Archivio del Tag ‘salari’
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Sapelli: ripulire i nostri risparmi, per mettere l’Italia ko
I dati che giungono dalla Commissione Europea con le sue previsioni economiche di autunno sono disarmanti: più debito e più deficit, meno crescita. È un circolo vizioso che si alimenta da sé. Se non vi è domanda aggregata, la crescita è possibile solo se vi è una via per le esportazioni. Ma la via dell’export è stretta e solo pochi alpinisti possono scalare quei sentieri. Il dato spagnolo è impressionantemente efficace. La cosiddetta ripresa di quel paese deriva da una crescita della produzione automobilistica – non solo, naturalmente, ma soprattutto – in particolare degli stabilimenti Ford. Ma se si vanno a vedere i numeri degli occupati – anche il “Financial Times” ha dovuto ammetterlo – la situazione è sconcertante: solo duemila i lavoratori in quegli impianti, grazie a condizioni salariali basse e precarie. I sindacati spagnoli (i socialisti dell’Ugt in testa, gli ex comunisti del Ccco un po’ più cauti) le hanno accettate perché considerano essenziale dare lavoro costi quel che costi!Quindi, la ripresa nell’Europa del Sud è una temperata sospensione della caduta, e non un recupero, del Pil, ossia dello stock di capitale fisso che è andato perduto negli ultimi venti anni. La causa di ciò è la deflazione imposta dalla Germania a tutta l’Europa. L’Italia è colpita in pieno. I dati statistici su cui si litiga anticipano la vera battaglia che inizierà con l’unione bancaria. Si coglierà – da parte di molteplici troike – l’occasione della verifica sui bilanci per reclamare, come sempre ha fatto Mario Draghi dal 1992 a oggi, la privatizzazione delle banche. Ed essa sarà fatta, come si ripete dopo Cipro, grazie al risparmio (per chi ancora lo ha) delle famiglie e delle piccole imprese. Lo si drenerà spietatamente con ogni mezzo.Saccomanni è stato chiaro alcune settimane or sono, poco intelligentemente disvelando il piano. Le banche sono esauste, che giungano quindi le shadow banks e le dark pools, cioè un sistema parabancario speculativo che i nostri governanti amano! E pure ancor si predica la ripresa! Bruxelles ha il pudore di spostarla al 2014-2015, ma il pericolo è che tra un anno non rimanga più nulla. Naturalmente un’alternativa a questa sorta di distruzione del credito per l’economia reale esiste. È il ritorno alla separazione tra banca commerciale e banca d’investimento, evitando l’eccesso di capitalizzazione che sarà richiesto alle banche non separate. La super-capitalizzazione non elimina il rischio e drena capitale produttivo trasformandolo in capitale come costo. Il risultato sarà il contrario di quello che si vuol produrre. Paradossalmente, pur tra mille ostacoli, il mondo anglosassone va dritto verso la separazione; solo l’Europa della Bce va dritta verso la rovina.(Giulio Sapelli, “C’è un piano per mettere in ginocchio l’Italia”, da “Il Sussidiario” del 6 novembre 2013).I dati che giungono dalla Commissione Europea con le sue previsioni economiche di autunno sono disarmanti: più debito e più deficit, meno crescita. È un circolo vizioso che si alimenta da sé. Se non vi è domanda aggregata, la crescita è possibile solo se vi è una via per le esportazioni. Ma la via dell’export è stretta e solo pochi alpinisti possono scalare quei sentieri. Il dato spagnolo è impressionantemente efficace. La cosiddetta ripresa di quel paese deriva da una crescita della produzione automobilistica – non solo, naturalmente, ma soprattutto – in particolare degli stabilimenti Ford. Ma se si vanno a vedere i numeri degli occupati – anche il “Financial Times” ha dovuto ammetterlo – la situazione è sconcertante: solo duemila i lavoratori in quegli impianti, grazie a condizioni salariali basse e precarie. I sindacati spagnoli (i socialisti dell’Ugt in testa, gli ex comunisti del Ccco un po’ più cauti) le hanno accettate perché considerano essenziale dare lavoro costi quel che costi!
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Achtung Grillo, i nemici dell’Europa e quelli dell’Italia
Nell’Europa che ha in testa l’establishment, sintetizza Claudio Messora, «l’Italia diventa la Calabria e Helsinki la Lombardia». Ma per Eugenio Scalfari il problema non è questo, bensì Beppe Grillo: se vince, sostiene il fondatore di “Repubblica”, l’Italia «va a rotoli». Perché, ora dove sta andando? «In Grecia, a nuoto», per dirla con Giulietto Chiesa. Ma il mainstream tiene duro: in televisione, il solo Gianluigi Paragone dà fiato all’alternativa, ospitando economisti democratici e “guastatori” come Paolo Barnard, mentre la stessa Milena Gabanelli, su “Report”, continua a imputare alla sola “casta” italiana le colpe della crisi, senza “vedere” il disegno che da Bruxelles sta piegando il paese. La stessa grande paura accomuna tutti gli operatori che presidiano la comunicazione: guai se alle prossime elezioni europee – maggio 2014 – dovesse svegliarsi l’Europa, quella vera, incarnata dai popoli che si stanno ribellando alla crisi imposta dall’élite finanziaria globalizzatrice.A dare l’allarme è lo stesso Enrico Letta, uomo Bilderberg: «Se i populisti in Europa superassero una percentuale del 25% questo sarebbe molto preoccupante», dichiara il premier a “La Stampa”. «Il rischio che il Cinque Stelle risulti il primo partito alle europee è molto forte: non possiamo limitarci ad essere timidi con Grillo». Timore condiviso da un euro-oligarca come il tedesco Martin Schulz, secondo cui «la possibilità che nel prossimo Europarlamento ci sia tra un quarto e un quinto di deputati euroscettici o populisti è ormai più che probabile». Mai nessuno che si pronunci sulle cause del terremoto elettorale in arrivo. Eppure, aggiunge lo stesso Messora, basta ascoltare quello che Mario Monti (Bilderberg, Trilaterale, Goldman Sachs) ha appena detto alla Cnn: «Stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale. Quindi, ci deve essere una operazione di domanda attraverso l’Europa, un’espansione della domanda». Mai stato così chiaro, Monti. «Come si distrugge la domanda interna? Alzi le tasse e svaluti i salari», dice Messora, «così la gente non ha più soldi e compra di meno».Ma non basta: lo Stato potrebbe sempre alzare la spesa a deficit, cioè investire sui cittadini, mediante politiche sociali (reddito di cittadinanza) o creando lavoro. «E allora cosa facciamo? Semplice: inventiamo il pareggio di bilancio e lo mettiamo addirittura nella Costituzione, così da rendere impossibile qualunque ripensamento. Era l’equazione che ci avrebbe matematicamente reso più poveri: se costringi la somma delle entrate e delle uscite di uno Stato ad annullarsi a vicenda, allora se punti sulle esportazioni devi per forza massacrare i portafogli». E’ quello che ha fatto Monti. Più “domanda attraverso l’Europa” significa «diventare un centro di produzione a basso costo per i ricchi paesi del nord (Germania in testa), una specie di Cina europea, così da non essere costretti a comprare dai trafficanti di diritti di Pechino, per togliere il mercato all’oriente spregiudicato». A quel punto, la strada è obbligata: tagliare i costi di produzione. «E siccome le materie prime le paghiamo sempre uguale, bisogna pagare di meno gli stipendi e diminuire i diritti (vi dice niente la battaglia per la modifica dell’articolo 18?)».E come li costringi, i lavoratori, ad accettare uno standard di vita meno dignitoso? Ci si arriva per gradi: «Li getti nella crisi più nera, svendi tutto il patrimonio di economia nazionale e permetti ai nuovi padroni di delocalizzare all’estero. Gli togli le case con Equitalia. Costringi le fabbriche a chiudere: meno offerta di lavoro uguale più domanda, cioè milioni di persone senza reddito disposte a qualunque cosa pur di avere un tozzo di pane». Il paradiso dei tedeschi, affamati di aziende da comprare in saldo e di lavoro a basso costo per il loro export. «Venire a fare shopping in Italia è come andare all’outlet nel periodo dei saldi». Per Messora, non è irrilevante il risvolto geopolitico: un’Europa germanizzata può «limitare lo strapotere commerciale dei Brics, e magari togliere potere a quella Cina che detiene la maggior parte del debito americano».Funziona così: «Prendi un paese massacrato dal debito pubblico, ricattabile, ma anche industrializzato, dunque con le possibilità e le competenze produttive per soddisfare la tua domanda, e lo trasformi in una miniera a basso costo. Un piano iniziato negli anni ’80, ai tempi di Kohl e Mitterrand». Per Messora, non è altro che «un disegno criminoso, deciso sulla testa dei popoli, senza consultarli». Una strategia complessiva che fonda tutte le sue possibilità sull’onnipotenza di una élite che domina incontrastata, attraverso il controllo della meta-finanza europea la costruzione di un’unica, enorme, sovra-nazione «dove il controllo democratico è inesistente (e dove i think-tank sostituiscono i parlamenti)». A questo progetto oligarchico, «i socialismi europei hanno venduto l’anima». Certo, resta ancora «un’opinione pubblica da condizionare, da convincere che non esistono altre strade». E allora, bisogna «monitorare le comunicazioni nei paesi euroscettici, per identificare i temi più rilevanti e per assoldare una squadra di piccoli Goebbels in grado di reagire prontamente e fare una propaganda mirata», accusando di “populismo” chi contrasta l’oligarchia dominante.E’ il tema della crociata alle porte: «Bisogna combattere i “populismi”, cioè chiunque insista nel coltivare la convinzione che le élite non abbiano un mandato divino a governare sul cielo e sulla terra (né le loro soluzioni siano le migliori a prescindere), ma la sovranità appartenga al popolo». E’ quello che fa l’anziano Scalfari, tra una cena e l’altra con Napolitano e Draghi: l’importante è demonizzare Grillo, evitando accuratamente di spiegare le ragioni del suo successo, cioè il fallimento catastrofico della resa italiana agli euro-diktat. Nella sua replica, Grillo sfotte Scalfari: mi ha paragonato, dice, agli invasori marziani evocati da Orson Welles nel 1938. «Alla bufala di Welles credettero sei milioni di persone, a Scalfari non crede neppure più De Benedetti», scrive Grillo. «E’ il tempo della panchina lunga, caro Eugenio, magari al Pincio. Tu, l’Ingegnere e Napolitano a ricordare i vecchi tempi. Quando gli elettori, il cosiddetto popolo così tanto disprezzato non contava nulla. Bei tempi quelli, ma non torneranno più». Da Palazzo Chigi, Enrico Letta strepita: «Fermiamo i nemici dell’Europa». A partire dalle prossime europee, milioni di cittadini cercheranno invece di fermare, innanzitutto, i nemici dell’Italia.Nell’Europa che ha in testa l’establishment, sintetizza Claudio Messora, «l’Italia diventa la Calabria e Helsinki la Lombardia». Ma per Eugenio Scalfari il problema non è questo, bensì Beppe Grillo: se vince, sostiene il fondatore di “Repubblica”, l’Italia «va a rotoli». Perché, ora dove sta andando? «In Grecia, a nuoto», per dirla con Giulietto Chiesa. Ma il mainstream tiene duro: in televisione, il solo Gianluigi Paragone dà fiato all’alternativa, ospitando economisti democratici e “guastatori” come Paolo Barnard, mentre la stessa Milena Gabanelli, su “Report”, continua a imputare alla sola “casta” italiana le colpe della crisi, senza “vedere” il disegno che da Bruxelles sta piegando il paese. La stessa grande paura accomuna tutti gli operatori che presidiano la comunicazione: guai se alle prossime elezioni europee – maggio 2014 – dovesse svegliarsi l’Europa, quella vera, incarnata dai popoli che si stanno ribellando alla crisi imposta dall’élite finanziaria globalizzatrice.
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Finiremo come il cavallo quando arrivò il treno a vapore
S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.Tutti gli altri, scrive Massimo Gaggi sul “Corriere della Sera”, troveranno impiego soltanto «negli interstizi della società robotizzata», oppure svolgeranno lavori che le macchine non potranno sostituire, come quelli nel settore sanitario. Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero: «Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi», annota Gaggi. Sarà una società diversa, “iper-meritocratica”, mentre «la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più». L’epoca che abbiamo alle spalle «sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile».Fino a ieri, l’opinione prevalente era che le difficoltà che affliggono i paesi industrializzati fossero legate allo strapotere della finanza e a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall’Occidente ai paesi emergenti, soprattutto quelli dell’Asia. La nuova economia digitale? E’ vero, taglia i vecchi posti di lavoro, ma aumenta l’efficienza del sistema producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i “tecno-ottimisti”, nel 1790 il 93% degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2%, eppure gli Stati Uniti erano un paese prospero, che aveva raggiunto il pieno impiego. Siamo entrati in una nuova era di “distruzione creativa”, come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l’economia che gli era cresciuta intorno? La ferrovia alimentò l’industria e un’economia ben più vasta di quella che malpagava i braccianti. Solo che, nell’era digitale, il lavoro è in via di estinzione.Secondo Robert Gordon, della Northwestern University, le tecnologie digitali non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti – vapore, elettricità, motore a scoppio. E Noah Smith, giovane economista della Michigan University, sostiene che il grande cambiamento riguarda la distribuzione del reddito: «Durante quasi tutta la storia moderna, i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 – quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 – le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60%, mentre i redditi da capitale sono cresciuti». La causa? E’ nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell’essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell’era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli».Secondo David Autor, docente del Mit di Boston, sono al riparo dalle macchine solo i mestieri altamente creativi – manager, scienziati, medici, ingegneri e designer – oppure quei lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione: preparare un pasto, guidare un camion, pulire una stanza d’albergo. Uno studio della Oxford University svolto su 72 settori produttivi rivela che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47%) verrà sostituito dalle macchine. Per Autor, alle macchine non c’è scampo: i lavori manuali saranno meno pagati, e questo aumenterà la polarizzazione dei salari e la divaricazione abissale tra ricchi e poveri. Gli economisti progressisti, scrive Gaggi, «non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie». Mezzo secolo fa, conclude Gaggi, si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana: scontato che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, ma per far crescere la produttività a beneficio di tutti. Così non è stato, ed è indispensabile porvi rimedio prima che sia troppo tardi.S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.
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Fukushima, la bonifica nucleare è in mano alla mafia
Grandi cantieri, grandi affari. Tutto il mondo è paese, incluso il Giappone. Nessuna sorpresa, dunque, se spunta anche a Tokyo il convitato di pietra di molte grandi opere: la mafia. Peccato che l’opera in questione sia la bonifica di Fukushima: in ballo non ci sono treni veloci, ma la sicurezza del pianeta. Contratti complessi e carenza di lavoratori disponibili: per questo s’è fatta avanti la Yakuza, conferma la “Reuters”. Prima il disastro atomico causato da terremoto e tsunami, poi le menzogne di governo e media per coprire gli errori della Tepco e la reale entità del dramma: le autorità giapponesi non hanno ancora fatto i conti seriamente con l’apocalisse, emergenza sanitaria e contaminazione dell’acqua, dei terreni agricoli e del cibo. «E’ una guerra nucleare senza una guerra», dice lo scrittore Haruki Murakami: stavolta «nessuno ha sganciato una bomba su di noi», i giapponesi hanno fatto tutto da soli: «Abbiamo impostato il palco, abbiamo commesso il fatto con le nostre mani, stiamo distruggendo le nostre terre e stiamo distruggendo la nostra vita». Con la collaborazione di una potente forza occulta: la mafia.«Il coordinamento della decontaminazione di Fukushima, operazione multimiliardaria, si basa sulla criminalità organizzata del Giappone», che è «attivamente coinvolta nel reclutamento del personale “specializzato” per compiti pericolosi», accusa il professor Michel Chossudovsky dell’istituto canadese “Global Research”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Le pratiche di lavoro Yakuza a Fukushima – spiega Chossudovsky – si basano su un sistema corrotto di subappalto, che non favorisce l’assunzione di personale specializzato competente». Qualcosa che ricorda da vicino gli strani appalti a cascata nei quali si infiltrano le cosche, in Europa e in particolare in Italia, gonfiando i prezzi e spremendo come limoni le aziende che poi i lavori devono farli davvero. «Si crea un ambiente di frode e incompetenza, che nel caso di Fukushima potrebbe avere conseguenze devastanti», visto che ne va della sicurezza di tutti. In compenso, la manovalanza mafiosa è conveniente: «Il subappalto con la criminalità organizzata è un mezzo per grandi aziende coinvolte nella bonifica per ridurre in modo significativo il costo del lavoro».Alla criminalità organizzata giapponese, continua Chossudovsky, è affidata anche la delicatissima rimozione delle barre di combustibile dal reattore 4: il minimo errore potrebbe causare conseguenze apocalittiche, a livello mondiale, desertificando il Giappone e investendo di radioattività tutto l’oriente, dalla Cina all’Australia. In ballo, la rimozione con una gru di 1.300 barre di combustibile nucleare: in caso di incidente (anche solo il contatto fra due barre) si calcola che si produrrebbe un’onda radioattiva pari a 14.000 bombe di Hiroshima. Operazione che, a quanto pare, sarà effettuata da aziende non proprio pulite: la “Reuters” documenta il ruolo della Yakuza e il suo «rapporto insidioso» con la Tepco e i ministeri della salute, del lavoro e del welfare. Solo nella prefettura di Fukushima, conferma la polizia nipponica, operano almeno 50 clan, con oltre mille affiliati. Gli investigatori sono al lavoro per tentare di sradicare la criminalità organizzata dal progetto di bonifica nucleare. In una rara azione penale, il boss Yoshinori Arai è stato appena condannato per aver intascato 60.000 dollari facendo la cresta sui salari degli operai, ridotti di un terzo.Il mafioso, continua Chossudovsky, è stato condannato per la fornitura di lavoratori per un sito gestito da Obayashi, uno dei maggiori imprenditori del Giappone, a Date, una città a nord-ovest della centrale di Fukushima, investita dalle radiazioni dopo il disastro. Per un funzionario della polizia, il caso Arai è solo «la vetta dell’iceberg», perché l’intera bonifica di Fukushima puzza di mafia. «Un portavoce di Obayashi ha detto che la società “non ha notato” che uno dei suoi subappaltatori stava prendendo lavoratori da un criminale», ma l’azienda si impegna ora a collaborare con la polizia. Peccato che la testa dell’organizzazione sia a Tokyo: ad aprile, racconta “Global Research”, il governo ha selezionato ben tre società implicate nell’invio illegale di lavoratori a Fukushima: «Una di queste, una società basata a Nagasaki denominata Yamato Engineering, ha inviato 510 lavoratori per collocare un tubo alla centrale nucleare in violazione delle leggi sul lavoro». Tutto questo, per «migliorare le pratiche di business» a scapito della sicurezza. Già nel 2009, aggiunge Chossudovsky, alla Yamato Engineering erano stati «vietati i progetti di opere pubbliche», a causa di una sentenza che definiva l’azienda «effettivamente sotto il controllo della criminalità organizzata».Nelle città attorno a Fukushima sono al lavoro migliaia di operai. Tubi industriali, ruspe, dosimetri per misurare le radiazioni. Tutto questo per pulire case e strade, scavare terreno vegetale ed eliminare alberi contaminati, per consentire il ritorno degli sfollati. Centinaia le imprese coinvolte: di queste, secondo il ministero del lavoro, quasi il 70% avrebbe infranto le normative. «A marzo, l’ufficio del ministero a Fukushima aveva ricevuto 567 denunce, relative alle condizioni di lavoro per la decontaminazione: ha emesso 10 avvisi, ma nessuna impresa è stata penalizzata». Una delle aziende denunciate, la Denko Keibi, prima del disastro forniva le guardie di sicurezza privata per i cantieri. «Di fronte alla incessante disinformazione dei media relative ai pericoli di radiazione nucleare globale – conclude Chossudovsky – l’obiettivo di “Global Research” è quello di rompere il vuoto dei media e di sensibilizzare l’opinione pubblica, indicando le complicità dei governi, dei media e dell’industria nucleare».Grandi cantieri, grandi affari. Tutto il mondo è paese, incluso il Giappone. Nessuna sorpresa, dunque, se spunta anche a Tokyo il convitato di pietra di molte grandi opere: la mafia. Peccato che l’opera in questione sia la bonifica di Fukushima: in ballo non ci sono treni veloci, ma la sicurezza del pianeta. Contratti complessi e carenza di lavoratori disponibili: per questo s’è fatta avanti la Yakuza, conferma la “Reuters”. Prima il disastro atomico causato da terremoto e tsunami, poi le menzogne di governo e media per coprire gli errori della Tepco e la reale entità del dramma: le autorità giapponesi non hanno ancora fatto i conti seriamente con l’apocalisse, emergenza sanitaria e contaminazione dell’acqua, dei terreni agricoli e del cibo. «E’ una guerra nucleare senza una guerra», dice lo scrittore Haruki Murakami: stavolta «nessuno ha sganciato una bomba su di noi», i giapponesi hanno fatto tutto da soli: «Abbiamo impostato il palco, abbiamo commesso il fatto con le nostre mani, stiamo distruggendo le nostre terre e stiamo distruggendo la nostra vita». Con la collaborazione di una potente forza occulta: la mafia.
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Lavoro per tutti, e subito. Barnard: vi spiego come
Piena occupazione. E cioè assumere, subito, milioni di italiani: tutti quelli che non trovano lavoro, che l’hanno appena perso o lo stanno perdendo, nel limbo della cassa integrazione. Non è una fiaba, è la teoria della moneta moderna basata sulla sovranità finanziaria dello Stato. Parola chiave: spesa pubblica, da investire in occupazione. Un colossale piano di assunzioni temporanee. Quanto basta per dare uno stipendio a tutti, consentire agli italiani di rilanciare i consumi e quindi ridare ossigeno anche al settore privato, che quindi potrebbe ricominciare a investire e assumere. Soldi che poi lo Stato potrebbe recuperare, sotto forma di entrate fiscali. Tutto questo, sostiene Paolo Barnard, si può fare ad un’unica condizione imprescindibile: «Il governo italiano comunichi all’Unione Europea che, per la salvezza nazionale, ignorerà il limite europeo del 3% di deficit, cioè porterà la spesa a deficit a un livello superiore, tanto quanto gli serve per ottenere in Italia la piena occupazione». Raggiunto l’obiettivo-lavoro, «il deficit dell’Italia si fermerà».L’ex inviato di “Report”, oggi attivista della Modern Money Theory sviluppata dall’economista americano Warren Mosler, protesta per l’indifferenza che accoglie lo spettacolo «pietoso e straziante» degli operai in via di licenziamento, inutilmente esibito dalla televisione. Pochi istanti di visibilità, «poi spariscono dal mondo abbandonati nella loro disperazione». Sono soli: «Nessuno gli spiega l’economia». Spesso incolpano “in politici” e “i padroni”, ma restano «incapaci di vedere quanto assurdi, falsari e ignoranti sono i loro sindacati», ormai rassegnati solo a negoziare «il grado di abolizione dei diritti» e annichiliti nell’orizzonte del pensiero unico neoliberista, quello che ha distrutto lo Stato come potente operatore anche economico, in grado di tutelare la comunità nazionale. La Mmt, fondata sull’economia democratica di Marx e Keynes, ribalta lo scenario: se il mercato è in crisi e il settore privato è in agonia, come oggi in Italia, c’è qualcuno che, se vuole, ha la forza per cancellare, in un colpo solo, la tragedia della disoccupazione, che è la prima conseguenza (ma anche la causa) della crisi. Chi può fare il “miracolo”? Un solo soggetto: lo Stato.Oggi, riassume Barnard, il settore privato di imprese e banche è impossibile che trovi le risorse per l’occupazione e gli investimenti. «Inutile sbraitare con loro: il settore privato è pro-ciclico», cioè segue l’andamento del ciclo economico. «Se questo va bene, allora i datori di lavoro assumono e non licenziano, e le banche prestano alle aziende. Ma se il ciclo economico va male, allora licenziano, cassintegrano, e le banche non prestano alle aziende, o prestano a tassi impossibili». Oggi l’economia dell’Italia «non va male, va da vomitare», e quindi non è possibile aspettarsi nulla da imprese e banche, cioè dal settore privato, che è pro-ciclico. In questa situazione, l’unico settore che può intervenire è l’altro, quello pubblico. Il governo, «essendo colui che elargisce i soldi al paese, può decidere di andare contro il ciclo economico (anti-ciclo)». Quindi, quando l’economia «va da schifo», proprio il settore governativo «può invece investire alla grande». In altre parole: «Solo il governo può spendere mentre la nave affonda, il settore privato non lo farà mai». La soluzione? Investimenti strategici, sotto forma di spesa pubblica, per assumere milioni di italiani.Gli attivisti della Mosler Economics lo chiamano Plg, programma di lavoro garantito transitorio. Un piano speciale, targato Me-Mmt, concepito appositamente per «salvare i lavoratori dalla disperazione dei licenziamenti e della cassintegrazione». Missione: assumere, subito, tutti i licenziati e i cassintegrati d’Italia, con l’obiettivo finale di rilanciare il settore oggi più in crisi, quello privato. «Il Plg – spiega Barnard – assume in lavori programmati tutti i lavoratori disoccupati, pagandogli un “reddito di dignità” che sta di un pelo al di sotto del reddito medio del settore privato per le stesse mansioni. A quel punto, milioni di disoccupati italiani immediatamente percepiscono un reddito», a spese del governo «Cosa accade? Che lo spendono. E questo cosa fa? Aumenta le vendite delle aziende». Un effetto a cascata: l’incremento del fatturato delle aziende rilancia il settore privato, fino a far ripartire le assunzioni ordinarie.Va da sé che il piano statale di piena occupazione, studiato per salvare l’economia italiana, produrrebbe milioni di salariati in più, quindi un aumento della base imponibile del prelievo fiscale, ma «senza alzare le tasse di un centesimo». Lo Stato recupererebbe soldi semplicemente consentendo a milioni di italiani (e a migliaia di aziende) di avere di nuovo un reddito. L’unica condizione perché il “miracolo” si compia è che l’Italia affronti l’Unione Europea, rifiuti la politica di rigore e annunci che ricorrerà all’aumento temporaneo del deficit per ragioni di salvezza nazionale. «Italiani che lavorate o che non lavorate più, credetemi: questa è l’unica via, l’unica speranza, cioè un programma economico figlio di un secolo di storia dell’economia», conclude Barnard. «I sindacati oggi sono incapaci di qualsiasi proposta», assistendo alla perdita graduale dei diritti del lavoro duramente conquistati nel dopoguerra. Da Barnard, un appello diretto ai lavoratori: «Dovete essere voi a capire le basi dell’economia e a organizzarvi per pretendere che quanto sopra divenga politica di governo. Ora sapete cosa fare, fatelo».Piena occupazione. E cioè assumere, subito, milioni di italiani: tutti quelli che non trovano lavoro, che l’hanno appena perso o lo stanno perdendo, nel limbo della cassa integrazione. Non è una fiaba, è la teoria della moneta moderna basata sulla sovranità finanziaria dello Stato. Parola chiave: spesa pubblica, da investire in occupazione. Un colossale piano di assunzioni temporanee. Quanto basta per dare uno stipendio a tutti, consentire agli italiani di rilanciare i consumi e quindi ridare ossigeno anche al settore privato, che quindi potrebbe ricominciare a investire e assumere. Soldi che poi lo Stato potrebbe recuperare, sotto forma di entrate fiscali. Tutto questo, sostiene Paolo Barnard, si può fare ad un’unica condizione imprescindibile: «Il governo italiano comunichi all’Unione Europea che, per la salvezza nazionale, ignorerà il limite europeo del 3% di deficit, cioè porterà la spesa a deficit a un livello superiore, tanto quanto gli serve per ottenere in Italia la piena occupazione». Raggiunto l’obiettivo-lavoro, «il deficit dell’Italia si fermerà».
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Deficit al 3%: Renzi, Cuperlo e la Grecia che ci attende
Per Gianni Cuperlo, l’ultimo anonimo prodotto di quello che Diego Fusaro chiama «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd», cioè la macchina elettorale che da più di vent’anni drena voti di sinistra per fare politiche al servizio della destra neoliberista all’insaputa degli elettori, è possibile salvare l’Italia dalla catastrofe in cui sta precipitando anche senza superare il tetto “impossibile” del deficit, fissato al 3% del Pil dai signori di Bruxelles, che nessuno ha mai eletto. La pensano allo stesso modo anche i renziani: prima di rivendicare giustizia finanziaria in sede europea, l’Italia deve scontare i suoi “peccati” storici e spremere altri soldi tagliando gli sprechi: operazione che, da sola, basterebbe a rimettere in piedi il paese. In realtà, l’Italia è stremata dalla deflazione indotta dalla Bce, dalla mancanza di liquidità, dal crollo della domanda di consumi. Disoccupazione apocalittica. La causa: ridotto in bolletta dell’euro e costretto a tagliare la spesa pubblica vitale, lo Stato determina anche in crollo del settore privato. Lo conferma l’esperimento di genocidio economico più vicino a noi, quello della Grecia.La crisi del debito sovrano che ha travolto Atene ha avuto un effetto drammatico, quasi dimezzando il reddito disponibile degli ellenici rispetto a cinque anni fa, rileva il blog di Gad Lerner. Il reddito lordo disponibile è sceso del 29,5% tra il secondo trimestre del 2008 e lo stesso periodo del 2013, spiega il servizio statistico Elstat. Se si considera anche l’inflazione, il calo si avvicina al 40%. «Questi dati – sottolinea il blog – illustrano l’impatto della brutale recessione e delle misure di austerità che il governo potrebbe essere costretto a estendere al prossimo anno: a causa della minaccia della bancarotta, il governo di Atene ha continuamente ridotto le spese sociali e alzato le tasse, al fine di ricevere i crediti internazionali che hanno finanziato parte delle attività statali dopo l’uscita del paese dai mercati dei capitali». Criminalizzata per il debito pubblico, la Grecia dell’euro – mentre il Giappone (moneta sovrana) veleggia verso un maxi-indebitamento espansivo pari al 250% del Pil, e senza scosse finanziarie perché la banca centrale garantisce per i titoli di Stato.Negli ultimi quattro anni, nella Grecia spolpata dalla Troika le prestazioni sociali sono state ridotte del 26%: «Una misura che ha pesantemente contratto i consumi, che rappresentavano circa tre quarti del Prodotto interno lordo, la proporzione maggiore dell’Eurozona». Salari in picchiata: «Gli stipendi dei lavoratori sono scesi del 34% dal secondo trimestre 2009, sempre secondo i dati Elstat». Il servizio statistico greco sottolinea come la crisi abbia interessato anche i livelli di risparmio delle famiglie, scesi dell’8,7% nel secondo trimestre del 2013 contro un calo del 6,7% dell’anno prima. E oltre il danno, la beffa: gli economisti mainstream considerano “buone notizie” quelle sui conti ellenici, dove si prevede un avanzo primario a fine 2013. I greci non sanno più come mangiare e come curarsi se sono malati, ma almeno il bilancio dello Stato non è più in rosso. Che consolazione. E chissà cosa ne pensano Renzi, Cuperlo e colleghi. Ben decisi ancora e sempre a presentare il debito pubblico come “problema”, sperando che alle elezioni europee del maggio 2014 si parli di tutto tranne che di soluzioni, a condizione che l’elettorato italiano continui a dormire.Per Gianni Cuperlo, l’ultimo anonimo prodotto di quello che Diego Fusaro chiama «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd», cioè la macchina elettorale che da più di vent’anni drena voti di sinistra per fare politiche al servizio della destra neoliberista all’insaputa degli elettori, è possibile salvare l’Italia dalla catastrofe in cui sta precipitando anche senza superare il tetto “impossibile” del deficit, fissato al 3% del Pil dai signori di Bruxelles, che nessuno ha mai eletto. La pensano allo stesso modo anche i renziani: prima di rivendicare giustizia finanziaria in sede europea, l’Italia deve scontare i suoi “peccati” storici e spremere altri soldi tagliando gli “sprechi”: operazione che, da sola, basterebbe a rimettere in piedi il paese. In realtà, l’Italia è stremata dalla deflazione indotta dalla Bce, dalla mancanza di liquidità, dal crollo della domanda di consumi. Disoccupazione apocalittica. La causa: ridotto in bolletta dell’euro e costretto a tagliare la spesa pubblica vitale, super-tassando famiglie e aziende, lo Stato determina anche il crollo del settore privato. Lo conferma l’esperimento di genocidio economico più vicino a noi, quello della Grecia.
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Costituzione fai da te, Giulietto Chiesa: senatori golpisti
Ma Laura Puppato non avrebbe dovuto opporsi al “golpe bianco” per cambiare la Costituzione, come annunciato da lei stessa in piazza il 12 ottobre? E’ stata “convinta” in extremis da Anna Finocchiaro a votare a favore, spiega lei stessa nella sua pagina Facebook. «La Costituzione è in mano a queste rocce saldissime», commenta Giulietto Chiesa, che annuncia: «Noi faremo resistenza», contro la manomissione della Carta. Per soli 4 voti, il Senato ha approvato il dispositivo che modifica l’articolo 138 e apre la strada a rapide modifiche dell’impianto costituzionale, come suggerito dal “garante” Napolitano. Risultato: per cambiare le regole della democrazia in Italia non sarà più necessario disporre del consenso dei due terzi del Parlamento: si potrà procedere più alla svelta, magari come auspicato da uno dei potenti della Terra, il “ceo” di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, ansioso di veder sparire dall’Europa le “vecchie” Costituzioni come quella italiana, così attente ai diritti del lavoro.Questo Senato sbrigativo non ci rappresenta, protesta su “Megachip” Giulietto Chiesa, presidente del laboratorio politico “Alternativa”. «E’ una Camera che ha una maggioranza di provocatori, di lanzichenecchi che operano contro l’ordine e la pace sociale». Dettaglio decisivo: questa «maggioranza indegna» non è certo appannaggio dei soli “berluscones”, di Casini e di Monti, visto che «ne è parte integrante il Partito Democratico», che dopo lo “smacchiatore” Bersani propone il neoliberista Renzi, col contraltare mediatico di un uomo d’apparato come Cuperlo, che richiama la sinistra ai suoi doveri storici ma senza ovviamente disturbare il manovratore europeo, che col limite del deficit al 3% rende vuoto qualsiasi proclama sociale e democratico. Molte delle attuali direttive europee e degli accordi-capestro (Maastricht, Lisbona, Fiscal Compact) da cui dipende la nostra crisi, accusa un giurista come l’ex ministro Giuseppe Guarino, sono tecnicamente illegali, Costituzione alla mano. E, anziché rimediare impugnando la Carta, la si preferisce cambiare, neutralizzandola, in modo che non possa più ostacolare il super-potere europeo.La maggioranza con cui è passato al Senato il testo della deroga all’articolo 138 della Costituzione, storico baluardo contro tentazioni manipolatorie della Carta su cui si è finora basata la Repubblica nata dalla Resistenza, ha superato i due terzi con appena 218 a favore rispetto ai 214 del quorum richiesto (58 i contrari e 12 gli astenuti). Hanno votato a favore la stragrande maggioranza dei senatori Pd, Pdl e “Scelta Civica”. Contrari M5S e Sel, cui si aggiungono 5 senatori Pd: Felice Casson astenuto, mentre non hanno partecipato al voto Walter Tocci, Silvana Amati e Renato Turano. Con loro anche l’ex direttore di “RaiNews24”, Corradino Mineo, che pure – accettando di candidarsi – sperava in una “legislatura costituente” di ben altro livello. Decisivo, osserva il “Fatto Quotidiano”, il supporto numerico offerto della Lega Nord per sostenere il provvedimento, fortemente voluto dal governo delle larghe intese su sollecitazione del Quirinale. Se il quorum dei due terzi venisse superato anche alla Camera, sarà possibile evitare il referendum confermativo per le leggi di riforma costituzionale.Molte, al Senato, anche le defezioni nel Pdl, tra cui quella di Francesco Nitto Palma, senatore campano e presidente della commissione giustizia. Nel Pdl, scrive il “Fatto”, il colpo di mano sulla Costituzione ripropone lo scontro tra “falchi” e “colombe”: la fronda interna al partito berlusconiano nel voto sul ddl costituzionale ha coinvolto 11 senatori, che si sono astenuti al momento del voto (al Senato, l’astensione vale come un voto contrario). Oltre a Palma, gli altri sono Maria Elisabetta Alberti Casellati, Vincenzo D’Anna, Domenico De Siano, Ciro Falanga, Pietro Iurlaro, Pietro Langella, Eva Longo, Antonio Milo, Domenico Scilipoti e l’ex direttore del Tg1, Augusto Minzolini. «Di questi solo Nitto Palma, Minzolini e Falanga hanno annunciato in aula la loro astensione, in disaccordo col fatto che il ddl non affronta il tema della riforma della giustizia. Altri 12 senatori del Pdl, compreso Silvio Berlusconi, non erano invece presenti in aula». Alla Camera, ovviamente, la strada sarà spianata. E gli appelli di Zagrebelsky e Rodotà per non manomettere pericolosamente la Costituzione? Tutto inutile. «Faremo quanto è possibile per cancellare questa vergogna», annuncia Giulietto Chiesa. «Un Parlamento di nominati non rappresenta il paese e, tanto meno, può arrogarsi il diritto di cambiarne la carta costituzionale con un colpo di mano. Questo è un golpe bianco, che esegue il piano eversivo della P2. Noi faremo resistenza».Ma Laura Puppato non avrebbe dovuto opporsi al “golpe bianco” per cambiare la Costituzione, come annunciato da lei stessa in piazza il 12 ottobre? E’ stata “convinta” in extremis da Anna Finocchiaro a votare a favore, spiega ora nella sua pagina Facebook. «La Costituzione è in mano a queste rocce saldissime», commenta Giulietto Chiesa, che annuncia: «Noi faremo resistenza», contro la manomissione della Carta. Per soli 4 voti, il Senato ha approvato il dispositivo che modifica l’articolo 138 e apre la strada a rapide modifiche dell’impianto costituzionale, come suggerito dal “garante” Napolitano. Risultato: per cambiare le regole della democrazia in Italia non sarà più necessario disporre del consenso dei due terzi del Parlamento: si potrà procedere più alla svelta, magari come auspicato da uno dei potenti della Terra, il “ceo” di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, ansioso di veder sparire dall’Europa le “vecchie” Costituzioni come quella italiana, così attente ai diritti del lavoro.
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Ragnedda: condannati dall’euro, come Atene e Lisbona
Il Portogallo sprofonda come la Grecia e anticipa quello che potrebbe accadere all’Italia. Uno schema micidiale: gli Stati europei si indebitano, esattamente come tutti gli altri Stati al mondo, ma «non potendo emettere moneta (a differenza del Giappone, degli Usa, dell’Inghilterra e della Svizzera) chiedono aiuto alla Troika». Bce, Fmi e Unione Europea ben volentieri concedono prestiti, ovviamente a condizioni-capestro: indietro non vogliono solo i soldi che prestati (più gli interessi usurai) ma impongono anche un insieme di misure antisociali per “snellire” il welfare. Così, riassume Massimo Ragnedda, lo Stato non più sovrano è costretto a comportarsi come i cittadini «indebitati e disperati», che chiedono “aiuto” agli strozzini. Si accettano i vincoli e i tagli più drammatici alla spesa pubblica, pur sapendo che non faranno che aggravare la crisi. E’ tutto orribilmente semplice: «Gli Stati un tempo sovrani sono così costretti a vendere i gioielli di famiglia (come fanno gli strozzati dagli usurai), licenziare dipendenti pubblici, ridurre la sanità pubblica, tagliare i finanziamenti alla scuola e alla ricerca, ridurre le pensioni».La politica economica dell’Eurozona, scrive Ragnedda su “Tiscali” in un intervento ripreso da “Megachip”, è ordinata e imposta da oscuri burocrati e banchieri che vivono in un mondo dorato senza nessun contatto con quello che un tempo si sarebbe definito “il popolo”. «A noi rimane l’illusione che, votando, possiamo scegliere da chi essere governati». Ora, dopo aver schiacciato la Grecia, è il turno del Portogallo: in cambio del generoso piano di “salvataggio”, la Troika ha imposto al conservatore Passos Coelho di tagliare gli stipendi pubblici. Dal 2014 tutti i dipendenti pubblici portoghesi che guadagnano più di 600 euro si vedranno tagliare lo stipendio da un minimo del 2,5% ad un massimo del 12%, annota Ragnedda. Ma non basta: «La Troika ha imposto il licenziamento del 3% dei dipendenti pubblici, in un paese in cui la disoccupazione ha già superato quota 17,4%». In più, il super-potere europeo ha anche ordinato di aumentare l’orario settimanale dei lavoratori pubblici da 35 a 40 ore. Misure ora al vaglio della Corte Costituzionale di Lisbona: in mancanza di alternative, lo Stato sarà costretto ad applicarle.La Troika, continua Ragnedda, chiede anche che vengano privatizzate le aziende in attivo, come la Rete Energetica Nazionale. «Privatizzare significa vendere a prezzi di saldo, agli amici della Troika ovviamente, le aziende che producono. I soldi che si ricaveranno dalla vendita (un po’ come i nostri soldi dell’Imu che sono serviti a salvare il Monte Paschi di Siena) serviranno per salvare dal fallimento il quinto gruppo finanziario del paese, la Banif». Ma il debito non andrebbe pagato? Certo: quello di famiglie e aziende. Quanto al debito pubblico, quello dello Stato, dipende: se si tratta di un paese libero, come il Giappone che emette moneta sovrana, il debito può tranquillamente arrivare al 250% del Pil (più del doppio dell’esposizione italiana) senza che si scateni nessuna tempesta finanziaria. Motivo: gli speculatori sanno che lo Stato giapponese è in grado di ripianare il deficit in qualsiasi momento, ricorrendo all’emissione di valuta. L’Eurozona, senza più alcun potere di autodifesa monetaria, è invece in balia del ricatto finanziario: il deficit italiano è attualmente attorno al 3% del Pil, mentre quello nipponico è al 10%.In regime di moneta sovrana, debito pubblico significa, letteralmente: soldi che lo Stato anticipa ai cittadini, in termini di servizi, stipendi e infrastrutture, assicurando in tal modo il necessario supporto all’economia, in termini di fatturati e consumi, oltre che di stabilità sociale. Infatti, nonostante il suo elevatissimo debito virtuale, il Giappone non solo non ha tagliato la spesa pubblica (come invece la Grecia che ha dovuto chiudere ospedali e università, fabbriche e uffici) ma ha lanciato un ulteriore piano di espansione della spesa statale con un primo intervento da 85 miliardi di euro, con l’obiettivo di creare 600.000 nuovi posti di lavoro, secondo i piani keynesiani del premier Shinzo Abe. «Mentre in Grecia si registra un drastico aumento della povertà, casi di malnutrizione minorile, aumento dei reati legati alla “sopravvivenza”, sistema educativo e sanitario ridotto all’osso, in Giappone il tasso di disoccupazione è del 4.5%», precisa Ragnedda. Dopo la Grecia, ora tocca al Portogallo: il paese è costretto a licenziare i dipendenti pubblici, tagliare loro lo stipendio, ridurre la spesa pubblica elargendo meno servizi vitali per i cittadini.Dov’è il trucco? Nella moneta: a differenza di noi sventurati “sudditi” della Bce, i giapponesi sono proprietari del loro denaro, che può essere liberamente emesso dalla Bank of Japan, così come fanno la Federal Reserve statunitense, la Bank of England e la Banca centrale svizzera. Il rischio è l’aumento dell’inflazione, continua Ragnedda, ma il vantaggio è che non si è costretti a chiedere prestiti usurai alla Troika e farsi dettare la politica economica e sociale da oscuri banchieri. Attenti poi a maneggiare lo spauracchio dell’inflazione, sempre agitato dal super-potere neoliberista che, dopo quarant’anni di guerra ideologico-economica, sta finendo di distruggere lo Stato democratico come “sindacato dei cittadini” e loro grande sponsor economico. Secondo Paolo Barnard e Warren Mosler, in base alla “teoria della moneta moderna” ci si cautela facilmente dell’iper-inflazione se lo Stato crea posti di lavoro produttivi, e non assistenziali, vincolando quindi la maggiore liquidità all’incremento del Pil, cioè dell’economia reale.Per un vero piano di piena occupazione, abbonderebbero gli spazi nei settori con elevato impiego di personale, dai servizi alla persona alle opere di ripristino del territorio. Senza contare i posti di lavoro – centinaia di migliaia, forse milioni – ricavabili da un grande piano nazionale di riconversione ecologica dell’economia, dalle fonti rinnovabili alla ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio pubblico e privato. Lo Stato, però, può tornare a tutelare la comunità nazionale a una sola condizione: rientrando in possesso della propria moneta sovrana. Giochino piuttosto semplice, conclude Ragnedda: «Il Giappone, l’Inghilterra e gli Usa possono finanziarie il loro debito direttamente, emettendo moneta. Noi no. E per poter pagare il debito siamo perciò costretti a chiedere i soldi alla Bce e aprirci alla speculazione internazionale». Se l’Italia è ancora sospesa nell’anticamera dell’inferno, la micidiale road map di Bruxelles – Atene, poi Lisbona – indica che sta per toccare a noi, perché nessun governo (senza moneta, e quindi senza potere di spesa pubblica) potrà fare nulla di importante per invertire la rotta e opporsi alla catastrofe. Domanda: c’è qualche forza politica che osi porre la questione, in Parlamento?Il Portogallo sprofonda come la Grecia e anticipa quello che potrebbe accadere all’Italia. Uno schema micidiale: gli Stati europei si indebitano, esattamente come tutti gli altri Stati al mondo, ma «non potendo emettere moneta (a differenza del Giappone, degli Usa, dell’Inghilterra e della Svizzera) chiedono aiuto alla Troika». Bce, Fmi e Unione Europea ben volentieri concedono prestiti, ovviamente a condizioni-capestro: indietro non vogliono solo i soldi che prestati (più gli interessi usurai) ma impongono anche un insieme di misure antisociali per “snellire” il welfare. Così, riassume Massimo Ragnedda, lo Stato non più sovrano è costretto a comportarsi come i cittadini «indebitati e disperati», che chiedono “aiuto” agli strozzini. Si accettano i vincoli e i tagli più drammatici alla spesa pubblica, pur sapendo che non faranno che aggravare la crisi. E’ tutto orribilmente semplice: «Gli Stati un tempo sovrani sono così costretti a vendere i gioielli di famiglia (come fanno gli strozzati dagli usurai), licenziare dipendenti pubblici, ridurre la sanità pubblica, tagliare i finanziamenti alla scuola e alla ricerca, ridurre le pensioni».
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Orsi: Napolitano è il garante della scomparsa dell’Italia
Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un paese che, in soli vent’anni, è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale a una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico-istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, coi ricavi dalla tassazione diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil superiore al 3% e un debito pubblico sopra il 130%, destinato a peggiorare ulteriormente. Ancora dieci anni, e del nostro paese non resterà più nulla. Lo afferma il professor Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science. Il declino: una classe politica miope, pronta a imporre tasse in nome della stabilità. Ieri Monti, oggi Letta. Un disastro: «Terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente. E il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa».Il governo, scrive Orsi in un’analisi pubblicata da “Affari Italiani”, sa perfettamente che la situazione è insostenibile. Ma per ora è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’Iva (22%), che deprime ulteriormente i consumi. «Vacui» i proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie: tutti sanno che non accadrà. Politici e stampa mainstream annunciano una ripresa imminente? Perfettamente possibile, un trimestre positivo, per un’economia che ha perso l’8% del suo Pil. Ma chiamare “ripresa” un eventuale +0,3% «è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni: più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione». Numeri impietosi: il 15% del settore manifatturiero, che in Italia (prima della crisi) era il più grande in Europa dopo quello tedesco, è stato distrutto. E circa 32.000 aziende sono scomparse. «Questo dato, da solo, dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il paese subisce».Nell’Europa di Maastricht, quella della camicia di forza rappresentata dalla moneta unica, l’Italia è entrata nel peggior modo possibile, con una cultura politica «enormemente degradata». Negli ultimi decenni, osserva Orsi, l’élite italiana «ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione: l’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori». La leadership del paese, continua il professor Orsi, non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader nei loro settori. Poi la tagliola dell’Eurozona: l’Italia «ha firmato i trattati sull’euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità». Non solo: «Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’Ue sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini». Oggi, l’Italia è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono certa «la scomparsa completa della nazione».Da noi, il livello di tassazione sulle imprese è il più alto dell’Ue, e uno dei più elevati al mondo. Questo, insieme alla catastrofe dello Stato, sta spingendo gli imprenditori all’estero – non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo (Oriente, Asia meridionale), ma anche verso la vicina Svizzera e la stessa Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende trovano uno Stato «pronto a collaborare con loro, anziché a sabotarli». Aggiunge Orsi: «La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli, con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale». Chi è istruito e produce valore pensa solo a emigrare. Così, «l’Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri paesi più organizzati, che hanno l’opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia».Inoltre, siamo entrati «in un periodo di anomalia costituzionale», dopo che i partiti nel 2011 hanno «portato il paese ad un quasi-collasso», evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Chi comanda, oggi? «Il paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’Ue e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del presidente della Repubblica, che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del presidente – aggiunge Orsi – è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale».Per il professore della London School of Economics, «l’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese». Errore: «Saranno amaramente delusi», perché «l’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il paese dalla rovina». Sarebbe facile, aggiunge Orsi, sostenere che Monti ha aggravato la già pesante recessione. Ma Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. «I tecnocrati – spiega l’economista – condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il paese». Letta, Napolitano e le loro coorti di tecnici «sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia».A sconcertare, è la rapidità del declino: di questo passo, «in meno di una generazione non rimarrà nulla dell’Italia nazione industriale moderna». Entro un decennio, «intere regioni, come la Sardegna o la Liguria, saranno così demograficamente compromesse che non potranno mai più recuperare». Riflette Orsi: «I fondatori dello Stato italiano 152 anni fa avevano combattuto, addirittura fino alla morte, per portare l’Italia a quella posizione centrale di potenza culturale ed economica all’interno del mondo occidentale, che il paese aveva occupato solo nel tardo medioevo e nel Rinascimento. Quel progetto ora è fallito, insieme con l’idea di avere una qualche ambizione politica significativa e il messianico (inutile) intento universalista di salvare il mondo, anche a spese della propria comunità». Per il professor Orsi, «a meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l’Italia».Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un paese che, in soli vent’anni, è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale a una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di completo caos politico-istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato sta crescendo, coi ricavi dalla tassazione diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil superiore al 3% e un debito pubblico sopra il 130%, destinato a peggiorare ulteriormente. Ancora dieci anni, e del nostro paese non resterà più nulla. Lo afferma il professor Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science. Il declino: una classe politica miope, pronta a imporre tasse in nome della stabilità. Ieri Monti, oggi Letta. Un disastro: «Terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente. E il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa».
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Libertà, contro i diktat: scommettere su Marine Le Pen
«Negozierò sulle questioni per noi irrinunciabili. Se non si giungesse ad una soluzione soddisfacente, chiederò l’uscita. L’Europa è solo un bluff. Da un lato vi è l’enorme potere di popoli sovrani, dall’altro un pugno di tecnocrati». Così Marine Le Pen ad Ambrose Evans-Pritchard, del “Telegraph”. Uscire dalla moneta unica? La leader del Front National ne parlava già un anno fa: «Sì, perché l’euro impedisce qualsiasi autonomia nelle scelte di politica economica», e la Francia «non è un paese che possa accettare di ricevere ordini da Bruxelles». Scenari da cataclisma finanziario, coi tecnici incaricati di pianificare un ritorno al franco e i custodi dell’Eurozona chiamati a una difficile decisione: collaborare con la Francia per concertarne l’uscita, coordinando la rottura dell’unione monetaria, o attendere fatalmente una disgregazione disordinata. La Le Pen ostenta tranquillità: «L’euro cesserebbe nel momento stesso della nostra uscita, questa è la nostra forza. Cosa farebbero? Invierebbero i carri armati?».Secondo il Front National, per mantenere la Francia nell’Unione Europea occorrono l’uscita dall’euro, la reintroduzione dei controlli alla frontiera, la superiorità della legge francese rispetto alle norme europee e il “patriottismo economico”, cioè la possibilità per Parigi di perseguire un “protezionismo intelligente” e salvaguardare lo stato sociale. «Non riesco a immaginare una politica economica senza il pieno controllo di quella monetaria», dice la Le Pen a Pritchard, in un’intervista ripresa da un post su “Come Don Chisciotte”. A gonfiare le vele del Fn sono i sondaggi che lo presentano come primo partito francese e la fresca vittoria alle amministrative di Brignoles (maggioranza assoluta degli elettori), ma il partito anti-euro fa presa molto saldamente, e non da oggi, sui lavoratori francesi delusi dalla sinistra europeista e “finanziaria” di Hollande. Da qui il nuovo termine coniato dalla stampa francese: “Lepenismo di sinistra”. La figlia di Jean-Marie Le Pen «sta scavalcando a sinistra i socialisti attaccando le banche e il capitalismo internazionale». E rifiuta con sdegno la definizione di “estrema destra”: ha appena accolto tra le sue fila Anna Rosso-Roig, candidata per il partito comunista nelle elezioni del 2012.Il piano di uscita dall’euro della Le Pen, spiega Evans-Pritchard, è basato sugli studi degli economisti dell’École des Hautes Études di Parigi, diretta dal professore Jacques Sapir, secondo cui «la Francia, la Spagna e l’Italia beneficerebbero di un’uscita dall’euro, potendo riacquistare immediatamente competitività sul versante del costo del lavoro senza anni di decrescita». Gli squilibri nella bilancia dei pagamenti fra nord e sud Europa sono giunti ad un punto di non ritorno: il tentativo di ridurli attraverso ulteriore deflazione e tagli dei salari causerebbe disoccupazione di massa e la perdita di buona parte dell’apparato industriale. Per Sapir, la soluzione migliore sarebbe «uno smantellamento coordinato dell’euro, con controlli nei movimenti dei capitali e con le banche centrali impegnate a far convergere le nuove valute verso le quotazioni desiderate». Il modello stima che il marco tedesco e il fiorino olandese sarebbero rivalutati del 15% rispetto all’euro, mentre il franco sarebbe svalutato del 20%. Vantaggi competitivi che invece sarebbero compromessi da una disgregazione non concertata, con brusche fluttuazioni delle valute.Nella sua “conversione” radicalmente anti-europeista, aggiunge Evans-Pritchard, il Front National ha “rimosso” le sue vecchie istanze antisemite, mentre le sue chiusure sull’immigrazione «condurranno inevitabilmente a una resa dei conti con i 5 milioni di francesi musulmani». Attenzione anche alla propaganda: «La mia impressione è che Marine Le Pen abbia una visione più moderata sui diritti degli omosessuali e sull’aborto di quello che dica», osserva il giornalista inglese. «Per certi versi è più vicina alle posizioni populiste del politico olandese assassinato Pim Fortuyn che a quelle di suo padre Jean-Marie Le Pen, che si lamenta delle idee “piccolo-borghesi” maturate dalla figlia frequentando le scuole di Parigi». Comunque, la sua campagna contro la “demonizzazione” del Fn sembra stia funzionando: «Solo una minoranza di elettori ancora ritiene che il Front sia “una minaccia per la democrazia”». La Le Pen «sta conquistando il consenso di moltissime lavoratrici bianche». E, con una leadership femminile, il Front National «non è più un partito maschilista bianco». Se il padre chiamò l’Olocausto «un dettaglio della storia», lei lo definisce «l’apice della barbarie umana». Solo cinico calcolo elettoralistico? Pritchard resta prudente, ma ammette che «un nuovo scenario» si sta aprendo: la possibilità che i cittadini di un paese-chiave come la Francia possano tornare a dire la loro su quest’Europa così disastrosa.Di fatto, il Front National eredita la maggiore bandiera storica della sinistra, il welfare dei diritti: niente a che vedere con gli anti-euro inglesi, l’Ukip di Nigel Farage che detesta l’euro ma non il libero mercato. Al contrario, Marine Le Pen «è una fiera sostenitrice del modello francese di stato sociale», e la sua critica frontale al capitalismo «le dona una sfumatura di sinistra». La Le Pen «critica severamente Washington e la Nato, rivendicando per la Francia una politica di paese “non schierato” in un mondo multipolare, e rinfaccia al partito gollista Ump di aver venduto l’anima della Francia all’Europa e all’egemonia anglo-americana». L’ascesa del Front National «continua a ricordarci che la lenta crisi politica dell’Europa è lungi dall’aver raggiunto l’apice», sostiene Pritchard. «La disoccupazione di massa e le conseguenze negative delle politiche di deflazione stanno minando le fondamenta dell’establishment, così come avvenne nei primi anni ’30 sotto il Gold Standard», il regime di cambi fissi che coinvolse i principali paesi del mondo, «analoga situazione dell’attuale unione monetaria europea».La Francia «sta soffrendo la stessa lenta agonia di allora», perché il Fiscal Compact voluto da Angela Merkel «è esattamente una rivisitazione della politica deflazionista» che provocò il collasso economico del 1936. «Non c’è nessuna giustificazione macroeconomica per aver costretto la Francia all’inasprimento fiscale così pesante degli ultimi due anni, spingendo l’economia nuovamente in recessione», scrive Pritchard. «Le misure sono state fatte ingoiare alla Francia perché la dottrina dell’Unione Europea prevede solo “austerity”», cioè riduzione della spesa pubblica e aumento delle tasse con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, senza controbilanciare il rigore con stimoli monetari come la creazione di moneta sovrana da parte della banca centrale per facilitare il credito a beneficio di consumatori e imprese. Fino a ieri, «la Francia ha permesso alla Germania di decidere per tutti»: è questo che ha provocato la valanga elettorale del Front National, che ha «frantumato l’assetto politico francese» e ora ha la strada spianata verso le elezioni europee del maggio 2014. Marine Le Pen non sarà sola: molti altri euro-scettici prenotano il Parlamento Europeo. Giusto così: «Le più grandi paure delle élite europee si stanno avverando», conclude Pritchard, «ed è solamente colpa loro».«Negozierò sulle questioni per noi irrinunciabili. Se non si giungesse ad una soluzione soddisfacente, chiederò l’uscita. L’Europa è solo un bluff. Da un lato vi è l’enorme potere di popoli sovrani, dall’altro un pugno di tecnocrati». Così Marine Le Pen ad Ambrose Evans-Pritchard, del “Telegraph”. Uscire dalla moneta unica? La leader del Front National ne parlava già un anno fa: «Sì, perché l’euro impedisce qualsiasi autonomia nelle scelte di politica economica», e la Francia «non è un paese che possa accettare di ricevere ordini da Bruxelles». Scenari da cataclisma finanziario, coi tecnici incaricati di pianificare un ritorno al franco e i custodi dell’Eurozona chiamati a una difficile decisione: collaborare con la Francia per concertarne l’uscita, coordinando la rottura dell’unione monetaria, o attendere fatalmente una disgregazione disordinata. La Le Pen ostenta tranquillità: «L’euro cesserebbe nel momento stesso della nostra uscita, questa è la nostra forza. Cosa farebbero? Invierebbero i carri armati?».
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Curzio Maltese: il Nulla al governo, decide tutto Draghi
«L’Italia è un’espressione geografica», senza valore politico. La celebre frase di Metternich si potrebbe oggi usare per l’Europa, non fosse che l’Europa non è nemmeno un’espressione geografica e non ha neppure una lingua o una cultura comuni. Da un punto di vista geografico siamo solo l’Ovest dell’Asia; da quello politico, l’Est degli Stati Uniti. Il resto è soltanto una parziale unità monetaria e doganale. La larga vittoria di Merkel e l’affermarsi un po’ ovunque di grandi coalizioni eterodirette dalle banche centrali riconfermano il modello di questa unione debole, di questa fusione fredda. Le alternative a questo modello disastroso di Europa, lontano ormai anni luce dai sogni dei fondatori, è rappresentata da movimenti populisti poco credibili. Quindi si andrà avanti sulla strada sbagliata, verso il nulla. Eppure è questo nulla che da due anni governa l’Italia, attraverso governi commissariati dalle banche centrali. E continuerà a governarci chissà per quanto, perfino a dispetto di eventuali elezioni.Una volta festeggiata la fine del berlusconismo con la ridicola sconfitta al Senato sulla sfiducia, bisogna prendere atto che il governo Letta, sopravvissuto al bluff del Cavaliere, è soltanto la continuazione del governo Monti, con gli stessi risultati depressivi sull’economia. L’unica vera differenza, ma importante, è che questo è un governo politico e sta ponendo le basi per durare a lungo. Monti aveva sognato un grande centro, clamorosamente bocciato dagli elettori. Ma siccome gli elettori e le elezioni ormai contano poco, il grande centro si è formato lo stesso e oggi governa. A dispetto del voto, il Pd si sta trasformando in un partito neocentrista e progetta di governare, insieme a Monti e a un pezzo neocentrista dell’ex corte berlusconiana, per molti anni.Un (vero) governo di sinistra oggi dovrebbe scontrarsi con la politica imposta dalla Banca europea e da Berlino, e la sinistra italiana non ha né il coraggio né la volontà di farlo. A questo punto si tratta soltanto di prendere ordini da Draghi, e dunque che senso ha preoccuparsi di alleanze, programmi, leader? Meglio noi degli altri, è il ragionamento. Andrebbe tutto bene, se non che la politica delle banche centrali sta distruggendo l’industria italiana. Per l’Europa naturalmente non è un problema se le imprese italiane falliscono o si trasferiscono altrove. Affari degli italiani, che per vent’anni hanno inseguito un pagliaccio. Ma per noi, e ancora di più per i nostri figli, il problema è colossale. La ricetta di Draghi non ha funzionato con Monti e non sta funzionando con Letta. Ma l’alternativa dov’è? Il nuovo Pd di Renzi, il vaffa di Grillo? Lo status quo va benissimo anche a loro.«L’Italia è un’espressione geografica», senza valore politico. La celebre frase di Metternich si potrebbe oggi usare per l’Europa, non fosse che l’Europa non è nemmeno un’espressione geografica e non ha neppure una lingua o una cultura comuni. Da un punto di vista geografico siamo solo l’Ovest dell’Asia; da quello politico, l’Est degli Stati Uniti. Il resto è soltanto una parziale unità monetaria e doganale. La larga vittoria di Merkel e l’affermarsi un po’ ovunque di grandi coalizioni eterodirette dalle banche centrali riconfermano il modello di questa unione debole, di questa fusione fredda. Le alternative a questo modello disastroso di Europa, lontano ormai anni luce dai sogni dei fondatori, è rappresentata da movimenti populisti poco credibili. Quindi si andrà avanti sulla strada sbagliata, verso il nulla. Eppure è questo nulla che da due anni governa l’Italia, attraverso governi commissariati dalle banche centrali. E continuerà a governarci chissà per quanto, perfino a dispetto di eventuali elezioni.
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Tv, nebbia sulla crisi: Report oscura le verità di Iacona
«Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».Dopo averci a lungo intrattenuto sui guai del fisco e sulle inefficienze pubblica amministrazione, scrive Martini su “Il Main Stream”, il programma della Gabanelli ha presentato un’inchiesta sui motivi che spingono gli imprenditori a delocalizzare all’estero le aziende. Polonia: una voce narrante cerca di indorare la pillola, che spiegando che a Varsavia «fare impresa è possibile, perché l’imposizione fiscale sulle imprese è quasi inesistente, esiste la possibilità di licenziare incondizionatamente e con breve preavviso, non esiste il Trattamento di Fine Rapporto, non esiste la tredicesima, e in generale si lavora più a lungo per meno». Poi, “Report” mostra «come in Polonia i bambini vengano addestrati sin da piccoli ad acquisire la cultura imprenditoriale». Una “coordinatrice del programma di apprendimento dell’imprenditorialità” spiega che «fin dalla tenera età i piccoli giocano al “Piccolo Bancomat”, e che alle elementari si addestrano al gioco del “Piccolo Ministro delle Finanze”, dove ai bambini è dato di decidere quali spese tagliare».Proseguendo, la Gabanelli individua nella carenza di produttività il vero guaio italiano, e addita chi parla di uscita dall’euro a «ciarlatani che cercano di distrarre dai problemi reali». L’economista Lucrezia Reichlin spiega che l’idea di far acquistare i titoli del Tesoro dalla propria banca centrale è «molto pericolosa», in quanto «toglie incentivi al risanamento dei conti». E archiviare il rigore sui bilanci è ancora più pericoloso, perché «creerebbe inflazione», cioè «una tassa occulta che distrugge i risparmi». Molto meglio, sempre per la Reichlin, che anche l’Italia accetti un piano di “aiuti” dalla Bce, con relativo commissariamento. «La voce narrante conferma», racconta Martini, e passa a intervistare un giornalista di “Repubblica”, sicuro che – con l’uscita dall’euro – i risparmi degli italiani sarebbero decurtati di un terzo. Sempre la voce narrante di “Report” paragona l’uscita dalla moneta unica a «una patrimoniale sui cittadini italiani di centinaia di miliardi: di gran lunga la soluzione più costosa».Sistemati gli “uscisti”, continua Martini, si passa alle altre possibili soluzioni per uscire dalla crisi. «La risposta non può che essere una: fare come la Germania». Così, vengono illustrati gli effetti delle riforme tedesche dei primi anni 2000: aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze, perdita di redditi e diritti per i lavoratori. Scelte che però “Report” presenta sotto una luce favorevole: hanno avuto luogo in un momento di crescita dell’economia mondiale, quindi al momento giusto. «A quei tempi la Germania è dimagrita, mentre noi siamo ingrassati, e adesso ci supera», dice la solita voce narrante, evidentemente soddisfatta del “sorpasso virtuoso” dei tedeschi messi a dieta. Infine, un accenno al Fiscal Compact: «Iacona, giustamente, lo indicava come una sciagura», mentre – per gli “esperti” citati dalla Gabanelli – dire che il Fiscal Compact applicato alla lettera strangolerebbe l’economia italiana è, senza mezzi termini, «una cavolata», dal momento che «con un po’ di inflazione e crescita economica il debito si aggiusta da solo». Come a dire: manco ce ne accorgeremo. Inutile spendere altre parole per smontare queste bufale, dice Martini, o spigare che «è truffaldino chiamare “Unione” un’organizzazione che ha il solo fine di portare alle estreme conseguenze la concorrenza tra nazioni, cioè tra lavoratori». Resta l’amarezza: la Gabanelli «fa disinformazione a spese nostre», e attraverso il suo potere mediatico «inocula, ad arte, veleno nelle menti dei cittadini». E l’etica del servizio pubblico? « Gabanelli, mi si passi il francesismo, se ne fotte».«Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».