fatto si traduce in uno scambio tra la condizione di sicurezza (psicologica, oltre che economica) fornita ai paesi beneficiari (qui esemplificati dalla parola densa Latin America & Caribbean) mediante i finanziamenti e la graduale espropriazione del potere politico ed economico di questi ultimi, che li pone in una condizione di dipendenza e sudditanza (sempre psicologica, oltre che economica) nei confronti dei propri finanziatori (in relazione alle parole dense sure, respect, establish, make decisions, benefit); gli effetti di schemi di finanziamento innovativi, come l’impact investment, che pur essendo mirati a generare benefici sociali (insieme ai rendimenti finanziari), diventano di fatto un modo per impossessarsi degli ultimi campi di intervento pubblico restanti quali il welfare, la salute, l’istruzione e l’energia (relativi alle parole dense impact-investors, tool, investor, finance, impact-investing); la necessità di integrare i paesi beneficiari degli aiuti allo sviluppo nel mito di fare soldi nelle loro regioni, che però potrebbe anche essere letto come fare soldi delle/o attraverso le loro regioni (rispetto alle parole dense making money e Region); la tendenza ad interfacciarsi esclusivamente con l’élite imprenditoriale di questi paesi, quale strategia efficace per perseguire i propri obiettivi e tenersi al riparo dal rischio di crisi (espressa dalle parole dense vis à vis, Ceo, seek, approve, full, completely).La cultura dell’élite di Davos: tra pretesa e adempimento. La caratteristica centrale della cultura della globalizzazione dell’élite di Davos emersa da questa analisi è la carenza di democrazia nei processi decisionali, sia a livello relazionale che organizzativo. A livello relazionale, questo è espresso da specifici modelli di dinamiche intersoggettive emozionali e motivazionali. Le prime si caratterizzano per i seguenti elementi: la provocazione rappresentata dalla pretesa di imporre una visione dogmatica della realtà, il controllo dell’adempimento degli obblighi che ne derivano, la sfiducia verso l’altro da sé (per la sua connotazione negativa ed il rischio di mancato rimborso dei finanziamenti ricevuti), la preoccupazione e la lamentela contro i limiti. Queste dinamiche emozionali rivelano un approccio alle relazioni sociali orientate al possesso dell’altro piuttosto che a uno scambio produttivo e creativo con lui, che può essere letto come espressione della paura nei confronti dell’altro e della sua ignota imprevedibilità, derivante dalla sua rappresentazione come nemico. Ciò porta alla tendenza di tentare di trasformare l’altro sconosciuto in un amico noto, dato per scontato e assimilato alle proprie categorie, nel tentativo di eliminare la sua imprevedibilità ed il rischio delle sue possibili manifestazioni di ostilità.Ciò, tuttavia, implica inevitabilmente la negazione delle differenze e la perdita delle opportunità che esse offrono. Lo schema motivazionale risulta caratterizzato dalla prevalenza del bisogno di potere come motivazione sociale dominante, articolata in tre dimensioni: un modello gerarchico che contrappone l’élite ai suoi interlocutori, la dimensione di grandiosità a chi spera in essa, gli amministratori delegati ai lavoratori, i finanziatori ai beneficiari dei finanziamenti; una dinamica polarizzata di appartenenza/esclusione dal sistema di potere, basata sulla dipendenza affettiva verso l’altro (espressione del bisogno motivazionale di affiliazione nel modello di Mc Clelland), indotta dalla logica del sostegno finanziario ai programmi di sviluppo; ed una dinamica manipolativa basata sulla contrapposizione tra apparenza e realtà, come evidenziato dal contrasto tra l’immagine positiva delle politiche di assistenza allo sviluppo e l’espropriazione del potere politico ed economico locale prodotto dalla sua logica esclusivamente finanziaria.Per quanto riguarda il livello organizzativo, la carenza di democrazia è espressa da una concezione dogmatica e aprioristica delle istituzioni finanziarie internazionali, radicata in una dimensione mitica che le fa percepire come immutabili e poco inclini al cambiamento e al miglioramento. Il funzionamento di queste organizzazioni appare infatti basato quasi esclusivamente su un mandato sociale legato al rispetto di sistemi di valori socialmente fondati, conformi ai loro fini, e su una funzione sostitutiva nella fornitura dei loro servizi (aiuto allo sviluppo e gestione delle crisi del debito sovrano), legata alla dimensione fortemente tecnocratica che le caratterizza, in virtù della quale i tecnici (gli esperti) si sostituiscono agli utenti dei loro servizi, espropriandoli del loro potere decisionale. In tal modo, queste organizzazioni operano senza una vera committenza da parte dei loro beneficiari e quindi non rispondono né sembrano ritenersi responsabili delle esigenze, aspettative e obiettivi di questi ultimi, né dell’efficacia dei servizi ad essi forniti.Cosa è possibile fare per cambiare questo stato di cose? Sulla base di queste considerazioni, possono essere ipotizzate diverse strategie di intervento per mutare lo scenario sin qui evidenziato. L’implementazione di queste strategie richiede tuttavia un coinvolgimento attivo e responsabile di tutti gli interlocutori delle élites globali. L’obiettivo principale legato alla dimensione relazionale concerne la definizione e la messa in atto, in maniera partecipativa, di nuove regole di gioco per la convivenza sociale che consentano di contenere le possibili manifestazioni di ostilità entro la relazione tra sistemi di appartenenza e l’ignota alterità dell’estraneo. Questo richiede di configurare l’altro non più come nemico o amico noto, ma come amico sconosciuto, da conoscere in una relazione di scambio reciproco, producendo creativamente insieme per il bene comune. Questo modello di relazioni sociali permette di liberare il proprio potere creativo (potere del fare), evitando il rischio di trasformare la propria eventuale impotenza creativa e produttiva in forme di potere su qualcuno o qualcosa (inteso come una forma di possesso).Per quanto riguarda la motivazione al potere, il passaggio da un modello relazionale basato sul potere sull’altro a quello caratterizzato dallo scambio produttivo con lui, consente di aggirare il modello gerarchico di relazione, dirigendo l’attenzione su obiettivi e prodotti del rapporto con l’altro e sullo sviluppo delle competenze necessarie per perseguirli in modo efficace. Di conseguenza, anche la dinamica dell’appartenenza, radicata nelle emozioni del potere e dell’appartenenza, può cambiare, passando dal modello del possesso dell’altro a quello dello scambio con l’altro. In tal modo, superando il possesso dell’altro come espressione dominante del potere, si possono anche contrastare le forme manipolative del potere (come le attuali forme di assistenza allo sviluppo che portano all’esproprio del potere locale), poiché il potere viene indirizzato verso una più creativa costruzione del bene comune. A livello organizzativo, l’obiettivo principale del miglioramento riguarda il passaggio da una logica di azione basata sull’adempimento ad una orientata ad obiettivi e prodotti concordati, considerati come mezzi di verifica dell’efficacia dell’azione sociale. Ciò consentirebbe di passare da una modalità organizzativa interamente basata sulla legittimazione sociale ad una guidata dalla committenza di prodotti e servizi verificabili da parte dei loro destinatari, in base alle loro esigenze e ai loro obiettivi.Di conseguenza, i destinatari potrebbero aumentare il loro ruolo attivo nella relazione con la funzione tecnica, che quindi potrebbe essere orientata ad integrare il loro potere decisionale, facilitando lo sviluppo delle loro competenze nel raggiungimento autonomo dei propri obiettivi. Questo richiede la messa in discussione, in modo sempre più dialettico e argomentativo, del dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite e di lavorare sulla definizione e l’attuazione di ipotesi e modelli alternativi, ad esempio volti a re-inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto da Polanyi (1944) e Granovetter (1985). Per promuovere questo processo di cambiamento della cultura organizzativa dell’élite di Davos, è necessario, ad esempio, che i beneficiari delle istituzioni finanziarie internazionali cambino il loro atteggiamento nei confronti di queste organizzazioni, proponendosi come committenti che richiedono loro servizi, sulla base di specifiche esigenze, obiettivi e prodotti attesi. Questi ultimi rappresentano, infatti, i mezzi di verifica per valutare l’efficacia di queste organizzazioni nel realizzare gli obiettivi proposti e promuovere il cambiamento ed il miglioramento delle loro modalità di funzionamento.La precondizione per procedere efficacemente in questa direzione è il cambiamento dell’immagine sociale degli interlocutori dell’élite, superando la connotazione negativa ad essi attribuita dall’élite con la parola densa people, (etimologicamente riconducibile all’idea della classe infima della popolazione), attraverso il recupero del senso della parola greca démos, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici di governo (in termini sia di democrazia partecipativa che rappresentativa), in una prospettiva di costruzione collettiva e condivisa del futuro comune. Ciò comporta il recupero del senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa. Il perseguimento di questo processo di trasformazione culturale richiede lo sviluppo di competenze specifiche, orientate allo sviluppo di una cittadinanza attiva e consapevole; il che può diventare anche l’obiettivo e il prodotto su cui ricostruire il senso dello scopo sociale dell’educazione pubblica e della sua efficacia produttiva.(Mario D’Andreta, “L’immagine della globalizzazione dell’élite di Davos: conoscere per intervenire”, da “Libreidee” del ….. . Nel suo blog, D’Andreta propone alcune riflessioni intorno ai temi della convivenza sociale, dello sviluppo locale, della globalizzazione, del benessere psicosociale e di ecologia acustica. Può essere contattato alla mail mario.dandreta@libero.it).https://mariodandreta.net/Riferimenti bibliografici per lo studio su Davos:Berger, P. L. and T. Luckmann (1966), The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City, NY: Anchor BooksBlumer, Herbert. (1969), Symbolic Interactionism; Perspective and Method. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall Print.Carli, R. (1993) (a cura di), L’analisi della domanda in psicologia clinica, Giuffré, MilanoCarli, R., & Paniccia, R. M. (2002). L’Analisi Emozionale del Testo. Milano: Franco Angeli.Granovetter, M. (1985). Economic Action and Social Structure: The Problem of Embeddedness. American Journal of Sociology. 91 (3): 481–510.Matte Blanco, I. (1975) The Unconscious as Infinite Sets. London: KarmacMcClelland, D.C. (1987). Human motivation. New York: University of CambridgeMead, George H. (1934). Mind, Self, and Society. The University of Chicago PressMoscovici, S. (1961). La psychanalyse, son image et son public. Paris: Presses Universitaires de France.Polanyi, K. (1944). The Great Transformation. New York: Farrar & RinehartTransnational Institute (2015), Who are the Davos class? Disponibile all’indirizzo http://davosclass.tni.org, ultimo accesso dicembre 2015Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».
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Alterazione del clima: è in corso un esperimento planetario
Il cielo è a strisce: tutti lo vedono, ma nessuno ne prende atto. Come si può pretendere che le istituzioni si decidano a spiegare in modo finalmente convincente un fenomeno palesemente negato, benché sia sotto gli occhi di tutti? Così Massimo Mazzucco commenta, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, l’impacciata retromarcia di Antonio Raschi, direttore dell’istituto di biometeorologia del Cnr, dopo la clamorosa sortita – in diretta – alla trasmissione “Porta a porta”, di Bruno Vespa. «Siamo al centro di un esperimento planetario», aveva detto Raschi, su Rai Uno, il 6 novembre: «Un esperimento di cambiamento del clima, del quale non sappiamo ancora quali saranno gli effetti nel lungo periodo». Tema della trasmissione: lo tsunami-maltempo sull’Italia. Possibile che la catastrofe abbattutasi sul Nord-Est sia stata causata da manipolazioni climatiche? Raggiunto al telefono da Mazzucco, come riportato in una video-sintesi su “Luogo Comune”, Raschi fa dietrofront: sostiene di esser stato frainteso. E’ vero, ha pronunciato il termine “esperimento”, ma in realtà voleva semplicemente dire: scontiamo le conseguenze del surriscaldamento terrestre, al quale contribuiscono le irresponsabili emissioni di gas serra. In altre parole, un “esperimento” miope e autolesionistico.Un tempo, commenta Gianfranco Carpeoro sempre in web-streaming con Frabetti, gli addetti ai lavori erano più accorti: non si sarebbero mai lasciati scappare una frase del genere. Nella telefonata con Mazzucco – alla quale Raschi si è cortesemente prestato – il climatologo del Cnr spiega che l’unico precedente italiano, per un disastro così apocalittico, riguarda l’alluvione dell’Arno del 1966, preceduta da piogge altrettanto anomale. In proposito, Mazzucco ha scovato una ricerca scientifica ufficiale, da cui risulta che proprio nel fatale 1966 furono condotti esperimenti di “cloud seeding”, cioè di “inseminazione” delle nubi con agenti chimici. Titolo dello studio, in inglese: “A Biennal Systematic Test of some Newly-Developed Cloud-Seeding Nucleants, under Orographic Conditions”. Tre ricercatori – Alberto Montefinale, Gianna Petriconi e Henry Papee – spiegano che, dal gennaio del ‘66 al giugno del ‘68, è stato condotto un “test sistematico” di sollecitazione delle nuvole sui Colli Prenestini, a est di Roma. Obiettivo: provocare l’aumento delle precipitazioni mediante “dispersione di aerosol”, nel cielo. «Su questo non so niente», taglia corto il dirigente del Cnr, che preferisce parlare di impatto industriale sul “climate change”.Esperimento planetario? Dopo quella frase «forse incauta» pronunciata in televisione, Raschi si schermisce: «Sto ricevendo complimenti dai complottisti e insulti da chi complottista non è: credetemi, è una situazione infame». Al telefono con Mazzucco, il dirigente del Cnr prova a rettificare: «Ci stiamo comportando come delle persone che hanno detto: facciamo un esperimento su noi stessi, inquiniamo l’atmosfera e vediamo che cosa succede. Come se noi, coscientemente, ci fossimo trasformati volontariamente in cavie di un esperimento». Questo, sostiene Raschi, è il senso che voleva dare alle sue parole. «La frase “esperimento planetario” l’ho sentita pronunciare da colleghi in questo senso, non nel senso che qualcuno ci farebbe le scie chimiche». Sulle “nubi” rilasciate dagli aerei, Raschi dichiara di avere una sua «percezione», ovvero: immagina che «la teoria delle scie chimiche sia un qualche cosa che distrae molto dal vero problema, che è l’emissione dei gas serra». Dati ormai accertati, com’è noto: temperature molto al di sopra della media. E’ vero, il bilancio del carbonio a livello globale non è totalmente noto. Ma tutti i gas serra che emettiamo restano nell’atmosfera. Combustibili fossili, emissioni di metano incrementate dagli allevamenti zootecnici: non si può negare la presenza in atmosfera di questi gas. E fin qui, tutto bene. Ma le scie nel cielo?«Per molti, le irrorazioni chimiche sono palesi», sottolinea Mazzucco. «Ed è chiaro che un’argomentazione valida c’è, a favore delle cosiddette scie chimiche, non essendoci una spiegazione valida per la loro permanenza in quota». Le strisce nei cieli di oggi, infatti, «si allargano progressivamante e non spariscono, come invece dovrebbero fare le normali scie di condensa». Raschi rifiuta categoricamente l’ipotesi dell’irrorazione: «La ricerca la si fa coi numeri», premette. «Possibile che tutte queste persone, che credono che nelle scie chimiche ci sia chissà che cosa, non siano in grado di andare a fare delle misure? E poi cosa ci sarebbe, nelle scie chimiche? Quali prodotti? Bombole di anidride carbonica a bordo degli arei? Ma no, è una cosa strampalata – campata in aria, letteralmente». Aggiunge: «Mi cospargerò il capo di cenere e sarò il primo a dire che è vero, ci sono le scie chimiche, quando qualcuno esibirà dei dati, dimostrando di aver effettuato delle analisi».Il problema però nasce dall’osservazione, insiste Mazzucco: è chiaro che viene colta dal dubbio una persona normale (non un esperto, non un chimico) quando vede scie di condensa che si dissolvono in 2-3 minuti e altre scie che invece non svaniscono, ma anzi si allargano nel cielo, permangono per tutto il giorno e si fondono ad altre scie analoghe. Quindi, replica Raschi, ci sarebbero dei prodotti chimici che causano questo? E quali sarebbero? «Appunto», dice Mazzucco: «Qualcosa di chimico che lo causa ci dev’essere, nel carburante degli aerei». Ma Raschi scarta l’ipotesi. «Io penso che sia unicamente un fenomeno di fisica dell’atmosfera», afferma. «L’idea del complotto è molto divertente, finché non lo si può provare». Ma lui ce l’ha, una spiegazione per la permanenza di quelle scie? «Non sono un fisico, quindi non lo so», dichiara Raschi. «Però – aggiunge – credo che qualsiasi fisico che si occupa della diffusione dei gas in atmosfera sia in grado di dare una spiegazione». E conclude: «Io una spiegazione non la so dare, ma non penso proprio che ci siano delle sostenze chimiche che causano il permanere di queste masse di vapore acqueo».«Avete capito? Il dottor Raschi – chiosa Mazzucco – è direttore dell’Istituto di biometeorologia del Cnr. Ma lui non è un fisico, e quindi non è in grado di spiegare la persistenza delle scie che vediamo quotidianamente nei nostri cieli. O forse la spiegazione la conosce fin troppo bene, ma non è autorizzato a rivelarla». Raschi cita l’alluvione dell’Arno, ma dichiara di non sapere nulla dei test di aviodispersione condotti in quei mesi, sempre nell’Italia centrale, per aumentare le precipitazioni. La discussione sulle scie chimiche fa cadere le braccia, dice Mazzucco conversando con Frabetti: «Come si può affrontare seriamente il discorso se siamo ancora al punto in cui si nega l’esistenza del fenomeno? E’ come per gli Ufo: avvistamenti anche militari di oggetti certamente non terrestri, almeno fino agli anni ‘80, ma allora risolutamente negati». Un muro di gomma: «Impensabile che la storia delle scie possa essere chiarita per via giudiziaria da singoli magistrati». Cosa sono, in realtà, quelle scie? «Non lo sappiamo», ammette Mazzucco. In teoria, «dietro al fenomeno potrebbe esserci di tutto: dalla geoingegneria “buona”, progettata per proteggerci dal surriscaldamento climatico, fino a test per la dispersione di agenti tossici. Nessuno spiega niente, e così le domande si moltiplicano. E il colmo è che il Cnr inviti quelli come me a fare analisi chimiche».Il cielo è a strisce: tutti lo vedono, ma nessuno ne prende atto. Come si può pretendere che le istituzioni si decidano a spiegare in modo finalmente convincente un fenomeno palesemente negato, benché sia sotto gli occhi di tutti? Così Massimo Mazzucco commenta, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, l’impacciata retromarcia di Antonio Raschi, direttore dell’istituto di biometeorologia del Cnr, dopo la clamorosa sortita – in diretta – alla trasmissione “Porta a porta”, di Bruno Vespa. «Siamo al centro di un esperimento planetario», aveva detto Raschi, su Rai Uno, il 6 novembre: «Un esperimento di cambiamento del clima, del quale non sappiamo ancora quali saranno gli effetti nel lungo periodo». Tema della trasmissione: lo tsunami-maltempo sull’Italia. Possibile che la catastrofe abbattutasi sul Nord-Est sia stata causata da manipolazioni climatiche? Raggiunto al telefono da Mazzucco, come riportato in una video-sintesi su “Luogo Comune”, Raschi fa dietrofront: sostiene di esser stato frainteso. E’ vero, ha pronunciato il termine “esperimento”, ma in realtà voleva semplicemente dire: scontiamo le conseguenze del surriscaldamento terrestre, al quale contribuiscono le irresponsabili emissioni di gas serra. In altre parole, un “esperimento” miope e autolesionistico.