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Strage a Parigi, operazione militare truccata da jihadismo
Orrendo massacro, lucida follia: ma non è follia. E’ un’operazione militare quella che ha sconvolto Parigi la sera del 13 novembre 2015, facendo 158 morti, colpiti per strada da esplosioni “kamikaze” o freddati a colpi d’arma da fuoco al Bataclan, locale gremito per un concerto. La strage, avverte Pino Cabras, non è solo un evento terroristico spettacolare: «È anche un evento militare di notevole entità nel cuore di una grande metropoli europea». Nel mirino di nuovo la Francia, dopo l’eccidio della redazione di “Charlie Hebdo”. Violenza opaca: sulle indagini relative alla mattanza del giornale satirico, il governo Hollande ha apposto il segreto di Stato dopo che gli inquirenti avevano scoperto che la pista delle armi lambiva i servizi segreti francesi, con una triangolazione che tocca la Slovacchia e il Belgio passando per il quartier generale dell’intelligence di Parigi. «Anche stavolta si fa notare una manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo», annota Cabras su “Megachip”. «Non c’è da stupirsi che essa abbia un peso militare sempre maggiore, essendo una legione di avventurieri istruiti con tecniche sofisticate».Una “legione” di miliziani armata segretamente dall’Occidente e «schierata su molteplici linee del fuoco geopolitiche, pronta a prestare i suoi servizi per demolire interi Stati, e allo stesso tempo ricca di coperture e sovvenzioni statali, persino degli Stati che ne subiscono le interferenze nella loro sicurezza nazionale». E’ un fatto: sono ormai migliaia i combattenti jihadisti europei arruolati nelle guerre di oggi. «Si è creato un tipo di soldato che in Libia, in Siria e altrove non si vuole far rispondere alle convenzioni di Ginevra, per poter fare il massimo danno con il minimo di responsabilità». Ai governanti, scrive Cabras, ci sarebbe da dire: per i vostri sogni neocoloniali dalla tasca avete tirato fuori uno scorpione, non un gattino. Dopo la strage di Charlie Hebdo, fu facile fare una profezia fredda e precisa: «Lo scorpione pungerà ancora in Europa. I governanti europei, fra i più ricattabili e ricattati in ogni campo, subiranno pressioni enormi contro gli interessi dei propri paesi. È l’Impero del Caos che bussa, non l’Islam».Il Caos, continua Cabras, ha lambito il presidente François Hollande, preso di peso mentre assisteva alla partita di calcio Francia-Germania, al momento in cui fuori dallo stadio si udivano esplosioni. «Il messaggio, data la circostanza, non certo casuale (proprio quella partita…), lo ha sentito sicuramente anche la Germania. E i lanciatori del messaggio non sono certo da cercare fra i soldati-terroristi, che sono meri esecutori. Gli autori si trovano fra i soggetti che vogliono che l’Europa non si sottragga alla grande guerra che si sta preparando. Sono pezzi di classi dirigenti occidentali, turche, petro-monarchiche. Gli sponsor dell’Isis e del Caos». Lo spiegava già a fine 2014 il profetico libro “Massoni”, di Gioele Magaldi, svelando le trame occulte di alcune delle 36 superlogge segrete del potere mondiale, tra cui la “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, di cui – secondo l’autore – fanno parte personaggi decisivi come Tony Blair e il leader turco Erdogan, appena rieletto dopo una vigilia elettorale scadita da spaventosi attentati come quello di Parigi.Definita “loggia del sangue e della vendetta”, creata nel 1980 quando a George Bush fu preferito Reagan, secondo Magaldi la “Hathor Pentalpha” – il cui nome è sinistramente consonante con Isis (Hathor è l’altro nome di Iside) sarebbe stata nella “cabina di regia” dell’11 Settembre e oggi sarebbe al corrente di parecchi retroscena del Medio Oriente, a cominciare proprio dalla comparsa dei “tagliagole” in Siria e in Iraq, macabro esito della “fabbrica di terroristi” armati sottobanco dal Pentagono, in collaborazione con Francia e Gran Bretagna e Turchia, nonché Arabia Sudita e altri paesi del Golfo. Non può non colpire la sincronicità della nuova, mostruosa strage di Parigi rispetto all’impegno dell’unica potenza finora schierata sul campo in modo trasparente – la Russia di Putin – per cercare di mettere fine alla sanguinosa strategia della tensione che sta devastando il teatro mediorientale. Altro motivo di preoccupazione, per i “burattinai del terrore”, le crescenti esitazioni della Germania, schierata coi russi nel sostegno al regime di Assad (il male minore) e sempre più contraria all’aggressione occidentale verso lo spazio russo, organizzata utilizzando l’espediente del golpe in Ucraina.«Il governo di Angela Merkel – scrive Pino Cabras – sta sempre più prendendo atto dell’efficacia dei bombardamenti russi in Siria, delle divisioni in seno alle classi dirigenti statunitensi e dei rapidi cambiamenti negli equilibri strategici internazionali». Berlino, aggiunge Cabras su “Megaxchip”, sta dunque cercando di ritirarsi da una battaglia tutto sommato persa, e di giocare un nuovo ruolo pacificatore in Siria. «Il ministro degli esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, punta da settimane a organizzare un incontro del tipo 5+1 (il formato diplomatico che a Vienna ha spinto verso gli accordi per l’Iran) in modo da risolvere il buco nero terroristico che ha investito la Siria». Dentro quello stadio, accanto a Hollande, c’era proprio Steinmeier. «E fuori dallo stadio, sui selciati parigini, decine di innocenti ammazzati, lo stato d’emergenza, la solita strategia della tensione. Dentro e fuori dalla fortezza europea, le braci di una guerra che possono incendiarla. Dove sarà la prossima strage?». Un ottimo argomento, conclude Cabras, per l’imminente G-20 di Antalya. Sede del summit, la Turchia di “Hathor” Erdogan: un paese Nato che, fino all’intervento russo, ha sostenuto con armi, mezzi e logistica i tagliagole anti-Assad, l’esercito dello “scorpione” che ora ha di nuovo colpito Parigi.Orrendo massacro, lucida follia: ma non è follia. E’ un’operazione militare quella che ha sconvolto Parigi la sera del 13 novembre 2015, facendo 120 morti, colpiti per strada da esplosioni “kamikaze” o freddati a colpi d’arma da fuoco al Bataclan, locale gremito per un concerto. La strage, avverte Pino Cabras, non è solo un evento terroristico spettacolare: «È anche un evento militare di notevole entità nel cuore di una grande metropoli europea». Nel mirino di nuovo la Francia, dopo l’eccidio della redazione di “Charlie Hebdo”. Violenza opaca: sulle indagini relative alla mattanza del giornale satirico, il governo Hollande ha apposto il segreto di Stato dopo che gli inquirenti avevano scoperto che la pista delle armi coinvolgeva i servizi segreti francesi, con una triangolazione che tocca la Slovacchia e il Belgio passando per il quartier generale dell’intelligence di Parigi. «Anche stavolta si fa notare una manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo», annota Cabras su “Megachip”. «Non c’è da stupirsi che essa abbia un peso militare sempre maggiore, essendo una legione di avventurieri istruiti con tecniche sofisticate».
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L’orgia cannibale è realtà, Pasolini non doveva svelarla
Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina col romanzo “Petrolio” i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.Stefania Nicoletti collabora da anni con l’avvocato Paolo Franceschetti, già legale delle “Bestie di Satana” e indagatore dei più controversi casi di cronaca, da Cogne al Mostro di Firenze. La tesi è suffragata da osservazioni inconsuete: molti delitti di cui parlano i media sono fatti di sangue solo in apparenza inspiegabili; in realtà si tratta di veri e propri “sacrifici umani”, compiuti da esoteristi che agiscono al riparo di potentissime protezioni, anche istituzionali. Quello che viene esibito – le indagini inconcludenti, il capro espiatorio socialmente fragile – non è che un copione per depistare l’opinione pubblica. La verità, ripete Franceschetti, è che ogni anno, in Italia, spariscono centinaia di minori. «Dove finiscono? Molti loro nel gorgo del traffico di organi, e altrettanti – appunto – nella potentissima rete dei pedofili: gente che arriva a pagare cifre folli per gli “snuff movie”, i film dove la giovane vittima viene violentata e seviziata fino alla sua morte», come appunto nel film di Pasolini. Ed ecco allora l’altro movente, quello occulto, che si salda con la volontà di eliminare e “punire” una voce troppo coraggiosa, lo scrittore che in “Petrolio” (uscito postumo) accusò Eugenio Cefis per la morte di Mattei, il “padre” dell’Eni temutissimo alle Sette Sorelle in quanto filo-arabo.«Spesso il movente del delitto di un personaggio scomodo non è uno solo, ma sono più moventi insieme, che non si escludono a vicenda ma anzi sono complementari, come sono complementari gli interessi e le entità che vogliono la morte di un determinato personaggio inviso al sistema», scrive Stefania Nicoletti sul blog di Franceschetti. E’ il caso, appunto, di Pasolini, sul quale si è scritto di tutto, anche di recente. Nel 2009, ad esempio, è uscito per “Chiarelettere” il libro “Profondo nero” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che porta avanti la tesi Eni-Cefis-Mattei e che contiene anche un’intervista a Pino Pelosi, il “ragazzo di vita” che era con Pasolini quella tragica sera, il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia (alla pista-Eni ha dato risalto, tra gli altri, anche il blog di Beppe Grillo). Nell’agosto 2012, continua la Nicoletti, è arrivata la sentenza della Corte d’assise di Palermo sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ucciso nel 1970 perché stava indagando sulla morte di Mattei. Una sentenza, dunque, dopo 40 anni. De Mauro? Ucciso per paura che rivelasse i mandanti del sabotaggio dell’aereo di Mattei, precipitato a Bascapè sulle colline dell’Oltrepo Pavese.«La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro – scrivono i giudici – fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull’immagine stessa delle istituzioni». Mauro De Mauro, aggiunge la Nicoletti, stava collaborando con il regista Francesco Rosi per il film “Il caso Mattei” e scomparve nel nulla poco prima dell’incontro previsto con Rosi. Cinque anni più tardi, Pier Paolo Pasolini stava indagando sulla stessa pista e aveva scoperto le stesse cose, venendo in possesso di documenti riservati su Eugenio Cefis. E fece la stessa fine di De Mauro.Nel dicembre 2013, poi, escono articoli di giornale che parlano di “svolta” nell’inchiesta per il delitto Pasolini. Dopo 38 anni, scrive Nicoletti, gli inquirenti si accorgono che forse c’è qualcosa che non va nella versione ufficiale e riaprono le indagini. La notizia è che ci sono dei sospetti sui complici di Pino Pelosi: nuovi elementi confermerebbero che a partecipare all’omicidio sarebbero state più persone. «Sono stati ascoltati 120 testimoni, di cui molti non erano mai stati sentiti in precedenza». In articoli come quelli pubblicati dal quotidiano “Il Tempo”, sottolinea la Nicoletti, viene rimarcato più volte che i testimoni sono proprio 120: numero ripetuto per ben tre volte nelle prime righe. «Quando lessi l’articolo, questo particolare mi suonò strano, perché avrebbero anche potuto scrivere “un centinaio” oppure “oltre cento testimoni”. Quel 120 così preciso – scrive la Nicoletti – mi ha ricordato il titolo “Salò o le 120 giornate di Sodoma”», il film “maledetto” che Pasolini aveva ultimato pochi giorni prima di essere ucciso. «È probabile che in questo articolo e nell’intera operazione sia celato qualche messaggio, dato che è proprio nel film in questione che si può trovare uno dei moventi dell’omicidio». In “Salò”, aggiunge Nicoletti, «Pasolini aveva raccontato ciò che accade all’interno delle organizzazioni che detengono il potere».Nello stesso articolo del “Tempo” si parla di «reperti esaminati in passato e ora recuperati dagli investigatori, per avviare nuove analisi utilizzando tecniche scientifiche che precedentemente non esistevano». Di quali reperti si tratta? «Risulta che all’epoca dei fatti venne cancellato o manomesso tutto ciò che poteva essere utile alle indagini: non venne recintato il luogo del delitto, le prove e le tracce vennero cancellate, l’auto di Pasolini venne lasciata incustodita, in modo che chiunque avrebbero potuto mettere o togliere indizi». Dunque, conclude l’analista, «non si capisce quali “reperti” siano ancora validi e possano essere analizzati scientificamente». Un anno dopo, nel dicembre 2014, si parla ancora di “svolta” nelle indagini: le analisi del Dna sugli abiti di Pasolini rilevano tracce di altre 5 persone. Dalle macchie di sangue è stato estratto il codice genetico di altri possibili sospettati, complici quindi di Pelosi. Ma due mesi dopo, nel febbraio 2015, arriva subito un’altra notizia: il test del Dna non risolve il caso, perché il materiale biologico “non è attribuibile”, né collocabile temporalmente.«I magistrati hanno consegnato al gip la richiesta di archiviazione. E dunque l’inchiesta sul delitto Pasolini, riaperta nel 2010, dopo tutti questi annunci di presunte “svolte”, viene di nuovo archiviata». Ma nel 2014, quando l’inchiesta è ancora aperta, Pino Pelosi continua a fare dichiarazioni e viene convocato dalla Procura di Roma per essere interrogato di nuovo. Queste sono alcune delle sue affermazioni: «Quella notte all’Idroscalo c’erano tre automobili, una motocicletta e almeno sei persone, ma non sono in grado di dire chi fossero. Oltre all’Alfa Gt di Pasolini, c’era una Fiat 1300 e un’altra Alfa identica a quella di Pier Paolo. Era buio pesto e ho visto arrivare sul posto due automobili e una motocicletta. C’erano almeno sei persone, e due individui hanno trascinato Pier Paolo fuori dall’abitacolo. In un primo momento sono riuscito ad allontanarmi, fuggendo. Da dove mi trovavo sentivo Pier Paolo gridare e chiedere aiuto, ma nulla di più. Sotto al tappetino dell’automobile di Pier Paolo, c’erano 3 o 4 milioni di lire. Denaro che non venne ritrovato insieme alla vettura». In più, «l’esame del radiale dell’Alfa di Pasolini, che avrebbe dovuto investirlo e schiacciarlo quando era già a terra, uccidendolo, non è stato mai effettuato».Il pm Francesco Minisci gli domanda di chiarire alcuni aspetti relativi al possesso – all’epoca dei fatti – di una Fiat 850 Coupé. Automobile che, a detta di un testimone, sarebbe stata rubata e poi fatta circolare con targhe “buone”. E Pelosi risponde: «Dovrebbero andare a bussare alla porta della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che denunciò il furto della macchina del regista, poi ritrovata a Fiumicino, e a quella di Ninetto Davoli che, a distanza di anni dai tragici eventi, fece distruggere l’Alfa Gt del regista». In effetti l’auto di Pasolini è stata demolita da Davoli nel 1987, come risulta anche alla motorizzazione di Roma. «Queste di Pelosi sono dichiarazioni importanti, che andrebbero quantomeno approfondite», annota Nicoletti. «Ma l’inchiesta, come abbiamo già visto, è stata archiviata». Intanto, nel settembre 2014, esce il tanto atteso film “Pasolini” di Abel Ferrara, pubblicizzato come “film verità” sull’ultimo giorno di vita e sull’omicidio, con promesse di rivelazioni clamorose. Il regista americano dichiara alla stampa di conoscere la verità sul delitto Pasolini e di rivelare il vero autore dell’omicidio, con tanto di nome e cognome. «Promesse assolutamente disattese: infatti nel film non solo non viene fatto il nome del vero assassino, ma viene messa in atto una vera e propria azione di depistaggio».Nelle scene finali viene ricostruita la notte dell’omicidio, continua Nicoletti: «Secondo Abel Ferrara, a uccidere Pasolini non è stato Pelosi – e fin qui va bene – ma un gruppo di sbandati che lo ammazzano perché è ricco e vogliono derubarlo, e perché è omosessuale. Per tutta la sua durata, il film fa credere di voler dare un’ipotesi alternativa sulla dinamica dell’omicidio e sugli esecutori, citando anche brani del romanzo “Petrolio”. Si arriva alla fine del film con tante attese e speranze… E in effetti l’ipotesi alternativa viene data, ma essa è ancora più depistante di quella ufficiale». Esiste invece un altro film, pronto già nel 2012 ma che non è mai riuscito a trovare una distribuzione. Si intitola “Pasolini, la verità nascosta” e il regista è Federico Bruno, che ha ricostruito l’ultimo anno di vita di Pasolini: la stesura del libro “Petrolio” e i capitoli mancanti sull’Eni e sul delitto Mattei, la preparazione del film “Salò” e il furto delle bobine (i negativi), le ultime interviste alla tv francese e a Furio Colombo. «Il film smentisce la tesi ufficiale, portando nuove inedite informazioni. E lo fa davvero, non come quello di Ferrara. Per questo motivo, il film di Federico Bruno è stato boicottato e non distribuito in Italia, rifiutato da tutti, anche dai parenti di Pasolini; mentre invece il film depistante di Abel Ferrara è stato finanziato dallo Stato, appoggiato dagli eredi di Pasolini, e persino presentato in concorso al 71° Festival del Cinema di Venezia».Negli ultimi mesi, continua Stefania Nicoletti, è stato annunciato un altro film, che uscirà a febbraio 2016: “La macchinazione” di David Grieco, amico e collaboratore di Pasolini, e anche autore della memoria civile al processo Pelosi. Il film racconterà gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini. «In alcune interviste, Grieco afferma che Pasolini è stato ucciso dall’organizzazione che ha compiuto tutte le stragi italiane (che lo stesso Pasolini aveva denunciato nel suo celebre “Io so” e in altri articoli) e messo in atto la strategia della tensione, servendosi di uomini dei servizi segreti e di Gladio». Lo dichiara apertamente, Grieco, intervistato dal “Piccolo” di Trieste: «Pasolini è stato ammazzato da quelli che hanno fatto tutto quello che è stato fatto dal ’69 in poi in questo paese: le stragi, la strategia della tensione, gli omicidi politici, le bombe sui treni, la stazione di Bologna, piazza della Loggia, eccetera. L’organizzazione era molto vasta e quindi non parlo materialmente delle stesse persone. È un’organizzazione che nasce all’alba della Liberazione, quando gli americani arrivano in Italia, l’esercito tedesco è in rotta e loro già stanno pensando a come fronteggiare il nemico sovietico».«Si crea uno Stay Behind che in Italia si chiama Gladio, organizzazione clandestina ma fino a un certo punto perchè in America è pienamente nota ed è presente in tutti i rapporti della Cia al congresso americano», continua Grieco, che spiega che Gladio «serve a fare qualsiasi cosa purché il comunismo non si espanda e non prenda piede nella parte occidentale o meridionale d’Europa. Qualunque mezzo è lecito». Leggendo queste dichiarazioni, Stefania Nicoletti si domanda: «Come mai David Grieco, amico storico di Pasolini, parla pubblicamente solo adesso? Come mai non l’ha detto prima, anziché aspettare 40 anni? Forse è il segno che “qualcuno” ha deciso che certe verità devono emergere in questo momento storico». Oltre al film che sta realizzando, Grieco ha pubblicato anche un libro: “La macchinazione. Pasolini, la verità sulla morte”, uscito da poche settimane, edito da Rizzoli. Grieco fu tra i primi a raggiungere il luogo in cui fu trovato il corpo senza vita di Pasolini, insieme al medico legale Faustino Durante, anche se «risultava che sul luogo del delitto non fosse mai stato convocato un medico legale». Inoltre, Grieco è stato il compagno di Bruna Durante, figlia del medico legale.Se l’infinita odissea processuale – proprio come quelle delle stragi e dei casi di cronaca “irrisolti” – naufraga in un mare di ombre, sospetti, menzogne e depistaggi, Stefania Nicoletti si concentra sul profilo “simbolico” della vicenda, sempre trascurato. «A mio parere – scrive – nella scelta del luogo e nella modalità dell’omicidio, è stata applicata più volte la legge del contrappasso». L’Idroscalo è un aeroporto (per gli idrovolanti), e Pasolini «aveva scoperto la verità sull’omicidio di Enrico Mattei, morto in un incidente aereo». Un “contrappasso per analogia”? «Anche nella messa in scena del movente sessuale possiamo trovare un contrappasso: l’hanno ammazzato nei luoghi degradati e negli ambienti violenti che aveva sempre descritto nelle sue opere. Le borgate, i ragazzi di vita, l’omosessualità. Da un lato era un ottimo modo per avere una rapida risoluzione del caso e per poi continuare ad infangarne la memoria, dall’altro fu un omicidio per analogia: ti facciamo morire come uno dei tuoi personaggi. Stessi luoghi, stesse persone, stesse modalità».Ancora cinema: alla fine del 2013 è stata annunciata la pubblicazione di una sceneggiatura risalente al 1959 e rimasta finora inedita, “La Nebbiosa”, in cui Pasolini aveva descritto un omicidio uguale al suo. La trama: un gruppo di teppisti sequestra un omosessuale, lo conduce in uno spiazzo deserto e lo picchia a sangue fino alla morte. I giornali parlano di “visione profetica”, scrivendo che Pasolini “sapeva come sarebbe morto” e che “ha anticipato lo scenario” del suo omicidio. «In realtà, non è che sapeva come sarebbe morto, e nemmeno ha anticipato o profetizzato la sua morte», puntualizza Stefania Nicoletti. «Invece è il contrario: l’hanno ucciso come il personaggio di questa sua opera inedita ora pubblicata. E anche qui possiamo quindi trovare la legge del contrappasso». Secondo la Nicoletti, «è la stessa operazione che fecero con Rino Gaetano e la sua canzone “La ballata di Renzo”», in cui il cantante descrisse la morte di un giovane rifiutato da più ospedali e morto dissanguato nella notte, come in effetti poi accadde all’autore di “Nun te reggae più”. «Anche nel caso di Rino Gaetano si disse che aveva profetizzato la sua morte molti anni prima, quando invece fu il contrario: lo uccisero come in quella sua canzone».Sulla storia descritta ne “La Nebbiosa”, il quotidiano “Libero” scrive: «L’alba è vicina e i ragazzi caricano in macchina un omosessuale, lo portano in uno spiazzo isolato, lo spogliano e lo massacrano a sangue. Una scena che sconvolge perché ricorda molto da vicino proprio le modalità con cui Pasolini verrà ucciso nel 1975 al Lido di Ostia. Talmente da vicino che, se stessimo scrivendo un giallo e non un articolo, potremmo ipotizzare che chi ha ucciso Pasolini avesse letto il copione e avesse tutto l’interesse a farlo scomparire. Quasi che “La Nebbiosa” potesse contenere quei segreti sulla morte dello scrittore che nemmeno la magistratura è mai riuscita del tutto a chiarire». Preveggenza, appunto, o piuttosto esecuzione progettata sulla base del copione narrato dalla stessa vittima? Per questo Stefania Nicoletti si concentra su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, l’ultimo film di Pasolini, uscito postumo due mesi dopo la sua morte. Il regista terminò il montaggio proprio il giorno prima di essere ucciso. Film legato a doppio filo all’omicidio: non solo perché si conclude con una strage, ma perché finì direttamente nelle indagini a causa di materiale cinematografico rubato e poi utilizzato per condizionare il regista, forse addirittura per tendergli l’agguato mortale.E’ noto infatti l’episodio delle bobine di “Salò” rubate alla Technicolor: unico caso nella storia del cinema di furto di “pizze” con richiesta di riscatto (due miliardi di lire). Pasolini si rifiutò di pagare: disse al produttore che avrebbe ricavato un negativo da un positivo e che avrebbe fatto a meno degli originali. Poco dopo, continua Stefania Nicoletti, un personaggio oscuro della malavita romana – si dice che fosse un esponente della Banda della Magliana – andò dal regista Sergio Citti e gli disse di essere in possesso delle pellicole e di poterle restituire anche gratis se avesse organizzato un incontro con Pasolini. Fu lo stesso Citti, amico e collaboratore del regista, a raccontare l’episodio nel 2005, dichiarando anche di non essere mai stato chiamato a testimoniare (secondo il regista Federico Bruno, invece, Citti sarebbe stato ascoltato dagli inquirenti). Pasolini dapprima rifiutò l’incontro per la restituzione delle “pizze”, non fidandosi dell’ambiente da cui proveniva la proposta. Ma in un secondo momento accettò, convinto da Pino Pelosi, che conosceva da qualche mese. «Pelosi fece quindi da esca – consapevole o meno – alla trappola tesa per portare Pasolini a Ostia e ucciderlo».Il film “Salò” è ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, ma Pasolini ne colloca l’ambientazione tra il 1944 e il 1945, nel Nord Italia occupato dai nazifascisti durante la Repubblica Sociale Italiana (da cui il titolo “Salò”). In una villa isolata, si riuniscono quattro rappresentanti del potere: il Duca, il Monsignore, l’Eccellenza (Giudice di Corte d’assise), e il Presidente (di una banca). I quattro Signori fanno rapire decine di ragazzi e ragazze, e nella villa infliggono loro ogni tipo di violenza e tortura psicologica, fisica e sessuale. Con il passare del tempo, i giovani perdono la dignità umana e si abbandonano al loro destino, consegnano il proprio corpo e la propria anima ai Signori. Giunti quasi al termine delle 120 giornate, in cerca di una violenza sempre più intensa, i Signori decidono di passare alla forma più estrema di “piacere”: quello assassino, uccidendo la maggior parte dei ragazzi. «È un film scioccante, crudele, terribile. Ma è più di un film… racconta la realtà. Una realtà che non si riferiva solo al periodo in cui è ambientato – afferma Stefania Nicoletti – ma che esisteva anche negli anni ’70 quando Pasolini ha scritto e girato il film, e che continua ad esistere anche oggi».Una realtà «fatta di abusi atroci, di torture sessuali, di delitti rituali commessi da coloro che detengono il potere, i cosiddetti “insospettabili”, professionisti e persone rispettabili, i vertici del Sistema». Ne parlò anche il blog di Franceschetti nel 2011, riportando «testimonianze di sopravvissuti a un sistema di abusi simili a quelli descritti da Pasolini». Nel film “Salò”, i quattro Signori «rappresentano i rami del potere: nobiliare, ecclesiastico, giudiziario, economico-bancario». Il vero potere. «Nel film i quattro potenti assoldano dei giovani repubblichini di leva e delle SS, e li incaricano di rapire i ragazzi e portarli alla villa. Le milizie nazifasciste rappresentano sia il potere militare (ma a livelli bassi: non sono generali o comunque ufficiali) sia quello politico, che è subordinato agli altri poteri: i quattro Signori si servono dei repubblichini per raggiungere i loro scopi». Il film è suddiviso in quattro parti, che richiamano nel titolo la geografia dantesca dell’Inferno: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue. Chi conosce il blog di Franceschetti sa quanto siano importanti Dante e la Divina Commedia per le società segrete, sia quelle originarie (iniziatico-libertarie) che quelle più recenti e deviate: «Pasolini, che conosceva bene il sistema in cui viviamo, in questo film ha descritto proprio le organizzazioni massoniche ed esoteriche “nere” che compiono abusi e delitti rituali; e forse, con il richiamo all’Inferno, ha voluto darci un’ulteriore indicazione sulla natura di ciò che ha raccontato».Un altro particolare che Pasolini ha preso dalla realtà, continua Stefania Nicoletti, è la modalità del rapimento: «I giovani vengono scelti in base a determinate caratteristiche, e vengono strappati dalle proprie famiglie; ma talvolta sono invece i loro stessi familiari che li vendono». Inoltre prendono parte alle sevizie anche le figlie dei quattro super-potenti, trattate come schiave. Significativo anche il fatto che, secondo il regolamento della villa, “i più piccoli atti religiosi, da parte di qualunque soggetto, verranno puniti con la morte”. Nel film come nella realtà, infatti, «all’interno di queste organizzazioni occulte viene osteggiato qualunque tipo di religiosità o di spiritualità autentica, per lasciare spazio invece a quella deviata», scrive la Nicoletti. «Chi “tradisce” il regolamento viene ucciso, come la ragazza a cui nel film viene tagliata la gola davanti a un altare religioso, e il corpo viene mostrato a tutto il gruppo come monito». Molto eloquente il discorso che il Duca pronuncia quando “accoglie” le giovani vittime nella sua villa: «Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti».Una logica che «esprime perfettamente quello che succede davvero all’interno delle organizzazioni di potenti che commettono abusi e delitti come quelli narrati». Nella sua ultima intervista televisiva, concessa a una tv francese il 31 ottobre 1975 (due giorni prima della morte), in occasione dell’uscita del film, Pasolini affermò: «Il cannibalismo? In certi ambienti è un fatto politico reale, in certi ambienti è un fatto politico metaforico». Insomma, a una lettura attenta e profonda, secondo Stefania Nicoletti «si può capire come Pasolini abbia usato l’espediente dell’ambientazione durante l’occupazione nazifascista per raccontare una realtà molto più grande e attuale». “Salò” illuminerebbe un vero e proprio inferno, retroterra di troppe sparizioni “inspiegabili”, delitti eccellenti, fatti di sangue che restano senza colpevoli. E sparizioni di centinaia di minori, in Italia e nel mondo, ogni anno. «Una realtà fatta di violenze e di abusi rituali, di delitti e di sacrifici umani. Una realtà che coinvolge i vertici del potere, ma che viene sistematicamente occultata. Qualcosa di molto pericoloso, che Pasolini non avrebbe dovuto raccontare e che ha pagato con la vita».Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina, col romanzo “Petrolio”, i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.
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Volevano suicidare la Russia, odiano Putin che l’ha salvata
Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.Milioni di ragazze scoprivano che i loro corpi avevano un mercato, per le strade di Mosca invase dai turisti o nelle città d’Europa finalmente accessibili per una schiavitù diversa dalla solita, e più brutale. Gli orfanotrofi traboccavano di creature malnutrite rifiutate da famiglie scomparse e abbandonate da uno Stato in bancarotta. La droga, il collasso dei servizi pubblici e l’anomia sociale mietevano un numero incalcolabile di giovani vittime ai quattro angoli di un impero arrugginito, venduto pezzo per pezzo come metallo di scarto sui mercati mondiali della corruzione e del malaffare. Mosca e San Pietroburgo, di notte, facevano paura. Crimine fuori controllo, omicidi spiccioli ed esecuzioni mafiose in grande stile terrorizzavano città senza più legge, dove la polizia sopravviveva grazie alle mazzette e all’estorsione e i malviventi regnavano come mai i Corleone e i Riina avrebbero potuto sognare nella loro terra. La Russia di Yeltsin non era più orso. Era semmai un elefante mutilato e sanguinante, cui bracconieri indigeni e stranieri somministravano stupefacenti per tenerlo in vita, mentre gli rubavano avorio, organi, e anima.E poi c’era l’esercito. L’istituzione che aveva, sin dalla rivoluzione d’ottobre, rappresentato la gloria e la potenza, il vanto e l’orgoglio, il blasone e il sigillo della leadership mondiale della Russia dei Soviet. Non più Armata Rossa ma Russa, l’esercito era allora sotto la guida di Grachev. Una figura dimenticata ma preziosa, per capire la storia. Non la storia dei summit e delle dichiarazioni diplomatiche, no. La storia di uomini e donne, di carne e di sangue, di vita e di morte. La storia dei russi, contro la storia dei think tank e delle accademie e dei fondi monetari. Era il dicembre 1994 e Grachev aveva dichiarato con boria mediatica che l’esercito russo avrebbe potuto conquistare Grozny in 24 ore con un solo reggimento di paracadutisti. Perché oltre che dissanguata, derelitta e derubata, la Russia di Yeltsin era anche a un passo dalla disintegrazione. Regioni ribelli guidate da delinquenti e corrotti premevano per la secessione da un potere centrale che non aveva più potere, né centralità. E se il corpo rischiava la metastasi, il cancro da cui questo minacciava di diffondersi era la Cecenia.Dicono i pettegolezzi, che sono un po’ anche cronaca, che Grachev avesse dato l’ordine di invadere Grozny di notte, ubriaco. E così la mattina di capodanno del 1995 la capitale caucasica fu svegliata dalle bombe e dai carri armati. Era la prima volta che l’Armata Russa combatteva. E fu un disastro che nemmeno gli analisti più cinici avrebbero previsto. Lungi dall’impiegare un solo battaglione di paracadutisti, Grachev riversò su Grozny tutto quello che aveva. Tank, artiglieria, aviazione. E lungi dall’ottenere la rapida vittoria che aveva promesso, si risvegliò dalla supposta sbronza con le notizie di una catastrofe nazionale. L’Armata Rossa non solo aveva cambiato nome. Non esisteva neanche più. C’era, al suo posto, l’esercito di Yeltsin. Della nuova Russia occidentale, prediletta discepola degli amici d’America. Un’armata brancaleone di ragazzini adolescenti strappati alle famiglie e scaraventati al fronte. Mezzi antiquati e colonne sbandate. Strategie militari da prima guerra mondiale. Se un simbolo della rovina materiale, morale e umana in cui la transizione benedetta dall’America aveva gettato la Russia esiste, questo e’ senz’altro la campagna cecena di Pavel Grachev. D’altronde, l’Armata Russa era la stessa di cui filtravano notizie di soldati ridotti alla fame nelle basi dell’estremo Oriente, o venduti a San Pietroburgo come prostituti a ora per clienti facoltosi, o massacrati nei riti d’iniziazione sfuggiti a qualunque regola e disciplina, o suicidi in massa per sfuggire a violenze e soprusi impuniti.E così in Cecenia, dopo un bilancio di migliaia di soldati uccisi e fatti prigionieri, di una città rasa al suolo e di civili sterminati, il cancro non era stato nemmeno estirpato. E un anno dopo, i ribelli l’avrebbero riconquistata. Grachev perse la faccia. E la Russia con lui. Mentre le madri dei piccoli soldati usati come carne da cannone iniziarono le loro coraggiose manifestazioni pubbliche davanti ai lugubri ministeri moscoviti, che tanto le facevano assomigliare alle danze solitarie delle madri dei desaparecidos sudamericani. E sarebbe stata una ricerca disperata, straziante e inutile, perché dei figli soldati della Russia non v’erano notizie, né sepoltura, né nomi. Scomparsi nel nulla, saltati in aria nei carri sgangherati di Grachev, torturati nelle prigioni improvvisate dei mujaheddin ceceni. Inghiottiti dal drago di un paese allo sfacelo. Che però, allora, era il darling della Casa Bianca. Per questo, oggi, non capiamo Putin. Perché ci rifiutiamo di vedere la storia degli uomini e ci soffermiamo invece sui paper delle accademie. Quelli che ci dicono che Putin è un fascista che sta distruggendo la Russia. Quelli che ci parlano di un paese prigioniero di una nuova tirannia. Quelli che dipingono la Crimea come una nuova Cecoslovacchia e l’Ucraina come la Polonia di Hitler. Quelli che sono, oggi, la copia speculare di ciò che condannano: propaganda.Perché la Russia non è più stracciona, e Putin lentamente l’ha cambiata. Ha ricostruito lo Stato. Non è un modello di democrazia di Westminster, no di certo. Ma esiste, e fa qualcosa. Ha recuperato, legalmente e illegalmente, parte di quell’eredità che l’oligarchia mafiosa aveva comprato alla fiera dell’est, per due soldi. Ha curato i focolai tumorali che minacciavano la sopravvivenza della Federazione. Ha riparato i carri armati, e li ha svuotati degli adolescenti di leva, riempiendoli di soldati professionisti. Ha licenziato la leadership alcolista, e investito in ricerca e sviluppo. Ha riaperto le fabbriche del complesso militare industriale che non è certo la chiave del futuro, ma che è tutto ciò che la Russia aveva e da cui poteva ripartire. E quando il paese ha smesso di presentarsi ai summit internazionali scalzo e rattoppato per supplicare l’America e le sue istituzioni finanziarie di elargire un altro prestito ipotecando in cambio l’interesse nazionale, la Russia di Putin ne ha ripreso in mano il dossier. E ne ha rilette, una dopo l’altra, le pagine dimenticate.La sorpresa della Crimea, per questo motivo, è tale solo per gli ipocriti, gli smemorati, e gli ingenui. La Crimea fu uno degli scogli più insidiosi su cui la transizione post sovietica rischio’ di naufragare, già negli anni ‘90, quando per poco non scatenò una guerra. In Crimea c’erano Sebastopoli e la flotta del Mar Nero. L’intera geopolitica zarista e poi sovietica aveva da sempre cercato lo sbocco verso il Mediterraneo, lo sanno anche i bambini delle medie. Non è certo un’invenzione di Putin. La Crimea è stata sempre la colonna portante dell’interesse nazionale russo. Non è Putin che ha stravolto la storia rivendicandola e riconquistandola. Era stata la debolezza e la disperazione degli anni di Yeltsin a far accettare obtorto collo a Mosca la rinuncia a una penisola che è insieme strategia e letteratura e icona e identità. La perdita della Crimea fu per i russi una dolorosa circostanza storica, mai una scelta coraggiosa.L’aspro confronto tra Obama e Putin è tutto qui. L’elefante tramortito è ritornato orso. E rifiuta le sbarre della gabbia che la Nato nell’ultimo decennio gli ha costruito addosso, a dispetto delle dichiarazioni di amicizia e di rispetto. Il livore di Obama ha così dipinto la Crimea come la prova della cattiveria di Putin, e l’Europa sbadata gli ha creduto. E ora che la Russia interviene su uno scacchiere mediorientale da cui mancava da vent’anni, la Casa Bianca si agita scomposta. Ma vent’anni di egemonia statunitense in Medio Oriente e Nord Africa cosa hanno prodotto? La farsa dell’Iraq e la sua tragedia umana. Lo Stato Islamico e il suo regno di barbarie. Il collasso della Siria e i milioni di profughi e la sua guerra senza sbocco. La fine della Libia. Ed è solo l’inizio di un terremoto che l’America stessa ha scatenato, ma che le è ormai sfuggito di mano. Persino i paesi della regione lo sanno. E oggi iniziano a guardare a Putin più che a Obama, cui rimane la retorica da guerra fredda, l’uso spregiudicato delle sanzioni con la scusa dei diritti umani, e la scelta sconsiderata di perdere la Russia.Putin è un personaggio complesso, ma non è il diavolo. Ha il merito di avere mantenuto la Russia nella storia, in un momento in cui era tutt’altro che scontato. Il giovane ignoto che si insediò sullo scranno degli Zar quando Yeltsin barcollò via con un ultimo brindisi, non verrà giudicato dalla storia per i pettegolezzi su come abbia passato il compleanno e sul costo dell’orologio che porta al polso, temi oggi prediletti da riviste un tempo autorevoli come “Foreign Policy”. Il verdetto è già scritto. E’ nelle immagini che lo mostrano assieme al ministro della difesa Shoigu nelle stanze dei bottoni del suo esercito, da cui la campagna siriana viene coordinata. Sono passati solo due decenni, ma sembrano anni luce dalle gaffe di Yeltsin, e dalla disfatta cecena di Grachev. Se Obama non gradisce, non è per i diritti umani dei russi. Washington ha approfittato della penosa transizione russa per arraffare quanto più spazio geopolitico ha potuto, in Europa, in Medio Oriente, nel Pacifico. E adesso che al Cremlino non siede più un ubriacone cardiopatico, e l’esercito non è più il soldatino di latta di Grachev, l’America, di colpo, ha deposto le lusinghe. E ha perso il sorriso. E minaccia di trascinarci, tutti, in uno scontro frontale con la Russia. Per i suoi interessi, e contro i nostri. Che sono quelli di un’Europa che non si fermi di colpo alla frontiera bielorussa.(Mario Rimini, “Perché l’Occidente non capisce più la Russia. Una lettura critica”, da “Il Foglio” del 9 ottobre 2015).Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.
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Levy: persino Gandhi capirebbe la violenza dei palestinesi
Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.Come ha scritto recentemente l’attivista palestinese di lunga data Hanan Ashrawi, i palestinesi solo l’unico popolo sulla terra a cui si chiede di garantire la sicurezza dell’occupante, mentre Israele è l’unico paese al mondo che pretende protezione alle sue vittime. E come possiamo rispondere? Come ha chiesto il presidente Mahmoud Abbas in un’intervista ad “Haaretz”: «Come vi aspettate che la piazza palestinese reagisse dopo che l’adolescente Mohammed Abu Khdeir è stato bruciato vivo [nel luglio 2014, dopo l’uccisione di tre giovani israeliani], l’incendio della casa dei Dawabsheh [nell’agosto 2015, in cui è morto carbonizzato un bambino di 18 mesi e, dopo qualche settimana, sono deceduti i suoi genitori], le aggressioni dei coloni e gli attacchi contro le proprietà [palestinesi] sotto gli occhi dei soldati?». E cos’abbiamo da rispondere?Ai cento anni di spoliazione ed ai 50 anni di oppressione possiamo aggiungere gli ultimi anni, segnati dall’intollerabile arroganza israeliana che ci sta esplodendo ancora una volta in faccia. Sono stati gli anni in cui Israele ha pensato di poter fare qualunque cosa senza pagarne il prezzo. Ha pensato che il ministro della difesa [Moshe Ya’alon, del Likud, il partito di Netanyahu] potesse vantarsi di conoscere l’identità degli assassini dei Dawabsheh senza arrestarli, e i palestinesi si sarebbero controllati. Ha pensato che quasi ogni settimana un ragazzo o adolescente potesse essere ucciso dai soldati e i palestinesi sarebbero rimasti tranquilli. Ha pensato che i soldati israeliani potessero irrompere nelle case dei palestinesi ogni notte e terrorizzare, umiliare ed arrestare la gente. Che a centinaia potessero essere arrestati senza un’accusa. Che lo Shin Bet, il sevizio di sicurezza, potesse continuare a torturare i sospetti con metodi satanici.Ha pensato che i prigionieri che fanno lo sciopero della fame e che sono stati liberati potessero essere riarrestati, spesso senza alcuna ragione. Che Israele potesse distruggere Gaza una volta ogni due o tre anni e che Gaza si sarebbe arresa e la Cisgiordania sarebbe rimasta tranquilla. Che l’opinione pubblica israeliana avrebbe applaudito tutto ciò, nella migliore delle ipotesi con sorrisi e nella peggiore con la richiesta di più sangue palestinese, con una sete che è difficile da comprendere. E i palestinesi lo avrebbero perdonato. Tutto ciò potrebbe continuare ancora per molti anni. Perché? Perchè Israele è più forte che mai e l’Occidente è indifferente e gli consente di scatenarsi come non mai. I palestinesi, nel contempo, sono deboli, divisi, isolati e colpiti come non mai dai tempi della Nakba. Così tutto ciò potrebbe continuare perché Israele lo può fare – e il popolo [israeliano] lo vuole. Nessuno potrà fermare ciò, se non l’opinione pubblica internazionale, che Israele rifiuta in quanto anti-ebraica.E non abbiamo detto niente in merito all’occupazione in quanto tale e l’incapacità di porvi termine. Siamo stanchi. Non abbiamo detto una parola sull’ingiustizia del 1948, che avrebbe dovuto finire allora e non continuata con ancor maggiore forza nel 1967, e continuata senza che se ne veda la fine. Non abbiamo parlato delle leggi internazionali, del diritto naturale e l’etica umana, che non può assolutamente accettare niente di simile. Quando giovani uccidono coloni, lanciano bottiglie molotov contro i soldati e scagliano pietre contro gli israeliani, questo è il contesto. Ci vuole una buona dose di ottusità, ignoranza, nazionalismo e arroganza – o di tutto ciò insieme – per ignorare tutto ciò.(Gideon Levy, “Perfino Gandhi capirebbe la violenza palestinese”, articolo pubblicato sul quotidiano israeliano “Haaretz” il 9 ottobre 2015 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.
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Svetlana Alexievic, Premio Nobel alla Banalità Letteraria
I conflitti tra gli agenti strategici sono una caratteristica fondamentale delle società umane. Sono gli esiti di questi scontri a determinare i differenziali di potere tra i gruppi che si disputano il dominio nelle organizzazioni umane, all’interno di ogni sfera societaria. Da tali scontri nascono le stratificazioni in verticale dei ruoli e delle funzioni degli individui e dei raggruppamenti collettivi (la scala dei rapporti di forza interni tra drappelli che si contendono la supremazia nazionale, anche attraverso la sottomissione dei settori più deboli e numerosi come quelli detti popolari) e le segmentazioni in orizzontale (la scala dei rapporti di forza esterni tra formazioni che gareggiano per il primato globale o per uno più localizzato). Ovviamente, una lotta di potere in una nazione dominante o con una sensibile proiezione regionale (come gli Usa o la Russia), benché scaturente in un contesto apparentemente limitato, produce degli scossoni su pezzi importanti della scacchiera planetaria, dove si allungano le sue influenze.Se tali diatribe scoppiano in un contesto periferico gli effetti generati SONO sono più contenuti, anche se non inessenziali per gli equilibri internazionali. Spesso il peso specifico di uno Stato dipende, oltre che dalla sua forza intrinseca, anche dalla posizione che si trova ad occupare nell’orizzonte storico degli eventi, cioè della fase geopolitica in corso. Se un paese è in grado di approfittare di questa rendita posizionale può anche modificare i suoi destini ma deve avere una classe dirigente all’altezza del compito. Dunque, questa legge ferrea del conflitto strategico tra gruppi decisori, quasi sempre coperto alla vista da istituzioni dissimulanti la partecipazione pubblica o il coinvolgimento della società civile, opera ovunque e con gli stessi mezzi (sotterfugi, inganni, complotti, screditamenti, ammazzamenti ecc. ecc.) per l’unico fine del comando sugli apparati decisionali, politici ed economici (con predilezione per quelli deputati all’ordine e alla “coercizione”).Tuttavia, esiste una grande narrazione, molto in voga nell’area democratica occidentale, che fa coincidere l’impiego di tali mezzi spregiudicati e violenti esclusivamente con le usanze di luoghi ameni e barbarici, dove emergono dittatori senza scrupoli e tiranni assetati di sangue. Forse, in alcuni di questi territori si va un po’ più per le spicce, in mancanza di sistemi non così perfezionati di nascondimento e mistificazione della realtà profonda del potere, ma i combattimenti per l’egemonia condividono la medesima “natura”, da Washinton a Mosca, da Parigi a Pechino. Con uno sguardo analitico serio si può andare oltre l’epidermide sociale, dove regnano schede elettorali e diritti umanitari, e accedere all’intimità del potere dove trame e strategie la fanno da padrone. Al mondo libero piace far credere il contrario, affinché la pagliuzza negli occhi del nemico attiri l’attenzione più della trave nei suoi. Oggi, per esempio, è stato conferito il Nobel per la letteratura ad una donzella bielorussa che ha conquistato popolarità raccontando simili favole per deficienti. Costei ha descritto la Russia come l’impero del male e Putin come un sanguinario. Tanto è bastato ai giudici svedesi per premiarla. Hannah Arendt, che un Nobel lo avrebbe meritato, purtroppo non aveva capito nulla. Non è il male ad essere banale, è il banale ad essere un male. Eccone un’altra prova provata.(Gianni Petrosillo, “Premio Nobel alla Banalità Letteraria”, dal blog “Vox Populi” dell’8 ottobre 2015).I conflitti tra gli agenti strategici sono una caratteristica fondamentale delle società umane. Sono gli esiti di questi scontri a determinare i differenziali di potere tra i gruppi che si disputano il dominio nelle organizzazioni umane, all’interno di ogni sfera societaria. Da tali scontri nascono le stratificazioni in verticale dei ruoli e delle funzioni degli individui e dei raggruppamenti collettivi (la scala dei rapporti di forza interni tra drappelli che si contendono la supremazia nazionale, anche attraverso la sottomissione dei settori più deboli e numerosi come quelli detti popolari) e le segmentazioni in orizzontale (la scala dei rapporti di forza esterni tra formazioni che gareggiano per il primato globale o per uno più localizzato). Ovviamente, una lotta di potere in una nazione dominante o con una sensibile proiezione regionale (come gli Usa o la Russia), benché scaturente in un contesto apparentemente limitato, produce degli scossoni su pezzi importanti della scacchiera planetaria, dove si allungano le sue influenze.
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Uranio e diamanti, gli Usa in Africa coi tagliagole Seleka
La scorsa settimana, decine di civili sono stati uccisi in scontri tra milizie cristiane e musulmane nella capitale della Repubblica Centrafricana, Bangui. L’ultimo ciclo di violenza è stato innescato dopo che un tassista musulmano è stato attaccato e decapitato da bande armate di machete. Fatto che a sua volta ha portato a rappresaglie contro le comunità cristiane. Il responsabile degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite Stephen O’Brien ha avvertito che il paese è sull’orlo del disastro, con più di 40.000 persone che hanno abbandonato la capitale nei giorni scorsi. In totale, circa 2,7 milioni di persone – la metà della popolazione – sono a rischio di essere tagliati fuori dagli aiuti umanitari da cui dipendono per la sopravvivenza. Il peggioramento del conflitto confessionale sta semplicemente rendendo troppo pericolosa l’opera delle agenzie di soccorso. A poter aggiungere benzina a questa crisi è la rivelazione della scorsa settimana che forze speciali Usa sono in collegamento con una delle milizie nella Repubblica Centrafricana.Il gruppo con il quale le forze Usa hanno instaurato un collegamento è conosciuto come i ribelli Seleka, i cui membri sono a maggioranza musulmana. Negli ultimi due anni, i Seleka si sono impegnati in una guerra di bassa intensità con la fazione cristiana rivale “anti-Balaka” in una lotta di potere per il controllo del paese. La Repubblica Centrafricana è ricca di oro, diamanti, legname e uranio. Lo Stato, senza sbocco al mare, ha una massa equivalente a quella della sua ex potenza coloniale francese, ma una popolazione inferiore al 10% della Francia. Dall’ottenimento dell’indipendenza dalla Francia nel 1960, il paese ha assistito a cinque colpi di Stato, alcuni con il coinvolgimento segreto francese. Migliaia di civili sono stati uccisi finora nel ciclo di violenza settaria che dura da due anni, con milioni di sfollati, che spesso cercano rifugio in nascondigli di fortuna nella giungla. Il reale pericolo è che il percepito sostegno americano per un lato rispetto all’altro potrebbe innescare una strage ancora su maggiore scala.La scorsa settimana, il “Washington Post” ha riferito che le forze speciali americane avevano istituito una base nella giungla del nord-est della Repubblica Centrafricana, dove la milizia Seleka ha la propria roccaforte. «Il Pentagono non aveva precedentemente rivelato che stava cooperando con i Seleka ed otteneva informazioni dai ribelli. L’accordo ha messo le truppe americane in una posizione scomoda», secondo il “Post”. L’obiettivo dichiarato delle forze armate statunitensi è dare la caccia ad un noto signore della guerra, Joseph Kony, che gestisce un gruppo di guerriglia conosciuto come l’Esercito di Resistenza del Signore (Lord’s Resistance Army – Lra). Kony e il suo Lra sono da ritenersi responsabili di atrocità di massa e del reclutamento di bambini soldato. Originario dell’Uganda, Kony e l’Lra guadagnarono notorietà quando l’ente di beneficenza statunitense Invisible Children diffuse un video quasi quattro anni fa che pubblicizzava le violazioni commesse del gruppo.Con le varie celebrità americane che avallavano il video, il presidente Usa Barack Obama inviò forze speciali in quattro paesi africani con la missione di rintracciare Kony ed i suoi complici. Questi paesi sono l’Uganda, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana. Finora, Kony ha eluso la cattura, anche se Washington ha posto una taglia di 5 milioni di dollari sulla sua testa. Si ritiene che egli sia rintanato in una zona remota della giungla a cavallo tra i confini dei quattro paesi africani in cui le forze speciali degli Stati Uniti operano. Il terreno è costituito da una fitta giungla con poche strade e si dice copra un’area delle dimensioni della California. «Immaginate la ricerca di 200 criminali in un’area delle dimensioni della California coperta dalla giungla», afferma un funzionario militare statunitense citato dal “Post”. «Tra bracconieri, commercio di avorio e l’Lrs, non si sa chi è chi».In questa caccia sfuggente al signore della guerra Kony ed al suo Lra, i militari americani si stanno rivolgendo alla milizia Seleka per “informazioni”. Ma, come noto, quel legame con i Seleka sta causando qualche preoccupazione tra le truppe Usa sul terreno. Questo perché i Seleka hanno guadagnato una reputazione per le atrocità alla pari con quelle di Kony e dell’Lra, tra cui l’assassinio di civili, lo stupro di donne e il reclutamento di bambini soldato nei loro ranghi. Il “Post” riferisce: «Secondo i funzionari militari statunitensi, la squadra di truppe Usa a Sam Ouandja [la base nella giungla della Repubblica Centrafricana nord-orientale] si incontra regolarmente con i capi Seleka, ottiene informazioni dai ribelli e talvolta fornisce assistenza medica ai lealisti Seleka». Il documento aggiunge: «La cooperazione è un argomento delicato. Il Pentagono non pubblicizza i suoi rapporti con i Seleka e ha rifiutato di commentare in dettaglio le interazioni».La riluttanza del Pentagono a “pubblicizzare i propri rapporti” non è sorprendente. Nel 2013, la statunitense Human Rights Watch ha registrato un regno di terrore sotto i Seleka nella Repubblica Centrafricana, riferendo come le sue forze «hanno distrutto numerosi villaggi rurali, saccheggiato diffusamente nel paese e violentato donne e ragazze». “Hrw” ha riferito sulle uccisioni extragiudiziali perpetrate dai Seleka, alcune che coinvolgono l’assassinio di bambini con il taglio della gola. In un attacco brutale il 15 aprile 2013, il gruppo per i diritti ha riferito: «La milizia Seleka ha ucciso la 26enne moglie e la figlia diciottenne di un autista di camion, il cui veicolo volevano per trasportare merci rubate. Un testimone ha descritto come i Seleka hanno sparato al bambino nlla testa, prima di uccidere la madre mentre si avvicinava alla porta della casa di famiglia». In base alle sue scoperte, “Hrw” ha raccomandato che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe imporre sanzioni a tutti i capi Seleka.In un’altra atrocità riportata a maggio 2014, i militanti Seleka hanno ucciso 11 fedeli in una chiesa nella capitale Bangui, lanciando granate nell’edificio e attaccando la congregazione con armi da fuoco. Ma il Pentagono sta ora in collegamento con questa stessa milizia nella sua missione che dovrebbe rintracciare il signore della guerra Joseph Kony e il suo esercito di sbandati. I Seleka non sono certo l’unica milizia fuorilegge, operante nella Repubblica Centrafricana. La cristiana anti-Balaka ha perpetrato altrettante atrocità contro la minoritaria comunità musulmana del paese. Il presidente ad interim Catherine Samba Panza, che ha dovuto tornare in fretta dalla recente Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York a causa del deterioramento della situazione nel paese, ha accusato elementi del deposto presidente François Bozizé anche di orchestrare le violenze. Bozizé, che è cristiano, si era già avvalso della patrocinio della ex potenza coloniale francese, prima di essere cacciato dal paese dai Seleka nel marzo 2013.Il punto è che la tragedia che si svolge in Repubblica Centrafricana mostra come l’ingerenza da parte delle potenze occidentali serve a versare benzina sul fuoco di un esplosivo conflitto intestino. La dubbia missione delle forze speciali Usa nelle giungle dell’Africa – suppostamente per la cattura di un signore della guerra – sta avendo l’effetto di allineare Washington in una guerra civile che si va inasprendo, e al fianco di elementi le cui mani grondano di sangue. La scena è stata preparata per un’intensificazione ancora più sanguinosa. Il coinvolgimento di Washington può finora apparire come un fattore clandestino, ma non è meno incendiario. Si tratta di un ruolo incendiario che Washington interpreta ripetutamente, come visto in altri conflitti in corso, dalla Siria all’Iraq passando per l’Ucraina.(Finian Cunningham, “La mano nascosta di Washington nella guerra in Africa Centrale”, da “Stampa Libera” del 9 ottobre 2015).La scorsa settimana, decine di civili sono stati uccisi in scontri tra milizie cristiane e musulmane nella capitale della Repubblica Centrafricana, Bangui. L’ultimo ciclo di violenza è stato innescato dopo che un tassista musulmano è stato attaccato e decapitato da bande armate di machete. Fatto che a sua volta ha portato a rappresaglie contro le comunità cristiane. Il responsabile degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite Stephen O’Brien ha avvertito che il paese è sull’orlo del disastro, con più di 40.000 persone che hanno abbandonato la capitale nei giorni scorsi. In totale, circa 2,7 milioni di persone – la metà della popolazione – sono a rischio di essere tagliati fuori dagli aiuti umanitari da cui dipendono per la sopravvivenza. Il peggioramento del conflitto confessionale sta semplicemente rendendo troppo pericolosa l’opera delle agenzie di soccorso. A poter aggiungere benzina a questa crisi è la rivelazione della scorsa settimana che forze speciali Usa sono in collegamento con una delle milizie nella Repubblica Centrafricana.
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Panico Germania: Volkswagen? No, peggio: Deutsche Bank
Perché proprio adesso esplode lo scandalo della Volkswagen? La truffa sulle emissioni “pulite” delle auto è destinata a ferire l’orgoglio teutonico, affondando il mito dell’onestà del suo capitalismo. Perché la verità emerge solo ora? Se lo domandano in molti, specie quelli che ricordano anche i record meno presentabili della Germania: come la precarizzazione del lavoro varata già nel 2002 dal socialdemocratico Gerhard Schroeder e ispirata da Peter Hartz, il super-manager Volkswagen poi condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli ad accettare condizioni sfavorevoli per gli operai. Riforma-simbolo, da cui nasce la flessibilizzazione dell’impiego in Europa, simboleggiata in Italia dal Jobs Act di Renzi. Allarme Berlino: un gigante dai piedi d’argilla, avverte il sociologo Luciano Gallino, che segnala l’esistenza in Germania dei salari più bassi d’Europa, i mini-job da 450 euro al mese con cui vive un tedesco su quattro. Colpa di un’economia interamente votata all’insana frenesia dell’export, spiega Paolo Barnard. L’export deprime i consumi interni e prima o poi la situazione precipita: «Si vede dalla Luna il buco della Deutsche Bank, la banca più fallita del mondo: 70.000 miliardi di debiti».Se n’è accorto anche un analista internazionale come Michael Snyder: «In Germania sta forse per accadere qualcosa che scuoterà il mondo intero?». Le avvisaglie dell’estrema fragilità tedesca, a livello politico, si sono appena manifestate con lo spietato trattamento riservato alla Grecia per volere dell’oligarchia finanziaria: attraverso maschere come quella di Wolfgang Schaeuble, ad Atene è stato inflitto il massimo rigore, dopo aver depistato l’opinione pubblica tedesca raccontando la fiaba dei greci “cicale”, da punire per il presunto “eccesso di debito”. Una versione lontana anni luce dalla verità: il “problema” greco ammonta a 30 miliardi di euro, cifra irrisoria per i bilanci Ue. Eppure, sulla condanna del popolo ellenico si è completamente appiattito il corpo sociale tedesco, rivelatosi insensibile alle inaudite sofferenze inferte a vecchi e bambini a causa dei sanguinosi tagli al welfare: salari, pensioni, sanità, protezioni sociali. Uno scandalo mondiale, denunciato anche in sede Onu: in Grecia non ci sono più cure né farmaci, i minori sono denutriti, ad Atene dilaga l’Hiv per mancanza di siringhe. E sono ricomparse malattie che si credevano archiviate dalla storia dell’Occidente. Eppure, la Merkel ha dovuto fronteggiare l’ala destra del Parlamento, che pretendeva per i greci una fine ancora peggiore.Sottoposta alla pressione migratoria dei profughi alle frontiere e strattonata dagli Usa per le sanzioni alla Russia in seguito alla drammatica crisi in Ucraina, scatenata dall’intelligence statunitense con manovalanza locale neonazista, la Germania ora scricchiola. Si sveglierà bruscamente dal sogno della “locomotiva europea” tutta lavoro e rigore? «Secondo alcune informazioni riservate di cui sono venuto a conoscenza – scrive Michael Snyder in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – sarebbe davvero imminente un grande evento finanziario che riguarda la Germania». In altre parole, «uno di quei momenti del tempo che presenta tutte le condizioni perché si ripeta un’altra Lehman Brothers». Certo, «la gran parte degli osservatori tende a considerare la Germania come quel baluardo che tiene economicamente insieme tutta l’Europa, ma la verità è che sotto la sua superficie fermentano grosse difficoltà». L’indice azionario tedesco Dax è crollato quasi del 20% dal massimo storico raggiunto lo scorso aprile, e sono numerosi i segni di agitazione all’interno della maggiore banca tedesca. E, proprio come la Lehman, anche la Deutsche Bank fa parte di quelle banche “troppo grandi per fallire”, che non crollano mai da un giorno all’altro. «Ma la verità è che ci sono sempre dei segni premonitori».Nei primi mesi del 2014, le azioni di Deutsche Bank sono state scambiate a più di 50 dollari. Da quel momento, scrive Snyder, il valore è caduto di oltre il 40% e oggi si scambiano a meno di 29 dollari. Attenzione: «E’ ben nota la natura profondamente corrotta della cultura aziendale della Deutsche Bank, e negli ultimi anni la banca è stata estremamente imprudente». Prima del “crollo improvviso” di Lehman Brothers il 15 settembre 2008, sulla stampa c’erano state notizie di licenziamenti di massa nell’azienda: «Quando le grandi banche iniziano a trovarsi in guai seri, questo è quello che fanno: cominciano a sbarazzarsi del personale. Ecco perché sono così preoccupanti i massicci tagli di posti di lavoro che la Deutsche Bank ha appena annunciato». Nel mirino ci sono 23.000 dipendenti, cioè circa un quarto di tutto il personale, secondo il piano dell’amministratore delegato John Cryan. Inoltre, negli ultimi tre anni la banca ha dovuto sborsare qualcosa come 9 miliardi di dollari per contenziosi legali, ed è così diventata «una sorta di manifesto di cultura aziendale corrotta».Nel mirino, anche «scambi irregolari di titoli ipotecari scadenti – sapientemente confezionati – intervenuti tra varie banche prima della crisi finanziaria». Jp Morgan, Bank of America e Citigroup, scrive Snyder, riuscirono ad effettuare queste operazioni quando la vigilanza era allentata. Oggi però il ministro della giustizia del governo Obama, Loretta Lynch, sarebbe «ben determinata a occuparsi seriamente» delle malefatte dei massimi colossi bancari, come Barclays, Credit Suisse, Hsbc, Royal Bank of Scotland, Ubs e Wells Fargo, inclusa ovviamente anche Deutsche Bank. «Naturalmente – continua Snyder – i problemi legali sono solo la punta dell’iceberg di tutto quello che è successo alla Deutsche Bank nel corso degli ultimi due anni». Già nella primavera 2014, la banca è stata costretta ad incrementare di 1,5 miliardi il Tier (capitale azionario e riserve di bilancio). Perché? Un mese più tardi, maggio 2014, è continuata la corsa alla liquidità, con la banca che annunciava la vendita di 8 miliardi di euro di titoli con uno sconto del 30%. «E ancora una volta: perché? Questa mossa ha messo la pulce nell’orecchio ai mezzi di stampa finanziaria. L’immagine esteriore, calma, della Deutsche Bank non rispecchiava i suoi sforzi concitati nell’aumentare la sua liquidità. Dietro doveva esserci per forza qualcosa di marcio».A marzo di quest’anno, la banca ha fallito gli stress-test della Bce, ricevendo «una severa intimazione a controllare la struttura del suo capitale». Ad aprile, Deutsche Bank ha confermato il suo accordo congiunto con Usa e Regno Unito sulla manipolazione del Libor, il tasso interbancario di riferimento per i mercati finanziari (tasso variabile, calcolato giornalmente, per cedere a prestito depositi in sterline, dollari, franchi svizzeri ed euro da parte delle principali banche operanti sul mercato interbancario londinese). Sul colosso tedesco incombe poi un enorme pagamento, oltre 2 miliardi di dollari, da versare al Dipartimento di Giustizia degli Usa, «comunque una bazzecola rispetto ai suoi guadagni illeciti». Negli ultimi mesi la situazione è precipitata: a maggio, il Cda ha conferito poteri speciali ad uno degli amministratori, Anshu Jain. Il 5 giugno, quando la Grecia non è riuscita a pagare il Fmi, le ripercussioni sono arrivare anche alla Deutsche Bank. E il 6/7 giugno i due Ceo della banca tedesca hanno annunciato entrambi le loro dimissioni, appena un mese dopo dal conferimento dei nuovi poteri (Anshu Jain lascerà per primo, alla fine di giugno; Jürgen Fitschen nel maggio 2016).Non è finita: il 9 giugno “Standard & Poor’s” ha ridotto il rating della Deutsche a BBB+, cioè «solo tre posizioni al di sopra del livello “spazzatura”», addirittura sotto il livello di rating che aveva Lehman Brothers poco prima del suo crollo. «Quello che ha reso le cose ancora peggiori è stato l’incauto comportamento della Deutsche Bank», scrive Snyder. «A un certo punto, si è potuta stimare un’esposizione in derivati da parte della Banca di ben 75 trilioni di dollari. Da tener presente che il Pil tedesco di un anno intero è di solo 4 trilioni di dollari. Così, quando alla fine anche la Deutsche Bank crollerà, né in Europa e né in qualsiasi altro luogo del mondo ci saranno abbastanza soldi per poter ripulire il pasticcio». Snyder le chiama “armi di distruzione finanziaria di massa”. «Se la Deutsche Bank dovesse fallire completamente, sarebbe un disastro finanziario peggiore di quello di Lehman Brothers: sarebbe come abbattere letteralmente l’intero sistema finanziario europeo e provocare a livello globale un panico finanziario mai visto prima d’ora». A quel punto, chiosa l’analista, «sarà meglio avere quel denaro con sé piuttosto che tenerlo in banca». Snyder teme che la calma apparente sia destinata a finire presto: «Credo che il resto del 2015 sarà estremamente caotico e accadranno cose piuttosto gravi, cose che nessuno avrebbe potuto oggi immaginare. Nei giorni che vengono, invito tutti a seguire attentamente sia la Germania che il Giappone. Stanno per accadere cose grosse, e milioni di increduli ne resteranno spiazzati».Perché proprio adesso esplode lo scandalo della Volkswagen? La truffa sulle emissioni “pulite” delle auto è destinata a ferire l’orgoglio teutonico, affondando il mito dell’onestà del suo capitalismo. Perché la verità emerge solo ora? Se lo domandano in molti, specie quelli che ricordano anche i record meno presentabili della Germania: come la precarizzazione del lavoro varata già nel 2002 dal socialdemocratico Gerhard Schroeder e ispirata da Peter Hartz, il super-manager Volkswagen poi condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli ad accettare condizioni sfavorevoli per gli operai. Riforma-simbolo, da cui nasce la flessibilizzazione dell’impiego in Europa, simboleggiata in Italia dal Jobs Act di Renzi. Allarme Berlino: un gigante dai piedi d’argilla, avverte il sociologo Luciano Gallino, che segnala l’esistenza in Germania dei salari più bassi d’Europa, i mini-job da 450 euro al mese con cui vive un tedesco su quattro. Colpa di un’economia interamente votata all’insana frenesia dell’export, spiega Paolo Barnard. L’export deprime i consumi interni e prima o poi la situazione precipita: «Si vede dalla Luna il buco della Deutsche Bank, la banca più fallita del mondo: 70.000 miliardi di debiti».
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Sacrifici umani, il suicidio dei carabinieri secondo la maga
«Tranquilli, non mi sono bevuto il cervello: so bene che i sacrifici umani sono una follia, un delirio. Solo che accadono veramente. E sono così folli, per noi, che nessuno li scoprirà mai. Nessuno arriverà mai ai colpevoli, perché non ammettiamo l’idea che si possa uccidere qualcuno in un rito propiziatorio». Così, l’ex avvocato Paolo Franceschetti prova a rileggere la strana morte di una bella ragazza, Claudia Racciatti, di professione tenente dei carabinieri. Decesso imbarazzante, archiviato come suicidio: si sarebbe sparata davanti ai due colleghi che, in caserma, la stavano interrogando per una storia di irregolarità contabili. Troppe stranezze, rileva Franceschetti: in genere chi si uccide lo fa in luoghi isolati. «Vero è che di suicidi in caserma, tra polizia e carabinieri, ce ne sono una marea; ma è altrettanto vero che, appunto, in genere non si tratta di suicidi». In più, il tenente Racciatti era una testimonial dell’Arma, fotografata per il calendario e per diverse campagne pubblicitarie. Bella, prestante, solare. Tutto il contrario di un’aspirante suicida. Quanto al movente – i presunti ammanchi attribuiti alla donna – secondo Franceschetti non regge: un vero ladro tenta di giustificarsi fino a negare l’evidenza, di sicuro non si spara alla testa. E nonostante la notorietà dell’ufficiale, i media non si sono occupati del caso. Strano, no?Troppo spesso, scrive Franceschetti nel suo blog, vengono trasferiti funzionari onesti solo per minime manchevolezze, mentre i veri criminali vengono coperti: «L’esempio più eclatante è quello della banda della Uno Bianca, che terrorizzò l’Emilia Romagna per anni. Era evidente a chiunque fosse un esperto di armi e strategie militari che si trattava di azioni commesse da personale addestrato militarmente, ma i componenti della banda furono coperti per anni ad alti livelli. E il poliziotto che indagò su di loro e incastrò i fratelli Savi invece venne trasferito». Altrettanto spesso, la teoria del furto compare quando un fatto di sangue viene presentato come suicidio. I giornali parlarono di “furto di carburante” nel caso del comandante di stazione Angelo Simone, «suicidatosi dopo aver ucciso il commilitone Angelo Nella». Altra tragedia in caserma, altro suicidio. «Altro disinteresse. Altro silenzio». Come per la Racciatti: non una parola, da giornali e televisioni «sempre pronti a interessarsi della nuova camicia indossata da Michele Misseri per dire l’ultima idiozia a cui non crede nessuno». Davvero non interessa, la tragica morta del giovane tenente donna? «Nessuna domanda ai due colleghi che erano nella stanza, nessuna domanda sui motivi reali del suicidio, nessuna notizia, niente di niente».«Mi sono sempre domandato il motivo di questa morte», scrive Franceschetti. «Perché si può uccidere una persona in una caserma? Quale può essere il motivo?». L’ex avvocato ritiene si sia trattato di un “omicidio rituale”. E indica le iniziali del nome della vittima, Cr, acronimo dei Rosacroce, ricercatori spirituali apparsi in pubblico con questo nome nel Rinascimento, cui ora si ispirerebbero settori super-segreti di massonerie deviate. E il movente? «Un omicidio rituale indica un rito, ma un rito deve essere finalizzato a qualcosa. E allora la domanda è: a cosa serve questo rito?». La possibile risposta, Franceschetti sostiene di averla trovata in un libro di Dion Fortune, una delle esoteriste più famose al mondo, che visse in Inghilterra all’inizio del ‘900. «Insieme a Aleister Crowley, Israel Regardie e Arthur Edward Waite, è l’esoterista che ha maggiormente contribuito alla diffusione dell’esoterismo anche tra coloro che non sono “iniziati” a una confraternita segreta». Se i libri di esoterismo sono un impervio labirinto, quelli della Fortune – in particolare “Magia applicata”, “La dottrina cosmica” e “La battaglia magica d’Inghilterra” – forniscono le basi dell’esoterismo, in termini comprensibili anche ai non iniziati.Nei suoi romanzi, la Fortune ha inserito «molti segreti altrimenti intrasmissibili», e inoltre «ha fornito importanti indicazioni sul modus operandi delle società segrete», a cominciare dalla “legge del contrappasso” su cui si incardina la Divina Commedia di Dante, grande iniziato dell’epoca, leader della setta pre-rosacrociana dei “Fidelis in Amore”. «In particolare – sostiene Franceschetti – la Fortune fornisce una chiave di lettura per alcuni omicidi inspiegabili, come questo di Claudia Racciatti». Non era solo «un’iniziata e una maga, fondatrice di una sua confraternita tuttora operante», ma era anche transitata nella famigerata “Golden Dawn”, nell’Ordine della Rosa Rossa, e in diverse altre società segrete. «Secondo l’autrice, per ogni evento importante che accade nella storia, occorre un sacrificio umano, di una o più persone». Esempio: «Per la costruzione di un tempio, devono essere sacrificate una o più vite umane». Oppure: «Per la costruzione di una città, di un palazzo, per far nascere una nuova associazione, organizzazione, per promuovere un evento, occorre un sacrificio». E la vittima deve avere delle caratteristiche che richiamano – nel nome, nella professione, nella sua vita personale o nell’aspetto – le particolarità dell’evento che si vuole propiziare.Delirio? Senz’altro. Ma poi, sostiene sempre Franceschetti, accade che quel “delirio” uccida realmente, armando la mano di qualcuno e organizzando le necessarie coperture: magari, di mezzo ci finisce un capro espiatorio, un balordo come Pacciani, mentre i veri colpevoli restano lontanissimi dai riflettori e dalle indagini. Stando alla Fortune, dunque, il motivo “propiziatorio” – nel 2010 – potrebbe esser stato il fatidico scioglimento dell’Arma dei carabinieri, destinata ad essere abolita per poi confluire nell’Eurogendfor, la super-polizia europea istituita dal Trattato di Velsen, del 2007. Trattato ratificato proprio nel maggio del 2010. Sempre secondo la “delirante” logica iniziatica, la morte della Racciatti – nel caso non si sia trattato di suicidio, come sostiene Franceschetti – sarebbe stata «un sacrificio per propiziare la nascita della nuova struttura e ritualizzare la fine dei carabinieri»? Nessuno meglio di lei era idonea a rappresentarli, «dato che col suo bel volto aveva fatto da testimonial all’Arma». Franceschetti aggiunge che «spesso, i sacrifici richiesti per un’operazione su larga scala non sono unici», e rileva che, sempre nel maggio 2010, per la precisione il giorno 14, si è suicidato un carabiniere di 43 anni a Viterbo, nel quartiere Santa Barbara. «Non solo Santa Barbara è la protettrice dei militari, ma guarda caso il 14 maggio è anche la data in cui viene promulgata la legge che ratifica il Trattato di Velsen».Franceschetti cita anche la strage di Porto Viro, in provincia di Rovigo. Tre persone, morte in una caserma dei carabinieri: due militari e la moglie del comandante della stazione. «Manco a dirlo, l’assassino dopo la strage si è suicidato: il modo migliore per archiviare tutto e non fare alcuna indagine». Conclude Franceschetti: «Noi, che vediamo delitti rituali ovunque, siamo un filino paranoici: in fondo, che ci sarà mai di strano in tutti questi carabinieri che si suicidano?». E aggiunge: «A coloro che, leggendo questo articolo, penseranno che mi sia bevuto il cervello e che l’idea di uccidere una persona a fini sacrificali sia una follia, rispondo che è vero, è una follia. Un delirio. Ma occorre soffermarsi a riflettere che le persone che decidono la morte di un carabiniere a fini sacrificali, sono le stesse che decidono di muovere una guerra all’Iraq e fare un milione e mezzo di morti raccontandoci la favoletta prima delle armi chimiche e poi del petrolio di Saddam, oppure dell’attacco alla Libia per difendere le popolazioni civili dalla cattiveria di Gheddafi, e la maggior parte della gente si beve queste idiozie e si abitua a tutti questi morti. E per questi esseri, la morte di qualche carabiniere, raccontandoci poi la storiella del suicidio avvenuto per il timore di un’azione disciplinare, non conta nulla».«Tranquilli, non mi sono bevuto il cervello: so bene che i sacrifici umani sono una follia, un delirio. Solo che accadono veramente. E sono così folli, per noi, che nessuno li scoprirà mai. Nessuno arriverà mai ai colpevoli, perché non ammettiamo l’idea che si possa uccidere qualcuno in un rito propiziatorio». Così, l’ex avvocato Paolo Franceschetti prova a rileggere la strana morte di una bella ragazza, Claudia Racciatti, di professione tenente dei carabinieri. Decesso imbarazzante, archiviato come suicidio: si sarebbe sparata davanti ai due colleghi che, in caserma, la stavano interrogando per una storia di irregolarità contabili. Troppe stranezze, rileva Franceschetti: in genere chi si uccide lo fa in luoghi isolati. «Vero è che di suicidi in caserma, tra polizia e carabinieri, ce ne sono una marea; ma è altrettanto vero che, appunto, in genere non si tratta di suicidi». In più, il tenente Racciatti era una testimonial dell’Arma, fotografata per il calendario e per diverse campagne pubblicitarie. Bella, prestante, solare. Tutto il contrario di un’aspirante suicida. Quanto al movente – i presunti ammanchi attribuiti alla donna – secondo Franceschetti non regge: un vero ladro tenta di giustificarsi fino a negare l’evidenza, di sicuro non si spara alla testa. E nonostante la notorietà dell’ufficiale, i media non si sono occupati del caso. Strano, no?
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L’Islanda: boicottiamo Israele, per l’Olocausto palestinese
Boicottare Israele, colpevole di genocidio contro i palestinesi. Per la prima volta in Europa, o meglio in tutto l’Occidente, la proposta è sul tavolo di un governo. Ed è appena stata approvata dalla capitale, Reykjavik, su iniziativa della consigliera comunale Björk Vilhelmsdóttir: bloccare l’importazione di tutti i prodotti israeliani (non soltanto i prodotti dei Territori Occupati, ma tutto ciò che proviene dallo Stato ebraico). «Cosa può spingere quest’isola remota, battuta dalle tempeste atlantiche e fisicamente lontana da tutto e tutti, a bandire i prodotti “made in Israel”?», si domanda Giulio Meotti sul “Foglio”. La risoluzione anti-israeliana, scrive, è stata proposta dall’Alleanza socialdemocratica, mentre il leader del Partito dell’Indipendenza, Halldór Halldórsson, ha votato contro, dicendo che «il libero scambio è il modo migliore per ottenere la pace». Durante la guerra a Gaza del 2011, il ministro dell’interno islandese, Ögmundur Jónasson, guidò una protesta di mille persone di fronte all’ambasciata americana a Reykjavik. I manifestanti si erano cosparsi di rosso sangue e il ministro accusò lo Stato ebraico di “olocausto del popolo palestinese”.Immediata (e scontata) la protesta di Tel Aviv, affidata al portavoce del ministero degli esteri, Emanuel Nachson: «Non c’è alcuna ragione o giustificazione per questo provvedimento a parte l’odio in se stesso, che si fa sentire sotto forma di appelli al boicottaggio contro Israele, lo Stato ebraico. Speriamo che qualcuno in Islanda si svegli e fermi questa cieca unilateralità rivolta contro l’unica democrazia del Medio Oriente». E mentre il Congresso ebraico valuta azioni legali contro l’Islanda, la Ong filo-israeliana “Standwithus” ha già lanciato il contro-boicottaggio dei prodotti islandesi. Dal canto suo, il ministro degli esteri islandese, Össur Skarphéinsson, ha annunciato di voler valutare con la massima attenzione la fine dei rapporti commerciali con Gerusalemme: se alla fine deciderà di non procedere, ha dichiarato, sarà soltanto perché l’Islanda intrattiene relazioni anche cone paesi non esattamente democratici, come il Sudan e la Corea del Nord.«Strano paese, l’Islanda», scrive Meotti sul “Foglio”. «Sembra un girone dantesco abitato da rari mufloni. Fatta da sterminati ghiacciai (il Vatnajokull è il più vasto d’Europa), vulcani e geyser, sorgenti minerali fredde e calde, laghi e cascate, deserti e verdi pianori». Un paese dove il termometro non scende mai oltre i cinque gradi sotto zero. «L’Islanda si pregia di essere “il popolo più pacifico d’Europa”. Sull’elenco del telefono, i nomi precedono i cognomi: e i primi sono più importanti, anche legalmente, dei secondi. Una società descritta come “giusta e felice”. Il tenore di vita è alto, senza ricchi né poveri, senza disoccupati, ed è accresciuto dal manto protettivo dello Stato assistenziale scandinavo». Durante la guerra fredda, aggiunge Meotti, si disse che dall’Islanda soffiava il “vento della pace”: era l’epoca degli incontri a Reykjavik fra Reagan e Gorbaciov sui missili. La proposta di boicottaggio contro Tel Aviv equipara dunque Israele a uno Stato-canaglia? «Oggi dall’isola nordeuropea spira un freddo vento antisemita», scrive il giornalista, che – come spesso accade del mainstream – definisce “antisemitismo”, cioè razzismo, l’anti-sionismo di chi non critica gli ebrei, ma la feroce politica del governo israeliano.Contro l’apartheid genocida di Israele, in realtà, si vanno schierando personalità influenti: la decisione di Reykjavik sembra rispondere al clamoroso appello per il boicottaggio lanciato dal leader dei Pink Floyd, Roger Waters. Nell’agosto 2014, dopo l’ultima strage di bambini a Gaza, l’eroe olandese Henk Zanoli, 91enne, è arrivato a restituire il massimo riconoscimento israeliano, quello di “Giusto tra le nazioni”, ottenuto per aver salvato un bambino ebreo durante la Shoah. In quei giorni, il giovane militare di leva Udi Segal preferì finire in carcere piuttosto che sparare sui civili di Gaza. E il più autorevole storico israeliano, Zeev Sternhell, insignito nel 2008 dal Premio Israele per le Scienze Politiche, massima onorihicenza culturale del paese, si è espresso senza mezzi termini: «L’apartheid contro i palestinesi deve finire, il mondo libero isoli Israele». Preso in parola, si direbbe, dall’attuale decisione delle autorità islandesi.Ma il potentissimo pregiudizio filo-sionista è duro a morire: «Si potrebbe suggerire ai pallidi e socialdemocratici islandesi di apporre anche una stella di Davide sulla merce», chiosa Meotti sul “Foglio”, evocando lo spettro più classico, quello del nazismo. Osservazione totalmente fuori luogo, come si evince dall’opera del caposcuola della storiografia israeliana contemporanea, il professor Ilan Pappe, che ha dovuto lasciare il paese dopo i suoi libri in cui spiega che proprio la spietata pulizia etnica, pianificata da Ben Gurion molto prima dell’orrore hitleriano, è il “peccato originale” di Israele, nascosto alla coscienza degli stessi israeliani: molti territori furono infatti strappati ai palestinesi attraverso lo sterminio sistematico della popolazione di interi villaggi, inclusi donne e bambini. Un bilancio di sangue, un abominio regolarmente rimosso. A lungo, in Israele, non è stato neppure diffuso nelle scuole “Se questo è un uomo”, il capolavoro di Primo Levi: com’è noto, lo scrittore non era tenero col regime sionista e denunciò con fermezza i crimini di Tel Aviv contro i profughi palestinesi, a partire dal massacro di Sabra e Chatila in Libano. A lungo, è rimasta isolata la voce dei “refuseniks”, i militari israeliani obiettori di coscienza. Oggi, la decisione di Reykyavik sembra premiare il loro coraggio.Boicottare Israele, colpevole di genocidio contro i palestinesi. Per la prima volta in Europa, o meglio in tutto l’Occidente, la proposta è sul tavolo di un governo. Ed è appena stata approvata dalla capitale, Reykjavik, su iniziativa della consigliera comunale Björk Vilhelmsdóttir: bloccare l’importazione di tutti i prodotti israeliani (non soltanto i prodotti dei Territori Occupati, ma tutto ciò che proviene dallo Stato ebraico). «Cosa può spingere quest’isola remota, battuta dalle tempeste atlantiche e fisicamente lontana da tutto e tutti, a bandire i prodotti “made in Israel”?», si domanda Giulio Meotti sul “Foglio”. La risoluzione anti-israeliana, scrive, è stata proposta dall’Alleanza socialdemocratica, mentre il leader del Partito dell’Indipendenza, Halldór Halldórsson, ha votato contro, dicendo che «il libero scambio è il modo migliore per ottenere la pace». Durante la guerra a Gaza del 2011, il ministro dell’interno islandese, Ögmundur Jónasson, guidò una protesta di mille persone di fronte all’ambasciata americana a Reykjavik. I manifestanti si erano cosparsi di rosso sangue e il ministro accusò lo Stato ebraico di “olocausto del popolo palestinese”.
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Loro affogano nel Mediterraneo, l’Europa nell’ipocrisia
Le foto dei due bambini siriani morti annegati, Aylan, due anni, Ghalib, 5 anni, non solo hanno fatto il giro del mondo: sono state come un pugno nello stomaco per milioni di europei, e di occidentali. Una vignetta campeggia sulla prima pagina di un importante quotidiano italiano. Riporta l’esclamazione di un altro bambino siriano, in questo caso vivo: “Se fate finire la guerra, ce ne torniamo a casa nostra”. Beata innocenza, risponde l’adulto. In questa frase cè una tale enorme quantità di verità che solo i selvaggi bianchi e ben nutriti possono ignorare. Se sono qui, a invadere l’ex tranquilla Europa, questi poveri disgraziati non hanno colpa. In moltissimi casi, sicuramente la maggioranza, non ne avevano l’intenzione. Fuggono – e fuggiranno – dalle tremende conseguenze della violenza che subiscono. E di questa violenza l’Occidente e l’Europa sono stati i principali promotori. Ma questa immane tragedia che è in corso sta cambiando il volto stesso dell’Europa, frantuma le sue illusioni e la sua prosopopea.L’Europa si sta dividendo sotto i nostri occhi. E la linea di demarcazione, guarda caso, ci dice molte cose che molti leader europei avrebbero preferito non vedere squadernate così brutalmente. È la linea che fu della “cortina di ferro”. Due pezzi di Europa che sono stati rattoppati in fretta e furia, per mostrare un volto unificato di fronte alla “minaccia russa”. Il rattoppo si è rotto. L’Europa centrale e orientale non ne vuole sapere di condividere fardelli che dovrebbero essere comuni e invece non lo sono. L’Europa del sud è sotto una pressione che non può reggere da sola. Gli uni e gli altri non hanno strategie, non hanno capito cos’è successo e, dunque, non hanno le ricette per affrontarlo. Adesso, con grave ritardo, la Germania, cerca di far valere almeno la ragione, più dell’umanità, ormai perduta. L’accordo tra Merkel e Hollande (quest’ultimo dai riflessi pachidermici) dice che l’accoglienza non può essere rifiutata e che l’onere dev’essere proporzionalmente sopportato da tutti. E si delineano punizioni e multe per quei paesi che non rispetteranno le decisioni comuni.Finalmente è arrivato l’idraulico europeo che turerà i buchi? Non penso che ci riuscirà. Perché questa Europa è piena di spazzatura ideologica, che ottunde le menti dei suoi leader e dei suoi sudditi. Non c’è spazio per i diritti e i valori umani (che avrebbero dovuto essere gli elementi distintivi della costruzione europea) là dove impera l’egoismo e l’interesse dei più ricchi e dei più forti. Lo si è visto e lo si vede con la Grecia, verso la quale ogni idea di solidarietà è stata sacrificata sull’altare dei profitti bancari. Ma, se non c’è solidarietà tra europei, come potrebbe esserci con e verso questi “invasori” sconosciuti che arrivano a migliaia senza nemmeno bussare alla porta? Certo c’è l’insipienza, la mancanza di lungimiranza, la vera e propria stupidità dei leaders europei. Ma c’è anche la totale impreparazione dei popoli europei a fronteggiare un collasso che nessuno aveva previsto.Nessuno aveva detto loro che, per esempio, il libero flusso dei capitali, deciso trent’anni fa dai governi già al servizio della finanza, avrebbe comportato, alla lunga, questo disastro. Alla lunga, perché il denaro viaggia alla velocità della luce, ma gli uomini sono poi costretti a inseguirlo, con la loro carne, il loro sangue, la loro vita. Ci mettono solo un po’ più di tempo. Ecco, quel tempo è arrivato. Nessuno aveva detto loro che distruggendo uno Stato, la Libia, si sarebbe creata un’onda di fuga. Nessuno aveva informato la gente che finanziando i fanatici attorno alla Siria, si sarebbe aperta una voragine, da cui sarebbero usciti milioni di profughi. Adesso che fare? Se non si vuole affogare nell’ipocrisia, mentre loro affogano in mare, bisogna invertire tutte le rotte. Le prime dovrebbero essere quelle delle navi della Nato che, a fine settembre, cominceranno la più grande esercitazione militare del dopoguerra. Diretta contro la Russia. Si spenderanno, per niente, sei o sette miliardi di euro, forse molto di più. Ma quanti sanno che è stata la Nato a sostenere gran parte delle due guerre che hanno insanguinato la riva sud del Mediterraneo? Chi dirà la verità ai popoli europei, che camminano verso il nulla guardando dalla parte sbagliata?(Giulietto Chiesa, “Un’Europa che affoga nell’iprocrisia”, da “Sputnik News” del 4 settembre 2015).Le foto dei due bambini siriani morti annegati, Aylan, due anni, Ghalib, 5 anni, non solo hanno fatto il giro del mondo: sono state come un pugno nello stomaco per milioni di europei, e di occidentali. Una vignetta campeggia sulla prima pagina di un importante quotidiano italiano. Riporta l’esclamazione di un altro bambino siriano, in questo caso vivo: “Se fate finire la guerra, ce ne torniamo a casa nostra”. Beata innocenza, risponde l’adulto. In questa frase cè una tale enorme quantità di verità che solo i selvaggi bianchi e ben nutriti possono ignorare. Se sono qui, a invadere l’ex tranquilla Europa, questi poveri disgraziati non hanno colpa. In moltissimi casi, sicuramente la maggioranza, non ne avevano l’intenzione. Fuggono – e fuggiranno – dalle tremende conseguenze della violenza che subiscono. E di questa violenza l’Occidente e l’Europa sono stati i principali promotori. Ma questa immane tragedia che è in corso sta cambiando il volto stesso dell’Europa, frantuma le sue illusioni e la sua prosopopea.
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Povero Aylan, quelli che ti piangono sono i tuoi assassini
La foto del povero bimbo siriano morto annegato ha fatto il giro del mondo, sconvolgendo ed emozionando tutti gli uomini degni di questa terra. Chi di voi non ha sentito lacerarsi il cuore nell’osservare quelle immagini che ripugnano la coscienza e gridano vendetta? Nel tempo della comunicazione di massa – era bastarda che traveste la verità di menzogna e viceversa – nulla avviene per caso. Perché la grande stampa ha deciso di concentrare solo ora la pubblica attenzione intorno ad un dramma che dilania e annega povere vite da molto tempo? Perché migliaia di morti innocenti hanno fino ad oggi soltanto ingrossato le fila di una macabra e ragionieristica contabilità? Solo adesso i proprietari dei grandi media hanno scoperto di avere un cuore? E’ vera o recitata l’indignazione globale intorno alla morte dello sventurato bimbo risucchiato dalle onde? E’ falsa, falsa in maniera vomitevole, turpe e vigliacca strumentalizzazione razionalmente organizzata da un manipolo di miserabili, genia assassina che muove – non vista – le sorti del globo intero.Non solo le élite globali – quelle stesse che per puro cinismo cavalcano lutti e tragedie – sono assolutamente indifferenti rispetto al dolore altrui, ma per giunta lo fomentano e nascostamente lo incaraggiano. Le migrazioni di massa non avvengono per caso: sono il risultato voluto di alcune specifiche politiche che mirano alla realizzazione di altrettanto specifici risultati. Gli uomini che si imbarcano su una carretta nella speranza di raggiungere l’Europa salpano spinti quasi sempre dagli stessi mostri: la fame e la guerra. La fame e la guerra sono due “eggregore” dolosamente evocate all’interno di alcuni occulti cenacoli, popolati da uomini che puzzano di zolfo posti ai vertici di una maleodorante catena di comando. La fame è il risultato delle politiche imposte dal Fondo Monetario Internazionale, strumento di pressione e di morte che diffonde scientificamente miseria in tutte le zone povere e meno povere del pianeta. Ora guidato dall’ineffabile Christine Lagarde, il Fondo Monetario Internazionale – nato con ben altri propositi – ha gradualmente assunto le sembianze di un essere deforme, rapace testa di ariete pronta a succhiare l’anima e la vita di tutti i popoli finiti disgraziatamente sotto le sue melliflue cure.L’istituto della Lagarde è di fatto il braccio armato delle élite neoliberali, statunitensi ma non solo, pronte a saccheggiare ovunque ricchezza con la scusa di diffondere il verbo che predica e decanta le virtù del “liberoscambismo”. La guerra, parimenti, è figlia diretta del lavorio degli stessi identici “alchimisti”, sepolcri imbiancati che sganciano bombe nel nome della democrazia così come quegli altri levano il pane agli affamati nel nome dell’opulenza. Orwell è in mezzo a noi. Le élite globali, scatenando fame e miseria con l’inganno per il tramite del ferreo controllo dei mezzi di informazione, ottengono perciò risultati previsti e voluti. L’arrivo di immigrati disperati serve anche a ricattare i proletari che vivono in Occidente, messi in condizione di dover competere sul piano salariale con nuova manodopera che va ad ingrossare “l’esercito di riserva” di marxiana memoria. L’influsso delle teorie di Kalergi, propugnatore della creazione in vitro di una razza “meticcia” – in quanto tale presuntivamente manipolabile dai nuovi signori dello spirito – offre poi una aggiuntiva chiave di interpretazione ad uso e consumo dei palati più intransigenti.Le guerre in Libia e in Siria, così come quelle più antiche riguardanti Iraq e Afghanistan, gonfiano inoltre il portafoglio dei trafficanti d’armi, notoriamente molto influenti presso i più importanti governi d’Occidente. Tragedie così permettono infine ad un esponente del nazismo tecnocratico come Angela Merkel – direttamente responsabile dell’aumento della mortalità infantile in paesi colonizzati e schiavizzati come la Grecia – di indossare le vesti fintamente candide (in realtà intrise di sangue) del buonismo, aprendo le porte ai rifugiati in fuga a beneficio di telecamera: “Avete visto che Angela non può essere poi così nazista se accoglie perfino gli ultimi della Terra?”. Tanto nessuno vi racconterà mai le gesta di coloro i quali fanno finta di abbracciare i disperati subito dopo averli appositamente calati nella scomoda posizione di “disperati”. Quelli che piangono le povere vittime di cotanta barbarie sono gli stessi che li hanno appena uccisi. Ma tanto, annebbiati dal Grande Fratello, nessuno se ne accorgerà mai. Buon viaggio dolce fanciullo. Questo mondo non ti meritava.(Francesco Maria Toscano, “Quelli che hanno finta di piangere sono gli stessi che l’hanno ucciso”, dal blog “Il Moralista” del 6 settembre 2015).La foto del povero bimbo siriano morto annegato ha fatto il giro del mondo, sconvolgendo ed emozionando tutti gli uomini degni di questa terra. Chi di voi non ha sentito lacerarsi il cuore nell’osservare quelle immagini che ripugnano la coscienza e gridano vendetta? Nel tempo della comunicazione di massa – era bastarda che traveste la verità di menzogna e viceversa – nulla avviene per caso. Perché la grande stampa ha deciso di concentrare solo ora la pubblica attenzione intorno ad un dramma che dilania e annega povere vite da molto tempo? Perché migliaia di morti innocenti hanno fino ad oggi soltanto ingrossato le fila di una macabra e ragionieristica contabilità? Solo adesso i proprietari dei grandi media hanno scoperto di avere un cuore? E’ vera o recitata l’indignazione globale intorno alla morte dello sventurato bimbo risucchiato dalle onde? E’ falsa, falsa in maniera vomitevole, turpe e vigliacca strumentalizzazione razionalmente organizzata da un manipolo di miserabili, genia assassina che muove – non vista – le sorti del globo intero.
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Madsen: Gladio, terroristi “islamici” per spaventare l’Europa
Strani attentati alle ambasciate, presunti terroristi intercettati sui treni, killer “impazziti” che fanno stragi e poi vengono puntualmente giustiziati dalla polizia. Tutto questo ha un nome preciso: Gladio. Secondo Wayne Madsen, ex funzionario della Nsa, la storica rete “Stay Behind” che la Nato utilizzò per la strategia della tensione in Europa non è mai stata smantellata. E oggi torna utilissima, per intimidire gli europei schiacciati dalla crisi: anziché cercare soluzioni di rottura – politiche, economiche, internazionali – dovremmo restare incollati agli attuali leader, approvando decisioni sempre più autoritarie, “suggerite” dagli Usa, anche di fronte alla crisi dei migranti che agisce come detonatore della recessione economica, mentre il Medio Oriente è in fiamme e qualcuno, al Pentagono, sogna una guerra con la Russia. Già dirigente della struttura spionistica da cui fuggì anche Edward Snowden, scatenando lo scandalo “Datagate” (tutti i leader occidentali monitorati e intercettati), Madsen fu il primo, dopo l’11 Settembre, a evocare il fantasma di Gladio mettendo in collegamento il G8 di Genova con l’attentato alle Torri: due eventi di sangue, figli della stessa matrice, il terrorismo di Stato.Oggi, Madsen denuncia il carattere opaco di troppi recenti attentati, dalla Francia alla Turchia, proprio mentre il quadro internazionale si fa sempre più pericoloso e instabile grazie all’azione “coperta” di Washington, che dopo aver devastato l’Iraq ha innescato la primavera araba, rovesciato Gheddafi scatenando il caos in Libia e infine armato i jihadisti in Siria dando origine al fenomeno Isis, da cui il grande esodo di profughi che sta assediando l’Italia e il resto d’Europa. In un dettagliato report su “Strategic Culture”, ripreso da “Come Don Chisciotte”, Madsen analizza le troppe “coincidenze” degli ultimi attentati che hanno scosso l’opinione pubblica europea. «La recente sparatoria al consolato americano di Istanbul da parte di due donne, secondo il governo turco membri di un gruppo terroristico di estrema sinistra, il “Revolutionary People’s Liberation Army-Front” (Dhkp-C), così come l’incidente sospetto sul treno ad alta velocità “Thalys” diretto a Parigi da Amsterdam, per Madsen indicano che le operazioni “false flag” condotte dalla rete Stay Behind della Cia dell’epoca della guerra fredda, conosciuta come Gladio, siano di nuovo pienamente operative.Si ritiene che il Dhkp-C sia responsabile di un attentato suicida all’ambasciata americana di Ankara nel 2013, che causò la morte di un agente della sicurezza turca. In quell’attacco, un sito web chiamato “The People’s Cry”, presumibilmente gestito dal Dhkp-C, rivendicò il ruolo di uno dei suoi membri, Ecevit Sanli, come esecutore dell’attentato suicida all’ambasciata, finito con la morte dello stesso Sanli e della guardia turca. Per l’ex analista dell’intelligence Usa, c’è puzza di bruciato: «Il problema generale riguardo alla dichiarazione del coinvolgimento del Dhkp-C è stato un video postato dal “The People’s Cry” e scoperto dal “Site”, un gruppo legato al Mossad israeliano, con base a Washington, noto per aver distribuito ai media discutibili video e comunicati attribuiti ad “Al Qaeda”, “Is”, ed altri presunti gruppi terroristici islamici». Il presunto ritorno del Dhkp-C, continua Madsen, ha fornito al governo turco una copertura per colpire i guerriglieri curdi nella Turchia orientale e insinuare una mentalità da “Stato sotto assedio” nella mente dei votanti turchi, proprio mentre la nazione si avvia verso un’altra elezione nazionale che vedrà opporsi il governo filo-islamico del presidente Recep Tayyip Erdogan all’opposizione laica.Poi c’è il caso del marocchino Ayoub El Khazzani, accusato di essere salito a Bruxelles sul treno diretto a Parigi con l’intenzione di sterminare i passeggeri. Khazzani, che aveva con sé un Ak-47 e altre armi, in una borsa che ha detto di aver “trovato “ in un parco di Bruxelles, è stato sopraffatto da tre americani e un inglese. Due degli americani che hanno aiutato a bloccare Khazzani sono militari statunitensi, il pilota dell’Air Force Spencer Stone e la guardia nazionle dell’Oregon Alek Skarlatos. Il cittadino di nazionalità inglese è Chris Norman, nato in Uganda e residente nel sud della Francia. Si ritiene che Khazzani, nativo di Tetouan in Marocco, al pari degli altri numerosi presunti terroristi in Francia, abbia viaggiato molto all’estero prima di commettere l’attacco terroristico. Fino al 2014 era residente in Spagna, poi si è trasferito in Francia per lavorare per la società di telefonia mobile “Lycamobile”. Si dice che Khazzani «si sarebbe radicalizzato in una moschea di Algeciras, di fronte al territorio inglese di Gibilterra, dove l’intelligence inglese mantiene uno stretto controllo sui territori spagnoli circostanti, inclusa Algeciras». A giugno, si ritiene che l’uomo stesse combattendo a fianco dei guerriglieri dello Stato Islamico in Siria, per poi spostarsi ad Antiochia in Turchia e a Tirana, in Albania.La storia di Khazzani, scrive Madsen, è quasi uguale a quella di Mahdi Nemmouche, il franco-algerino ritenuto responsabile per l’attacco al Museo Ebraico di Bruxelles. Prima, anche Nemmouche avrebbe combattuto con l’Isis in Siria (e avrebbe trascorso del tempo in Inghilterra). Dopo l’attacco al museo di Bruxelles, Nemmouche è salito su un autobus notturno per Marsiglia. Un controllo doganale ha scoperto la sua sacca, contenente un Kalashnikov, un revolver e proiettili. Arrestato dalla polizia francese, Nemmouche ha dichiarato di aver trovato le armi in una macchina parcheggiata a Bruxelles e di averle rubate per poi venderle sul mercato nero a Marsiglia. Khazzani sostiene che voleva usare le armi trovate in un parco di Bruxelles (un Ak-47, una pistola Luger, un taglierino, mezzo litro di benzina e nove caricatori) per derubare i passeggeri del treno “Thalys”, così da comprarsi del cibo, in quanto era senza un soldo e senza casa. «Sia Khazzani che Nemmouche – continua Madsen – erano ben noti alle forze dell’ordine francesi ed europee come potenziali minacce, eppure non è stato fatto nulla per sorvegliare le loro attività».Prima dell’attacco al treno, Khazzani era l’oggetto di una “Fiche S” della polizia francese: un dossier trasmesso a varie forze di polizia europee, per chiedere che il soggetto venisse posto sotto stretta sorveglianza. Inoltre, la polizia spagnola aveva il Dna di Khazzani in archivio. E ancora, prima dell’attacco sul treno, «dossier completi su Khazzani erano in possesso non solo della polizia spagnola, ma anche di quella tedesca e belga, così come di quella francese». Una storia simile a quella di altri attentatori. Il primo fu Mohamed Merah, il franco-algerino che nel 2012 uccise sette persone nella regione di Tolosa, inclusi tre bambini di una scuola ebraica. Lo imitarono Said e Cherif Kouachi, i fratelli franco-algerini che quest’anno hanno attaccato a Parigi la redazione di “Charlie Hebdo”. Anche loro erano oggetto di una “Fiche S” e di altri dossier delle forze dell’ordine francesi. Idem per il caso del franco-maliano-senegalese Amedy Coulibaly, che ha attaccato il supermarket ebraico Hyper-Cacher a Parigi durante l’attacco a “Charlie Hebdo”: pure lui era noto alla polizia e all’intelligence francesi.In altre parole, nessuno dei nuovi presunti terroristi europei viene dal nulla: la polizia li controlla strettamente, fino al momento in cui entrano in azione per riempire le cronache. E non solo in Francia: «Anche i files della polizia e dei servizi segreti danesi hanno restituito il nome del presunto attentatore omicida della sinagoga centrale di Copenhagen e del Festival del Cinema danese, Omar Alhamid Alhussein, un danese di origini palestinesi». Di fatto, «un criminale schedato per violenza, che era stato rilasciato da una prigione danese appena due settimane prima dell’attacco alla singoga». Scontato, anche qui, il finale: «La polizia danese ha sparato e ucciso Alhussein dopo il suo presunto doppio attacco». Quanto al treno “Thalys”, quello dell’attacco “sventato”, stava transitando nella regione di Oignies nell’alta Piccardia in Francia, quando Khazzani è stato bloccato dai passeggeri. Attenzione allora al ministro degli interni francese, Bernard Cazeneuve: «Ha subito suggerito che Khazzani fosse un membro di un gruppo islamista radicale». Non ha perso tempo, il ministro, e si è recato immediatamente a Copenhagen subito dopo gli attacchi alla sinagoga e al festival. «Si dice che Cazeneuve fosse sotto inchiesta, da parte del 45enne commissario di polizia francese Helric Fredou, vicecomandante della polizia giudiziaria di Limoges, per legami con Jeannette Bougrab».La Bougrab, continua Madsen, era la cosiddetta “fidanzata” del redattore ucciso di “Charlie Hebdo” Stephane Charbonnier, “Charb” per i colleghi. La donna sosteneva di essere la fidanzata di Charb, che sarebbe stato il padre di sua figlia. Si dice inoltre che Fredou si sarebbe suicidato al culmine dell’indagine sui legami tra Bougrab e Cazeneuve. «Fredou si sarebbe sparato alla testa in preda allo sconforto dopo aver incontrato la famiglia di una delle vittime degli attentati francesi». Tuttavia, aggiunge Madsen, la famiglia e gli amici di Fredou hanno scartato la possibilità di una presunta depressione del commissario. «Inoltre, essi hanno sottolineato il fatto che Fredou aveva scoperto importanti indizi sugli attentati terroristici, cosa che lo aveva messo in rotta con Cazeneuve». Secondo notizie francesi, Fredou sospettava del ministro fin dai suoi giorni di commissario alla polizia di Cherbourg, località di cui Cazeneuve era stato sindaco. In quel periodo, Fredou «aveva per la prima volta scoperto l’esistenza dei legami di Cazeneuve con il Mossad, della sua relazione con la Bougrab e con la sua congrega di sobillatori anti-musulmani».Madsen non ha dubbi, è certo di riconoscere i sintomi del male oscuro: «La ricomparsa di Gladio sulla scena politica europea è la risposta alla crescente ostilità all’Unione Europea e all’austerità dettata dai banchieri centrali europei». E accusa: «I corporazionisti e i fascisti che hanno portato l’Europa al fallimento stanno ora usando le loro risorse mediatiche per trasformare la minaccia favorita degli ultimi vent’anni, il terrorismo islamico, in una minaccia composita di terroristi islamici che collaborano con una rete internazionale di anarchici». Secondo l’ex stratega dell’intelligence statunitense, «in Grecia, Italia, Turchia e Spagna ci sono segnali che il cambio di paradigma da terrorismo islamico ad anarchismo di sinistra sia già in corso, con attentati altamente sospetti e probabilmente di coperura presso ambasciate e altre strutture». Madsen è convinto che «i media faranno comparire sempre più storie fabbricate per collegare “anarchici” e “jihadisti”».Dopo l’incidente del treno “Thalys” a Bruxelles, Cazeneuve e «il suo amico anti-musulmano e socialista di destra, il primo ministro francese Manuel Valls», stanno richiedendo controlli di tipo aeroportuale alle stazioni ferroviarie europee. «Il fine è dare all’Unione Europea un maggiore controllo politico e sociale sulle popolazioni del continente». Madsen fa notare che l’avanzata di gruppi “anarchici” fino a ieri sconosciuti sta avvenendo negli stessi paesi in cui le operazioni di Gladio erano più ampie: Italia, Turchia e Grecia. «L’Italia era il centro focale per l’“Organizzazione Gladio”, la filiale italiana delle operazioni terroristiche paneuropee gestite dalla Cia». In Turchia, Gladio era conosciuta come “Ergenekon”, e in Grecia come “Operazione Sheepskin”. «Finché Gladio sarà di nuovo attiva in Europa – avverte Madsen – i popoli del continente dovranno avere paura, molta paura».Strani attentati alle ambasciate, presunti terroristi intercettati sui treni, killer “impazziti” che fanno stragi e poi vengono puntualmente giustiziati dalla polizia. Tutto questo ha un nome preciso: Gladio. Secondo Wayne Madsen, ex funzionario della Nsa, la storica rete “Stay Behind” che la Nato utilizzò per la strategia della tensione in Europa non è mai stata smantellata. E oggi torna utilissima, per intimidire gli europei schiacciati dalla crisi: anziché cercare soluzioni di rottura – politiche, economiche, internazionali – dovremmo restare incollati agli attuali leader, approvando decisioni sempre più autoritarie, “suggerite” dagli Usa, anche di fronte alla crisi dei migranti che agisce come detonatore della recessione economica, mentre il Medio Oriente è in fiamme e qualcuno, al Pentagono, sogna una guerra con la Russia. Già dirigente della struttura spionistica da cui fuggì anche Edward Snowden, scatenando lo scandalo “Datagate” (tutti i leader occidentali monitorati e intercettati), Madsen fu il primo, dopo l’11 Settembre, a evocare il fantasma di Gladio mettendo in collegamento il G8 di Genova con l’attentato alle Torri: due eventi di sangue, figli della stessa matrice, il terrorismo di Stato.