Archivio del Tag ‘Sardegna’
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Scie chimiche, persino Grillo minimizza (come i nuovi troll)
«La causa delle scie chimiche sono gli aeroplani col motore Volkswagen» (Beppe Grillo, 24/9/2015). Assolutamente non richiesto, Beppe Grillo ci dà un esempio di come opera la disinformazione di regime: prendere un tema drammatico, anzi disumano, e normalizzarlo inserendolo in un contesto comico. Per chi ancora avesse dei dubbi sulla reale gestione/funzione del M5S (opposizione con-trollata), a dispetto dell’onestà e dell’impegno della grande maggioranza degli iscritti e dei votanti, compreso chi scrive. Se solo volesse, Grillo potrebbe sfruttare la sua esposizione mediatica internazionale per denunciare pubblicamente questo crimine contro l’umanità e fare i nomi dei responsabili, invece di normalizzarlo con battute di (dubbio) spirito. Basterebbe un video di 10 minuti, ma non lo farà mai, perché i responsabili sono gli stessi che lo hanno messo dov’è ora. Colgo l’occasione per ricordare che molti troll in rete usano la vicinanza al M5S per ottenere una sorta di “patente di credibilità”, uno schermo dietro cui nascondersi per esercitare al meglio la loro “mission”.Ultimamente sto notando lo stesso schema di like/appartenenza a gruppi “misti” (pro e contro geoingegneria) di un certo tipo di troll, il “finto possibilista”, che interviene nei gruppi con post “descrittivi” senza foto, al massimo una decina di righe che spesso culminano in una domanda, apparentemente sensata ma in realtà mirata a distogliere l’attenzione dai veri scopi delle scie chimiche (per quanto mi riguarda, l’obiettivo principale è il controllo mentale / comportamentale / umorale delle persone attraverso le nanotecnologie). Sono ormai più di due anni che quotidianamente studio la geoingegneria da diversi punti di vista; negli ultimi mesi su richiesta di un caro amico sono diventato co-amministratore di un gruppo a tema, e ho potuto così approfondire le tecniche di disinformazione dei vari gruppi di trollaggio: provenienza geografica e ideologica, strategie di intervento e di like tra di loro, format dei commenti, pagine “strategiche” cui fanno riferimento, apparati statali che li proteggono.Essere “admin” mi ha dato modo di notare anche le ondate di iscrizioni dei troll, da chi vengono invitati e soprattutto da chi vengono prontamente (almeno fino al mio arrivo) accettati, che nel caso del mio gruppo è sempre la stessa persona. Ho cominciato a studiare quindi i meccanismi di iscrizione anche negli altri gruppi cui partecipo, e la conclusione è che molti di questi 100 gruppi sono infiltrati per quasi la metà del numero di iscritti. A volte metto dei “post esca”, o commenti esca, per stanare questi delinquenti, che infatti nel tempo si palesano per quello che sono e la mission che devono compiere. Soprattutto mi sono reso conto che i troll ricevono dei veri e propri input a livello internazionale (sono iscritto anche in diversi gruppi stranieri), quindi all’improvviso e dal nulla ci troveremo con lo stesso articolo-bufala (magari di un anno prima) spammato in tutti i gruppi e con gli stessi commenti sotto… tradotti in tutte le lingue. Ciò è davvero allucinante, perché prevede una regia internazionale solidissima e molto molto intelligente, più una struttura organizzativa capillare che arriva fin nei gangli minimi della nostra società.Il grosso del lavoro “sporco” viene fatto da giovani reclutati all’interno delle facoltà tecnico-scientifiche delle università, cooptati da professori-baroni legati alla massoneria internazionale. Ci sono poi i troll di provenienza “politica”, foraggiati cioè sempre dallo Stato ma passando per la mangiatoia dei partiti: i piddini, quelli di destra, e quelli che appunto usano lo schermo del Movimento 5 Stelle per dotarsi di una “patente” di credibilità… Altro criterio di distinzione dei troll è quello geografico: due zone in particolare (guardacaso fortemente condizionate dalla presenza della Nato) costituiscono un serbatoio di addetti alla disinformazione: Friuli-Veneto e Sardegna: in queste regioni la corrente “nera” e indipendentista storicamente si è legata ai servizi segreti e oggi viene telecomandata ai fini dell’occultamento della verità, della manipolazione anche emotiva dei lettori con tecniche di Pnl, e addirittura dell’intimidazione nei confronti degli attivisti genuini.Per tutti questi motivi, il ruolo dell’admin nei nostri gruppi è importantissimo… basterebbe riflettere sul fatto che “loro” spendono milioni per contrastare la nostra presa di coscienza e iniziativa, e se non fosse così importante non lo farebbero. E’ fondamentale che nei gruppi italiani di riferimento ci sia la capacità di resistere ai tentativi di infiltrazione e di sottile manipolazione mentale che ultimamente stanno aumentando a ritmo esponenziale, e questo è possibile perché appunto diversi membri (e a volte “admin”) finti attivisti “ad orologeria” stanno scoppiando, e mandando in confusione / sfiducia decine di persone che per anni li hanno seguiti ciecamente, certi della loro buona fede.(Mario Quaranta, “Grillo, le scie chimiche e i nuovi troll”, dalla pagina Facebok di Mario Quaranta, post aggiornato il 28 settembre 2015. Ricercatore indipendente, Quaranta ha partecipato alla puntata della trasmissione web-radio “Border Nights” del 7 ottobre 2015).«La causa delle scie chimiche sono gli aeroplani col motore Volkswagen» (Beppe Grillo, 24/9/2015). Assolutamente non richiesto, Beppe Grillo ci dà un esempio di come opera la disinformazione di regime: prendere un tema drammatico, anzi disumano, e normalizzarlo inserendolo in un contesto comico. Per chi ancora avesse dei dubbi sulla reale gestione/funzione del M5S (opposizione con-trollata), a dispetto dell’onestà e dell’impegno della grande maggioranza degli iscritti e dei votanti, compreso chi scrive. Se solo volesse, Grillo potrebbe sfruttare la sua esposizione mediatica internazionale per denunciare pubblicamente questo crimine contro l’umanità e fare i nomi dei responsabili, invece di normalizzarlo con battute di (dubbio) spirito. Basterebbe un video di 10 minuti, ma non lo farà mai, perché i responsabili sono gli stessi che lo hanno messo dov’è ora. Colgo l’occasione per ricordare che molti troll in rete usano la vicinanza al M5S per ottenere una sorta di “patente di credibilità”, uno schermo dietro cui nascondersi per esercitare al meglio la loro “mission”.
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Aerei-fantasma, la Puglia capitale europea dei droni
Il governo italiano candida la base aerea di Amendola, Foggia, quale sede per la formazione dei militari di tutta Europa nella gestione degli aerei senza pilota. «L’Italia è pronta a rendere disponibili le esperienze maturate e le infrastrutture tecniche ed addestrative realizzate per costruire insieme una soluzione europea nel settore dei droni», spiega Roberta Pinotti, ministro della difesa. Obiettivo: «Costituire in Italia la prima scuola di volo europea per aeromobili a pilotaggio remoto». Nel campo dei droni, osserva Antonio Mazzeo, l’Italia si è conquistata una leadership in ambito continentale: a Sigonella, in Sicilia, operano da diversi anni i grandi velivoli senza pilota “Global Hawk” della marina Usa, mentre entro il 2016 sarà pienamente operativo l’Ags, il nuovo sistema di sorveglianza terrestre della Nato basato sull’ultima generazione di droni di produzione statunitense. Inoltre, le forze armate italiane sono state le prime in Europa ad acquisire i velivoli “Predator” per schierarli nei maggiori teatri di guerra internazionale: Afghanistan, Iraq, Libia e Corno d’Africa.Proprio ad Amendola, continua Mazzeo, già nel 2002 fu costituito il 28° Gruppo Velivoli Teleguidati (poi battezzato “Le Streghe”) per condurre operazioni aeree con i droni “Predator” acquistati dalla General Atomics Aeronautical Systems di San Diego, California. Il gruppo, con personale addestrato negli Usa, fu assegnato al 32° stormo dell’aeronautica di Amendola. «La missione fondamentale del reparto – spiegano i militari – ruota oggi intorno al supporto alla capacità d’intelligence, sorveglianza e ricognizione (Isr) alle componenti nazionali e delle forze alleate per la riuscita in sicurezza delle operazioni a terra in qualunque contesto operativo», incluse attività come «antiterrorismo e sorveglianza del fenomeno dell’immigrazione clandestina». Il battesimo del fuoco della prima batteria di “Predator”, ricorda Mazzeo, avvenne in Iraq nel gennaio 2005: dalla base di Tallil, i droni “italiani” iniziarono a operare in supporto del contingente terrestre nell’ambito della missione “Antica Babilonia”. Nel maggio 2007 i droni furono poi trasferiti anche nella base di Herat, sede del comando regionale interforze per le operazioni in Afghanistan, dove hanno continuato a operare sino ad oggi.Nel corso della campagna scatenata in Libia per rovesciare Gheddafi nella primavera-estate 2011, «i velivoli a pilotaggio remoto schierati ad Amendola ebbero un ruolo chiave nelle operazioni “Isr” dell’aeronautica italiana e dei partner della coalizione internazionale a guida Usa, volando in missione per un totale di 360 ore», riferisce Mazzeo. Le ultime missioni all’estero dei “Predator” risalgono invece a quest’anno: a metà agosto, due velivoli-spia sono stati schierati a Gibuti, piccolo stato del Corno d’Africa, nell’ambito della missione antipirateria dell’Unione Europea “Atalanta”, ma opererebbero anche «a favore delle forze governative somale in lotta contro le milizie di Al Shabab». Nello scalo aereo di Kuwait City è invece stato avviato l’allestimento delle infrastrutture logistiche che consentiranno all’aeronautica militare italiana di schierare due velivoli a pilotaggio remoto appositamente riconfigurati per operare a favore della coalizione internazionale anti-Isis in Iraq e Siria.Inoltre, nel 2008 il Parlamento italiano ha autorizzato l’acquisto di altri quattro ricognitori Rq-9 “Predator B”, noti anche come “Reaper”, con una spesa di 80 milioni di euro. Il “Reaper” può volare anche per 24-40 ore, a 15.000 metri dal suolo, può essere trasportato a bordo di un aereo C-130 ed essere reso operativo in meno di dodici ore. Può trasportare carichi sino a 1.800 chili (sensori, radar, telecamere), e soprattutto può essere armato con missili “Hellfire” e bombe a guida laser. Costo dell’armamento dei “Reaper” italiani, 14 milioni di euro. «Attualmente – aggiunge Mazzeo – i droni di Amendola sono operativi pure per la ricognizione aerea in Kosovo, a sostegno delle attività della forza militare internazionale a guida Nato (Kfor)», e sono stati impiegati anche nell’operazione “Mare Nostrum”. Esclusivi corridoi di volo per i “Predator” sono stati predisposti dall’aeronautica militare tra la Puglia e le basi aeree siciliane di Sigonella, Trapani Birgi e Pantelleria e il poligono sperimentale di Salto di Quirra e lo scalo di Decimomannu in Sardegna.La base di Amendola collabora con militari francesi e olandesi, ha ospitato addestramenti congiunti con forze armate di paesi come Egitto e Giordania e funziona anche come centro sperimentale i nuovi “dimostratori senza pilota” di Alenia Aeronautica (Finmeccanica) con compiti di osservazione, sorveglianza e ricognizione strategica del territorio. Lo scalo pugliese è stato usato nel ‘97 per la guerra in Bosnia e due anni dopo per sferrare raid contro obiettivi civili e militari in Serbia e Kosovo, nella guerra contro Milosevic. Dal 2009 gli Amx di Amendola alimentano a rotazione il “task group” di Herat, per il supporto del contingente italiano e alleato in Afghanistan. Di recente, i piloti hanno partecipato a importanti esercitazioni militari in Canada, Stati Uniti, Francia, Germania, Spagna, Egitto e Israele. «All’orizzonte – conclude Mazzeo – c’è l’entrata in funzione del più costoso velivolo da guerra mai prodotto, il famigerato cacciabombardiere Lockheed Martin F-35: oltre a prepararsi a fare da scuola volo europea dei droni, Amendola sarà infatti la prima base aera italiana destinata ad ospitare gli F-35 che sostituiranno prima gli Amx e poi i Tornado».Il governo italiano candida la base aerea di Amendola, Foggia, quale sede per la formazione dei militari di tutta Europa nella gestione degli aerei senza pilota. «L’Italia è pronta a rendere disponibili le esperienze maturate e le infrastrutture tecniche ed addestrative realizzate per costruire insieme una soluzione europea nel settore dei droni», spiega Roberta Pinotti, ministro della difesa. Obiettivo: «Costituire in Italia la prima scuola di volo europea per aeromobili a pilotaggio remoto». Nel campo dei droni, osserva Antonio Mazzeo, l’Italia si è conquistata una leadership in ambito continentale: a Sigonella, in Sicilia, operano da diversi anni i grandi velivoli senza pilota “Global Hawk” della marina Usa, mentre entro il 2016 sarà pienamente operativo l’Ags, il nuovo sistema di sorveglianza terrestre della Nato basato sull’ultima generazione di droni di produzione statunitense. Inoltre, le forze armate italiane sono state le prime in Europa ad acquisire i velivoli “Predator” per schierarli nei maggiori teatri di guerra internazionale: Afghanistan, Iraq, Libia e Corno d’Africa.
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Paese a pezzi, mai unito: e se rinunciassimo all’Italia?
Quindici anni fa, in una fase storica che vedeva il paese ormai impantanato in logiche politiche incapaci di affrontarne i problemi strutturali dell’economia e della società, ne “L’asino di Buridano” (ora ripubblicato dall’editore Guerini) Gianfranco Miglio immaginò una sua via d’uscita, essenzialmente basata su una struttura confederale e macro-regionale. L’Italia doveva lasciarsi alle spalle lo Stato nazionale e unitario di costruzione ottocentesca, affidarsi a logiche pattizie più coerenti con una società d’ispirazione democratica e liberale, ridefinirsi attorno ad aree omogenee per storia e struttura produttiva. Quindici anni sono pochi e sono tanti al tempo stesso. Se l’essenza della riflessione migliana resta valida, qualcosa merita indubbiamente di essere rivisto, aggiornato, ripensato. Non è in nessun modo realistica, in particolare, l’idea di una “via italiana” (o romana) alla soluzione dei problemi che affliggono il paese.Innamorato della dimensione anche tecnica e ingegneristica dei dispositivi costituzionali, Miglio ancora 15 anni fa pensava che non fosse da escludere l’ipotesi di una classe politica italiana disposta a suicidarsi nella sua dimensione nazionale per riscoprire una propria vocazione locale. Questa illusione ora non è più ammissibile e non vi sarà mai una riforma delle istituzioni, a Roma, che ponga fine a quel potere romano che vede politici settentrionali e meridionali cooperare con tanta passione. In secondo luogo, non è realistico prevedere un’Italia che tenga vivi tenui legami confederali, così come non era realistico immaginare che la Lituania o la Georgia potessero stare in una confederazione che avesse al centro la Russia. Se l’Italia perderà la configurazione prefettizia acquisita nel diciannovesimo secolo, al suo posto vi saranno piccole realtà tra loro assai slegate: non mancheranno certo accordi e alleanze (per giunta entro un condiviso quadro europeo), ma difficilmente vi sarà una struttura comune intesa in senso classico.Certo è impossibile sapere se l’Italia saprà ammettere il fallimento della sua unificazione o invece continuerà a illudersi che sia riformabile anche l’irriformabile. Ma se un giorno l’unità verrà messa in discussione, come giustamente Miglio invitava a fare, quella che ne conseguirà sarà una soluzione di tipo catalano. Qualche segnale va emergendo. A Trieste, ad esempio, c’è un movimento assai attivo che usa argomenti di diritto internazionale (legati all’amministrazione Onu delle zona A e B, create all’indomani del 1945) per rivendicare il diritto ad amministrarsi da sé: dando vita a un Lussemburgo di taglio adriatico e mitteleuropeo. Nel Tirolo meridionale, inoltre, va riemergendo la voglia di ricollegarsi a Innsbruck ed essere sempre più europei e sempre meno italiani. E spinte centrifughe sono visibili anche in Sardegna, in Lombardia e in altre parti del paese. Ma la potenziale Catalogna d’Italia è il Veneto.Miglio immaginava una soluzione confederata basata essenzialmente su tre grandi aree: Nord, Centro e Sud. Le premesse di un anti-Risorgimento vincente, invece, giungono da realtà più piccole e – ciò che è molto importante – dotate di una propria struttura istituzionale. Il Nord di Miglio, come la Padania vagheggiata dai leghisti, non ha confini e non ha un Parlamento. Non così è il Veneto, che dispone di un presidente, di un palazzo del governo e di una sua assemblea rappresentativa. E che nei mesi scorsi ha approvato una legge regionale che istituisce un referendum consultivo sull’indipendenza, che l’attuale esecutivo si è subito preoccupato di impugnare dinanzi alla Corte Costituzionale. Matteo Renzi vuole giocare alla Mariano Rajoy (niente “diritto di voto” per i catalani), e non alla David Cameron. Il referendum scozzese ha però rappresentato uno spartiacque nella storia europea: ha detto che l’unità nazionale di uno Stato dipende dalla volontà, e solo dalla volontà, delle comunità che ne fanno parte.In qualche modo, anche “retoricamente”, Miglio riteneva che l’Italia potesse ancora essere salvata soltanto disfacendola. Oggi le linee di tendenza ci dicono che l’alternativa è tra un’Italia che salva se stessa e condanna gli italiani, oppure un’Italia che si dissolve per dare alle diverse comunità italiane una qualche chance di farcela. E a questo punto c’è da domandarsi in che modo, nei mesi a venire, il potere romano saprà resistere dinanzi a chi chiede di mettere una scheda entro un’urna. La crisi spagnola in corso, che vede Madrid interpretare logiche neo-franchiste, attesta quanto sia difficile per gli Stati democratici opporsi ai movimenti indipendentisti che chiedono di andare alle urne e far decidere tutto con il voto. Le nostre istituzioni pubbliche sono macchine poderose che sottraggono diritti e risorse (ormai il 50% di quanto viene prodotto) legittimandosi con le procedure elettorali.Renzi può disporre di tanta parte dell’economia e della società italiane perché si sente legittimato dal voto. Ma se il voto è così nobile e potente, come può lo stesso Renzi negarne l’esercizio a quei veneti che vogliono interpellare la popolazione in merito alla scelta tra status quo e una Serenissima 2.0? Esattamente come quando Miglio scrisse quelle pagine, non è affatto da escludere l’ipotesi che nulla cambi e che il nostro resti il paese del gattopardismo. Ma l’Europa sta mutando: in Scozia già hanno votato e il 9 novembre catalano (la data fissata per un referendum che la Spagna considera illegale) è ormai alle porte. L’ipotesi che il Veneto sia l’anello che non tiene è assai seria. Ben poco c’è da aspettarsi dalla Corte Costituzionale e dal nostro ceto politico, ma vi sono processi che prendono luogo indipendentemente da queste cose. E talvolta prima di sprofondare nel nulla una società cerca di ripensarsi su basi nuove.(Carlo Lottieri, “E se rinunciassimo all’Italia? La profezia di Gianfranco Miglio”, da “Il Sussidiario” del 20 ottobre 2014).Quindici anni fa, in una fase storica che vedeva il paese ormai impantanato in logiche politiche incapaci di affrontarne i problemi strutturali dell’economia e della società, ne “L’asino di Buridano” (ora ripubblicato dall’editore Guerini) Gianfranco Miglio immaginò una sua via d’uscita, essenzialmente basata su una struttura confederale e macro-regionale. L’Italia doveva lasciarsi alle spalle lo Stato nazionale e unitario di costruzione ottocentesca, affidarsi a logiche pattizie più coerenti con una società d’ispirazione democratica e liberale, ridefinirsi attorno ad aree omogenee per storia e struttura produttiva. Quindici anni sono pochi e sono tanti al tempo stesso. Se l’essenza della riflessione migliana resta valida, qualcosa merita indubbiamente di essere rivisto, aggiornato, ripensato. Non è in nessun modo realistica, in particolare, l’idea di una “via italiana” (o romana) alla soluzione dei problemi che affliggono il paese.
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Scie, metalli, filamenti, piogge: stanno irrorando il cielo
Qualcuno sta “coltivando” il cielo. Lo dimostrano le anomalie climatiche e i residui che piovono a terra. Ne è convinto l’ingegner Paolo Broggia: ormai, dice, la realtà supera largamente qualsiasi ipotesi fantascientifica. Inoltre, i “coltivatori” dell’aria lasciano tracce quotidiane: «Se osservassimo i nostri cieli più attentamente, vedremmo attività aeronautiche non ufficiali, cioè non legate a transiti di aerei di linea, che rilasciano delle sostanze visibili che si disperdono dopo qualche minuto, a volte dopo ore. Probabilmente si tratta di droni, che quotidianamente “spazzolano” il cielo come una griglia “a scacchi”: ormai non c’è zona dell’Italia (e dell’Europa) che non sia irrorata». Droni, dunque, perché solo velivoli senza pilota potrebbero reggere al millimetro «la estrema ripetitività delle rotte, stressanti e pericolose per esseri umani in carne e ossa: infatti, nel ripassare nelle precedenti scie, in cabina entrerebbe l’aria proveniente dall’esterno, inquinata dello stesso materiale rilasciato dallo scarico». Che cosa spruzzano? «Qualunque cosa, a giudicare dalle analisi dell’acqua piovana».Sembra proprio che dal cielo stia venendo giù di tutto, scrive Broggia su “Megachip”: nell’aria si registra infatti la presenza di «metalli pesanti, polimeri, batteri, sostanze non classificate». Attenzione: ci sono anche «i fili che cadono dal cielo, imitazioni quasi perfette delle ragnatele, ma di lunghezze spropositate». Vietato confondersi: «Se fossero di un vero ragno volante (il fenomeno è quello dello “spider ballooning”), questo dovrebbe essere grande più di 100 metri». Inoltre, «le vere ragnatele non vengono attratte da un potente magnete, come invece sembra accadere a questi fili». Sul web si trovano tracce di un esperimento condotto nel 2011 dall’università di San Diego, in California. Il test fornisce la misura dell’impegno teorico: «Considerando l’intero territorio italiano formato da tanti quadrati di 100 chilometri di lato, in totale abbiamo solo 30 quadrati. Ipotizzando 2 droni che lavorino per ciascun quadrato, con appena 60 droni si potrebbe coprire una nazione intera, con tutti i suoi abitanti, piante, falde acquifere, eco-sistemi». Presso i centri radar aeronautici italiani, continua Broggia, «i controllori di volo sono consapevoli di questo enorme movimento di velivoli, ma lo ignorano. O non danno spiegazioni se interpellati».Già nel 1957, chiarisce “Megachip”, si studiava tecnicamente la possibilità di controllare la grandine per evitare la distruzione delle colture, per esempio in Piemonte: due fisici, Barla e Barbero, nel “Giornale di Geofisica” parlano di «nuclei di condensazione prodotti da ossidi radioattivati», e descrivono «teoria ed esperimenti per attivare artificialmente dei nuclei di molecole di acqua usando ossidi di alluminio e campi elettromagnetici». Gli italiani, conferma Broggia, sono sempre stati molto attivi in questo campo: si citano sperimentazioni nei dintorni di Roma e in Sardegna, pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali e brevetti industriali registrati negli Usa (molti materiali sono presenti nel portale “No Geoingegneria”). E in un documento del 1963, il generale Antonio Serra, capo del servizio meteorologico dell’aeronautica, cita una collaborazione svolta con una azienda americana «per provocare la pioggia», attività condotta con fondi pubblici, per la precisione col sostegno della Cassa del Mezzogiorno e della Regione Sardegna. Si trattò di «un terzo ciclo di esperienze di nucleazione artificiale dell’atmosfera, il più lungo finora condotto in Italia», scrive il generale Serra nel ‘63.Un esperimento fondamentale, dunque, «affidato alla società americana “Weather Researches Development Corporation”». Positivo l’esito: l’autore si dichiara «molto fiducioso sui progressi tecnici migliorativi, per risolvere tutti i problemi legati alla siccità». Trent’anni dopo, nel 1994, il governo italiano ha promulgato addirittura una legge, la numero 36 del 5 gennaio, che prevede la creazione regolare di piogge artificiali per sconfiggere la siccità. Si intitola: “Disposizioni in materia di risorse idriche”. L’articolo 2, comma 2, conferma l’adozione del «regolamento per la disciplina delle modificazioni artificiali della fase atmosferica del ciclo naturale dell’acqua». Due anni dopo, continua Paolo Broggia, viene pubblicato un documento di ricerca aerospaziale, proveniente dai militari Usa, “Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”. Letteralmente: il clima come moltiplicatore di forze: possedere il controllo del clima entro il 2025. «In questo raccapricciante documento – scrive Broggia su “Megachip” – viene enunciata la possibilità tecnica di poter controllare localmente il clima, allo scopo di avere vantaggi sul nemico e renderlo più vulnerabile, con tanto di tabelle, grafici, metodologie. Evidentemente – aggiunge l’ingegnere – venivano ritenute molto significative le esperienze del Vietnam, dove gli Usa sono riusciti a usare con successo la geoingegneria allagando con abbondanti piogge i campi dei Vietcong».Il resto è cronaca, ormai quasi quotidiana: clima “impazzito”, alluvioni, “bombe d’acqua”. E’ sempre più frequente, precisa Broggia, la comparsa di brevetti nel settore, specie «sull’uso dei campi elettromagnetici per far interagire a comando le particelle rilasciate dagli aerei, in forma di additivi nei carburanti». Si moltiplicano ormai le conferenze su “geoengineering” e “climate engineering”, la geo-ingegneria del clima. Nuove direttrici di ricerca, quindi, che si sono affacciate nelle comunità scientifiche internazionali, monopolizzando l’attenzione e apportando nuove risorse economiche. È inoltre nato l’Ipcc, il panel dell’Onu sui cambiamenti climatici, una struttura «che potrebbe legittimare l’uso della geoingegneria», ma ovviamente con le solite cautele verso i mezzi di informazione: «Se si va a dire a questi scienziati che stanno già facendo la geoingegneria, essi negano inorriditi». Così, dobbiamo rassegnarci alle “stranezze” del clima. Per esempio quella «pioggerellina sottile, fina-fina, come quelle londinesi». Pioggerelline «insolitamente frequenti in Italia», ormai, così come «le piogge torrenziali e le conseguenti alluvioni», con chicchi di grandine «grandi come arance».Non solo: ultimamente si registra addirittura «la presenza di formazioni di alghe», praticamente «incredibili da trovare nelle zone di campagna interne, molto lontane dalle coste». Strano clima, appunto: con aria «più secca di quella del deserto, come nel 2012 in Italia». E poi, le strane patologie che colpiscono le piante ornamentali, quelle d’appartamento: malattie «da attribuire a qualcosa di strano, mai visto». E il sole, lassù, sempre più pallido. Al punto che «i pannelli fotovoltaici stanno generando sempre meno elettricità rispetto all’anno precedente». Se poi si fa un “mineral test”, nelle analisi risultano«eccessi di alluminio e piombo», come è capitato allo stesso Broggia e ai suoi vicini di casa. Inutile che ci prendano in giro, conclude l’ingnegnere: non potranno negare all’infinito. Stanno davvero irrorando il nostro cielo, sperando di “possedere il clima”. Arma cosmica, sia per l’economia che per la guerra. La speranza? «La Natura è grande, in ogni caso. I suoi eterni elementi riusciranno a raggiungere una coerenza per reagire opportunamente a questa fonte di inquinamento». La cui esistenza, peraltro, nessun governo ammette ancora.Qualcuno sta “coltivando” il cielo. Lo dimostrano le anomalie climatiche e i residui che piovono a terra. Ne è convinto l’ingegner Paolo Broggia: ormai, dice, la realtà supera largamente qualsiasi ipotesi fantascientifica. Inoltre, i “coltivatori” dell’aria lasciano tracce quotidiane: «Se osservassimo i nostri cieli più attentamente, vedremmo attività aeronautiche non ufficiali, cioè non legate a transiti di aerei di linea, che rilasciano delle sostanze visibili che si disperdono dopo qualche minuto, a volte dopo ore. Probabilmente si tratta di droni, che quotidianamente “spazzolano” il cielo come una griglia “a scacchi”: ormai non c’è zona dell’Italia (e dell’Europa) che non sia irrorata». Droni, dunque, perché solo velivoli senza pilota potrebbero reggere al millimetro «la estrema ripetitività delle rotte, stressanti e pericolose per esseri umani in carne e ossa: infatti, nel ripassare nelle precedenti scie, in cabina entrerebbe l’aria proveniente dall’esterno, inquinata dello stesso materiale rilasciato dallo scarico». Che cosa spruzzano? «Qualunque cosa, a giudicare dalle analisi dell’acqua piovana».
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Sola andata, un futuro da migranti. Garantisce il Pd
Ne ha scritto la stampa italiana, ne hanno scritto il “Guardian” e “Le Monde”, ma noi che continuiamo a leggere restiamo ancora senza parole: il sindaco di Elmas, Valter Piscedda, paga il viaggio di sola andata ai giovani disoccupati che se ne vogliono andare. Sembra una barzelletta, invece è la realtà della classe politica sarda nel 2014. Eppure io me lo ricordo cosa scriveva Valter Piscedda, il sindaco di Elmas, nel suo sito istituzionale da candidato Pd alle elezioni regionali: «Il pensiero va anche ai più giovani: pensiamo a quei ragazzi che nonostante i loro studi non vedono prospettive. Questa situazione non è più sostenibile. Ecco perché ho deciso di candidarmi, è necessario invertire la rotta. Con Francesco Pigliaru presidente possiamo fare in modo che questa Sardegna riparta con rinnovata speranza». Quell’“invertire la rotta” suona oggi ironico, visto che la rotta suggerita da Valter Piscedda ai giovani di Elmas è quella che li porta fuori dalla Sardegna con un biglietto di sola andata e dita incrociate per un lieto futuro da emigrati.Chi ha votato Francesco Pigliaru presidente e Valter Piscedda come suo consigliere regionale forse non aveva capito che la Sardegna che aspettava di “ripartire con rinnovata speranza” lo avrebbe poi fatto con un bando che le regalava un viaggio di sola andata per emigrare. Il gesto del sindaco di Elmas significa solo una cosa: «Andatevene: qui non c’è speranza, non solo perché non c’è lavoro, ma anche perché chi vi governa, cioè io nel paese e la mia maggioranza in Regione, non ha la minima idea di come cambiare le vostre condizioni». Un atto di resa politica avvilente e offensivo, che fa venire voglia di chiedere a Valter Piscedda e al Partito Democratico sardo: ma se non avevi idea di come provare a risolvere il problema della disoccupazione, perché diamine ti sei candidato sindaco? Se la tua giunta non ha alcuna risposta da dare ai giovani disoccupati, perché diamine vi siete fatti eleggere al governo della Sardegna?Se il tuo partito non sa come dare ai sardi risposte diverse da quelle dell’emigrazione, della militarizzazione e dei tagli ai finanziamenti per la ripresa, perché avete promesso alle persone che avreste risolto la situazione? Se queste sono le vostre risposte, dimettetevi. Non siete stati eletti per mandare via i sardi dall’isola mentre i militari e gli imprenditori dalla trivella facile si preparano a sbarcarci con la benedizione del decreto “Sblocca Italia” voluto dal vostro governo. Queste le domande. Per le risposte, leggete cosa ha scritto Matteo Bellu Ticca sul sito di “Sardegna Possibile”. Sono troppe le cose che di questa giunta non tornano ed è tempo di cominciare a mostrare che qualcosa di diverso, a volerlo davvero, lo si sarebbe potuto fare.(Michela Murgia, “Confermata la solita rotta, quella per l’altrove”, da “Megachip” del 25 settembre 2014).Ne ha scritto la stampa italiana, ne hanno scritto il “Guardian” e “Le Monde”, ma noi che continuiamo a leggere restiamo ancora senza parole: il sindaco di Elmas, Valter Piscedda, paga il viaggio di sola andata ai giovani disoccupati che se ne vogliono andare. Sembra una barzelletta, invece è la realtà della classe politica sarda nel 2014. Eppure io me lo ricordo cosa scriveva Valter Piscedda, il sindaco di Elmas, nel suo sito istituzionale da candidato Pd alle elezioni regionali: «Il pensiero va anche ai più giovani: pensiamo a quei ragazzi che nonostante i loro studi non vedono prospettive. Questa situazione non è più sostenibile. Ecco perché ho deciso di candidarmi, è necessario invertire la rotta. Con Francesco Pigliaru presidente possiamo fare in modo che questa Sardegna riparta con rinnovata speranza». Quell’“invertire la rotta” suona oggi ironico, visto che la rotta suggerita da Valter Piscedda ai giovani di Elmas è quella che li porta fuori dalla Sardegna con un biglietto di sola andata e dita incrociate per un lieto futuro da emigrati.
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Presi per il Pil? Noi no: storie di italiani che non ci stanno
Fino a ieri il sistema ha inseguito la crescita del Pil per diffondere consumi e sostenere l’industria. Oggi sappiamo che in Europa non è più così: gli stessi politici che continuano a predicare “crescita”, in realtà hanno promosso una deliberata, drammatica inversione di rotta. Non “dobbiamo” più crescere, perché a farlo saranno soltanto le élite, che hanno realizzato un colossale trasferimento di ricchezza, dall’industria alla finanza, dal lavoro alla rendita speculativa. Matematico: la crescita del benessere diffuso comporta maggiore consapevolezza culturale, quindi l’acquisizione di diritti “scomodi”, che il sistema politico – sempre più centralistico e sempre meno democratico – non è più disposto a tollerare. E quindi: precariato, disoccupazione, tagli al welfare, erosione del risparmio, super-tassazione, eclissi delle pensioni, privatizzazione dei servizi vitali. Da anni stiamo “decrescendo” in modo vertiginoso, proprio grazie ai politici che, a parole, si dichiarano favorevoli alla “crescita”. Che peraltro, come sappiamo, minaccia di far esplodere il pianeta: sovrapproduzione di merci superflue, boom demografico, progressiva penuria di risorse.Il blackout della politica, ormai colonizzata dall’oligarchia tecno-finanziaria che manipola l’immaginario collettivo attraverso il ferreo controllo dei media, non ha impedito il diffondersi di esperienze individuali di resistenza libertaria. Messe assieme, fanno rete. Specie se vengono spiegate, mostrate, raccontate. Come accade nel documentario “Presi per il Pil”, realizzato da Stefano Cavallotto col giornalista Andrea Bertaglio, su soggetto elaborato da Lorenzo Fioramonti, economista dell’università sudafricana di Pretoria. Tema: come vivere «senza più essere schiavi dei soldi», peraltro sempre meno abbondanti. Lo spiegano Marta e Giorgio, che hanno deciso di trasferirsi coi figli in valle Maira, sulle montagne di Cuneo, allevando capre e producendo formaggi. E poi Roberto, che si è «dimesso da avvocato» lasciando Cagliari per il natio borgo selvaggio, dove – insieme alla famiglia – ha imparato ad auto-prodursi «tutto quello che gli serve per vivere». Non mancano le comunità organizzate: come quella degli abitanti di Pescomaggiore, alle porte dell’Aquila, che – con l’aiuto volontari italiani e stranieri – costruiscono un eco-villaggio modello, seguendo i metodi della bioedilizia.«Storie sorprendenti ed emblematiche», che aiutano a capire «il desiderio di liberarsi dal dogma del Pil», per immaginare «un mondo più giusto, iniziando dalle nostre vite». Quelle incrociate dal documentario sono «persone che hanno scelto di vivere senza più inseguire il mito della crescita infinita imposto dal sistema», liberandosi dell’ideologia dominante. Il narratore è lo stesso Bertaglio, autore di saggi sulla decrescita (l’ultimo si intitola “Generazione decrescente”, edizioni L’Età dell’Acquario). Tutto nasce quando Andrea, incuriosito dal progetto energetico “Coltiviamo il sole”, decide di partecipare a una riunione dell’associazione che l’ha ideato. Lì incontra Giorgio, interessato all’installazione di un impianto fotovoltaico per la propria stalla. Da quel momento, Andrea inizia «un viaggio fisico e soprattutto interiore» tra questi «pionieri della decrescita», nel loro caso sicuramente “felice”. Morale: specie in un momento di crisi devastante, sorprende la facilità con cui è possibile dribblare il disastro, rimboccandosi le maniche. Purché si abbiano le idee chiare: massima sobrietà, minime esigenze, autosufficienza alimentare. A quel punto, può anche crollare il Pil: lo sostituisce una nuova economia di prossimità, fondata sullo scambio alla pari.Non mancano voci eterodosse, a spiegare perché tutto questo accade, e accadrà sempre di più: da Enrico Giovannini, già a capo dell’Istat e poi ministro del governo Letta, favorevole a «elaborare indicatori di benessere alternativi al Pil», fino a battitori liberi (e famosi) come l’inglese Rob Hopkins, fondatore del movimento delle “Transition Towns”, e il francese Serge Latouche, padre del moderno pensiero decrescista, insieme all’italiano Maurizio Pallante. Parlano docenti universitari come Mario Pianta, tra i promotori della campagna “Sbilanciamoci!”, attivisti e scrittori come Giulio Marcon, già coordinatore del Servizio Civile Internazionale, e autrici come Helena Norberg-Hodge, studiosa dell’impatto dell’economia globale sulle culture e sull’agricoltura a livello mondiale. La Hodge, fondatrice dell’Isec (International Society for Ecology and Culture) è anche produttrice e co-regista del documentario “L’economia della felicità”. Ed è esattamente di questo – economia e felicità – che parla l’ex avvocato Roberto, 45 anni, “scappato” dal capoluogo sardo per farsi coltivatore, nella casa della sua infanzia: «Paradossalmente – dice – oggi ho molti meno problemi economici dei colleghi che mi sono lasciato alle spalle, rimasti schiavi di mutui, finanziamenti e orari di lavoro ormai insostenibili».Stessa musica in Abruzzo, tra i ragazzi di Pescomaggiore, molti dei quali rimasti senza casa dopo il terremoto del 2009. La soluzione si chiama Eva, eco-villaggio interamente auto-costruito, col materiale meno consueto e più ecologico: la paglia. «La manodopera ce la mettiamo noi, riscoprendo la comunità». Un’esperienza umana che cambierà per sempre la loro vita: «Famiglie che si ritrovano, padri e figli che lavorano insieme con un obiettivo comune». Parole come sostenibilità e benessere diventano all’improvviso realtà. «I giovani di Pescomaggiore, molti dei quali precari che hanno trovato una dimensione sociale e lavorativa proprio in questo eco-villaggio, si aiutano nel lavoro, mangiano e parlano insieme, organizzano le proprie giornate in un clima di cooperazione e convivialità», racconta Andrea, che traccia anche un parallelo con l’esperienza – stavolta metropolitana – dei ragazzi del circolo torinese Mdf, il Movimento per la Decrescita Felice: «Si impegnano a vivere una città come Torino quasi come se fosse un paese, a cominciare dai trasporti – la bicicletta in primis – promuovendo uno stile di vita ecologico, basato sul consumo critico». Orti urbani, per esempio, da impiantare anche nelle scuole e attraverso progetti speciali, alcuni dei quali in collaborazione con associazioni come Slow Food».Il documentario, montato da Roberto Allegro e sorretto da musiche originali degli Yo-Yo Mundi, si arrampica anche sulle Alpi, scovando i silenzi incontaminati del Puy, dove pascolano le capre bianche di Marta e Giorgio, marito e moglie, «due tra le persone più lucide che si possa avere la fortuna di incontrare nel corso di un’intera vita», garantisce Andrea. «Vivono e lavorano con i loro cinque figli e pochi buoni amici nel comune di San Damiano Macra, dove sono arrivati da Torino nel 1995». Lei è medico e lavora part-time in zona. Lui, laureato in filosofia e originario della vicina valle Po, per lavoro traduceva libri per case editrici. Nel 1999, la grande scommessa: recuperare un’intera borgata abbandonata per poi avviare un’azienda di capre da latte, che col tempo è diventata anche agriturismo. «Nonostante si possa pensare il contrario, Marta e Giorgio non sono degli “alternativi”», spiega Andrea. «Hanno solo capito prima di altri che per vivere sereni non c’era bisogno di puntare sui soldi». I loro figli – tutti musicisti – ora crescono in un paradiso verde, e tra le vecchie case di pietra è tornata la vita. E’ una strana impresa, super-sostenibile: niente mangimi industriali, farmaci o gasolio. E funziona benissimo: «E’ uno schiaffo a chiunque si rassegni a dire che non è possibile, che oggi il mondo non ti permette di fare certe scelte».(Il documentario: “Presi per il Pil”, Italia 2014, 65 minuti. E’ possibile promuovere la proiezione del film, una produzione low-budget di Settembre Film, e acquistare il filmato in formato dvd, al prezzo di 10 euro, mediante il sito del progetto).Fino a ieri il sistema ha inseguito la crescita del Pil per diffondere consumi e sostenere l’industria. Oggi sappiamo che in Europa non è più così: gli stessi politici che continuano a predicare “crescita”, in realtà hanno promosso una deliberata, drammatica inversione di rotta. Non “dobbiamo” più crescere, perché a farlo saranno soltanto le élite, che hanno realizzato un colossale trasferimento di ricchezza, dall’industria alla finanza, dal lavoro alla rendita speculativa. Matematico: la crescita del benessere diffuso comporta maggiore consapevolezza culturale, quindi l’acquisizione di diritti “scomodi”, che il sistema politico – sempre più centralistico e sempre meno democratico – non è più disposto a tollerare. E quindi: precariato, disoccupazione, tagli al welfare, erosione del risparmio, super-tassazione, eclissi delle pensioni, privatizzazione dei servizi vitali. Da anni stiamo “decrescendo” in modo vertiginoso, proprio grazie ai politici che, a parole, si dichiarano favorevoli alla “crescita”. Che peraltro, come sappiamo, minaccia di far esplodere il pianeta: sovrapproduzione di merci superflue, boom demografico, progressiva penuria di risorse.
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Gaza top secret, massacro made in Italy firmato Alenia
Chi vince, nella gara di ipocrisia? Obama che “non può fare nulla” per fermare Israele, che ha armato fino ai denti, o l’insignificante Italia, che pure ha fornito a Tel Aviv i velivoli-scuola per addestrare i piloti dei caccia che fanno piovere missili sulle case di Gaza? I cacciabombardieri che martellano Gaza sono F-16 e F-15 forniti dagli Usa a Israele (oltre 300, più altri aerei ed elicotteri da guerra), insieme a migliaia di missili e bombe a guida satellitare e laser, scrive Manlio Dinucci sul “Manifesto”. Come documenta lo stesso Congresso Usa l’11 aprile 2014, Washington si è impegnata a fornire a Israele, tra il 2009 e il 2018, un aiuto militare di 30 miliardi di dollari, cui l’amministrazione Obama ha aggiunto nel 2014 oltre mezzo miliardo per lo sviluppo di sistemi anti-razzi e anti-missili. Israele dispone a Washington di una sorta di “cassa continua” per l’acquisto di armi statunitensi, tra cui sono previsti 19 F-35 del costo di 2,7 miliardi. Può inoltre usare, in caso di necessità, le potenti armi stoccate nel “Deposito Usa di emergenza in Israele”.«Al confronto, l’armamento palestinese equivale a quello di chi, inquadrato da un tiratore scelto nel mirino telescopico di un fucile di precisione, cerca di difendersi lanciandogli il razzo di un fuoco artificiale», aggiunge Dinucci, nel servizio ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ma attenzione: un consistente aiuto militare a Israele viene anche dalle maggiori potenze europee. «La Germania gli ha fornito 5 sottomarini Dolphin (di cui due regalati) e tra poco ne consegnerà un sesto. I sottomarini sono stati modificati per lanciare missili da crociera nucleari a lungo raggio, i “Popeye Turbo” derivati da quelli Usa, che possono colpire un obiettivo a 1.500 km». E l’Italia, che consente ai top gun di Tel Aviv di condurre esercitazioni con armamenti letali in Sardegna, sta fornendo a Israele i primi dei 30 velivoli M-346 da addestramento avanzato, costruiti da Alenia Aermacchi (Finmeccanica). Aerei che possono essere usati anche come caccia per l’attacco al suolo in operazioni belliche reali.La fornitura dei caccia M-346, continua Dinucci, costituisce solo una piccola parte della cooperazione militare italo-israeliana, istituzionalizzata dalla legge 94 promulgata nel 2005. Legge che «coinvolge le forze armate e l’industria militare del nostro paese in attività di cui nessuno (neppure in Parlamento) viene messo a conoscenza». La norma stabilisce infatti che tali attività sono «soggette all’accordo sulla sicurezza», e quindi segrete. «Poiché Israele possiede armi nucleari – conclude il giornalista del “Manifesto” – alte tecnologie italiane possono essere segretamente utilizzate per potenziare le capacità di attacco dei vettori nucleari israeliani», e inoltre «possono essere anche usate per rendere ancora più letali le armi “convenzionali” usate dalla forze armate israeliane contro i palestinesi», che come vediamo sono soprattutto civili, donne e bambini inclusi, sacrificati anche questa volta per la pulizia tecnica di stampo terroristico mirata a sfrattare la popolazione palestinese da quella che viene definita “la più grande prigione a cielo aperto esistente al mondo”.«La cooperazione militare italo-israeliana – aggiunge Dinucci – si è intensificata quando il 2 dicembre 2008, tre settimane prima dell’operazione israeliana “Piombo Fuso” a Gaza, la Nato ha ratificato il “Programma di cooperazione individuale”». Il programma comprende lo scambio di informazioni tra i servizi di intelligence, la connessione di Israele al sistema elettronico Nato, la cooperazione nel settore degli armamenti e l’aumento delle esercitazioni militari congiunte. In quel quadro rientra “Blue Flag”, la più grande esercitazione di guerra aerea mai svoltasi in Israele, cui hanno partecipato nel novembre 2013 Stati Uniti, Italia e Grecia. «La “Blue Flag” è servita a integrare nella Nato le forze aeree israeliane, che avevano prima effettuato esercitazioni congiunte solo con singoli paesi dell’Alleanza, come quelle a Decimomannu con l’aeronautica italiana». Le forze aeree israeliane, sottolinea il generale Amikam Norkin, stanno sperimentando nuove procedure per potenziare la propria capacità, «accrescendo di dieci volte il numero di obiettivi che vengono individuati e distrutti». Ciò che sta facendo in questo momento a Gaza, grazie anche al contributo italiano, di cui la stampa mainstream evita accuratamente di parlare.Chi vince, nella gara di ipocrisia? Obama che “non può fare nulla” per fermare Israele, che ha armato fino ai denti, o l’insignificante Italia, che pure ha fornito a Tel Aviv i velivoli-scuola per addestrare i piloti dei caccia che fanno piovere missili sulle case di Gaza? I cacciabombardieri che martellano Gaza sono F-16 e F-15 forniti dagli Usa a Israele (oltre 300, più altri aerei ed elicotteri da guerra), insieme a migliaia di missili e bombe a guida satellitare e laser, scrive Manlio Dinucci sul “Manifesto”. Come documenta lo stesso Congresso Usa l’11 aprile 2014, Washington si è impegnata a fornire a Israele, tra il 2009 e il 2018, un aiuto militare di 30 miliardi di dollari, cui l’amministrazione Obama ha aggiunto nel 2014 oltre mezzo miliardo per lo sviluppo di sistemi anti-razzi e anti-missili. Israele dispone a Washington di una sorta di “cassa continua” per l’acquisto di armi statunitensi, tra cui sono previsti 19 F-35 del costo di 2,7 miliardi. Può inoltre usare, in caso di necessità, le potenti armi stoccate nel “Deposito Usa di emergenza in Israele”.
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Strage Moby Prince, mistero Nato con troppe navi-fantasma
Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio. Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.Navi-fantasma: il riascolto incrociato delle tracce radio, sostiene Francesco Sanna nel suo reportage, realizzato col contributo dello studio di ingegneria forense Bardazza di Milano, rivela la presenza di almeno tre natanti inzialmente non identificati, sfuggiti alle prime indagini sul disastro. Il nome del primo vascello-fantasma, l’Agrippa, viene fatto – via radio – dalla nave militarizzata americana Cape Breton, che incrocia a un miglio dall’Agip Abruzzo. Alla Cape Breton si sono rivolti i piloti di Livorno per ricostruire l’accaduto e organizzare i soccorsi. La nave Usa, carica di armamenti destinati alla base di Camp Darby tra Livorno e Pisa, rivela che “Agrippa” è a fuoco, ma l’incendio è sotto controllo. Nella prima inchiesta giudiziaria, la parola “Agrippa” viene male intepretata e tradotta in “adrift”, alla deriva. Nell’inchiesta-bis, aperta nel 2006 e chiusa con l’archiviazione nel 2010, i periti della Procura di Livorno distinguono invece nettamente il nome “Agrippa”. Problema: «Nell’area del porto di Livorno, quella sera del 10 aprile 1991, non c’è nessuna imbarcazione con quel nome», osserva Sanna. «Per giunta l’unica nave interessata da un incendio, oltre al Moby Prince avvolto dal greggio incendiato ma che nessuno vede per ore, è l’Agip Abruzzo».Quella notte, continua il giornalista del “Fatto”, un’altra nave-fantasma girava per il porto di Livorno: si chiamava Theresa e si mise in comunicazione radio con un terzo natante non identificato, “ship one”. Chi era Teresa, e chi era la “nave uno”? Secondo gli ingegneri dello studio Bardazza di Milano, che sta lavorando su mandato dei familiari delle vittime, «si trattava della Gallant II, un’altra nave militarizzata americana all’ancora quella sera davanti a Livorno». Benché il quesito cardine alla riapertura dell’inchiesta nel 2006 fosse proprio la tesi del presunto traffico illecito di armi che avrebbe coinvolto gli Stati Uniti, i pm di Livorno «non decisero alcun approfondimento su quell’Agrippa», precisa Sanna. Oggi, a distanza di 23 anni dalla strage, si può ipotizzare che “Agrippa” fosse la Agip Abruzzo, ma non si capisce come mai – parlando con la capitaneria di porto – la nave americana Cape Breton non menzionò la Moby Prince né l’incendio a bordo del traghetto.«Di navi fantasma la vicenda della tragedia del Moby Prince ha fatto la collezione», riassume Sanna, menzionando «un peschereccio bianco che qualche testimone ha visto allontanarsi dal punto della collisione», quella sera, subito dopo l’impatto. Per contro, c’è la sicurezza che il natante, “21 Oktobar II” (secondo Ilaria Alpi coinvolto in traffici di armi) era «ormeggiato e inservibile a una banchina del porto». Oltre a Theresa, «l’imbarcazione che usa dei nomi in codice per allontanarsi dalle navi incendiate», c’è quindi l’americana Cape Breton che, mentre parla con la capitaneria, chiama col nome in codice “Agrippa” una nave incendiata, quasi certamente la petroliera dell’Agip. «Ma basta scorrere con attenzione i nastri dei canali radio attivi, e registrati per un caso e senza che quasi nessuno lo sapesse – continua Sanna – per trovare almeno altre due imbarcazioni “fantasma” che quella sera erano nella rada del porto di Livorno». “Fantasma”, ovvero non registrate dall’Avvisatore Marittimo e mai identificate nelle inchieste giudiziarie. «Navi che hanno nome e carta d’identità tutt’altro che irrilevanti per le indagini ricostruttive: la fonte è certa e a portata degli inquirenti, benché trascurata finora da tutte le inchieste».Le comunicazioni finora “sfuggite” alle inchieste sono tutte in codice Nato. Una di queste proviene dalla Ntv Alliance, «una nave militare da ricerca, principalmente di tipo sottomarino», tuttora in forza alla Nato in acque italiane. «Cosa ci faceva questa nave nella rada di Livorno a mezz’ora dalla collisione tra Moby Prince e Agip Abruzzo?», si domanda Sanna. «E soprattutto: era ancora in prossimità del luogo dell’evento durante le operazioni di soccorso? Se così fosse, decadrebbe definitivamente il “pilastro” dell’irreperibilità del Moby Prince fino ad un’ora dopo l’incidente». Interrogativi inquietanti: «Può forse una nave come la Alliance perdere di vista per tutto quel tempo il secondo natante in una collisione?». Ma non è finita, perché quella notte «nella rada del porto toscano c’era anche almeno un’altra imbarcazione “fantasma”. Si chiama Amer Ved, nave cargo battente bandiera americana, le cui dimensioni (13.000 tonnellate di stazza lorda) suggerirebbero uno stazionamento in rada». La prova è la registrazione di una comunicazione radio. Ma neppure la Amer Ved era stata regolarmente registrata dall’Avvisatore Marittimo, né è mai stata presa in considerazione dalle inchieste.Eppure, aggiunge il “Fatto”, un collegamento con la scena della collisione la Amer Ved l’avrebbe anche: alle 22.50 del 10 aprile 1991 compare sul canale 16 una chiamata della nave militarizzata americana Gallant 2. «Siamo a 25 minuti dalla collisione (avvenuta alle 22.25 circa) e nessuno ha ancora identificato la nave che ha speronato l’Agip Abruzzo». Il comandante della Gallant, Theodossiou, «chiede l’attenzione di “America Cargo” – quindi non segnala un nome preciso ma una qualità dell’imbarcazione – e da “America Cargo” gli rispondono in un inglese masticato chiedendo “dov’è la posizione della nave”, senza specificare quale essa sia». Theodossiou chiuderà con un lapidario: «Me ne sto andando, abbi tu cura della cosa». La conversazione è alquanto enigmatica, sottolinea Sanna. Tuttavia emerge inequivocabilmente la presenza in rada di questa “America Cargo” e il suo domandare circa la posizione di un’altra nave. “America Cargo” potrebbe essere la Amer Ved? «Se sì, cosa stava facendo nella rada di Livorno e perché non è stata identificata durante le indagini? E di cosa si doveva curare, come consigliato dal capitano greco della Gallant 2 che ha tanta premura di “andarsene”?».Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio. Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.
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Magia di Renzi: stop alle bonifiche dei siti militari
un favore ai vertici militari, si alzano i limiti per l’inquinamento dei suoli di 100 volte», scrivono il Coordinamento Nazionale Siti Contaminati, il Forum Italiano Movimenti per l’Acqua, “Stop Biocidio Lazio” e “Stop Biocidio Abruzzo”: «Il governo Renzi moltiplica le aree industriali del paese, ma l’obiettivo non è creare occupazione ma mettere sotto il tappeto la contaminazione dei suoli delle aree militari alzando anche di 100 volte i limiti di legge». In altre parole è un colpo di spugna sullo stato di contaminazione delle aree militari del paese. Il decreto, pubblicato ieri nella Gazzetta ufficiale, prevede che nelle aree militari si deve far riferimento ai limiti della colonna B della tabella relativa alle soglie di contaminazione dei suoli del decreto legislativo 152/2006, quella relativa alle aree industriali, e non già alla colonna A, quella con i limiti per le aree residenziali e a verde.I comitati forniscono alcuni esempi: nelle aree a verde la soglia per il cobalto è 20 mg/kg mentre per le aree industriali è 250 mg/kg, più di 10 volte. Per la sommatoria dei composti policiclici aromatici (tra cui diversi tossici e/o cancerogeni) addirittura il limite per le aree industriali è più alto di 100 volte (1 mg/kg contro 100 mg/kg). Il benzene, cancerogeno di prima classe per lo Iarc, ha un limite più alto di venti volte (0,1 mg/kg contro 2 mg/kg). Per il tetracloroetilene, un altro sospetto cancerogeno e tossico per il fegato, il limite è 40 volte più alto. Il tutto in aree che spesso appaiono come ampie zone verdi coperte da macchia mediterranea e boschi! Si pensi a Capo Teulada e Quirra (Perdasdefogu) in Sardegna, oppure a Monte Romano in Lazio (vasto 5000 ettari!). Con buona pace di comuni e regioni che da tempo aspettavano di riprendersi quelle aree per usi civili. Non risultano, al momento, levate di scudi da parte di settori ecologisti fiancheggiatori del governo, i sedicenti eco-dem, né chiamate alla mobilitazioni da parte di prestigiosi colossi dell’ambientalismo.(Checchino Antonini, “Magia di Renzi: stop alle bonifiche dei siti militari”, da “Popoff” del 26 giugno 2014).Quando si candidò alla presidenza della Regione Emilia-Romagna, Gian Luca Galletti sussurrò ai microfoni di “Radio Città del Capo” l’idea balzana di poter ospitare una bella centrale nucleare. L’uomo sbagliato nel posto sbagliato, visto che questo esponente dell’Udc, il partito che più spesso è sembrato un club di indagati, è stato voluto da Renzi al ministero dell’ambiente. Da lì ha emanato ieri un decreto, il 91/2014, dal titolo grottesco di “Ambiente protetto”. Bene, come pensa di proteggere l’ambiente questo ministro? Semplice: decine di migliaia di ettari, circa 30mila, distribuiti in tutto il paese [in grande prevalenza in Sardegna] vengono equiparati ad aree industriali per i quali la legge prescrive soglie di contaminazione molto più alte. Si tratta di terreni occupati da poligoni militari, campi di addestramento, caserme, e in cui sono state svolte per decenni attività che possono aver liberato sostanze pericolose (si pensi ai continui brillamenti di cariche nei poligoni).
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I ladri spolpano il paese e gli italiani credono a un bugiardo
Il Mose di Venezia, la ricostruzione dell’Aquila, l’Expo di Milano, il villaggio della Maddalena, il sistema Sesto (San Giovanni), gli scandali della protezione civile, le mangerie sulla sanità e sui rifiuti nel meridione e nel Lazio, le ruberie sulla Tav e le porcate nei consigli regionali di mezza Italia (tutti quelli su cui si indaga), gli sprechi nei palazzi siciliani: «Tutto questo mostra che gli apparati dei partiti politici e della burocrazia sono strutturalmente dediti a queste cose, che la politica e l’amministrazione vivono di questo». Accusa Marco Della Luna: «La partitocrazia equivale alla mafia: controllo del territorio, lavoro, istituzioni, spesa pubblica». Grazie all’apparato dei partiti, è inevitabile che da noi le opere pubbliche costino il doppio o il triplo. Ed è infantile sperare in qualche politico salvatore della patria: «Qualsiasi premier, qualsiasi statista politico poggia per il potere e per la fiducia in Parlamento su quegli apparati di partito e di burocrazia, che non lo appoggerebbero se egli impedisse i loro traffici».Affarismo generalizzato, sistemico. «Irrazionale è anche pensare che la magistratura di un cosiffatto paese possa risanare il sistema», scrive Della Luna nel suo blog. Il potere giudiziario può colpire singoli imbrogli, non il sistema. Prima di Tangentopoli, la giustizia non interveniva. «Si è mossa solo nel ’92 a seguito del Britannia Party, quando si trattò di arrivare ad altri scopi, soprattutto coprire operazioni di svendita del paese», la super-privatizzazione per la quale fu cooptato Mario Draghi. Dal “sistema”, inoltre, non sono esenti spezzoni della magistratura: dopo lo scandalo Mose, lo stesso Cacciari ha rivelato di aver a suo tempo «presentato un dossier su questo scandalo in una pubblica seduta della Corte dei Conti, senza raccogliere interesse». E un giudice di questa stesa Corte «ha denunciato di aver redatto un rapporto sulle mangerie del Mose già nel 2009, ma di essere stato semi-silenziato da un superiore». Piove sul bagnato: «Gli uomini della casta si riciclano sempre tra di loro, e smettono solo se muoiono». I “Compagni G” sono inarrestabili, «non li fermi con l’interdizione dalle attività pubbliche, ma solo rinchiudendoli a vita», perché «agiscono sott’acqua e non hanno bisogno di assumere cariche pubbliche».Finché vivranno questi uomini, circa 400.000 secondo il libro “La Casta” di Aldo Rizzo e Gian Antonio Stella e almeno un milione secondo altri, «l’Italia continuerà a declinare e non inizierà alcun risanamento». Mose, in fondo, fa rima con Vajont e con Tav: opere inutili, pericolose, inquinate. Idem per lo stillicidio dell’aumento indiscriminato della cementificazione, motivato con la riduzione delle piogge: le precipitazioni sono sì calate su base annua, ma si sono concentrate in periodi rischiosi, moltiplicando le alluvioni. Ma il cemento, si sa, fa comodo al “sistema”. Per non parlare del problema numero uno, la finanza pubblica “privatizzata” dai signori dell’euro. Perché non indagare penalmente anche lì, continua Della Luna, dal momento che l’Italia continua a non avvalersi dell’articolo 123 del Trattato di Maastricht che consente agli Stati di finanziarsi presso la Bce attraverso una banca pubblica? In quel modo, il nostro paese «pagherebbe interessi dello 0,25 o 0,15 % anziché del 5% sul debito pubblico, risparmiando 80 miliardi l’anno». Meglio invece «prelevare 57 miliardi con le tasse dagli italiani già colpiti dalla recessione solo per darle ai banchieri predoni francesi e tedeschi onde assicurare i loro profitti nei prestiti fraudolentemente da loro concessi a Grecia, Spagna e Portogallo».E ancora: «Perché non indagare i cancellieri europei che hanno premuto in tal senso, forse ricattando e limitando nella loro libertà le nostre istituzioni, appoggiati dai banchieri e dalle società di rating? Perché non aprire un fascicolo sull’imposizione all’Italia dell’euro, che si sapeva, tecnicamente, che avrebbe causato ciò che ha poi causato? Lo si era già visto con lo Sme, molti economisti di vaglia l’avevano predetto e gli effetti del blocco dei cambi erano descritti nei libri di testo». Già, perché non indagare? Il solo divorzio tra Stato e Banca d’Italia, nel 1981, ha raddoppiato in pochi mesi il rapporto tra debito pubblico e Pil, cessando la funzione di Bankitalia come “bancomat” del governo a costo zero, per favorire l’interesse speculativo della finanza privata. «La politica italiana degli ultimi decenni è piena di simili scelte distruttive per il paese e lucrative per determinati soggetti finanziari, in termini sia di denaro che di potere». Dunque, «perché non indagare se costituiscano crimini contro gli interessi nazionali? Alto tradimento? Attentato alla sovranità e indipendenza nazionali mediante violenza economico-finanziaria sulla popolazione e sull’economia del paese?». E cosa si scoprirebbe, «rovistando nei circuiti di compensazione bancaria semi-segreti» come Clearstream, Euroclear e Swift? Magari che «i nostri politici, ministri, altri statisti, oltre a prendere soldi dalle grandi imprese per i grandi appalti, hanno preso soldi o altre utilità da finanzieri o statisti stranieri per fare quelle operazioni disastrose per l’Italia».Forse, continua Della Luna, «agli italiani non interessa nulla di ciò che riguarda la sfera della legalità e della moralità, e accettano che i loro governanti siano sleali e traditori». Un nome a caso, Matteo Renzi: «Oggi riscuote successo e consenso un personaggio che ha pugnalato alle spalle il suo compagno di partito, allora premier, dicendoli di stare tranquillo, che non gli avrebbe tolto Palazzo Chigi. Un personaggio che ha violato la promessa fatta pochi giorni prima alla nazione, dicendo che non avrebbe accettato il premierato se non passando per le urne». Davvero ottime credenziali, per un moralizzatore: in qualsiasi altro paese, la sua carriera politica sarebbe finita. In Italia, invece, quei vizi capitali diventano virtù. Lo sanno bene «i poteri che lo hanno scelto», spianandogli la strada con tutta la potenza dei media mainstream. Sapevano che gli italiani ci sarebbero cascati, magari con l’aiutino degli 80 euro – carota per gonzi, immediatamente compensata con più tasse e meno servizi.Chi se ne importa se Renzi «non ha una strategia macroeconomica per rimediare», pazienza se «la disoccupazione, la domanda interna, gli investimenti, il debito pubblico continuano a peggiorare». Tutto ciò che il governo fa è «autofinanziarsi prendendo i soldi del risparmio degli italiani per ridistribuirli senza creare nuove fonti di reddito al paese». L’apparato del partito pigliatutto ha una storia analoga a quella degli altri partiti di potere: il Pd «non ha chiarito come i suoi uomini hanno gestito o lasciato gestire il Monte dei Paschi di Siena, saccheggiando di oltre 10 miliardi». Tutto ciò «non impedisce al novello statista di dichiarare, con la massima e più virginale serietà di espressione, che se fosse per lui condannerebbe per alto tradimento tutti i pubblici funzionari e amministratori che si lascino corrompere. Davvero il personaggio giusto, per ridare la moralità alla Repubblica!». In Italia, chi fa davvero sul serio resta isolato. Come il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, titolare dell’indagine sul Mose: quando nel 1997 scrisse il saggio “Giustizia” che metteva alla berlina il sistema Tangentopoli, permettendosi anche «alcune benevole e mitigatissime critiche alle lobbies dei suoi colleghi e ai parteggiamenti filocomunisti di certuni», secondo Della Luna l’Anm «attaccò il dottor Nordio con toni e contenuti molto preoccupanti, esagerati e sorprendentemente minacciosi per un paese in cui vige libertà di espressione». Avanti Renzi, dunque. Show must go on.Il Mose di Venezia, la ricostruzione dell’Aquila, l’Expo di Milano, il villaggio della Maddalena, il sistema Sesto (San Giovanni), gli scandali della protezione civile, le mangerie sulla sanità e sui rifiuti nel meridione e nel Lazio, le ruberie sulla Tav e le porcate nei consigli regionali di mezza Italia (tutti quelli su cui si indaga), gli sprechi nei palazzi siciliani: «Tutto questo mostra che gli apparati dei partiti politici e della burocrazia sono strutturalmente dediti a queste cose, che la politica e l’amministrazione vivono di questo». Accusa Marco Della Luna: «La partitocrazia equivale alla mafia: controllo del territorio, lavoro, istituzioni, spesa pubblica». Grazie all’apparato dei partiti, è inevitabile che da noi le opere pubbliche costino il doppio o il triplo. Ed è infantile sperare in qualche politico salvatore della patria: «Qualsiasi premier, qualsiasi statista politico poggia per il potere e per la fiducia in Parlamento su quegli apparati di partito e di burocrazia, che non lo appoggerebbero se egli impedisse i loro traffici».
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Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista
Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.
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Muos, il silenzio è d’oro: ecco perché i giornali tacciono
Il silenzio è d’oro: meno si parla di missili, droni e Muos, più l’imprenditoria finanziaria italiana – collegata alla grande stampa – farà affari col Pentagono. Ecco perché «la Sicilia è diventata una capitale mondiale dei droni, ma questo non è assolutamente argomento all’ordine del giorno a livello politico e mediatico nel nostro paese», accusa Antonio Mazzeo, da sempre in prima linea contro gli abusi dell’industria degli armamenti. Il nuovo sistema bellico targato Usa di stanza in Italia è un progetto che va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni: oltre agli effetti devastanti sul territorio, l’ambiente e la salute delle popolazioni, la stazione Muos sarà un punto di riferimento fondamentale per i droni, sempre più usati in Medio Oriente per la “lotta al terrorismo” e nel nel cuore del Mediterraneo per l’individuazione e il “respingimento” dei barconi coi migranti. Tutto questo nel silenzio quasi totale dei media, nonostante le proteste No-Muos per l’installazione definitiva delle tre enormi parabole a Niscemi.L’ultimo libro di Mazzeo, “Il MUOStro di Niscemi. Per le guerre globali del XXI secolo”, offre un’analisi meticolosa e dettagliata su questo sistema di controllo e comunicazioni satellitare della Marina degli Stati Uniti. Il Muos, dice Mazzeo a Stefano Nanni e Anna Toro di “Osservatorio Iraq” in un’intervista ripresa da “Micromega”, sarà «uno strumento di guerra che a livello mondiale contribuirà a modificare radicalmente la gestione dei conflitti». Le tre antenne montate a Niscemi fanno parte dell’insieme di parabole di uno dei quattro terminali terrestri previsti a livello planetario. Il Mobile User Objective System installato in Sicilia sarà collegato con quelli dislocati alle Hawaii, in Virginia e in Australia, attraverso 5 satelliti orbitanti a 15.000 chilometri dalla Terra. L’architettura del sistema sarà pronta nel 2016, quando saranno mandati in orbita gli ultimi 3 satelliti. Compito del Muos: accelerare, anche di 10 volte, la velocità di invio di informazioni e comandi a tutti i dispositivi militari Usa nel mondo. Compresi i droni, che il ormai Pentagono impiega “a sciami” nella sua strategia di attacco: e Niscemi, a due passi da Sigonella, consentirà di “corpire” Africa, Mediterraneo e Medio Oriente.Non secondario, dice Mazzeo, il ruolo del Muos per il controllo militare dei flussi di migranti, in linea con la missione dell’agenzia europea Frontex. La stessa operazione Mare Nostrum, lanciata dal governo Letta e presentata come un’operazione umanitaria per evitare che si ripetano stragi come quella di Lampedusa del 3 ottobre 2013, in realtà «sta diventando un laboratorio sperimentale per l’uso dei droni: non solo in una funzione di vigilanza e monitoraggio ma anche di vera e propria guerra ai migranti». Risale a fine novembre un accordo tra Italia e Libia per consentire ai droni Predator (di stanza ad Amendola in Puglia ma presto trasferiti a Sigonella e Trapani) di sorvegliare lo spazio aereo libico fino ai confini col Ciad e col Sudan. «Non solo per vigilare e informare le unità navali, ma di fatto anche per individuare eventuali flussi di migranti che provengono dall’Africa Sub-Sahariana, così da avvertire direttamente le autorità libiche: in questo modo, grazie all’operazione Mare Nostrum, si rende possibile dispiegare le operazioni di contenimento e di respingimento ben prima del Mediterraneo».La Sicilia ha protestato con tutte le sue forze per l’impatto ambientale dell’installazione militare: le antenne del Muos sorgono all’interno della “Sughereta”, una delle riserve di sughero più antiche d’Europa, e lo sbancamento è avvenuto in violazione di tutte le leggi. Senza contare l’impatto sulla salute delle onde elettromagnetiche sprigionate dalle 3 maxi-antenne e dalle 46 antenne secondarie. Il governo ha demandato all’Istituto Superiore di Sanità l’ultima parola sul pericolo dell’elettromagnetismo, mentre per la decisione strategica su un impianto-mostro come il Muos il Parlamento è stato completamente scavalcato. Quasi zero anche le ricadute occupazionali: se su Vicenza piovvero 260 milioni di investimento per l’allargamento della base Dal Molin, a Niscemi ci si è limitati a meno di 15 milioni di dollari, cioè «neanche le briciole di questo enorme progetto», che è (chiavi in mano) di Lockheed Martin, «il primo complesso militare industriale a livello mondiale». Un progetto blindato dal silenzio, se non fosse per la tenace opposizione popolare del movimento No-Muos. Secondo Mazzeo, c’è stata «una enorme sottovalutazione della problematicità», come se si trattasse solo di inquinamento elettromagnetico, come ha finto di credere il presidente siciliano Rosario Crocetta.Disinformazione interessata, accusa Mazzeo: «Bisogna guardare proprio agli intrecci del complesso militare industriale e finanziario italiano con quello statunitense, da cui ovviamente dipendono buona parte dei grandi organi della stampa cartacea o radiotelevisiva: qui c’è stata una scelta – in malafede – di cercare di non parlarne, perché questo avrebbe potuto mettere profondamente in discussione i grandi interessi, quelli che portano l’Italia a dover accettare strumenti di morte, Muos, droni, il raddoppio della base a Vicenza, gli F-35 e così via». Tutte operazioni «in cui l’Italia non ci guadagna niente ma di cui al contrario si assume gli oneri, il carico sociale, economico, finanziario e, nel caso del Muos, anche ambientale». L’Italia accetta quello che altri alleati Usa rifiutano: «C’è una logica di scambio tra il capitale finanziario italiano e quello statunitense: io ti consento di trasformare la Sicilia in una roccaforte delle operazioni più sporche a livello internazionale (come le armi chimiche siriane approdate a Gioia Tauro) e tu in cambio mi consenti di diventare un partner credibile per il Pentagono».L’apparato militare Usa, infatti, è «la grande mucca da mungere a livello mondiale, in una guerra globale permanente dove proprio il Pentagono sarà certamente il principale finanziatore dei conflitti e quindi dell’acquisto di armi a livello planetario». Non è un caso che nell’ultima decade Finmeccanica si sia affermata come l’ottavo complesso a livello mondiale per giro di fatturato sulle armi. Ed ecco perché la grande stampa – collegata al capitale finanziario – evita di dire la verità sul Muos e sugli stessi droni, che invece negli Stati Uniti sono ormai un problema politico: il Congresso è spaccato e le stesse Nazioni Unite hanno dato vita a un comitato d’inchiesta sul loro uso a livello internazionale. La Sicilia è diventata «la capitale mondiale dei droni», con un’enorme concentrazione alla base di Sigonella, ma per in Italia non se ne parla. Un copione già visto, per esempio in Sardegna. «Il Muos è la punta dell’iceberg», conclude Mazzeo. Che confida però nella capacità di mobilitazione civile della protesta: le cose potrebbero cambiare, dice, se riuscissimo a spiegare agli insegnanti che si taglia l’università per finanziare la ricerca missilistica. «La crisi è strutturale perché c’è una guerra che va avanti eternamente e che noi paghiamo giorno per giorno».Il silenzio è d’oro: meno si parla di missili, droni e Muos, più l’imprenditoria finanziaria italiana – collegata alla grande stampa – farà affari col Pentagono. Ecco perché «la Sicilia è diventata una capitale mondiale dei droni, ma questo non è assolutamente argomento all’ordine del giorno a livello politico e mediatico nel nostro paese», accusa Antonio Mazzeo, da sempre in prima linea contro gli abusi dell’industria degli armamenti. Il nuovo sistema bellico targato Usa di stanza in Italia è un progetto che va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni: oltre agli effetti devastanti sul territorio, l’ambiente e la salute delle popolazioni, la stazione Muos sarà un punto di riferimento fondamentale per i droni, sempre più usati in Medio Oriente per la “lotta al terrorismo” e nel nel cuore del Mediterraneo per l’individuazione e il “respingimento” dei barconi coi migranti. Tutto questo nel silenzio quasi totale dei media, nonostante le proteste No-Muos per l’installazione definitiva delle tre enormi parabole a Niscemi.