Archivio del Tag ‘salari’
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Londra: e smettetela di dire che non ci sono più soldi
Spiacenti, non ci sono più soldi. E quindi: rigore, tagli alla spesa pubblica, spending review. Per colpire, solo e sempre, il settore pubblico: il welfare, la spesa vitale per i cittadini, da cui dipende strettamente la salute dell’economia privata di aziende e famiglie. Stando a politici, tecnocrati e banchieri, è come se il denaro «fosse una risorsa limitata, alla stregua della bauxite o del petrolio». Errore: il denaro è inesauribile, illimitato. Perché può essere creato dal nulla, in qualsiasi momento, a una sola condizione: che venga accettato come valore di scambio, per acquistare beni e servizi e pagare le tasse. Quella che a prima vista può sembrare la scoperta dell’acqua calda, secondo David Graeber del “Guardian” è un’esternazione epocale: perché proviene dalla Banca d’Inghilterra, che ammette ufficialmente che la quantità di denaro circolante – quella in nostro possesso, e a disposizione dei nostri Stati – non dipende assolutamente da un ammontare frutto di risparmi, ma da una semplice decisione politica, attuata dalle banche centrali e dai super-banchieri che le gestiscono.Il sistema continua dirci che «semplicemente non c’è abbastanza denaro per finanziare lo stato sociale», e preferisce «parlare dell’immoralità del debito pubblico o di una spesa pubblica che “svuota le tasche” al settore privato»? Tutto falso. «Il sistema della riserva frazionaria permette alle banche di prestare somme considerevolmente superiori a quelle che detengono nelle riserve». E, se i risparmi dei correntisti non bastano, «le banche possono farsi prestare altro denaro dalla banca centrale», la quale «può stampare tutto il denaro che vuole», riassume Graeber, citando il documento intitolato “La creazione della moneta nell’economia moderna”, redatto da tre economisti del dipartimento di analisi monetaria della Bank of England. «Non c’è davvero alcun limite alla quantità di denaro che una banca può creare, a patto che trovi persone che vogliano prendere in prestito quel denaro. Non rischieranno mai di finire senza soldi, per il semplice motivo che, in genere, i loro mutuatari non prenderanno mai il denaro per metterlo sotto al materasso: alla fine, tutto il denaro che una banca presta tornerà indietro in qualche modo in qualche altra banca».Le banche, sottolineano gli analisti della banca centrale britannica, non ricevono i risparmi dai privati per poi successivamente prestarli. Al contrario: «Sono i prestiti delle banche a creare i depositi», attraverso la banca centrale. «E la moneta della banca centrale non è nemmeno “moltiplicata” sotto forma di prestiti e depositi», perché viene semplicemente creata dal nulla. «Nel caso le banche avessero bisogno di prelevare denaro dalla banca centrale – scrive Graeber – possono prenderne in prestito quanto ne vogliono; tutto ciò che fa quest’ultima è determinare il tasso di interesse, il costo del denaro, non la sua quantità». Per questo, «non c’è alcuna spesa pubblica che “svuoti le tasche” al settore privato. E’ esattamente l’opposto»: è la finanza a chiudere i rubinetti, a costringere intere nazioni a tirare la cinghia. «Perché, così all’improvviso, la Banca d’Inghilterra ammette tutto ciò?».Forse, si risponde Graeber, la banca di Stato britannica ha capito che è «un lusso che non si può più permettere» il mantenere in vita «la versione “fantasilandia” dell’economia, che si è rivelata così conveniente per i ricchi». Politicamente, secondo il giornalista del “Guardian”, i banchieri centrali inglesi stanno affrontando un rischio enorme: «Immaginate cosa potrebbe succedere se i titolari dei mutui si rendessero conto che il denaro che la banca ha prestato loro non proviene in realtà dai risparmi di una vita di qualche pensionato parsimonioso, ma sia invece un qualcosa creato dal nulla da una bacchetta magica in loro possesso, che noi gli abbiamo consegnato». Certo, la Gran Bretagna non è in sofferenza quanto l’Eurozona: la sterlina sovrana consente a Londra di cambiare politica, per esempio di aumentare la spesa pubblica e la protezione dello Stato verso i cittadini. Operazione preclusa ai paesi la cui sovranità finanziaria è stata confiscata dall’euro, i cui gestori ripetono che, semplicemente, “non ci sono più soldi”. Come se il denaro fosse un bene materiale, anziché un valore convenzionale che si può liberamente immettere nel sistema economico.Se oggi si “scopre” che la fonte del credito non è certo la riserva frazionaria – cioè la percentuale di depositi accantonati per la solvibilità del sistema – a diffidare della libera emissione di moneta furono economisti di destra ma anche di sinistra. Secondo la scuola marxista, l’espansione del credito assicura una forte crescita, che però finisce per provocare crisi di sovrapproduzione o crisi economiche dovute all’insolvenza di molte imprese alla scadenza dei debiti. Più in generale, si teme che la quantità di moneta prestata possa non corrispondere ad una ricchezza reale, e quindi causare inflazione e calo della domanda. Analoghe conclusioni dalla “scuola austriaca” di economia: se si espande il credito oltre il “tesoro” della riserva frazionaria, i prezzi cresceranno molto più in fretta del Pil, generando inflazione. Tesi sostanzialmente smentite dalla storia e dalla realtà di oggi: gli Usa uscirono dalla Grande Depressione proprio espandendo il credito mediante creazione di moneta, e oggi il dramma dell’Eurozona si chiama deflazione: insufficiente quantità di denaro a disposizione delle imprese e delle famiglie, a causa dei tagli imposti agli Stati che, limitando la spesa pubblica (in fase di recessione economica) condannano il sistema all’asfissia.Fin dall’inizio della recessione, scrive il “Guardian”, le banche centrali degli Usa e della Gran Bretagna hanno ridotto quasi a zero il costo del denaro: attraverso il “quantitative easing”, cioè l’alleggerimento quantitativo, «hanno pompato quanto più denaro potevano nelle banche, senza produrre alcun effetto inflattivo». Il significato di tutto questo? «Il tetto dell’ammontare della moneta in circolazione non è dato da quanto le banche centrali siano disposte a prestare, ma da quanto denaro siano disposti a prendere in prestito governi, aziende, e cittadini ordinari». La questione è politica: «La spesa dei governi ha il ruolo principale in tutto ciò». E lo stesso documento della Bank of England «ammette, leggendolo con attenzione, che alla fine le banche centrali forniscono denaro ai governi». Certo, le banche centrali degli Stati con moneta sovrana – quindi non i paesi dell’Eurozona.«Storicamente – rileva Graeber – la Banca d’Inghilterra tende a essere un precursore, esternando quelle che possono sembrare posizioni radicali ma che poi finiscono per diventare la nuova ordotossia». E’ come se gli analisti inglesi avesso detto, chiaro e tondo, che bisogna bocciare la Bce e tutte le politiche restrittive dell’Unione Europea. Non è vero che “non ci sono più soldi” per gli Stati. E’ vero il contrario: Bruxelles ha deciso che gli Stati, e i loro cittadini, devono soffrire. Solo degradando le condizioni generali di vita, abolendo diritti sociali e diritti del lavoro, l’élite può sperare di disporre di “sudditi” docili, disposti a tutto per un salario schiavistico. Il paradiso in terra per i monopolisti della moneta ex-sovrana, super-tecnocrati al servizio degli oligarchi planetari, i grandi privatizzatori del nostro futuro.Spiacenti, non ci sono più soldi. E quindi: rigore, tagli alla spesa pubblica, spending review. Per colpire, solo e sempre, il settore pubblico: il welfare, la spesa vitale per i cittadini, da cui dipende strettamente la salute dell’economia privata di aziende e famiglie. Stando a politici, tecnocrati e banchieri, è come se il denaro «fosse una risorsa limitata, alla stregua della bauxite o del petrolio». Errore: il denaro è inesauribile, illimitato. Perché può essere creato dal nulla, in qualsiasi momento, a una sola condizione: che venga accettato come valore di scambio, per acquistare beni e servizi e pagare le tasse. Quella che a prima vista può sembrare la scoperta dell’acqua calda, secondo David Graeber del “Guardian” è un’esternazione epocale: perché proviene dalla Banca d’Inghilterra, che ammette ufficialmente che la quantità di denaro circolante – quella in nostro possesso, e a disposizione dei nostri Stati – non dipende assolutamente da un ammontare frutto di risparmi, ma da una semplice decisione politica, attuata dalle banche centrali e dai super-banchieri che le gestiscono.
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Cos’è l’euro-regime l’han capito tutti, tranne la sinistra
La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».L’Italia è allo stremo, riconosce l’analista di “Micromega”: neppure la crisi del ‘29 era stata così violenta. Oggi le famiglie non sanno come arrivare alla fine del mese, la disoccupazione e la povertà dilagano, i giovani non trovano lavoro e non hanno prospettive. E l’opposizione di sinistra? Non pervenuta: «Chiede con grande moderazione “meno austerità” e “più democrazia in Europa”». Ridicolo, di fronte all’attuale catastrofe. Martin Schulz, l’euro-candidato del Pd, «dice che occorre invertire la rotta e fare finalmente le riforme per lo sviluppo, ma non fa nessuna autocritica sulla folle austerità imposta dalla sua alleata di governo Angela Merkel». Lo stesso presidente del Parlamento Europeo «giustifica ed esalta l’euro di Maastricht e tace sul fatto che con questi trattati e con il Fiscal Compact uscire dalla crisi è impossibile». Aggiunge Grazzini: «Questa Europa fa male, molto male. Ormai una forte minoranza dell’opinione pubblica che sta diventando maggioranza non sopporta più l’euro ed è sempre più critica verso questa Ue che impone una crisi che non finisce più».L’elettorato si sta polarizzando e radicalizzando, e mentre dilaga «la rabbia contro questa Europa della disoccupazione e della povertà». Problema: se i ceti popolari votano massicciamente “a destra”, significa che la sinistra è considerata disattenta o, peggio, complice del sistema. La sinistra di potere: quella che cantava le lodi dell’euro e delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Unione Europea, il mostro giudirico di Maastricht che sta radendo al suolo intere nazioni, intere economie, con politiche antidemocratiche e ferocemente liberiste, che aggravano la crisi. «Queste politiche, senza abolire Maastricht, sono irriformabili», conclude Grazzini. «Per uscire dalla crisi è necessario rivendicare la sovranità economica e monetaria degli Stati». Beninteso: sovranità parziale, per quanto consentito dalla globalizzazione. La sovranità a cui pensa Grazzini non va confusa col nazionalismo della Le Pen o l’isolazionismo britannico: «Battersi per la sovranità nazionale deve significare semplicemente che esigiamo la democrazia e non vogliamo essere diretti da tecnocrazie opache asservite alla finanza e ai governi dei paesi dominanti».Solo recuperando l’autonomia degli Stati in campo economico e monetario, nonché la sovranità nazionale in campo politico, è possibile difendersi, in sintonia con gli altri popoli europei oppressi dal regime di Bruxelles. Ma è inutile sperare che la sinistra italiana cambi posizione: «Scartata l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro, considerata come catastrofica», nella sinistra «prevale l’allineamento alle tesi pro-euro e pro-Ue». L’euro, la moneta unica prevista per tutti i 28 stati dell’Unione Europea ma utilizzata solo da 12 paesi, sul piano economico «è una solenne bestemmia: infatti significa che 12 paesi molto differenti, dalla Spagna alla Germania, dall’Italia all’Olanda, dal Portogallo alla Lettonia, sono soggetti allo stesso tasso di interesse, devono avere la stessa base monetaria e subiscono lo stesso tasso di cambio verso i paesi extraeuropei». Ovvio che non funziona: «Un paese che corre troppo, in cui l’inflazione è elevata, ha bisogno di alti tassi di interesse; invece un altro paese (come l’Italia) che è fermo necessita di tassi bassi per stimolare gli investimenti. Un paese come la Germania può riuscire ad esportare con l’euro a 1,40 sul dollaro; altri paesi invece con lo stesso tasso di cambio non riescono più ad esportare e a compensare l’import, e sono quindi costretti ad accendere debiti».La moneta unica fa esplodere le differenze, aggravando gli squilibri: «La Germania diventa sempre più competitiva; gli altri paesi invece perdono industria». La Germania impone una politica deflattiva per ridurre i deficit altrui e per garantirsi che le siano restituiti i debiti, «ma la politica deflattiva comprime l’economia, provoca la crisi fiscale dello Stato, la disoccupazione, la precarizzazione del lavoro, la riduzione dei redditi, della domanda e degli investimenti». Risultato: diventa sempre più difficile restituire i debiti. «Non a caso, i debiti pubblici dei paesi mediterranei continuano ad aumentare inesorabilmente nonostante l’austerità». Perché ostinarsi a non riconoscere la verità? Secondo Grazzini, «per molta parte della sinistra il sogno di un’Europa unita e federata, degli Stati Uniti d’Europa, ha sostituito il sogno fallito del comunismo. La sinistra ha perso la testa e si è innamorata perdutamente dell’idea di Europa, una Europa che però la tradisce spudoratamente con la finanza».Se questo vale per la base elettorale della sinistra, secondo molti altri analisti i leader del centrosinistra italiano sono stati semplicemente cooptati dall’élite franco-tedesca: hanno trascinato l’Italia nella catastrofe dell’Eurozona, sperando di guidare la Seconda Repubblica dopo il crollo del vecchio sistema Dc-Psi, funzionale alla guerra fredda e liquidato da Mani Pulite. Troppo sospetta, la reticenza del centrosinistra di fronte al disastro dell’Unione Europea – guidata peraltro anche da uomini come Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs benché uomo simbolo dell’antagonismo contro Berlusconi. Ora siamo all’ultima mutazione genetica, quella di Matteo Renzi: che per prima cosa vara il Jobs Act, cioè la frammentazione del lavoro super-precarizzato, in ossequio ai dettami (“riforme strutturali”) che l’élite europea ha imposto, piegando gradualmente i sindacati. «Insieme al lavoro si svaluta anche il capitale nazionale», avverte Grazzini. «Così è più facile per le aziende estere conquistare le banche e le industrie di un paese in debito, magari privatizzate in nome dell’Europa: e così i paesi più deboli cadono nel sottosviluppo, nella subordinazione e nella povertà».Sempre secondo Grazzini, la sinistra che si vorrebbe marxista o alternativa «non si accorge del pericolo», neppure di fronte all’assalto di Telefonica verso Telecom. Eppure, «il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia». Patriottismo economico: non è forse la parola d’ordine del Front National che la sinistra italiana continua a emarginare come vieta espressione sciovinista, xenofoba e fasciosta? «Si dice che gli Stati non contano più nulla – scrive Grazzini – perché la finanza ormai è globalizzata e quindi l’Europa e l’euro sono necessari per difendersi dalla globalizzazione». Favole: l’euro e l’Ue sono esattamente gli ostacoli che hanno frenato la nostra economia. La riprova: «I paesi europei che non hanno adottato l’euro (Gran Bretagna, Svezia, Danimarca, Polonia) e hanno una loro moneta nazionale stanno molto meglio di noi. In Italia in cinque anni di crisi abbiamo perso circa l’8,5% del Pil e il 30% degli investimenti». I redditi crollano, la disoccupazione dilaga, un terzo delle famiglie è a rischio povertà, ma l’Ue impone i tagli alla spesa pubblica e il Fiscal Compact, facendo esplodere il debito pubblico che – senza moneta sovrana – ci scava la fossa giorno per giorno.Democrazia? Scomparsa dai radar. «Nessuno della Troika (Commissione Ue, Bce, Fmi) è stato eletto dai cittadini». Il Parlamento Europeo? «Non ha praticamente poteri: serve soprattutto a dare una patina di legittimità alle decisioni della Commissione». Un referendum sull’euro? «Sarebbe giusto farlo. In Francia e in Olanda i popoli si sono già espressi contro una falsa Costituzione Europea per salvaguardare la loro sovranità. E la Svezia e la Danimarca con un referendum hanno deciso di non entrare nell’Eurozona. Beati loro». La Polonia ha rimandato l’ingresso nell’euro, la Gran Bretagna si tiene stretta la sterlina. «Solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle politiche neocoloniali della Ue e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile: senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia». Questo lo dicono Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di “Fratelli d’Italia”. «Purtroppo – ammette Grazzini – buona parte della sinistra ritiene che la sovranità nazionale sia da demonizzare perché sempre di destra».La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».
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Halevi: liquidare il Pd e l’euro-regime che taglia i salari
Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania. L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto, l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’Eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. E infatti Olanda e Austria protestarono, ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta, ovviamente. Purtroppo non si può uscire dall’unione monetaria se non si esce anche dall’Ue.Per poter permettere l’uscita soltanto dall’Ume sarebbe stato necessario includere nei Trattati una separazione tra Eurozona e Ue – cosa che non c’è, come non c’è alcuna clausola di uscita nei testi che legalizzano l’unione monetaria. In Italia il risparmio delle famiglie – al 3,6% del reddito disponibile secondo l’ultimo “economic outlook” dell’Ocse – è crollato per via della crisi aggravata dalle politiche di austerità, e quindi per via del connesso calo degli investimenti. Non si può tornare a Keynes, perché a Keynes non ci si è mai arrivati se non attraverso il “keynesismo militare” del periodo 1947-71 o forse ‘47-74. Infine, con o senza riferimento a Keynes, anche dopo la fine di Bretton Woods gli Usa non hanno mai abbandonato una politica fiscale attiva, finalizzata agli obiettivi dei gruppi capitalistici che, di volta in volta, controllano il governo. Durante Bush il Piccolo, la presidenza Usa non ha mai posto un veto alle proposte di espansione della spesa federale inoltrate dai repubblicani.Tutte queste spese hanno avuto sì degli effetti “keynesiani”, soprattutto l’ulteriore militarizzazione lanciata da Reagan, ma non vennero effettuate con obiettivi keynesiani di piena occupazione. Servono però a dimostrare che le idee secondo cui il neoliberismo ha implicato meno Stato, meno spesa pubblica, e più mercato sono sbagliate. C’è stato più Stato e più capitale privato. La fase apertasi col 2007 mette in crisi anche le visioni secondo cui dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il sistema economico sarebbe stato gestito da politiche neoliberiste volte a ridurre il ruolo dello Stato a favore del mercato. Invece, per molti versi organismi statuali insindacabili (come quelli dell’Ue) hanno aumentato la loro azione ed ingerenza negli affari economici, intervenendo attivamente nello spostamento dei rapporti economici e sociali a favore non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici prescelti.Infine si è dimostrata errata l’idea che la crisi sia il prodotto della moderazione e stagnazione dei salari, negli Usa prima e progressivamente anche in Europa, che ha spinto le famiglie a indebitarsi. Credo che la dinamica sia stata differente. La stagnazione salariale e le trasformazioni finanziarie, sempre appoggiate dallo Stato fin nei minimi particolari, hanno permesso di acchiappare due piccioni con una fava. Da un lato la stagnazione salariale riduceva la pressione sul costo del lavoro e – cosa ben più importante del costo del lavoro – riduceva soprattutto la possibilità di resistenza organizzata alle decisioni manageriali. Negli Stati Uniti, le delocalizzazioni industriali – prima verso il Messico e poi massicciamente verso la Cina – sono andate di pari passo con l’indebolimento salariale e sindacale, che sono stati gli strumenti sociali usati per effettuare tali delocalizzazioni.In parole povere: non avrebbero potuto traslocare con questa facilità se i dipendenti non fossero stati già in crisi profonda, tale da non poter offrire grande resistenza. Dall’altro lato le trasformazioni finanziarie, l’invenzione di nuove forme di moltiplicazione dei titoli, sempre rese possibili dalle politiche degli organismi statali, hanno creato ciò che Riccardo Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario privatizzato. In altri termini l’indebitamento non è stato soltanto l’elemento che ha controbilanciato la stagnazione salariale. È andato molto più in avanti. Il sistema giuridico statale ha dato facoltà alle società finanziarie di cercare e creare i soggetti da indebitare anche nelle classi di reddito più basse, che altrimenti non avrebbero potuto accedere ad una tale massa di prestiti. In questo modo dagli Usa è stata sostenuta la domanda effettiva mondiale: tramite le delocalizzazioni e con le conseguenti importazioni dal resto del mondo.A ben guardare, i paesi che negli anni 1985-2007 hanno avuto un tasso di crescita degno di questo nome sono Cina, India, Usa e pochi altri. Negli Usa il tasso di crescita pro capite è stato moderato, ma quello aggregato – che include l’aumento di popolazione – è stato maggiore che in Europa o Giappone. Pertanto il processo che è sfociato nella crisi del 2007 evidenzia come sia erronea la contrapposizione di capitalismo finanziario ad economia reale. La fase iniziata con le politiche reaganiane si basa sull’integrazione dei due aspetti, al punto che è impossibile fare delle distinzioni. A Keynes non si può ritornare perché non ci si è mai arrivati, né ci si arriverà. Lo predisse Keynes stesso in un articolo apparso sulla rivista americana “The New Republic” nel 1940. Keynes sostenne che le democrazie liberali non avrebbero mai accettato di aumentare la spesa pubblica ad un livello tale da poter convalidare la sua concezione dell’economia. Nei fatti questo livello venne però raggiunto e superato, ma grazie al pilastro rappresentato dal keynesismo miltare.Oggi non è questione di andare oltre Keynes né di ritornarci, dato che le probabilità di un ampio consenso sociale interclassista intorno alle politiche dette keynesiane si allontana sempre di più, a meno che non sorgano delle esigenze militari globali che coinvolgano sia gli Usa che l’Europa e l’Asia capitalistica. Allo stato attuale la crisi ha allontanato ulteriormente la possibilità di un compromesso interclassista keyensiano. Non ci credono gli imprenditori, non ci credono i think tanks, non ci credono politici e banchieri centrali; mentre il lavoro dipendente, il precariato e i disoccupati non hanno espressioni politiche coerenti rilevanti nell’ambito degli schieramenti parlamentari. Di fronte a ciò abbiamo la concreta prospettiva di un massiccio voto operaio a formazioni di destra come nel caso del Front National in Francia. Ritorno ai cambi flessibili? L’horror story dell’euro non risiede nell’impossibilità di svalutare o rivalutare. A mio avviso su questo terreno ha valore l’affermazione di Lenin riguardo il secolare scontro tra libero scambio e protezionismo. Né l’uno né l’altro, sostenne Lenin, bensì monopolio statale sul commercio estero.Precaria la precaria posizione dei sindacati di oggi – sono pessimi organismi, spesso corrotti e imboscati nei meandri della politica. Però sono necessari: senza di loro, come argomentò un grande economista matematico metà neoclassico e metà marxiano, Michio Morishima, la società capitalistica tenderebbe verso la schiavitù. Comunque, se oggi si vuole ascrivere allo Stato un ruolo di datore di lavoro, dovrebbe essere quello di datore di lavoro di prima istanza. Le società europee stanno tendendo verso la piena disoccupazione e precarizzazione. Il toro lo si può affrontare solo prendendolo per le corna: organizzare lotte con idee chiare in testa. Cioè la socializzazione pianificata degli investimenti e, necessariamente, per delle politiche monetarie e fiscali subordinate a quest’obiettivo. Tuttavia per queste lotte non ci sono le condizioni. In Italia la formazione di tali condizioni deve passare per una radicale trasformazione della Cgil e per la dissoluzione del Pd. I nuovi quadri dovranno inoltre essere altamente preparati sui temi economici di cui abbiamo discusso. Impossibile.(Joseph Halevi, estratti dall’intervista realizzata da “EuroTruffa” e ripresa da “Megachip”. Economista dell’università di Sydney, Halevi è autore con Riccardo Bellofiore del saggio “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”).Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania. L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto, l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’Eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. E infatti Olanda e Austria protestarono, ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta, ovviamente. Purtroppo non si può uscire dall’unione monetaria se non si esce anche dall’Ue.
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Quegli 80 euro, il prezzo della paura che hanno di noi
L’importante, per decidere il nostro futuro, è che tutti sappiano come ci si è arrivati e perché, a questi 80 euro. Ci si è arrivati cioè come misura emergenziale a fronte di una situazione sociale che incuteva, ormai, vero terrore nelle classi dirigenti economiche, finanziarie e mediatiche di questo paese. Vale a dire che dopo trent’anni di lotta di classe dall’alto verso il basso e di aumento della forbice sociale, dopo cinque anni di austerità, precarizzazione e disoccupazione, ci si è accorti di avere un po’ esagerato. E che, esagerando, si rischia di far crollare tutto. Di far cadere a pezzi tutto il sistema. Alle urne o fuori dalle urne. In modi imprevedibili ma comunque paurosi.E allora, da sempre, si fa così: dare qualcosa – non molto, ma qualcosa – per vedere cosa succede. Se basta a calmare le acque. Se fra un anno questa donazione si può togliere o ridurre. O se, al contrario, le tensioni saranno tali da doverla aumentare o estendere ad altri. È così, da sempre. E «il potere vestito d’umana sembianza che volge lo sguardo a spiar le intenzioni degli umili, degli straccioni». Quindi, di nuovo, fanno schifo questi 80 euro, fa ridere il fatto che il governo abbia rinunciato (ad esempio) a un solo F35 per finanziare questa dazione? No, non fanno schifo – e non fa ridere la rinuncia a un solo aereo, perché un F35 in meno è meglio di un F35 in più.Basta sapere che accontentarsene e appagarsene – anziché esigerne altri 800, altri 8.000 da parte di chi ha meno – cambierà di nuovo la tendenza, farà ripartire la lotta di classe dall’alto verso il basso, riallargherà la mostruosa forbice sociale che si è creata da tempo: e lo farà molto oltre questi 80, benedetti, euro che dal mese prossimo arriveranno in tasca a una fetta di italiani.(Alessandro Giglioli, “A spiar le intenzioni”, 20 aprile 2014, dal blog “Piovono Rane” che Gilioli cura su “L’Espresso”).L’importante, per decidere il nostro futuro, è che tutti sappiano come ci si è arrivati e perché, a questi 80 euro. Ci si è arrivati cioè come misura emergenziale a fronte di una situazione sociale che incuteva, ormai, vero terrore nelle classi dirigenti economiche, finanziarie e mediatiche di questo paese. Vale a dire che dopo trent’anni di lotta di classe dall’alto verso il basso e di aumento della forbice sociale, dopo cinque anni di austerità, precarizzazione e disoccupazione, ci si è accorti di avere un po’ esagerato. E che, esagerando, si rischia di far crollare tutto. Di far cadere a pezzi tutto il sistema. Alle urne o fuori dalle urne. In modi imprevedibili ma comunque paurosi.
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E bravo Renzi, hai bruciato un milione di posti di lavoro
Con 10 miliardi di euro si può creare quasi un milione di posti di lavoro, con stipendi da 1.200 euro netti al mese: perché invece disperdere quella cifra su dieci milioni di persone che un lavoro ce l’hanno già, e a cui 80 euro in più non cambiano certo la vita? Luciano Gallino non ha dubbi: «Al reale cambiamento, Renzi ha preferito lo spot ad effetto, l’impatto mediatico: 10 miliardi per 10 milioni di persone. Rimane impresso nelle menti, ma non cambia le sorti di nessuno». Tutto perfettamente in linea col rigore – per i lavoratori – raccomandato dai “padroni del mondo”, interessati a mantenere alta la disoccupazione: lo stesso progetto del Jobs Act che frammenta e precarizza ulteriormente il lavoro «nasce vecchio di vent’anni», già proposto nel lontano 1994 proprio dall’Ocse, uno dei massimi super-poteri mondiali, quello da cui oltretutto proviene l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan.A colloquio con Giacomo Russo Spena per “Micromega”, il sociologo dell’ateneo torinese denuncia il Jobs Act come un residuato bellico che porta la firma dell’Ocse, cioè «uno dei tanti organismi internazionali che entrano negli affari dei singoli Stati raccomandando sempre flessibilità, concertazione, taglio dello stato sociale». Esattamente vent’anni fa, spiega Gallino, l’Ocse produsse uno studio sull’indice di Lpl, cioè “legislazione a protezione dei lavoratori”, un indicatore di rigidità del mercato. Tesi: più alto è l’indicatore, più alta è la disoccupazione. «Da allora – dice Gallino – molti giuristi, economisti e sociologi hanno dimostrato come lo studio fosse stato scritto scegliendo prima le conclusioni, ovvero l’idea che bisognava smantellare e ridurre la protezione giuridica del lavoro per creare nuovi posti di lavoro, e solo successivamente analizzati i dati che, ovviamente, suffragavano quest’impostazione. In realtà – conclude il sociologo – non c’è alcuna conferma che il taglio dell’indice Lpl possa portare ad aumento dell’occupazione».Nel 2006, continua Gallino, la stessa Ocse, dopo una serie di risultati, ha ammesso la contraddittorietà del fondamento: l’indice Lpl per l’Italia nel 1994 era superiore al 3,5. Dopo 12 anni, con le riforme delle leggi Treu 1997 (govenro Prodi) e Maroni-Sacconi 2003 (governo Berlusconi), era sceso ad 1,5. Più che dimezzato, eppure «i precari sono diventati 4 milioni». Identica musica col governo Monti: «La riforma Fornero ha seguito la stessa scia». E ora ecco il Jobs Act, a favorire ancora una volta la mobilità in uscita. «Nel 2014 ci ritroviamo con progetti lanciati su scala nazionale nel 1994». Sicché, «l’idea di continuare a perseverare con la medesima tecnica, che ha prodotto l’attuale disastro sociale, è preoccupante». Sintetizzando: con Renzi, «siamo di fronte a un conducente che affronta una strada tortuosa di montagna guardando soprattutto nello specchietto retrovisore: una cosa pericolosa, da non fare».Precarizzazione “espansiva”, come l’austerity “felice” spacciata dai guru di Harvard e adottata dalla Troika europea? «La precarietà mina la vita di milioni di persone, com’è evidente dagli ultimi 15-20 anni. Distrugge professionalità, costringendo una persona nell’arco di 10 anni a passare da un mestiere all’altro penalizzando esperienze magari indispensabili. E inoltre riduce la produttività del lavoro, come si palesa nelle statistiche. In Italia, culla della precarietà, le imprese ottengono un minimo di profitto e fanno quadrare il bilancio tagliando sul costo del lavoro e puntando sulla compressione salariale dei dipendenti o sulla loro estrema flessibilizzazione». Tutto questo, «invece di investire su tecnologia qualificata, innovazione, ricerca e nuovi settori produttivi: così la precarietà non rappresenta una pessima strada solo per le condizioni di vita dei lavoratori, ma anche per l’economia perché incentiva una strada sbagliata». A questo punto sarebbe fondamentale una vera opposizione. La Cgil? Non pervenuta: il sindacato della Camusso è ormai «appannato».Con 10 miliardi di euro si può creare quasi un milione di posti di lavoro, con stipendi da 1.200 euro netti al mese: perché invece disperdere quella cifra su dieci milioni di persone che un lavoro ce l’hanno già, e a cui 80 euro in più non cambiano certo la vita? Luciano Gallino non ha dubbi: «Al reale cambiamento, Renzi ha preferito lo spot ad effetto, l’impatto mediatico: 10 miliardi per 10 milioni di persone. Rimane impresso nelle menti, ma non cambia le sorti di nessuno». Tutto perfettamente in linea col rigore – per i lavoratori – raccomandato dai “padroni del mondo”, interessati a mantenere alta la disoccupazione: lo stesso progetto del Jobs Act che frammenta e precarizza ulteriormente il lavoro «nasce vecchio di vent’anni», già proposto nel lontano 1994 proprio dall’Ocse, uno dei massimi super-poteri mondiali, quello da cui oltretutto proviene l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan.
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Brancaccio: tutti precari? Pessimo affare, ditelo a Renzi
«I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero». Secondo Emiliano Brancaccio, si sta profilando lo scenario previsto dal “monito degli economisti”, pubblicato lo scorso settembre sul “Financial Times”. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene sostituita da quella – altrettanto improbabile – della “precarietà espansiva”: «L’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione», ma rischio è che «si passi da una vecchia a una nuova illusione». Già la “austerità espansiva”, invece di favorire la ripresa, ha solo «alimentato la depressione». Idem per l’aumento della precarizzazione su cui puntano Renzi e la Merkel: «Le evidenze empiriche, dell’Ocse come del Fondo Monetario Internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione».Dare ossigeno all’economia senza aumentare il deficit oltre i limiti imposti da Bruxelles? «La scommessa di Renzi – rispettare il vincolo e abbassare le tasse – si basa evidentemente sulla possibilità che il Pil aumenti, che sia cioè il denominatore ad aumentare facendo scendere il rapporto», dice Brancaccio, intervistato da Luca Sappino per “L’Espresso”. L’economista è scettico: «L’effetto espansivo che Renzi ha previsto di ottenere con questa riduzione delle tasse sarà in realtà modesto, e verrà in parte mitigato dalla diminuzione della spesa pubblica. La spending review su cui tutti puntano può avere un effetto contrario agli 80 euro in busta paga, soprattutto quando si tagliano spese sensibili, come ad esempio il trasporto pubblico». Per il 2014, aggiunge Brancaccio, il taglio della spesa sarà certamente inferiore rispetto a quanto previsto da Renzi. «E’ chiaro quindi che siamo di fronte a un buco di bilancio. Anzi, in un certo senso dovremmo augurarcelo. Anche perché, a prescindere dalle cifre, non esiste un programma di revisione della spesa che sia credibile se realizzato in un semestre».La storia, continua Brancaccio, ci insegna che le revisioni di spesa condotte in fretta e furia «si trasformano in tagli lineari brutali, che colpiscono sempre i soggetti più deboli e non aiutano certo la crescita del Pil». Forse, in Europa sono iniziate «le prove generali per l’annunciato scambio tra un po’ meno austerità e un po’ più riforme del lavoro», ma certo non se ne esce con la dottrina della “precarietà espansiva”, perché la precarietà non espande proprio nulla. Dietro, «vi è l’idea che l’intera Eurozona si salva solo se i paesi periferici, a colpi di precarizzazione del lavoro, riescono ad abbattere i salari, i costi e i prezzi. In questo modo si dovrebbe colmare il divario di competitività rispetto alla Germania e si dovrebbero quindi riequilibrare i rapporti di credito e debito all’interno dell’Unione». La storia però smonta ogni illusione: questo meccanismo non funziona, perché «impone ai soli paesi debitori il peso del riequilibrio». In questo modo, «l’intera Unione viene trascinata in una corsa salariale al ribasso, che può determinare una deflazione generalizzata e una nuova crisi del debito».«I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero». Secondo Emiliano Brancaccio, si sta profilando lo scenario previsto dal “monito degli economisti”, pubblicato lo scorso settembre sul “Financial Times”. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene sostituita da quella – altrettanto improbabile – della “precarietà espansiva”: «L’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione», ma rischio è che «si passi da una vecchia a una nuova illusione». Già la “austerità espansiva”, invece di favorire la ripresa, ha solo «alimentato la depressione». Idem per l’aumento della precarizzazione su cui puntano Renzi e la Merkel: «Le evidenze empiriche, dell’Ocse come del Fondo Monetario Internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione».
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Ai vertici dell’Ue una banda di criminali: processateli
Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna e Portogallo, la disoccupazione è alle stelle. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori come la deflazione (crollo dei prezzi), la domanda stagnante e la crescita-zero sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro. Errori? No: crimini. Lo sostiene un gruppo di giornalisti e politici greci, che a fine 2012 ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per “sospetti crimini contro l’umanità” a carico dei vertici della Troika: il presidente della Commissione Europea, Barroso, la direttrice del Fmi, Lagarde, del presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, nonché della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.A sua volta, aggiunge Luciano Gallino in un intervento su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, un’attivista tedesca nel campo dei diritti umani, Sarah Luzia Hassel, appoggiava la denuncia con una documentatissima relazione circa le azioni compiute dalle citate istituzioni a danno sia della Grecia che di altri paesi, europei e no. «Tutte azioni suscettibili di venir configurate addirittura come crimini contro l’umanità, ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte Penale dell’Aja». Si va dalla liquidazione della sanità pubblica alle politiche agricole che hanno affamato milioni di persone, dalla salvaguardia del sistema finanziario a danno dei cittadini ordinari alle ristrette élite che influenzano le decisioni delle istituzioni stesse, fino agli interventi nel campo del lavoro e della previdenza atti a ledere basilari diritti umani. Un terzo documento, infine, che accusa i vertici Ue di gravi forme d’illegalità, è stato pubblicato a fine 2013 dal centro studi di politiche del diritto europeo di Brema, su richiesta della Camera del Lavoro di Vienna.Documenti che «giacciono tuttora nei cassetti dei destinatari», benché rinverditi da clamorose denunce come quella della rivista medica “Lancet” «circa i danni che sta infliggendo alla popolazione la crisi della sanità in Grecia per via delle misure di austerità imposte dalle istituzioni Ue». In pratica, «chi soffre di cancro non riesce più a procurarsi le medicine necessarie, divenute troppo costose», e «la quota di bambini a rischio povertà supera il 30%». In Grecia sono ricomparse, dopo quarant’anni, malaria e tubercolosi, mentre i suicidi sono aumentati del 45% e chi fa uso di droga non dispone più di siringhe sterili distribuite dal sistema sanitario, per cui utilizza più volte la stessa siringa. Risultato: i casi di infezione Hiv rilevati sono ormai centinaia. Attenzione: «L’Italia, insieme con Spagna, Portogallo e Irlanda, appare avviata sulla stessa strada della Grecia», avverte Gallino.Il sistema sanitario nazionale italiano è alle corde: «Anche da noi i tempi di attesa per le visite specialistiche si sono allungati sovente di molti mesi perché i medici che vanno in pensione non sono rimpiazzati». Inoltre, le prestazioni sono sempre più costose, al punto che molti rinviano le analisi o «rinunciano a visite mediche o esami clinici perché i ticket hanno subito forti aumenti e non riescono più a pagarli». Paradossale: «Coloro che vanno in un laboratorio convenzionato si sentono dire che se scelgono la tariffa privata spendono meno del ticket». Senza contare che «molte famiglie non riescono più a mandare i bimbi all’asilo o alla scuola materna perché i posti sono stati ridotti, o la retta è aumentata al punto che non possono farvi fronte».La Grecia è vicina, ammonisce il rapporto di “Lancet”: «Se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute potrebbero essere un prezzo che val la pena di pagare. Per contro, i profondi tagli hanno avuto in realtà effetti economici negativi, come ha riconosciuto perfino il Fmi». In altre parole, riassume Gallino, non soltanto i vertici Ue hanno dato prova, con le politiche economiche e sociali che hanno imposto, di una «scandalosa indifferenza per le persone che vi erano soggette», ma queste sciagurate politiche «si sono pure dimostrate clamorosamente sbagliate». Nel 2008, diversi giuristi americani ed europei parlarono di “crimini economici contro l’umanità”, commessi dai dirigenti dei maggiori gruppi finanziari. Ma nel caso della crisi europea non si tratta più di attori privati (banchieri-pirati), bensì dei massimi esponenti della dirigenza pubblica della Ue, cui è stato affidato l’oneroso impegno di presiedere ai destini di 450 milioni di persone ai tempi della crisi.I vertici dell’Ue «hanno mostrato anzitutto una clamorosa incompetenza della gestione della crisi», e hanno scelto di «favorire gli interessi dei grandi gruppi finanziari andando contro agli interessi vitali delle popolazioni». Di fatto, «hanno dato largo ascolto alle maggiori élite europee, e in più di un caso ne fanno parte». Soprattutto, «hanno mostrato di non tenere in alcun conto le sorti delle persone cui si dirigevano le loro politiche». Stando al documento di Brema, le violazioni dei diritti umani compiute dai vertici Ue, in spregio agli stessi trattati dell’Unione, potrebbero essere portate davanti a varie corti e istituzioni europee, nonché davanti a organizzazioni internazionali quali l’Onu e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Domanda: «È mai possibile che non siano chiamati a rispondere per nulla delle illegalità non meno che degli errori che hanno commesso, e delle sofferenze che hanno causato con l’indifferenza se non addirittura il disprezzo dimostrato verso le popolazioni colpite?».Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna e Portogallo, la disoccupazione è alle stelle. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori come la deflazione (crollo dei prezzi), la domanda stagnante e la crescita-zero sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro. Errori? No: crimini. Lo sostiene un gruppo di giornalisti e politici greci, che a fine 2012 ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per “sospetti crimini contro l’umanità” a carico dei vertici della Troika: il presidente della Commissione Europea, Barroso, la direttrice del Fmi, Lagarde, del presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, nonché della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.
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Castells: grazie a Internet, la libertà non è più utopia
Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.Lo spiega in un dialogo con Tomás Ibañez, a cui dobbiamo un ottimo “elogio del relativismo” pubblicato da Elèuthera nel 2012 (”Il libero pensiero”). Elèuthera ora ripropone anche questo botta e risposta informale, pubblicato in Spagna nel 2006. Titolo: “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”. Un libretto agile. Più che altro un’introduzione al tema. In cui si sostiene che l’era digitale ha creato le condizioni perché l’anarchismo (lui lo definisce “neoanarchismo”) e il pensiero libertario tornassero d’attualità. «Nella società attuale esiste un’esigenza di libertà» che va al di là dell’ideologia o delle battaglie condotte dai nuovi movimenti “alteromondisti”. E’ una questione empirica e strutturale. Ha a che vedere con la possibilità di costituire facilmente «reti di relazioni tra individualità», quindi non più individui atomizzati che subiscono passivamente il mercato anonimo e la comunicazione di massa.I movimenti si auto-organizzano e a volte riescono a darsi strutture autonome senza gerarchie stabilite, che lavorano in una sorta di assemblea permanente (una delle pratiche utopiche tipiche del pensiero anarchico). D’altra parte oggi è «la stessa struttura produttiva a richiedere, per essere più efficiente di prima, un funzionamento basato su strutture organizzative non gerarchizzate». Sta cambiando anche il modello di sviluppo, nel quale si intravvedono «modalità e relazioni che si allontanano dalle posizioni propriamente capitaliste e che si avvicinano al libertarismo». Nei tempi in cui viviamo, lo Stato, contro cui ha tradizionalmente lottato l’anarchismo, è diventato uno “strumento di dominio secondario”. La battaglia si è spostata sul piano della produzione e diffusione delle idee.E’ vero che le tecnologie informatiche non sono in grado di «promuovere, di per sé, un cambiamento sociale positivo», anche perché consentono alle autorità di avere un controllo senza precedenti sugli individui e le reti che li uniscono. Ma è pur vero che si tratta di “tecnologie di libertà” malleabili, flessibili: sono insomma un’occasione senza precedenti. Attraverso Internet ti possono sorvegliare, certo, ma potevano farlo anche prima, la differenza è che ora, grazie a Internet (a un suo utilizzo consapevole) «anche tu li puoi sorvegliare». Molto utile la postfazione di Andrea Staid, che mette i puntini sulle “i” e aggiorna il dialogo ai tempi (recentissimi) delle cosiddette “wikirivolte”, i nuovi movimenti insurrezionali che hanno spazzato via dittature longeve «nel più completo stupore delle democrazie occidentali».Non c’è rivoluzione che non abbia sfruttato il medium dell’epoca (una citazione di Foucault ci ricorda la funzione rivoluzionaria dei discorsi di Khomeini diffusi sotto forma di audiocassette) e quindi anche i social media possono essere uno strumento importante. Ma non potranno mai sostituire «la condivisione fisica delle emozioni» che avviene nelle strade e nelle piazze. Staid avverte: «Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che sarà la rete a salvarci… Non basterà Internet per risolvere il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali, sulla terra. La mutazione culturale libertaria deve essere in grado di penetrare nelle reti di rapporti reali fra esseri umani». Insomma, la cara vecchia battaglia per “decostruire il dominio”». Una cosa è certa: il pensiero libertario (l’anarchismo) non può che essere pluralista, “in divenire” e anti-dogmatico, si deve nutrire di una “concezione relativista critica”, quindi deve essere in grado di adattarsi ai contesti e alle circostanze, soprattutto oggi, in un’epoca in cui, come dice Castells, «il nodo problematico che caratterizza la società rimanda all’idea di libertà», che non può essere solo quella dell’individuo ma la «libertà di tutti».(Fabrizio Tassi, “Tecnologie di libertà”, da “Micromega” dell’11 marzo 2014. Il libro: Manuel Castells e Tomàs Ibañez, “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”, Eléuthera, 67 pagine, 7 euro).Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.
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Goldman Sachs, il super-potere che fa il lavoro di Dio
Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.Questo ha inevitabilmente incrementato la malnutrizione e scatenato rivolte popolari in molti paesi in via di sviluppo. Nel 2008, la banca di Wall Street ha contribuito al crollo dell’economia mondiale attraverso la diffusione dei mutui tossici sub-prime e le scommesse contro le “collateralized debt obligations”. È importante ricordare inoltre che la Goldman Sachs è stata riconosciuta colpevole da un punto di vista penale per le attività di “insider trading” nello stato della California. Nel 2009, la banca americana ha contribuito a creare alcune delle condizioni della crisi nell’Eurozona, aiutando ad esempio il governo della Grecia a “cucinare” e mascherare i dati sul debito pubblico nazionale tra gli anni 1998 e 2009. La metafora “Goldman Sachs, macchina delle crisi” sembra chiarita ora, ma perché parlare anche di “governo del mondo”?Dall’inizio degli anni ‘80, dopo l’avvento della finanziarizzazione neoliberista, la Goldman Sachs ha aumentato in modo esponenziale il suo potere politico. Le ingenti quantità di ricchezza accumulate attraverso l’uso e l’abuso dei derivati sono state in parte investite in finanziamenti di campagne elettorali e attività di lobby. La Goldman Sachs è poi riuscita, grazie al sistema delle “porte girevoli”, a piazzare alcuni dei suoi uomini migliori in posizioni politiche di rilievo nei governi degli Stati Uniti e in Europa. Tra gli ex banchieri della Goldman Sachs, che hanno ricoperto cariche politiche importanti negli Stati Uniti, ricordiamo Henry Paulson, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Bush figlio, Robert Rubin, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Clinton, Timothy Geithner ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Obama, Mark Patterson, ex capo del personale al segretario al Tesoro e Stephen Friedman, ex presidente della Federal Reserve Bank di New York.Tra i leader di Goldman Sachs che hanno occupato importanti cariche di governo in Europa, ricordiamo invece Mario Draghi, attuale capo della Banca Centrale Europea (Bce), Mario Monti, ex primo ministro d’Italia, Otmar Issing, ex membro del consiglio della Bundesbank e della Bce, Karelvan Miert, ex commissario alla concorrenza dell’Unione Europea, Antonio Borges, ex capo del Fondo Monetario internazionale (Fmi), Lucas Papademos, ex primo ministro della Grecia e Peter Sutherland, ex procuratore generale d’Irlanda. Non male, vero? L’assunzione di alte cariche istituzionali da parte di ex dirigenti della Goldman Sachs non è tuttavia evidenza sufficiente per dire che “governa il mondo.”C’è dell’altro, però. Oltre a contribuire a generare crisi mondiali, aiutare politici a vincere le elezioni, fare lobby per ottenere favori fiscali e piazzare i suoi uomini negli uffici governativi che dovrebbero disciplinare le attività speculative, la Goldman Sachs si permette pure il lusso di suggerire ricette economiche ai governi. Provate a pensare alle riforme adottate negli Stati Uniti e in Europa negli anni successivi il collasso della Lehman Brothers. Prima c’è stato il salvataggio delle banche “troppo-grandi-per-fallire” con circa 12 trilioni di dollari di denaro pubblico (il Prodotto Interno Lordo del mondo è di circa 70 trilioni di dollari). Poi, sono arrivate le riforme finanziarie all’acqua di rose che hanno evitato di regolare i circa 600 trilioni di dollari di derivati che hanno messo in ginocchio l’economia. Infine, sono state adottate le famose politiche di austerità. Ma chi ha guadagnato da queste riforme?A pensar male si fa presto, ma sentite cos’ha scritto John Williamson, ideologo delle politiche di deregolamentazione finanziaria neoliberista del Consenso di Washington: «I tempi peggiori (come le crisi economiche) danno luogo alle migliori opportunità per chi comprende la necessità di fondamentali riforme economiche». Poi ha aggiunto: «Ci si dovrà chiedere se, concettualmente, potrebbe avere un senso pensare di provocare una crisi deliberatamente… in modo da spaventare tutti ad accettare questi cambiamenti». Qualche tempo fa, un giornalista ha chiesto a Lloyd Blankfein, amministratore delegato della Goldman Sachs, se fosse giusto imporre dei limiti ai compensi dei suoi top manager. Il banchiere ha risposto che «mettere un limite alla loro ambizione sarebbe sbagliato perché i banchieri adempiono un compito fondamentale nella società: fanno il lavoro di Dio».(Roberto De Vogli, “Goldman Sachs, la macchina delle crisi che fa il lavoro di Dio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 14 marzo 2014).Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.
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La Cgil esaudisce il sogno di Renzi: fine dei sindacati
Quel terribile applauso che nella trasmissione di Fazio ha sottolineato un passaggio particolarmente reazionario di Renzi fa venire i brividi. Il presidente del consiglio ha affermato che farà lavorare i disoccupati, e se i sindacati si opporranno pazienza. Quindi secondo Renzi e il pubblico di Fazio i sindacati sarebbero contrari a far lavorare i disoccupati, quindi i disoccupati ci sono anche per colpa loro. È una vecchia baggianata che periodicamente percorre gli umori della destra: i sindacati hanno rovinato l’Italia e ora il presidente nuovo e moderno la fa sua, approfittando della crisi evidente e della burocratizzazione di Cgil, Cisl e Uil. In questo modo Renzi strizza un occhio a chi verrebbe sindacati più forti ed efficaci e un altro a chi non li vorrebbe in nessun modo. È questo il suo modo di non essere né di destra, né di sinistra, cioè di essere di destra stando formalmente a sinistra.Avendo passato un bel pezzo di vita sindacale a contestare la concertazione, posso ben dire che non sono a lutto per la sua fine, però non posso non tenere conto del fatto che essa cade dal lato della finanza, delle banche e delle multinazionali, e non da quello dei diritti del lavoro. Socialmente cade da destra. Noi che la contestavamo da sinistra abbiamo più volte denunciato il fatto che lo scambio che stava alla base della concertazione, rafforzamento del ruolo istituzionale di Cigil, Cisl e Uil in cambio della loro disponibilità ad accettare la regressione del mondo del lavoro, aveva qualcosa di insano. Questo scambio, il sindacato come istituzione stava meglio mentre per i lavoratori andava sempre peggio, non poteva durare all’infinito. Renzi e il sistema di potere che lo ha messo lì e che oggi lo sostiene sono ingenerosi. Grazie alla collaborazione o non opposizione dei grandi sindacati abbiamo avuto la caduta dei salari, la precarizzazione di massa per legge, il peggioramento delle condizioni di lavoro, un sistema pensionistico che è tra i più feroci ed iniqui di Europa.Appena insediato come ministro dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa spiegò che il suo governo, quello di Prodi, aveva gli stessi obiettivi di quello della signora Thatcher, solo li voleva realizzare con la collaborazione e non con lo scontro con i sindacati. Fino alla crisi la concertazione ha funzionato e lor signori dovrebbero essere riconoscenti alla moderazione sindacale. Ora però non serve più, con le politiche di austerità e i diktat della Troika, anche la sola immagine di essa non piace ai signori dello spread, per i quali il sindacato è negativo in sé. Come diceva il generale Custer degli indiani, per chi guida la finanza e ci giudica sulla base dei propri interessi, il solo sindacato buono è quello morto. Già nel libro verde del ministero del lavoro gestione Sacconi, si chiedeva il passaggio dal regime della concertazione a quello della complicità con le imprese. E questa è stata la richiesta dalla lettera Bce del 4 agosto 2011, assunta da Berlusconi che sperava così di salvarsi, e poi resa operativa da Monti.Renzi è un puro continuatore di questa politica, ma è lì perché ha il compito di costruire attorno ad essa quel consenso che non ha mai avuto. Per questo dopo aver sostenuto Marchionne contro la Fiom, ora cavalca lo scontento sacrosanto che c’è verso la passività di Cgil, Cisl e Uil, ma per colpire il sindacato, non per rafforzarlo. Renzi ha lamentato che la Cgil si svegli dopo aver dormito venti anni, ciò che vuole è che quel sonno continui per sempre. Alla crisi e alla ritirata dell’azione sindacale Susanna Camusso e Maurizio Landini stanno reagendo in due modi conflittuali tra loro e comunque sbagliati. La segretaria generale della Cgil difende la linea ed i comportamenti della Cgil di oggi, ne nega la burocratizzazione e la passività e ripropone la concertazione su scala ridotta, come azione comune delle cosiddette parti sociali, sindacati e Confindustria tutti nella stessa barca.L’accordo del 10 gennaio è una disperata difesa della casa che crolla, ma in realtà aggrava la crisi democratica del sindacato attraverso regole autoritarie e corporative. La risposta di Landini parte dalla giusta denuncia di questa crisi democratica, ma poi finisce per scegliersi con interlocutore proprio quel Renzi che è avversario politico di un sindacato davvero rinnovato. Camusso, per non cambiare, si aggrappa all’intesa con Cisl, Uil e Confindustria, così prestando il fianco alla demagogia renziana contro le caste sindacali. Landini, che afferma di voler cambiare, si aggrappa a Renzi, così compromettendo tutto il senso della sua battaglia. Entrambe queste scelte sono il segno che la Cgil è una organizzazione in piena crisi, i cui gruppi dirigenti hanno sinora tentato tutte le strade tranne una. Quella di rompere con i palazzi della politica e del potere e con ogni collateralismo con il centrosinistra, per ricostruire la piena autonomia di azione sociale. Il sindacato deve cambiare e la sfida di Renzi va raccolta, ma proprio per lottare meglio contro il suo governo, ultimo esecutore delle politiche di austerità.(Giorgio Cremaschi, “L’attacco di Renzi e le risposte sbagliate di Camusso e Landini”, da “Micromega” dell’11 marzo 2014).Quel terribile applauso che nella trasmissione di Fazio ha sottolineato un passaggio particolarmente reazionario di Renzi fa venire i brividi. Il presidente del consiglio ha affermato che farà lavorare i disoccupati, e se i sindacati si opporranno pazienza. Quindi secondo Renzi e il pubblico di Fazio i sindacati sarebbero contrari a far lavorare i disoccupati, quindi i disoccupati ci sono anche per colpa loro. È una vecchia baggianata che periodicamente percorre gli umori della destra: i sindacati hanno rovinato l’Italia e ora il presidente nuovo e moderno la fa sua, approfittando della crisi evidente e della burocratizzazione di Cgil, Cisl e Uil. In questo modo Renzi strizza un occhio a chi verrebbe sindacati più forti ed efficaci e un altro a chi non li vorrebbe in nessun modo. È questo il suo modo di non essere né di destra, né di sinistra, cioè di essere di destra stando formalmente a sinistra.
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Renzi tassa le rendite finanziarie? Non servirà a nulla
Tassare le rendite finanziarie per sostenere provvedimenti anti-recessione? Intanto, premette Guglielmo Forges Davanzati, non è detto che le risorse derivanti dalla maggiorazione delle imposte sugli interessi obbligazionari e bancari bastino a coprire il taglio dell’Irap. Inoltre, in mercati finanziari globali pressoché senza regole, l’aumento della tassazione delle rendite attuata da un singolo Stato rischia di generare fughe di capitali, vanificando il recupero delle risorse. E mentre le imprese sono favorite dalla riduzione dell’Irap, la tassazione finanziaria può spingere le banche ad aumentare i tassi sui prestiti per recuperare margini di profitto, accrescendo ulteriormente le passività finanziarie delle imprese. Difficile aspettarsi un aumento di investimenti, e quindi di occupazione. In ogni caso quello di Renzi «resta un provvedimento minimale, che non agisce sulle cause profonde della crisi e che non modifica in modo strutturale i rapporti fra politica e finanza».Tutto comunciò con la Grande Depressione del 1929, quando venne introdotta negli Stati Uniti una normativa notevolmente stringente sull’attività bancaria come il “Glass-Steagal Act”, che stabilì la separazione fra banche commerciali (risparmi e finanziamenti a imprese e famiglie) e banche d’investimento (operazioni speculative sui mercati finanziari). Quella legge, ricorda Davanzati su “Micromega”, fissò un limite all’aumento dei tassi di interesse. «La “repressione finanziaria” – come fu definita – contribuì a generare il più lungo periodo di stabilità del capitalismo. Erano gli anni nei quali Roosevelt scriveva che “il pericolo rappresentato dalla finanza organizzata è pari a quello del crimine organizzato”». Poi, il “contrordine” negli anni ‘90 con Bill Clinton, che abolì il “Glass-Steagal Act”. Tesi: la finanza “buona” può aiutare l’economia. Ovvero: «Essendo gli agenti economici perfettamente razionali e perfettamente informati, acquistano titoli di imprese efficienti e vendono di titoli di imprese inefficienti, così che l’attività speculativa svolge la funzione di “premiare” gli operatori maggiormente produttivi e, operando di fatto una selezione darwiniana, “punire” gli operatori meno produttivi».Così, proprio a partire dagli anni ‘90 – legittimata dall’ipotesi dei mercati finanziari efficienti – la politica economica innanzitutto negli Usa dà spazio a un modello di riproduzione capitalistica caratterizzato da crescente “finanziarizzazione”. Risultato: se negli anni ‘80 il denaro “virtuale” della finanza valeva 3 volte il Pil, nel 2006 il suo valore era più che triplicato. «Ciò a dire che, nel momento in cui viene effettuato uno scambio nell’economia “reale”, si effettuano 10 transazioni nella sfera finanziaria». In tutti i paesi Ocse, a partire dagli Usa, il rapporto fra attività finanziarie detenute dai residenti in un paese e il corrispondente valore del Pil degli stessi anni è costantemente aumentato. La finanziarizzazione, aggiunge Davanzati, deriva dal combinato di misure di deregolamentazione della sfera finanziaria e di riduzione della quota dei salari sul Pil. Negli Usa, i salari reali medi nel settore privato si sono quasi dimezzati nel corso dell’ultimo ventennio.«E’ palese che, in questo contesto, le imprese tendono a disinvestire, dal momento che la produzione e la vendita di beni diventa sempre meno conveniente a ragione della caduta della domanda di beni di consumo e, per contro, trovano sempre più conveniente destinare quote crescenti dei profitti accumulati all’acquisto e alla vendita di titoli». La finanziarizzazione delle imprese «è causata dal peggioramento della distribuzione del reddito, ovvero dalla riduzione dei consumi conseguente alla riduzione dei salari». Del resto, se la speculazione diventa sempre più conveniente rispetto alla produzione di beni e servizi, le imprese – finanziarizzandosi – ottengono profitti in tempi più rapidi, dal momento che la produzione richiede tempo e che è invece possibile accedere ai mercati finanziari su scala globale in ogni momento. Riducendo i mercati di sbocco delle imprese, la contrazione della domanda ne riduce i profitti, generando aspettative negative sull’andamento dei profitti futuri. Questo induce le banche a ritenere sempre più probabile il rischio di insolvenza delle imprese e, dunque, a ridurre i finanziamenti erogati.Contrariamente alle previsioni, continua Davanzati, la speculazione si è rivelata tutt’altro che stabilizzante: al contrario, è proprio uno dei principali fattori all’origine della crisi in corso. Lo “sciame” dei piccoli risparmiatori resta in balia delle ondate emotive pilotate dai mercati finanziari, che in realtà «non sono altro che aggregazioni collusive composte da poche grandi istituzioni finanziarie (Goldman Sachs, Lloyds, innanzitutto)». Inoltre, «in un regime nel quale imprese e banche destinano quote crescenti dei profitti accumulati per attività speculative, gli investimenti si riducono, generando un circolo vizioso di caduta della domanda aggregata, riduzione dell’occupazione e dei profitti, ulteriore incentivo alla finanziarizzazione e riduzione del tasso di crescita». Morale: oogi, «agire con la leva fiscale per provare a contenere gli effetti perversi della finanziarizzazione appare inutile e per certi versi controproducente». La manovra di Renzi? Esigua, irrilevante, forse anche pericolosa.Tassare le rendite finanziarie per sostenere provvedimenti anti-recessione? Intanto, premette Guglielmo Forges Davanzati, non è detto che le risorse derivanti dalla maggiorazione delle imposte sugli interessi obbligazionari e bancari bastino a coprire il taglio dell’Irap. Inoltre, in mercati finanziari globali pressoché senza regole, l’aumento della tassazione delle rendite attuata da un singolo Stato rischia di generare fughe di capitali, vanificando il recupero delle risorse. E mentre le imprese sono favorite dalla riduzione dell’Irap, la tassazione finanziaria può spingere le banche ad aumentare i tassi sui prestiti per recuperare margini di profitto, accrescendo ulteriormente le passività finanziarie delle imprese. Difficile aspettarsi un aumento di investimenti, e quindi di occupazione. In ogni caso quello di Renzi «resta un provvedimento minimale, che non agisce sulle cause profonde della crisi e che non modifica in modo strutturale i rapporti fra politica e finanza».
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Mai più sudditi: dal Veneto alla Le Pen, monito all’Ue
La crisi innescata dall’adesione all’euro ha “bruciato” vent’anni di crescita, riportando il Veneto ai valori del 1995. Una catastrofe: la regione ha perso il 13,8% di Pil. Secondo la Cna, i settori più colpiti sono l’edilizia (-30%) e l’industria (-20%), seguiti da agricoltura e servizi. Ed ecco spiegato il clamore suscitato dal referendum popolare sull’indipendenza del Veneto, che secondo i promotori – i movimenti autonomisti – si è rivelato un plebiscito, consacrato da due milioni di elettori, proprio mentre Marine Le Pen spaventa l’Unione Europea col successo del Front National alle amministrative francesi. Su “Repubblica”, Ilvo Diamanti invita a prendere sul serio la consultazione veneta, perché la tendenza espressa è confermata da un sondaggio Demos: il 55% del campione chiede che il Veneto diventi “una repubblica indipendente e sovrana”. L’idea piace soprattutto al cuore sociale dell’economia veneta: imprenditori e operai, lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa. “Traditi”, dopo gli anni del boom, dalla super-tassazione imposta da Bruxelles, dalla crisi del credito e dalle delocalizzazioni imposte dalla globalizzazione selvaggia.Il Pil veneto, rileva il newsmagazine “L’indipendenza”, nel 2013 è precipitato a 26.000 euro per abitante: «In altre parole, la crisi ha “bruciato” 18 anni di crescita economica». Lo rivela l’ultima analisi del centro studi Cna di Mestre: il quadro che ne emerge «è la triste conferma di quanto imprese, lavoratori e famiglie sanno già e vivono sulla propria pelle quotidianamente». La flessione del Pil si è inevitabilmente riversata sulla competitività del sistema economico regionale. Lo conferma uno studio della Commissione Europea: il Veneto ha perso 20 posizioni nella classifica delle regioni europee. Colpa delle manovre finanziarie varate dall’estate 2010: per il 2013, i veneti verseranno allo Stato 1,4 miliardi di euro, ben 387 milioni in più rispetto all’anno precedente. Per il 2014 si supererà il miliardo e mezzo di euro, anche per «un ulteriore inasprimento del Patto di Stabilità», che dovrebbe tradursi in una nuova stretta alla spesa pubblica, pari a 75 milioni di euro.«La rivendicazione autonomista appare fondata e largamente maggioritaria», riconosce Diamanti, che vi legge una assoluta trasversalità nell’elettorato. Indipendenza, precisa l’analista, non significa necessariamente secessione: la popolazione vuole autonomia, autogoverno, politici migliori. Certo, il test ha incuriosito la stampa internazionale, nei giorni in cui tiene banco la secessione della Crimea: la protesta del Veneto richiama quella della Catalogna contro Madrid, della Scozia contro Londra. E’ il sintomo di un’Europa smarrita, che ripudia i governi nazionali ormai chiaramente percepiti come succubi di Bruxelles e delle politiche di rigore dell’asse Ue-Bce. Piaga comune: i tagli alla spesa pubblica, che rimbalzano sul settore privato. Il ritorno immediato alla moneta sovrana è il principale cavallo di battaglia di Marine Le Pen, il cui braccio destro Steeve Briois è appena diventato sindaco di Hénin-Beaumont, una località di 26 mila abitanti. E a Marsiglia, la seconda città francese, il Fn ha superato i socialisti, con un risultato superiore al 20%.In una grande città del Sud come Perpignan, segnala il blog di Gad Lerner, i lepenisti sono arrivati in prima posizione superando il sindaco uscente dell’Ump col 34%. Un risultato che potrebbe portarli anche ad una clamorosa vittoria: per la prima volta, è a portata di mano la conquista di una città con più di centomila abitanti. «In molte altre località popolose il Fn ha superato il 30%, così confermando il ruolo di terza forza del sistema politico francese, in modo ormai strutturato. Un successo concentrato in particolare al Sud, ma che non si è limitato alle solite roccaforti della formazione lepenista». Come rimarca “Le Monde”, a questo tornata amministrativa il Fn ha scontato la sua debolezza organizzativa, con un basso reclutamento che però non nasconde la forte avanzata nelle comunali dove erano presenti liste lepeniste. Le amministrative sono state caratterizzate da un livello record di astensione (un francese su tre non ha votato) e dalla débacle dei socialisti al governo. L’Ump, nonostante le sue lotte interne, ha superato nettamente la gauche nel voto locale, tanto che “Le Monde” parla di una disfatta per Hollande.E mentre l’establishment italiano condanna il Fn bollandolo come “estrema destra xenofoba”, Napolitano si ostina a difendere l’europeismo dell’Ue – cioè la fonte della “guerra civile economica” in corso – come storica frontiera di pace. Stavolta se ne distacca persino Vendola: il successo della Le Pen, dice il leader di Sel, è tutto “merito” di politici come Hollande, cioè della sinistra che ha fatto solo e sempre politiche di destra. E’ la storia degli ultimi vent’anni: un filo diretto collega i socialisti francesi al New Labour di Blair, fino alla Spd delle larghe intese con la Merkel e naturalmente al Pd, che semmai – con Renzi e il suo ultra-liberista Jobs Act, tutto flessibilità e niente più diritti – ora sembra “scavalcare a destra” persino Forza Italia, senza più neppure tentare di apparire una forza politica di sinistra. Il Veneto, a quanto pare, non gradisce. E probabilmente sforna un antipasto delle imminenti europee. Il copione non cambia: anche nel 2013 il mainstream tentò di sbarrare la strada a Grillo, criminalizzandolo come “populista”, per poi subire – sbigottito – il trionfo del Movimento 5 Stelle.La crisi innescata dall’adesione all’euro ha “bruciato” vent’anni di crescita, riportando il Veneto ai valori del 1995. Una catastrofe: la regione ha perso il 13,8% di Pil. Secondo la Cna, i settori più colpiti sono l’edilizia (-30%) e l’industria (-20%), seguiti da agricoltura e servizi. Ed ecco spiegato il clamore suscitato dal referendum popolare sull’indipendenza del Veneto, che secondo i promotori – i movimenti autonomisti – si è rivelato un plebiscito, consacrato da due milioni di elettori, proprio mentre Marine Le Pen spaventa l’Unione Europea col successo del Front National alle amministrative francesi. Su “Repubblica”, Ilvo Diamanti invita a prendere sul serio la consultazione veneta, perché la tendenza espressa è confermata da un sondaggio Demos: il 55% del campione chiede che il Veneto diventi “una repubblica indipendente e sovrana”. L’idea piace soprattutto al cuore sociale dell’economia veneta: imprenditori e operai, lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa. “Traditi”, dopo gli anni del boom, dalla super-tassazione imposta da Bruxelles, dalla crisi del credito e dalle delocalizzazioni imposte dalla globalizzazione selvaggia.