Archivio del Tag ‘salari’
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Berardi: ma crescita di cosa? Di lavoro non c’è più bisogno
Alla fine degli anni ‘70, dopo dieci anni di scioperi selvaggi, la direzione della Fiat convocò gli ingegneri perché introducessero modifiche tecniche utili a ridurre il lavoro necessario, e licenziare gli estremisti che avevano bloccato le catene di montaggio. Sarà per questo sarà per quello, fatto sta che la produttività aumentò di cinque volte nel periodo che sta fra il 1970 e il 2000. Detto altrimenti, nel 2000 un operaio poteva produrre quello per cui nel 1970 ne occorrevano cinque. Morale della favola: le lotte operaie servono fra l’altro a far venire gli ingegneri per aumentare la produttività e a ridurre il lavoro necessario. Vi pare una cosa buona o cattiva? A me pare una cosa buonissima se gli operai hanno la forza (e a quel tempo ce l’avevano, perbacco) di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una cosa pessima se i sindacati si oppongono all’innovazione e difendono il posto di lavoro senza capire che la tecnologia cambia tutto e di lavoro non ce n’è più bisogno.Quella volta purtroppo i sindacati credettero che la tecnologia fosse un nemico dal quale occorreva difendersi. Occuparono la fabbrica per difendere il posto di lavoro e il risultato prevedibilmente fu che gli operai persero tutto. Ma si poteva fare altrimenti?, chiederete voi. Certo che si poteva. Una piccola minoranza disse allora: “Lavorare meno per lavorare tutti”, e qualcuno più furbo disse addirittura: “Lavorare tutti per lavorare meno”. Furono attaccati come estremisti, e alcuni li arrestarono per associazione sovversiva. Nel 1983 nel paese più brutto del mondo c’era un governo infernale guidato da una signora cui piaceva la frusta. Aveva detto che la società non esiste (“there is no such thing as society”) per dire che ognuno è solo e deve combattere contro tutti gli altri col risultato che uno su mille può far la bella vita e scorrazzare in Rolls Royce, uno su cento può vivere decentemente e tutti gli altri debbono fare la vita di merda che più di merda non si può immaginare.Ma ritorniamo a noi, mica sono pagato per parlar male dell’Inghilterra. Un bel giorno la signora decise che di miniere non ce n’era più bisogno e neanche di minatori. Cosa fareste se la vita vi fosse andata così male da ritrovarvi a fare il minatore in un paese di merda dove in superficie piove sempre e c’è la Thatcher, e sottoterra è anche peggio? Non so voi, ma nel caso io facessi il minatore e qualcuno mi dicesse che non c’è più bisogno di miniere ringrazierei il cielo e chiederei un salario di cittadinanza. Non così Arthur Scargill, che era il capo di un sindacato che si chiamava “Union Miners”. Un sindacato glorioso che organizzò una lotta eroica contro i licenziamenti, come direbbe Ken Loach. So bene che c’è poco da fare gli spiritosi perché fu una tragedia per decine di migliaia di lavoratori e per le loro famiglie: naturalmente i minatori persero la lotta, il lavoro e il salario, ed era solo l’inizio. La disoccupazione è oggi in crescita in ogni paese d’Europa. Metà della popolazione giovanile non ha un salario, o ha un salario miserabile e precario, mentre i riformatori europei hanno imposto un rinvio dell’età pensionabile da 60 a 62, a 64, a 65, a 67. E poi?C’è qualcuno che possa spiegarmi secondo le regole della logica aristotelica il mistero secondo cui per curare la disoccupazione dilagante occorre perseguitare crudelmente i vecchi che lavorano costringendoli a boccheggiare sul bagnasciuga di una pensione che non arriva mai? Nessuno che sia sano di mente mi risponde, perché la risposta non si trova nelle regole della logica aristotelica, ma solo nelle regole della logica finanziaria che con la logica non c’entra niente ma c’entra moltissimo con la crudeltà. Se la logica finanziaria contraddice la logica punto e basta, cosa farebbe una persona dotata di senso comune? Riformerebbe la logica finanziaria per piegarla alla logica, no? Invece Giavazzi dice che la logica vada a farsi fottere perché noi siamo moderni (mica greci).“Animal Kingdom” è il nome di un’azienda di Saint Denis che vende ranocchie e cibi per cani. “Candelia” vende mobili per ufficio. Sembrano aziende normali ma non lo sono affatto, perché l’intero business di queste aziende è finto: finti i clienti che telefonano, finti i prodotti che nessuno produce, finta perfino la banca cui le “fake companies” chiedono falsi crediti. Come racconta un articolo del “New York Times” del 29 maggio, da cui si deduce che il capitalismo è affetto da demenza senile, in Francia ci sono un centinaio di aziende finte, e pare che in Europa se ne contino migliaia. Milioni di persone non hanno un salario e milioni perderanno il lavoro nei prossimi anni per una ragione molto semplice: di lavoro non ce n’è più bisogno. Informatica, intelligenza artificiale, robotica rendono possibile la produzione di quel che ci serve con l’impiego di una quantità sempre più piccola di lavoro umano. Questo fatto è evidente a chiunque ragioni e legga le statistiche, ma nessuno può dirlo: è il tabù più tabù che ci sia, perché l’intero edificio della società in cui viviamo si fonda sulla premessa che chi non lavora non mangia.Una premessa imbecille, una superstizione, un’abitudine culturale dalla quale occorrerebbe liberarsi. Eppure economisti e governanti, invece di trovare una via d’uscita dal paradosso in cui ci porta la superstizione del lavoro salariato, insistono nel promettere la ripresa dell’occupazione e della crescita. E siccome la ripresa è finta, qualcuno ha avuto questa idea demente di creare aziende in cui si finge di lavorare per non perdere l’abitudine e la fiducia nel futuro, poiché i disoccupati di lungo corso (il 52,6% dei disoccupati dell’Eurozona sono senza lavoro da più di un anno) rischiano di perdere la fede oltre al salario. Ma torniamo al punto. Dice il giovane presidente del Consiglio che il reddito di cittadinanza è una cosa per furbi perché in questo paese chi lavora duro ce la può fare. Forse qualcuno sì, non me la sento di escluderlo, ma qui stiamo parlando di ventotto milioni di disoccupati europei. E a me risulta che la disoccupazione non è destinata a diminuire ma ad aumentare, e ti dico perché. Perché di tutto quel lavoro (duro o morbido non importa) non ce n’è più bisogno.Lo dice qualcuno che è più moderno di Renzi e di Giavazzi messi insieme, credete a me. Lo dice un giovanotto dotato intellettualmente che si chiama Larry Page. In un’intervista pubblicata da “Computer World” nell’ottobre del 2014 questo tizio, che dirige la più grande azienda di tutti i tempi, dice che Google investe massicciamente in direzione della robotica. E sai che fa la robotica? Rende il lavoro inutile, questo fa. Larry Page aggiunge che secondo lui solamente dei pazzi possono pensare di continuare a lavorare quaranta ore alla settimana. Si stringe nelle spalle e dice: Renzi, lavorare duro d’accordo, ma per fare che? Il Foreign Office nel suo Report dell’anno scorso diceva che il 45% dei lavori con cui oggi la gente si guadagna da vivere potrebbe scomparire domattina perché non ce n’è più bisogno. Caro Renzi, qui si tratta di cose serie, lascia fare ai grandi e torna a giocare con i videogame: occorre immediatamente un reddito di cittadinanza che liberi la gente dall’ossessione idiota del lavoro.La situazione infatti è tanto grave e tanto imprevista, che occorre un’invenzione scientifica che non è alla portata degli economisti. Ti sei mai chiesto cosa sia una scienza? Diciamo, per non farla troppo lunga, che è una forma di conoscenza libera da ogni dogma, capace di estrapolare leggi generali dall’osservazione di fenomeni empirici, capace di prevedere quello che accadrà sulla base dell’esperienza del passato, e per finire capace di comprendere fenomeni così radicalmente innovativi da mutare gli stessi paradigmi su cui la stessa scienza si fonda. Direi allora che l’economia non ha niente a che fare con la scienza. Gli economisti sono ossessionati da nozioni dogmatiche come crescita, competizione e prodotto nazionale lordo. Dicono che la realtà è in crisi ogni qualvolta non corrisponde ai loro dogmi, e sono incapaci di prevedere quel che accadrà domani, come ha dimostrato l’esperienza delle crisi degli ultimi cento anni.Gli economisti per giunta sono incapaci di ricavare leggi dall’osservazione della realtà, in quanto preferiscono che la realtà sia in armonia con i loro dogmi, e incapaci di riconoscere quando mutamenti della realtà richiedono un cambiamento di paradigma. Lungi dall’essere una scienza, l’economia è una tecnica la cui funzione è piegare la realtà multiforme agli interessi di chi paga lo stipendio degli economisti. Dunque sta ad ascoltarmi: non c’è più bisogno di Giavazzi, di tutti quei tristi personaggi che vogliono convincerti che l’occupazione presto riprenderà e la crescita anche. Lavoriamo meno per un reddito di cittadinanza, curiamoci la salute andiamo al cinema, insegniamo matematica e facciamo quel milione di cose utili che non sono lavoro e non hanno bisogno di scambiarsi con salario. Perché, sai che ti dico: di lavoro non ce n’è più bisogno.(Franco Berardi, “Di lavoro non ce n’è più bisogno”, dal numero di luglio della nuova edizione di “Linus”, ripreso da “Megachip” il 27 luglio 2015).Alla fine degli anni ‘70, dopo dieci anni di scioperi selvaggi, la direzione della Fiat convocò gli ingegneri perché introducessero modifiche tecniche utili a ridurre il lavoro necessario, e licenziare gli estremisti che avevano bloccato le catene di montaggio. Sarà per questo sarà per quello, fatto sta che la produttività aumentò di cinque volte nel periodo che sta fra il 1970 e il 2000. Detto altrimenti, nel 2000 un operaio poteva produrre quello per cui nel 1970 ne occorrevano cinque. Morale della favola: le lotte operaie servono fra l’altro a far venire gli ingegneri per aumentare la produttività e a ridurre il lavoro necessario. Vi pare una cosa buona o cattiva? A me pare una cosa buonissima se gli operai hanno la forza (e a quel tempo ce l’avevano, perbacco) di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una cosa pessima se i sindacati si oppongono all’innovazione e difendono il posto di lavoro senza capire che la tecnologia cambia tutto e di lavoro non ce n’è più bisogno.
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Il Guardian: l’ignobile Schäuble già rovinò la Germania Est
Per capire le richieste di Wolfgang Schäuble nei colloqui di salvataggio, dovete guardare a ciò che ha inflitto al suo paese quando si è riunificato. Ogni dramma ha bisogno di un grande cattivo, e nell’ultimo atto della crisi greca Wolfgang Schäuble, il 72-enne ministro delle finanze tedesco, è emerso come straordinario villain: i critici lo vedono come un tecnocrate spietato che ha usato modi pesanti su un intero paese e ora ha intenzione di spogliarlo del suo patrimonio. Una parte dell’accordo di salvataggio, in particolare, ha scandalizzato molti europei: la proposta di creazione di un fondo progettato per selezionare accuratamente beni pubblici greci del valore di 50 miliardi di euro e privatizzarli per pagare i debiti del paese. Ma la chiave per comprendere la strategia della Germania è che per Schäuble non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Venticinque anni fa, durante l’estate del 1990, Schäuble guidava la delegazione della Germania Ovest che stava negoziando i termini dell’unificazione con la Germania Est ex-comunista.Dottore in legge, era ministro degli interni della Germania Ovest e uno dei più stretti consiglieri del Cancelliere Helmut Kohl, il ragazzo a cui rivolgersi ogni volta che le cose diventavano difficili. La situazione nella ex Rdt non era troppo dissimile da quella della Grecia quando Syriza è salita al potere: i tedeschi dell’est avevano appena tenuto le prime elezioni libere nella loro storia, solo pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, e alcuni dei delegati di Berlino Est sognavano un nuovo sistema politico, una “terza via” tra l’economia di mercato dell’ovest e il sistema socialista dell’est – nel frattempo non avevano più alcuna idea di come pagare le bollette. I tedeschi occidentali, dall’altra parte del tavolo, avevano slancio, denaro e un piano: tutto quanto di proprietà dello stato della Germania Est doveva essere assorbito dal sistema tedesco-occidentale e poi rapidamente venduto ad investitori privati per recuperare una parte dei soldi di cui la Germania orientale avrebbe avuto bisogno negli anni a venire. In altre parole: Schäuble e la sua squadra volevano garanzie.A quel tempo quasi tutte le società, i negozi o le stazioni di benzina ex-comuniste erano di proprietà della Treuhand, un’agenzia di fiducia – un’istituzione originariamente pensata da un gruppo di dissidenti della Germania Est per fermare la vendita delle imprese statali alle banche e alle società della Germania Ovest da parte di quadri comunisti corrotti. La missione della Treuhand: trasformare tutti i grandi conglomerati, le aziende e i piccoli negozi in aziende private, in modo che potessero essere parte di un’economia di mercato. A Schäuble e alla sua squadra non interessava che i dissidenti avessero pianificato di distribuire azioni di queste società, emesse dalla Treuhand, ai tedeschi dell’Est – un concetto che per inciso ha portato alla nascita degli oligarchi in Russia. Ma piaceva loro l’idea di un fondo di garanzia, perché operava al di fuori del governo: sebbene tecnicamente supervisionato dal ministero delle finanze, la Treuhand era percepita dall’opinione pubblica come un organismo indipendente. Anche prima che la Germania si fondesse in un unico Stato nell’ottobre 1990, la Treuhand era saldamente nelle mani della Germania Ovest.Lo scopo dei negoziatori della Germania Ovest era privatizzare quante più aziende possibili, il più presto possibile – e se oggi si chiedesse della Treuhand alla maggior parte dei tedeschi, direbbero che ha raggiunto tale obiettivo. Non lo ha fatto in un modo che è piaciuto al popolo della Germania orientale, dove la Treuhand venne rapidamente conosciuta come la faccia violenta del capitalismo. Nello spiegare la trasformazione dell’economia ai traumatizzati tedeschi orientali, che si sentivano sopraffatti da questa strana nuova agenzia, fece un lavoro tremendo. A peggiorare le cose, la Treuhand divenne un ricettacolo di corruzione. L’agenzia si è presa tutta la colpa per la situazione desolante nella Germania dell’Est. Kohl e il partito di Schäuble, il conservatore Cdu, sono stati rieletti per gli anni a venire, mentre altri hanno pagato il prezzo: uno dei presidenti della Treuhand, Detlev Karsten Rohwedder, fu assassinato da terroristi di sinistra. (Anche Schäuble è stato vittima di un attentato che lo ha lasciato permanentemente su una sedia a rotelle, dopo solo pochi giorni dalla riunificazione tedesca – ma le motivazioni del suo aggressore paranoico erano estranee agli eventi politici). Ma la realtà di ciò che ha fatto la Treuhand è diversa dalla percezione popolare – e questo dovrebbe essere un monito sia per Schäuble che per il resto d’Europa.La vendita del patrimonio della Germania Est per il massimo profitto si è rivelata più difficile di quanto immaginato. Quasi tutti i beni di valore reale – le banche, il settore energetico – erano già state accaparrate dalle società tedesco-occidentale. Pochi giorni dopo l’introduzione del marco tedesco-occidentale, l’economia dell’est collassò. Come la Grecia, essa richiese un massiccio programma di salvataggio organizzato dal governo di Schäuble, ma in segreto: si misero da parte 100 miliardi di marchi per mantenere l’economia della vecchia Germania orientale a galla, una cifra che è diventato pubblica solo anni dopo. Con il costo del lavoro e delle forniture che sfondarono il soffitto [a causa della parità decisa a tavolino tra marco-orientale e marco-occidentale per l’unione monetaria tra le due Germanie, entrata in vigore il 1 luglio 1990, NdT], la già stressata economia della Germania Est andò in caduta libera e la Treuhand non ebbe alcuna possibilità di vendere molte delle sue imprese. Dopo un paio di mesi cominciò a chiudere intere aziende, licenziando migliaia di lavoratori. Alla fine la Treuhand non generò affatto alcun provento per il governo tedesco: raggranellò a malapena 34 miliardi di euro per tutte le società dell’est messe insieme, perdendo 105 miliardi di euro.In realtà, la Treuhand non è diventata soltanto uno strumento per la privatizzazione, ma una holding quasi-socialista. Perse miliardi di marchi, perché continuò a pagare i salari di molti lavoratori dell’est e tenne in vita alcune fabbriche non redditizie – un aspetto positivo di solito annegato nella denigrazione dell’agenzia [la denigrazione della Treuhand nasce anche dal fatto che, in aggiunta ai molteplici episodi di corruzione e alla brutale liquidazione dell’economia tedesco-orientale, l’agenzia chiuse, liquidò o svendette ad aziende tedesco-occidentali anche aziende tedesco-orientali che erano più competitive o di dimensioni ben maggiori rispetto alle controparti occidentali, nell’intento di uccidere sul nascere la potenziale concorrenza delle aziende tedesco-orientali per assicurare al capitale tedesco-occidentale lo sbocco sui mercati dei paesi ex-comunisti legati alla Germania Est – si veda il già citato “Anschluss, l’annessione” di Vladimiro Giacchè, NdT]. Poiché Kohl e, durante l’estate del 1990, Schäuble, non erano economisti di Chicago appassionati di esperimenti radicali, ma politici che volevano essere rieletti, hanno pompato milioni in un’economia in fallimento. Questo è il punto dove finisce il parallelo con la Grecia: c’erano dei limiti politici all’austerità che un governo poteva imporre al suo stesso popolo.La lezione appresa da Schäuble – che adesso è in grado di influenzare le sue decisioni – è che se si recita la parte del neoliberista puro di cuore si può ancora avere una via di fuga con decisioni che dal punto di vista economico non hanno del tutto senso. Se Schäuble sta agendo duramente con la Grecia in questo momento, è perché il suo elettorato vuole che agisca a quel modo; non è tanto che non si preoccupa per il popolo greco, è che lui vuole far credere alla gente che non gli importa, perché ne vede il vantaggio politico. Ma Schäuble dovrebbe aver imparato dalla storia che il gioco d’azzardo della Treuhand ha avuto conseguenze psicologiche catastrofiche. Anche se l’agenzia è stata gestita da tedeschi, che parlavano tedesco, è stata tuttavia vista da molti nell’est come una forza di occupazione. L’idea di Schäuble di paesi stranieri che controllano il patrimonio greco e lo trasferiscono all’estero è un concetto ancora più umiliante per qualsiasi paese. Schäuble si presenta come un ragioniere duro e sobrio. In realtà è soltanto un politico ordinario che ripete vecchi errori.(Dirk Laabs, “Per capire la durezza della Germania verso la Grecia, bisogna guardare a 25 anni fa”, dal “Guardian” del 17 luglio 2015, tradotto da “Voci dall’Estero”).Per capire le richieste di Wolfgang Schäuble nei colloqui di salvataggio, dovete guardare a ciò che ha inflitto al suo paese quando si è riunificato. Ogni dramma ha bisogno di un grande cattivo, e nell’ultimo atto della crisi greca Wolfgang Schäuble, il 72-enne ministro delle finanze tedesco, è emerso come straordinario villain: i critici lo vedono come un tecnocrate spietato che ha usato modi pesanti su un intero paese e ora ha intenzione di spogliarlo del suo patrimonio. Una parte dell’accordo di salvataggio, in particolare, ha scandalizzato molti europei: la proposta di creazione di un fondo progettato per selezionare accuratamente beni pubblici greci del valore di 50 miliardi di euro e privatizzarli per pagare i debiti del paese. Ma la chiave per comprendere la strategia della Germania è che per Schäuble non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Venticinque anni fa, durante l’estate del 1990, Schäuble guidava la delegazione della Germania Ovest che stava negoziando i termini dell’unificazione con la Germania Est ex-comunista.
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La svolta di Grillo: basta euro, moneta sovrana o morte
«Il teatrino dell’euro proseguirà fino a quando lo vorranno gli americani, e cioè fino alla definitiva approvazione del Ttip con cui gli Usa assoggetteranno l’Europa in modo non dissimile da come l’euro ha assoggettato la periferia alla Germania». Otto anni dopo il crack di Wall Street, e a quattro anni di distanza dal funesto avvento di Monti, Beppe Grillo oltrepassa il Rubicone individuando finalmente il “nemico”, quello vero, cioè non la “casta dei ladri, della mafia e degli evasori” con cui il Movimento 5 Stelle ha finora intrattenuto il pubblico italiano. Il nemico è l’euro, l’Unione Europea che lo impone. Ma Bruxelles da sola non conta nulla. E nemmeno la Germania, che è solo il kapò del nuovo ordine europeo fondato sulla crisi, sulla paura e sulla rassegnazione punitiva. Il cervello della piovra è oltre oceano, dietro la maschera di quell’Obama che tanto preme, in ossequio ai suoi padroni, per imporre al vecchio continente la catastrofe del Trattato Transatlantico, grazie al quale gli Stati non saranno più liberi neppure di tutelare la salute dei loro cittadini: se la vedranno con tribunali di parte e avvocati d’affari, col potere di imporre micidiali sanzioni, nel caso avessero la malaugurata idea di proibire business velenosi e ostacolare industrie pericolose.Solo dopo lo schianto clamoroso della Grecia di Tispras, Beppe Grillo alza la testa, avendo a lungo ignorato ogni appello a costruire un’alternativa politica basata necessariamente su un’alternativa economica, partendo quindi dalla denuncia dell’euro come abominio monetario, puro strumento di dominazione congegnato da un’élite oligarchica che tutto privatizza, cominciando dalla moneta, per togliere allo Stato (e alla comunità pubblica dei cittadini) ogni residua ragion d’essere. In un post sul suo blog, il leader del M5S rompe gli indugi con un’analisi senza precedenti: dall’euro bisogna uscire di corsa, perché dentro la moneta unica europea non esiste possibilità di salvezza. Lo pensa anche Nigel Farage, il leader dell’Ukip, pronto a guidare la campagna referendaria del 2017 per spingere la Gran Bretagna fuori dall’Ue. Un altro referendum sarà indetto in Austria, sempre per chiedere l’uscita del paese dall’Unione Europea. Per non parlare della Francia, dove il Front National di Marine Le Pen minaccia l’uscita dall’Ue se a Parigi non sarà accordata l’uscita “morbida” dall’euro.Non da oggi, un economista di sinistra come Emiliano Brancaccio accusa l’Italia: non è stata mai neppure ventilata la minaccia di uscire dal mercato comune europeo, argomento che sarebbe fortissimo per costringere Germania e Ue ad accettare una revisione radicale dei terrificanti trattati europei. Se “Syriza” in Grecia e “Podemos” in Spagna continuano a fantasticare sulla possibilità di vivere nel benessere pur restando nell’Eurozona, in tutti questi anni il Movimento 5 Stelle è rimasto in silenzio, limitandosi a proporre il “reddito di cittadinanza” contro il rigore sociale imposto da Bruxelles e poi un referendum consultivo sulla moneta unica. Ora, di colpo, Grillo cambia marcia. Il premier greco? «Rifiutare a priori l’Euroexit è stata la sua condanna a morte: convinto, come il Pd, che si potesse spezzare il connubio “euro & austerità”, Tsipras ha finito per consegnare il suo paese, vassallo, nelle mani della Germania. Pensare di opporsi all’euro solo dall’interno presentandosi senza un esplicito piano-B di uscita ha infatti finito per privare la Grecia di ogni potere negoziale al tavolo dell’euro-debito».Aggiunge Grillo: solo Vendola, il Pd e i media ispirati da Scalfari e «dai nostalgici del manifesto di Ventotene», cioè il miraggio degli Stati Uniti d’Europa, «potevano credere ad un euro senza austerità». E oggi «sono costretti a continuare a far finta di crederci, pur di non dover ammettere l’opportunità di una uscita dopo sette anni di disastri economici». Lo stesso Grillo non brilla per tempismo: oggi, nel 2015, abbraccia le tesi sovraniste enunciate da Paolo Barnard a partire dal 2010. E lo fa dopo aver rifiutato – durante la nera stagione di Monti e Fornero – la consulenza di Warren Mosler e del team di ecomomisti della Modern Money Theory, gli stessi che permisero all’Argentina di liberarsi del cambio fisso col dollaro, che (esattamente come l’euro) condannava l’economia del paese. Ora, Grillo riconosce che «la conseguenza di questa catastrofe politica è davanti agli occhi di tutti». Ovvero: «Nazismo esplicito da parte di chi ha ridotto la periferia d’Europa a suo protettorato attraverso il debito, con ricorsi storici allarmanti». E poi: «Mutismo o esplicito supporto alla Germania da parte degli altri paesi europei vuoi per opportunismo (nord) o per subalternità (periferia)». E ancora: «Mercati finanziari che celebrano con nuovi massimi la fine della democrazia».La Grecia è tristemente eloquente: «Esproprio del patrimonio nazionale attraverso l’ipoteca di 50 miliardi di euro sui beni greci finiti nel fondo voluto da “Adolf” Schaeuble per passare all’incasso dei suoi crediti di guerra». Nessuna sorpresa: era tutto «studiato, previsto, pianificato nei minimi dettagli», perché «la Germania è sistematica nella sua strategia: prima crea un nuovo precedente e poi lo utilizza nella battaglia successiva imponendo decisioni via via più invasive della democrazia grazie al ‘chi tace acconsente’». Irlanda, Spagna e Portogallo «dovevano dimostrare che il rigore paga, sia in termini di riforme (tassazione per pagare gli interessi sul debito e svalutazione interna attraverso la compressione dei diritti dei lavoratori) che in termini di interessi sul debito riportati a casa e pagati col sangue dei paesi debitori». Per non parlare di Cipro, che «ha dimostrato che i depositi bancari, se serve, si possono attaccare, attingendo così non solo alle tasse sul reddito in nome dell’austerità, ma direttamente al patrimonio privato dei cittadini per ripagare il debito contratto».Con la Grecia, aggiunge il blog di Grillo, l’asticella è stata posta ancora più in alto, al punto di confiscare direttamente il patrimonio pubblico in un fondo la cui sede giuridica Schaeuble voleva inizialmente trasferire addirittura fuori dalla Grecia. «E’ l’Italia il destinatario finale di questi precedenti seminati lungo il percorso dell’euro-debito in nome della presunta irreversibilità dell’euro». E’ inutile far finta di non vederlo, aggiunge Grillo: «La Grecia offre dunque una nuova lezione per l’Italia, da cui faremmo bene ad imparare se vogliamo farci trovare pronti quando arriverà il nostro turno di debitori». Renzi? In questa fase storica è «una minaccia nazionale», perché è «un premier che argomenta bene contro l’austerity, ma che resta negazionista nei fatti sulla Euroexit, a digiuno di economia monetaria e con una strategia politica improvvisata». In altre parole: quello che è valso oggi per Tsipras «varrà domani per Renzi». Attenzione: «Un piano-B di uscita è essenziale per l’Italia, chiunque sia al governo», conclude Grillo. «Con un enorme debito pubblico e una economia manufatturiera orientata all’export è da irresponsabili non farsi trovare pronti ad una eventuale uscita, non necessariamente forzata da noi, ma eventualmente subita da decisioni altrui, visto che nessuno può prevedere il corso degli eventi».Ed è bene «non contare sugli altri», perché «quando arriverà il momento saremo soli». Proprio com’è successo a Tsipras, «che ha sbagliato i suoi conti sperando di trovare sostegno strada facendo dai cugini periferici, che invece si nascondevano nell’ombra del ‘questa volta non tocca a noi’». Secondo Grillo, il referendum proposto dal M5S tramite una legge di iniziativa popolare è «uno strumento essenziale», dal momento che «potrà servire a spiazzare l’avversario e a dare legittimità democratica all’Euroexit». Il leader dei 5 Stelle propone di «usare il nostro enorme debito come minaccia». Lo considera «un vantaggio che ci consente di attaccare al tavolo di ogni negoziazione futura», e non «uno spauracchio da subire per abbozzare alle richieste dei creditori». Questo, aggiunge Grillo, vuol dire «non consentire alcuna ingerenza tedesca nel nostro legittimo diritto di ridenominare il nostro debito in un’altra valuta, se e quando arriverà il momento». Grillo pensa sia anche necessario rafforzare, sa subito, gli istituti di credito italiani, perché «la minaccia di fallimento delle banche e la chiusura dei rubinetti della liquidità è ciò che alla fine ha fatto capitolare Tsipras».Grillo raccomanda addirittura di «prepararsi alla nazionalizzazione delle banche», oltre che «al passaggio ad un’altra moneta». Lo ritiene «il modo per non perdere la prima battaglia che dovremo affrontare quando arriverà il momento di staccarci dal bocchettone della Bce». Ogni piano-B, aggiunge, dovrà quindi prevedere l’introduzione di una moneta parallela, che all’evenienza potrà essere adottata per avviare il processo di uscita in maniera soft. Ancora più insolita l’analisi geopolitica di Grillo, che chiede di «tenere un occhio a Francoforte e l’altro a Washington», accusando direttamente l’élite statunitense di voler tenere in vita l’euro fino all’approvazione europea del Ttip, il trattato con gli Usa ridurranno in schiavitù l’Europa, così come ha finora fatto la Germania con l’arma della moneta unica creata su misura per Berlino. «L’euro e’ ormai una guerra esplicita tra creditori e debitori», chiosa Grillo, ormai allineato – meglio tardi che mai – alla lucida e solitaria denuncia di Barnard, rimasto inascoltato per molti anni.«E’ inutile che il nostro governo si sforzi di apparire schierato dalla parte virtuosa dei vincitori euristi e riformisti: l’euro – insiste il leader del Movimento 5 Stelle – non si può riformare dal suo interno e va invece combattuto dall’esterno, abbandonando questa camicia di forza anti-democratica». Il nostro debito è stato gonfiato dal ricorso alla finanza privata dopo il divorzio fra Tesoro e Bankitalia e poi è definitivamente esploso, restando fuori controllo, con l’adozione rovinosa della moneta “straniera”. La nostra assenza di crescita unita alla deflazione ci collocano a pieno titolo nella categoria degli sconfitti del debito? «Faremmo dunque bene a prepararci, con un governo esplicitamente anti-euro, all’assalto finale del patrimonio degli italiani», conclude Grillo. Patrimonio di famiglie e aziende ormai «sempre più a rischio, se non ci riprendiamo la nostra sovranità monetaria».«Il teatrino dell’euro proseguirà fino a quando lo vorranno gli americani, e cioè fino alla definitiva approvazione del Ttip con cui gli Usa assoggetteranno l’Europa in modo non dissimile da come l’euro ha assoggettato la periferia alla Germania». Otto anni dopo il crack di Wall Street, e a quattro anni di distanza dal funesto avvento di Monti, Beppe Grillo oltrepassa il Rubicone individuando finalmente il “nemico”, quello vero, cioè non la “casta dei ladri, della mafia e degli evasori” con cui il Movimento 5 Stelle ha finora intrattenuto il pubblico italiano. Il nemico è l’euro, l’Unione Europea che lo impone. Ma Bruxelles da sola non conta nulla. E nemmeno la Germania, che è solo il kapò del nuovo ordine europeo fondato sulla crisi, sulla paura e sulla rassegnazione punitiva. Il cervello della piovra è oltre oceano, dietro la maschera di quell’Obama che tanto preme, in ossequio ai suoi padroni, per imporre al vecchio continente la catastrofe del Trattato Transatlantico, grazie al quale gli Stati non saranno più liberi neppure di tutelare la salute dei loro cittadini: se la vedranno con tribunali di parte e avvocati d’affari, col potere di imporre micidiali sanzioni, nel caso avessero la malaugurata idea di proibire business velenosi e ostacolare industrie pericolose.
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L’euro, creato da gangster nazisti per devastare l’Europa
Il referendum greco ha dato adito ad accesi dibattiti che però dimostrano la generale ignoranza sulle regole del gioco: «I partecipanti si sono lacerati per sapere se i greci fossero o no responsabili del loro debito, stando sempre attenti nel contempo a non accusare mai di usura i loro creditori», scrive Thierry Meyssan. «Ma lo hanno fatto ignorando la storia dell’euro e le ragioni della sua creazione». La moneta unica? «Un progetto anglosassone della guerra fredda», per indebolire l’Europa e staccarla dalla Russia. Dal Trattato di Roma, 64 anni fa, le istanze amministrative successive del “progetto europeo” (Ceca, Cee, Ue) hanno speso somme enormi e senza equivalenti per finanziare la loro propaganda nei media. «Ogni giorno centinaia di articoli, di trasmissioni radio e televisive, sono pagati da Bruxelles per raccontare una falsa versione della storia e farci credere che l’attuale “progetto europeo” sia quello degli europei risalente al periodo fra le due guerre mondiali». Ma gli archivi mostrano che già nel 1946 Winston Churchill e Harry Truman decisero di dividere il continente europeo in due: da una parte i loro vassalli, dall’altra l’Urss con i suoi.«Per assicurarsi che nessuno Stato si emancipasse dalla loro sovranità dominante, decisero di manipolare gli ideali dell’epoca», scrive Meyssan su “Megachip”. «Quel che allora veniva definito il “progetto europeo” non consisteva nel difendere presunti valori comuni, ma nel fondere lo sfruttamento delle materie prime e delle industrie della difesa di Francia e Germania per essere certi che questi paesi non potessero più farsi la guerra (teoria di Louis Loucheur e del conte Richard Coudenhove-Kalergi)». Il britannico Mi6 e la statunitense Cia, continua il giornalista, furono poi incaricati di organizzare il primo “Congresso dell’Europa” all’Aia nel maggio 1948, al quale parteciparono 750 personalità (tra cui François Mitterrand) provenienti da 16 paesi. «Si trattava, né più né meno, di rilanciare il “progetto di Europa federale” (redatto da Walter Hallstein – il futuro presidente della Commissione Europea – per il cancelliere Adolf Hitler) in base alla retorica di Coudenhove-Kalergi». L’Urss aveva reagito all’inizio della guerra fredda sostenendo i comunisti che avevano preso il potere, legalmente, a Praga? «Washington e Londra organizzarono allora il Trattato di Bruxelles, che prefigurava la creazione della Nato».Lo stesso spirito antisovietico accomunava gli “unionisti”, «per i quali si trattava unicamente di mettere in comune i mezzi per resistere all’espansione del comunismo», e i “federalisti”, «che auspicavano che si realizzasse il progetto nazista di Stato federale sottoposto all’autorità di un’amministrazione non eletta». Da lì nacque il percorso europeista a noi noto: prima la Ceca, poi la Cee e quindi l’Ue. Inoltre, quello stesso congresso «adottò il principio di una moneta comune». Tra i “padri” dell’euro, Meyssan segnala Joseph Rettinger, «ex fascista polacco divenuto un agente britannico». Su richiesta dell’Mi6, l’intelligence britannica, Rettinger «fondò la European League for Economic Cooperation e ne divenne il segretario generale. In questa veste, è il padre dell’euro. In seguito, ha animato il movimento europeo e ha creato il Club Bilderberg». Obiettivo dell’Elec, una volta create le istituzioni europee, era quello di «passare dalla moneta comune (la futura European Currency Unit – Ecu) a una moneta unica (l’euro), in modo che i paesi che aderivano all’Unione non potessero più lasciarla».È questo il progetto che François Mitterrand ha realizzato nel 1992, continua Meyssan. «Alla luce della storia e della partecipazione di Mitterrand al Congresso dell’Aja nel 1948, è assurdo affermare oggi che l’euro avesse avuto un altro scopo. Questo è il motivo per cui, logicamente, i trattati attuali non prevedono l’uscita dall’euro, costringendo la Grecia, se lo desidera, a uscire prima dall’Unione per poter uscire dall’euro. Dopo la dissoluzione dell’Urss, gli Stati Uniti rimasero i soli padroni del gioco, il Regno Unito li assistette, e gli altri Stati obbedirono loro. «Di conseguenza, l’Unione non ha mai deliberato il proprio allargamento a Est, ma ha solamente convalidato una decisione assunta da Washington e annunciata dal suo segretario di Stato, James Baker. Allo stesso modo, ha adottato sia la strategia militare degli Stati Uniti, sia il loro modello economico e sociale caratterizzato da enormi disuguaglianze». La stampa dominante ha affermato che votando “no”, l’economia greca avrebbe fatto un salto nel buio. «Eppure, il fatto di appartenere alla zona euro non è una garanzia di performance economica». Secondo i dati del Fmi, nel rapporto tra Pil e potere d’acquisto dei salari, un solo Stato membro dell’Unione Europea è tra i primi 10 al mondo: il paradiso fiscale del Lussemburgo. La Francia è solo al 25° posto su 193.La crescita, nell’Unione Europea, è stata dell’1,2% nel 2014, il che va a classificarla al 173° posto nel mondo: uno dei peggiori risultati del pianeta (la media mondiale è del 2,2%). «È inevitabile constatare che appartenere all’Unione e utilizzare l’euro non sono garanzie di successo», osserva Meyssan con lugubre sarcasmo, di fronte alla catastrofe economica che sta travolgendo l’Eurozona. Ma attenzione, non si tratta di un fallimento per tutti: «Se le élite europee sostengono questo “progetto”, accade perché risulta loro profittevole. In effetti, nel creare un mercato unico e una moneta unica, gli “unionisti” hanno imbrogliato le carte. Ormai, le differenze non sono tra gli Stati membri, ma tra classi sociali che si sono rese uniformi su scala europea. Ecco perché i più ricchi difendono l’Unione, mentre i più poveri aspirano al ritorno degli Stati membri». L’Ue, aggiunge Meyssan, «non è stata creata per unire il continente europeo, ma per dividerlo, scartando definitivamente la Russia. Questo è ciò che Charles De Gaulle aveva denunciato mentre perorava un’Europa “da Brest a Vladivostok”».Gli “unionisti” assicurano che il “progetto europeo” ha consentito la pace in Europa per 65 anni? «Ma parlano dell’appartenenza all’Unione o del loro vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti? In realtà è questo che ha garantito la pace tra gli Stati dell’Europa Occidentale, pur mantenendo la loro rivalità al di fuori dell’area Nato». Il sistema-euro, che impone diktat a Stati non più sovrani, ricorda in modo sinistro i meccanismi decisionali del piano di dominio hitleriano. Meyssan cita ancora Walter Hallstein, alto funzionario tedesco, l’uomo che curò la redazione del progetto nazista di Europa federale. «Si trattava di distruggere gli Stati europei e di federare le popolazioni per etnie attorno al Reich ariano. L’insieme sarebbe stato sottoposto alla dittatura di una burocrazia non eletta, controllata da Berlino. Dopo la Liberazione, mise in opera il suo progetto con l’aiuto degli anglosassoni». Altro personaggio chiave nel martirio ellenico, Mario Draghi, presidente della Bce nonché ex numero due in Europa della banca Goldman Sachs.Proprio Draghi «ha celato al Parlamento Europeo il ruolo da lui avuto rispetto alle malversazioni perpetrate dalla banca per conto del governo greco, sebbene risulti a chiare lettere dai documenti della banca». Atene, ora, «potrebbe facilmente cavarsela rifiutandosi di pagare la parte odiosa del debito, lasciando l’Unione, e facendo alleanza con la Russia, che per lei è un partner storico e culturale di gran lunga più serio della burocrazia di Bruxelles». Certo, la volontà di Mosca e di Pechino di investire in Grecia e di crearvi nuove istituzioni internazionali è un segreto di Pulcinella. «Tuttavia, la situazione in Grecia è più complessa», visto che Atene è anche un membro della Nato: proprio per impedire alla Grecia di avvicinarsi all’Urss, l’Alleanza Atlantica aveva già organizzato nel 1967 un colpo di Stato militare, il “golpe dei colonnelli”.Il referendum greco ha dato adito ad accesi dibattiti che però dimostrano la generale ignoranza sulle regole del gioco: «I partecipanti si sono lacerati per sapere se i greci fossero o no responsabili del loro debito, stando sempre attenti nel contempo a non accusare mai di usura i loro creditori», scrive Thierry Meyssan. «Ma lo hanno fatto ignorando la storia dell’euro e le ragioni della sua creazione». La moneta unica? «Un progetto anglosassone della guerra fredda», per indebolire l’Europa e staccarla dalla Russia. Dal Trattato di Roma, 64 anni fa, le istanze amministrative successive del “progetto europeo” (Ceca, Cee, Ue) hanno speso somme enormi e senza equivalenti per finanziare la loro propaganda nei media. «Ogni giorno centinaia di articoli, di trasmissioni radio e televisive, sono pagati da Bruxelles per raccontare una falsa versione della storia e farci credere che l’attuale “progetto europeo” sia quello degli europei risalente al periodo fra le due guerre mondiali». Ma gli archivi mostrano che già nel 1946 Winston Churchill e Harry Truman decisero di dividere il continente europeo in due: da una parte i loro vassalli, dall’altra l’Urss con i suoi.
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Hanno ucciso la Grecia, non esiste più. Poi toccherà a noi?
Ma cosa ha a che fare il cosiddetto accordo per la Grecia con l’Europa dei popoli? Cosa ha a che fare il massacro della Grecia e del suo popolo con l’integrazione e l’unità politica europee? Cosa ha a che fare questa Ue con quella prospettiva di crescita, solidarietà, democrazia che milioni di europei hanno creduto e auspicato in questi decenni? Il presunto accordo è soltanto la garanzia perché i creditori e le banche siano soddisfatti. La Grecia è già al default e quelle condizioni servono soltanto a costringere il Parlamento greco a rendere legittime le scorrerie predatorie sui beni pubblici. Un intero paese privatizzato. Beni culturali, paesaggistici, risorse naturali, costituiranno il fondo di garanzia di 52 miliardi di euro per i creditori. Non hanno mai voluto davvero un esito ‘Grexit’: né i tedeschi per i loro maledettissimi interessi né gli americani preoccupati di non regalare la Grecia, che resta strategica nello scacchiere mediterraneo, alla Russia di Putin.È invece quello dell’appropriazione dei beni comuni il tema principale, e senza entrare nel merito delle altre micidiali condizioni come la riforma delle pensioni e del codice civile. Ogni Paese ha delle risorse che non vengono calcolate in termine di ricchezza e Pil: musei, opere d’arte, storiche, monumentali, collezioni, patrimonio librario, isole, coste. Su queste pregiatissime risorse pubbliche stanno orientando i loro artigli le potentissime lobby economico-finanziarie internazionali. E credo che questo sia un rischio assai concreto anche per l’Italia la cui ricchezza in materia è davvero inestimabile. Se il Peloponneso o il Partenone rischiano così in un futuro prossimo di diventare patrimonio privato, lo stesso potrebbe accadere all’Italia. Qualcuno direbbe “ma la Costituzione tutela questi beni”; vero, però i signori della finanza hanno costretto alla costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio: un vero e proprio monstrum giuridico.Vedremo, se una volta chiuso il capitolo ellenico, si riaprirà quello italiano con i licenziamenti nelle Pa e un’ulteriore riforma delle pensioni, preludio all’aggressione ai nostri beni comuni rispetto ai quali, purtroppo dimentichiamo sempre troppo in fretta, un referendum stravinto è rimasto inapplicato! Se davvero dopo la Grecia toccherà all’Italia, i mastini che condurranno l’Eurosummit non dovranno neppure reggere la fatica di sottoporre il premier di turno al massiccio ‘waterboarding mentale’ riservato a Tsipras: temo che cederà subito…(Orazio Licandro, “Grecia, come si privatizza un paese”, dal “Fatto Quotidiano” del 14 luglio 2015).Ma cosa ha a che fare il cosiddetto accordo per la Grecia con l’Europa dei popoli? Cosa ha a che fare il massacro della Grecia e del suo popolo con l’integrazione e l’unità politica europee? Cosa ha a che fare questa Ue con quella prospettiva di crescita, solidarietà, democrazia che milioni di europei hanno creduto e auspicato in questi decenni? Il presunto accordo è soltanto la garanzia perché i creditori e le banche siano soddisfatti. La Grecia è già al default e quelle condizioni servono soltanto a costringere il Parlamento greco a rendere legittime le scorrerie predatorie sui beni pubblici. Un intero paese privatizzato. Beni culturali, paesaggistici, risorse naturali, costituiranno il fondo di garanzia di 52 miliardi di euro per i creditori. Non hanno mai voluto davvero un esito ‘Grexit’: né i tedeschi per i loro maledettissimi interessi né gli americani preoccupati di non regalare la Grecia, che resta strategica nello scacchiere mediterraneo, alla Russia di Putin.
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La mafia Ue uccide Atene per impaurire noi, infami codardi
Non è la Grecia, ma l’Unione Europea, ad aver firmato la sua condanna a morte: oggi sono i greci a scendere all’inferno, ma domani anche i più disattenti avranno capito che razza di regime ci sta votando alla sofferenza eterna, alla spirale senza speranza della crisi innescata dall’Eurozona e dal potere brutale che la governa. Lo sostiene Giorgio Cremaschi, che pure non si nasconde le colpe di Tsipras, peraltro lasciato solo: «La Grecia è stata costretta alla resa dall’isolamento che la Troika è riuscita a costruirle attorno. Sinistre, sindacati, popolo democratico, tutti siamo stati alla finestra, quindi la loro sconfitta è nostra per conseguenze e responsabilità». Il testo varato dall’Eurogruppo? «Non è solo inaccettabile per il popolo greco, ma è una minaccia e una sfida per tutti noi. Siamo tutti greci». Perché tanta ferocia contro i greci? Per rapinarli di tutto. E, intanto, per punirli, visto l’esito del referendum: «Avete alzato la testa? Ora, cittadini greci, vedrete cosa vi costa». La minaccia alla Grecia è in realtà rivolta a tutti noi: non provateci, o vi faremo fare la stessa fine.«Il “no” massiccio al referendum – scrive Cremaschi su “Micromega” – andava sanzionato in quanto tale, per insegnare ai popoli tentati di ripeterlo quanto alto potrebbe esserne il prezzo. Il taglio delle pensioni minime sotto i 400 euro al mese, quello dei salari dello stesso livello, l’aumento del prezzo dei farmaci là ove la sanità pubblica è scomparsa, l’obbligo a rivedere le minime misure di sostegno ai poveri, agli sfrattati, la cancellazione delle poche riassunzioni, tutte queste non sono misure di grande valore economico, sono rappresaglie sociali. Anche per questo, dopo la firma della capitolazione, la Bce ha deciso di continuare a negare i fondi Ela di emergenza. Le file ai bancomat devono continuare fino a che restino ben stampate nella memoria», di ogni greco e di ogni altro europeo. «Le rappresaglie terrorizzano e puniscono, ma il loro scopo è il dominio. La Grecia è il primo Stato europeo che dal 1945 diventa formalmente una colonia. In questo c’è anche la punizione politica che viene somministrata al governo Tsipras». Massima perfidia, costringere lo stesso Tsipras a firmare condizioni-capestro, peggiori di quelle inizialmente respinte, demolendo così la credibilità del premier “ribelle”.«Il Parlamento greco avrà solo il compito di votare il proprio suicidio accettando la resa», continua Cremaschi. «Poi ogni decisione sarà presa dai tecnici, espressione delle potenze occupanti, che supervisioneranno l’operare del governo coloniale. Tutto questo è meticolosamente definito nel protocollo dell’Eurogruppo». Colpo di Stato, come quello dei colonnelli nel 1967: «Allora fu la Nato ad organizzarlo, ora è la Troika». La differenza? «Allora non erano in discussione le proprietà pubbliche, mentre ora sono in svendita». La Grecia continua ad essere «cavia di trattamenti che vengono somministrati in dosi estreme ad essa e più caute agli altri, ma la medicina è la stessa: il Fiscal Compact e il Semestre Europeo si son aggiunti ai già precedenti trattati che hanno legato indissolubilmente euro e austerità». Ora, poi, ci sono poteri formali per far applicare le peggiori decisioni prese dall’Ue: «Se un Parlamento fa un bilancio dello Stato che le autorità di Bruxelles considerano troppo poco rigoroso, queste stesse autorità possono intervenire per modificarlo. I parlamenti nazionali non hanno più la disponibilità del bilancio dello Stato, ragione per cui 200 e più anni fa sono nati».Sopra di loro sta un’autorità tecnocratica e finanziaria che esercita il potere vero: «La Ue è quindi oggi un colpo di Stato permanente, che sulla Grecia ha esercitato una sperimentazione, per ora, estrema». Ma la riduzione allo stato coloniale della Grecia, oltre che la funzione di esempio, che scopo economico ha? Qui le poche cifre chiare disponibili non lasciano dubbi. «Il paese verrà saccheggiato dai “creditori”. Degli 84 miliardi promessi, solo 10 potrebbero finire in investimenti, cioè produrre interventi nell’economia reale. Tutti gli altri son una partita di giro, soldi che tornano alle banche e al Fmi», e il meccanismo si ripete con gli interessi. «Infatti a garanzia del prestito la Grecia deve impegnarsi in tagli di bilancio e tasse per un cifra vicina ai 15 miliardi e privatizzare beni per 52 miliardi». E’ un paese alla fame, con un Pil 8 volte inferiore a quello dell’Italia. «Da noi, la manovra imposta alla Grecia varrebbe 120 miliardi di tagli e oltre 400 miliardi di privatizzazioni. Riusciremmo a farle noi senza vendere Venezia, Firenze e il Colosseo?».Il via libera ad altri licenziamenti di massa e la fine dei contratti collettivi, imposti dall’Eurogruppo, secondo Cremaschi ridurranno alla schiavitù ciò che resta del lavoro: ci saranno più profitti, ma non ci sarà certo una ripresa in grado di pagare i debiti. «Come ogni usuraio, i creditori potranno allora dire che la Grecia non fa fronte a tutti gli impegni e quindi non può avere tutti i prestiti. Così continueranno a fare affari saccheggiando il paese e terranno in ostaggio tutti gli altri popoli: se non volete finire come loro dovete continuare ad accettare le politiche di austerità. La Troika sarà aiutata in questo ricatto permanente dal controllo totale esercitato sui mass media, che con la loro menzogna sistematica in questi giorni ci han già fornito un’anteprima di fascismo 2.0». Conclusione: «La vicenda greca dimostra una sola verità inconfutabile: questa Unione Europea non è riformabile; se si vuole una politica diversa da quella del massacro sociale e dell’austerità bisogna essere disposti alla rottura completa con essa. Il governo greco non era disposto a questo, e quindi ha capitolato».Il popolo greco, invece, aveva risposto “no” al 62%. «E’ stato un segnale che lor signori han ben colto, e per questo han reagito con tanta brutalità. Ma le rappresaglie, i massacri, possono impaurire una, due, tre volte, poi alla fine ottengono l’effetto opposto, alimentano la rivolta. Per questo la Ue, mostrando la sua vera faccia con la Grecia, ha decretato la sua fine». La rottura «va costruita in mezzo ai popoli, che per vivere liberamente debbono saper reggere il ricatto dell’euro e di tutto quanto è ad esso collegato». Nel 1938, la Cecoslovacchia si arrese alla Germania di Hitler, sostenuta da tutta l’Europa, che pensava così di essersi salvata. Scrisse Churchill: «Scegliemmo il disonore per non avere la guerra, e ottenemmo entrambi». Aggiunge Cremaschi: «Il 13 luglio 2015 è la giornata del disonore europeo, tutti i governi che hanno imposto la resa alla Grecia sono colpevoli d’infamia, ma la condanna morale deve diventare rovescio politico. Starà ai greci decidere come organizzare resistenza e sabotaggio verso il Memorandum, con o senza Tsipras, dipende da lui. Ma resistere alla tirannia Ue è il compito da assumere in ogni paese e in tutto il continente».Non è la Grecia, ma l’Unione Europea, ad aver firmato la sua condanna a morte: oggi sono i greci a scendere all’inferno, ma domani anche i più disattenti avranno capito che razza di regime ci sta votando alla sofferenza eterna, alla spirale senza speranza della crisi innescata dall’Eurozona e dal potere brutale che la governa. Lo sostiene Giorgio Cremaschi, che pure non si nasconde le colpe di Tsipras, peraltro lasciato solo: «La Grecia è stata costretta alla resa dall’isolamento che la Troika è riuscita a costruirle attorno. Sinistre, sindacati, popolo democratico, tutti siamo stati alla finestra, quindi la loro sconfitta è nostra per conseguenze e responsabilità». Il testo varato dall’Eurogruppo? «Non è solo inaccettabile per il popolo greco, ma è una minaccia e una sfida per tutti noi. Siamo tutti greci». Perché tanta ferocia contro i greci? Per rapinarli di tutto. E, intanto, per punirli, visto l’esito del referendum: «Avete alzato la testa? Ora, cittadini greci, vedrete cosa vi costa». La minaccia alla Grecia è in realtà rivolta a tutti noi: non provateci, o vi faremo fare la stessa fine.
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Giulietto Chiesa: via dall’Unione Europea, è un branco di lupi
Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.In realtà, questa “non è mai stata Europa”, replicano i critici dell’europeismo franco-tedesco. Secondo Paolo Barnard, autore de “Il più grande crimine” (saggio che illumina, con anni di anticipo rispetto alla catastrofe odierna, la genesi dell’euro come strumento di dominio dell’élite finanziaria a spese degli Stati e dei popoli) l’Unione Europea non è mai stata altro che questo: pura confisca di democrazia, senza contropartite di alcun genere. Confisca istituzionalizzata mediante organismi non elettivi, espressione diretta del “vero potere” neoliberista nemico del welfare e persino dello Stato di diritto. Un regime ideologico che in Europa si è alimentato anche con teorie risalenti all’800, l’economia neoclassica (pagare i lavoratori il meno possibile) e il tragico mercantilismo tedesco (la vocazione all’export, che comprime i salari e deprime la domanda interna). La fobia teutonica dell’inflazione, di hitleriana memoria, si è saldata con la demonizzazione del debito pubblico, motore naturale dell’economia espansiva (se il debito è denominato in moneta nazionale). E’ semplicemente sconcertante, sostiene il politologo Aldo Giannuli, che la sinistra europea non si sia mai accorta del “mostro” cresciuto a Bruxelles; ovvio, quindi, che oggi non abbia proposte, perché qualsiasi vera alternativa democratica comporterebbe innanzitutto la denuncia dell’Ue e del suo braccio secolare, l’euro, come strumenti di pura dominazione antipopolare.Peggio ancora: proprio la sinistra ufficiale – da Mitterrand in poi – ha conferito il massimo supporto al progetto europeista, ben sapendo che la “disciplina di bilancio” indotta fisiologicamente da una non-moneta come l’euro avrebbe causato tagli devastanti alla spesa sociale e abrogazione di diritti e storiche conquiste. Quello che accade oggi in Grecia, dunque, non è che una logica conseguenza, il modus operandi “naturale” di un impianto oligarchico di potere, che non guarda in faccia a nessuno. Proprio la ferocia dimostrata contro Atene, per giunta “colpevole” di aver osato sfidare il regime di Bruxelles con un referendum, finisce per scuotere anche chi aveva sperato in una residua quota di ragionevolezza, se non altro per evitare di consegnare il continente a una pericolosa deriva incarnata da populismi ultra-nazionalisti, spesso xenofobi e neofascisti. «Sono in molti a dire apertamente che ciò che si è consumato a Bruxelles il 13 luglio 2015 è stato un “colpo di Stato”», scrive Chiesa su “Sputnik News”. Un golpe, «realizzato con strumenti finanziari, con un ricatto dei forti contro i deboli, che implica e si regge su un atto di forza, su un’imposizione illegittima».Per il giornalista, autore del profetico libro-denuncia “La guerra infinita” che illustrò con anni di anticipo il piano egemonico dei neocon statunitensi e le “guerre americane” puntualmente condotte negli ultimi anni, la crisi fra Berlino e Atene «è l’inizio della fine dell’Europa come entità che si proponeva di essere unitaria e si rivela ora un’accozzaglia di egoismi, che non è nemmeno possibile definire “nazionali”, poiché sono stati dettati dalla frenesia del guadagno delle élites bancarie internazionali». Questa è ormai «un’Europa senza solidarietà e divisa, spaccata. Con la Germania (ma che dico?, con una parte della Germania; ma che dico?, con un partito tedesco – la Cdu-Csu – guidato da un ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, che combatte contro la premier del suo partito Angela Merkel) che si trascina dietro sei Stati dell’est, tutti antieuropei in sostanza, e che pretende di fare la lezione a tutta la restante Europa, per costringerla ad accettare il modello tedesco». Giulietto Chiesa cita l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: la vera posta in gioco non è Atene ma Parigi, perché il piano degli oligarchi tedeschi consiste nel «mettere il timore di Dio nei francesi, costringendo la Grecia a uscire dall’euro».Dunque, conclude Chiesa, «la Grecia è stata usata, anche (non solo come la vittima sacrificale da esibire sulle piazze d’Europa, come l’avvertimento, come la gogna che attende tutti coloro che osassero ribellarsi in futuro), come una mazza ferrata per imporre la volontà dei banchieri tedeschi a tutti gli altri paesi». Quella di Bruxelles, allora, è «un’Europa che si comporta come un branco di lupi». Sicché, «questa Europa finisce, insieme alla Grecia indipendente e sovrana». Una constatazione che «dovrebbe aprire una riflessione a tutte le forze europee, democratiche e che vogliono conservare le loro sovranità nazionali, sulla “questione tedesca”». Attenzione: «Per la terza volta, nella sua storia moderna, la Germania mette e repentaglio la pace nel continente. Un’Europa senza Germania è sempre stata impensabile. Ma una Germania che non è in grado di moderare la sua pulsione al dominio diventa il nemico di ogni idea europea comune».Per quanto concerne la Grecia, la soluzione imposta a Tsipras, «mostruosa sotto ogni profilo», non è che «una tappa verso un disastro, non solo economico: è l’esistenza stessa della democrazia che è stata annientata», costringendo i greci ad accettare un piano economico peggiore di quello che, col referendum, avevano rifiutato. «Perfino la proprietà privata, dei singoli e dello Stato, è stata cancellata. Con totale impudenza, quella del vae victis – continua Giulietto Chiesa – la Germania ha preteso il controllo diretto di 50 miliardi di euro di proprietà greche attraverso il Kfw (Kreditanstalt Fur Wiederanfbau, Istituto di Credito per la Ricostruzione), che altro non è che una banca tedesca (80% dello Stato e 20% dei laender) e il cui presidente è Wolfgang Schäuble».Peraltro, proprio la Kfw (la “Cdp” tedesca) è lo strumento col quale la Germania ha regolarmente aggirato le restrizioni sull’euro, acquisendo moneta praticamente a costo zero per finanziare il governo – la Kwf è giudiricamente privata, ma di fatto chi comanda è lo Stato. Nessuno, però, si è mai permesso di far osservare ai tedeschi che stavano barando: hanno imposto il costo dell’euro a tutta l’Eurozona (moneta che ogni paese può ottenere solo con l’emissione di titoli di Stato, attraverso il sistema bancario privato), mentre Berlino, sottobanco, ha trovato il modo di finanziarsi impunemente in modo assai più economico. Inutile, quindi, aspettarsi che simili oligarchi potessero fare la benché minima concessione sulla indispensabile ristrutturazione del debito greco, «che è un debito illegale e estorto con l’inganno e con la complicità dell’Europa e della Germania», ricorda Giulietto Chiesa. «Non c’è più nemmeno l’ombra dell’economia di mercato: questa è rapina e violenza allo stato brado».Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, ha spesso tuonato contro i “maghi” dell’austeriy europea, che impongono solo e sempre ricette disastrose. Sbagliano? No, lo fanno apposta: retrocedere i popoli, ex consumatori ormai inutili, fa parte del piano. Diverranno lavoratori-schiavi, senza più diritti sindacali e con salari da Bangladesh, alla periferia meridionale del Quarto Reich. Giulietto Chiesa cita ancora il greco Varoufakis, che bene esprime il panico di Syriza di fronte all’ipotesi Grexit: l’ex ministro, che oggi accusa Tsipras di non aver osato tener duro di fronte al “waterboarding” cui è stato sottoposto a Bruxelles, sostenendo che si poteva reggere molto meglio il braccio di ferro e spuntare condizioni migliori per restare nell’Eurozona, cita l’Iraq (paese bombardato, invaso, raso al suolo) come esempio per spiegare le enormi difficoltà nel rimettere in piedi una moneta partendo da zero (missione impossibile, in quel caso, senza l’aiuto Usa). In più, lo stesso Varoufakis evita di citare – come invece fa Krugman – il caso eclatante dell’Argentina, la cui prodigiosa rinascita è iniziata proprio con l’abbandono del legame col dollaro (cambi bloccati, come nel caso dell’euro) tornando pienamente sovrana, “da zero”, dei propri pesos.Se è quindi chiaro che nessun Varoufakis avrebbe mai potuto – con quelle argomentazioni – impensierire neppure lontamente la Bce e la Commissione Europea (oltre a non aver messo a punto un vero piano-B, il governo di Syriza non ha nemmeno pensato a reclutare un adeguato team di economisti, per esempio quelli, americani e democratici, di cui si servì Nestor Kirchner per la rianimazione-record della sua Argentina), resta di fronte agli occhi di tutti lo spettacolo dell’orrore che Berlino e Bruxelles hanno esibito, a prescindere dall’impresentabilità di Syriza – spettacolo che non mancherà di suscitare ripercussioni drastiche, a partire dalla Francia di Marine Le Pen, l’unico leader europeo a chiedere a gran voce, e non da oggi, l’uscita di Parigi dall’Unione Europea, prospettiva che ormai sfiora l’Austria e nel 2017 chiamerà al voto anche la Gran Bretagna. L’incubo Grexit – espulsione disordinata, non preparata come invece nel caso argentino – comporterebbe «conseguenze sociali e politiche sconvolgenti: sicuramente provocazioni, disperazione, disordini, sangue», scrive Giulietto Chiesa. «Questa è l’Europa, oggi. Bisogna prepararsi a uscirne, per tempo».Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza, con la collaborazione di Napolitano, per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.
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Macché Grecia, Deutsche Bank esposta per 70.000 miliardi
Il problema non sono i soldi, sono gli “schiavi”: i greci, e con loro tutti noi “prigionieri” dell’Eurozona. La crisi ellenica assume i caratteri di una tragica farsa, con Tsipras che indice il referendum e il giorno dopo annulla il “no” proponendo lui stesso le misure-capestro della Troika? «La cosa che mi fa ridere è che tutta ’sta mucchia di cefali con l’insegnante di sostegno che sono praticamente tutti quelli che parlano della Grecia, vi fanno credere che il problema sono i debiti della Grecia verso creditori come Germania, Italia, Bce», scrive Paolo Barnard, proponendo di dare un’occhiata ai numeri: «La Grecia deve alla Germania 56 miliardi di euro, che sono 1/62esimo del Pil tedesco. E il ministro delle finanze tedesco Schaeuble fa un putiferio, come se perdere quegli spiccioli rovinasse la Germania. Però sta zitto, muto, bocca cucita, sul fatto che la sola Deutsche Bank ha il culo esposto a scommesse sui derivati per… SETTANTAMILA miliardi di euro. Basta che ne perda una frazione e la sberla che si beccano i tedeschi sarebbe 200 volte il debito Grecia-Germania». E allora non è questione di soldi, insiste Barnard: la posta in gioco è «non permettere alla Grecia di rompere il Tritaumani che Parigi e Berlino inventarono per rederci schiavi: la moneta unica».Cifre che sfuggono, regolarmente, alle analisi sui media mainstream. «L’eroe di cartone Yanis Varoufakis – continua Barnard – fu dimesso da ministro delle finanze greche (fonte “Financial Times”) quasi due mesi fa a una riunione dell’Ecofin a Riga, il 24 aprile. Fu un incontro simpatico, dove gli fu detto che era “un principiante, un cretino, un povero scemo, e che avrebbe vissuto poco”». Barnard, autore de “Il più grande crimine” (saggio-profezia sulla catastrofe dell’Eurozona) ricorda che lo stesso Varoufakis non ascoltò il suo consiglio (“chiama Warren Mosler della Me-Mmt a dirigere la Greekexit”), preferendo ricorrere all’economista Jamie Galbraith, troppo “vicino” alle grandi agenzie finanziarie mondiali per poter scommettere davvero sul ripristino della sovranità monetaria, traguardo verso il quale, invece, Mosler ha approntato tappe precise (un paracadute sociale, per uscire senza troppi scossoni dall’euro e rimettere in moto l’economia proprio grazie alla moneta nazionale). Varoufakis? E’ inutile che oggi faccia l’eroe, dice Barnard: è stato “licenziato” a Riga da Peter Kazimir, ministro delle finanze slovacco presente all’incontro, perché «non aveva una cazzo di idea su come salvare la sua gente. Io gliel’avevo data». Il mediatico Yanis? «Ignorante, economista da Topolino».«Come ho già scritto duemila volte, la storia della Grecia è una farsa», sostiene Barnard. La “notizia dell’anno” è un’altra: «Il dinosauro cinese è impazzito, è fuori controllo», e soprattutto «è vivo e mostriosamente pericoloso». Motivo: «Pechino ha voluto negli ultimi 10 anni seguire i consigli dei Chicago Boys, cioè vai con la tua atomica a tutta potenza sull’export (lo stesso che vorrebbero i “cago boys” italiani per l’Italia, cioè Borghi, Bagnai, Rinaldi), ma ora il gioco dell’export cinese, come sempre fu previsto dalla Mosler Economics, si è rotto. Con bassa crescita, crollo dei salari reali e della domanda interna (tutti tipici dell’export), la Cina sta soffrendo il più colossale, cataclismatico e micidiale assets-run della storia umana». Ovvero: «Gli investitori stanno svendendo tutto ciò che hanno comprato di cinese alla velocità del lampo, dai Corporate Bonds alle azioni, soprattutto azioni, titoli di Stato, riso cantonese, bastoncini, grappa alla rosa, ciabattine». Le perdite complessive per la Cina «sono arrivate in meno di due mesi a tremila miliardi di dollari solo in azioni! Immaginate il resto». Cina, dunque, non Grecia: «Quando il dinosauro cinese impazzisce e non mangia più come e quanto prima, noi non gli vendiamo più come prima, il petrolio crolla in prezzo, i minerali pure». Tuto questo, mentre la Grecia di Tsipras sembra consegnarsi definitivamente al suicidio a rate progettato dalla Troika.Il problema non sono i soldi, sono gli “schiavi”: i greci, e con loro tutti noi “prigionieri” dell’Eurozona. La crisi ellenica assume i caratteri di una tragica farsa, con Tsipras che indice il referendum e il giorno dopo annulla il “no” proponendo lui stesso le misure-capestro della Troika? «La cosa che mi fa ridere è che tutta ’sta mucchia di cefali con l’insegnante di sostegno che sono praticamente tutti quelli che parlano della Grecia, vi fanno credere che il problema sono i debiti della Grecia verso creditori come Germania, Italia, Bce», scrive Paolo Barnard, proponendo di dare un’occhiata ai numeri: «La Grecia deve alla Germania 56 miliardi di euro, che sono 1/62esimo del Pil tedesco. E il ministro delle finanze tedesco Schaeuble fa un putiferio, come se perdere quegli spiccioli rovinassero la Germania. Però sta zitto, muto, bocca cucita, sul fatto che la sola Deutsche Bank ha il culo esposto a scommesse sui derivati per… settantamila miliardi di euro. Basta che ne perda una frazione e la sberla che si beccano i tedeschi sarebbe 200 volte il debito Grecia-Germania». E allora non è questione di soldi, insiste Barnard: la posta in gioco è «non permettere alla Grecia di rompere il Tritaumani che Parigi e Berlino inventarono per rederci schiavi: la moneta unica».
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Giannuli: ha stravinto l’élite, non esiste alternativa politica
Espropriati di ogni diritto, privati del lavoro, rasi al suolo come cittadini. E’ il nuovo ordine neoliberista, e non abbiamo scampo. Lo sostiene lo storico Aldo Giannuli, che analizza l’eclissi epocale della sinistra in ogni sua forma, da quella storica – assorbita nella socialdemocrazia – a quella “radicale”, che voleva cambiare il sistema ed è in via di completa estinzione. Peggio ancora: nessuna, delle nuove formazioni politiche che si affacciano tra le macerie dell’Europa, ha le carte in regola per progettare una via d’uscita. Siamo in trappola, schiacciati dal primo comandamento della “rivoluzione neoliberista”: lo Stato dei cittadini deve morire, per lasciar posto al primato della finanza sull’economia e dell’economia sulla politica. Fine delle trasmissioni. Con tanti saluti alle illusioni del riformismo, che nei decenni del dopoguerra riuscì a convertire l’aspirazione rivoluzionaria in correzioni sociali all’interno del sistema, estensione del benessere relativo, ascensore sociale, garanzie, welfare. Tempo scaduto: i nuovi padroni del mondo non hanno più tempo per la democrazia, fabbricano leader-servi, impongono leggi, sbaraccano Costituzioni.La rivoluzione neoliberista, scrive Giannuli nel suo blog, si è imposta costruendo un ordine gerarchico mondiale tendenzialmente monopolare (oggi in crisi) che riduce la sovranità degli Stati nazionali. Poi ha sottratto i grandi capitali finanziari al fisco, attraverso la mobilità mondiale dei capitali, che consente al “grande contribuente” di scegliere il fisco cui pagare le sue tasse. Fondamentale, poi, la delocalizzazione produttiva, insieme alla liberalizzazione degli scambi commerciali: questa globalizzazione «inevitabilmente premia i paesi a costo del lavoro più basso, agendo quindi come attrattore verso il basso dei livelli salariali». Quindi, la moneta: il sistema valutario sganciato dalla base aurea, o comunque da parametri oggettivi, e basato solo sull’apprezzamento reciproco delle monete, «fa dipendere la stabilità monetaria di ciascuno dalla dittatura del rating e dalle decisioni dei mercati finanziari (in realtà da Wall Street) di fatto, riducendo ai minimi termini la sovranità monetaria dei singoli paesi».In più, c’è la fittissima ragnatela del Wto e degli accordi e trattati internazionali, dagli storici accordi di Marrakech del 1993 al mostruoso Ttip in gestazione: rapporti economici a livello mondiale, «che precludono ogni politica diversa da quella neoliberista e proibiscono esplicitamente l’intervento statale in economia». Non solo: «Impedendo ogni politica industriale nazionale, privatizzando le imprese pubbliche e promuovendo grandi fusioni internazionali a guida finanziaria», i grandi predoni neo-feudali hanno sostanzialmente imposto un cambio di sistema: non viviamo più in un regime controllabile dalle popolazioni, sempre più in sofferenza anche grazie alla liquidazione dei presupposti stessi dello Stato sociale – scuola, sanità, assistenza, pensioni, tutele civili. «Di conseguenza – continua Giannuli – l’ordine neoliberista ha carattere politicamente monistico e non ha spazio per una sinistra interna», né per «politiche keynesiane, compromessi welfaristi e, di conseguenza, per ogni politica riformista». L’ordine neoliberista «non prevede alcuna sinistra interna, è tutto e organicamente di destra». Così, a fronte dell’assolutismo neoliberista, «il riformismo, anche il più moderato, assume valenza antisistema al pari di qualsiasi indirizzo rivoluzionario».Ne consegue che occorre abbandonare la pratica istituzionale per passare a forme di lotta violente o addirittura armate? «Per nulla: sarebbe una risposta incongrua rispetto all’obiettivo». Anche perché, qualora si prendesse il potere in un paese «tanto per via pacifica e legale quanto per via violenta ed illegale», il problema non si sposterebbe di un centimetro, «perché il nuovo governo, comunque formatosi, avrebbe di fronte lo stesso problema di fare i conti con un ordine mondiale ostile, dove l’unica variabile decisiva sarebbe quella dei rapporti di forza». La Cina, come unica alternativa? Pechino «ha realizzato un sistema di capitalismo di Stato che si discosta per più versi dall’ordinamento neoliberista, ma può permetterselo perché i rapporti di forza economici, finanziari e, non ultimo, militari, glielo consentono». La Cina «rappresenta una torsione del sistema internazionale nella misura in cui i rapporti di forza glielo consentono». Il passaggio a politiche diverse, non liberiste? «E’ antisistema, nella misura in cui presuppone la rottura dell’ordine mondiale e della sua rete di trattati e accordi».Dunque, al di là della praticabilità di forme di lotta radicali, il problema si pone in termini diversi, ovvero: «Come maturare i rapporti di forza internazionali che consentano di aprire spazi a politiche sociali ed economiche non liberiste. Il che significa che l’asse dell’azione politica si sposta dall’arena nazionale a quella internazionale». Chi dunque potrebbe riaprire i giochi a livello globale? Non certo le sinistre riformiste (Spd, socialisti francesi e spagnoli, Labour party), che «perdono terreno e sono destinate all’estinzione o all’assorbimento organico nelle formazioni di destra, perché all’interno di questa cornice di sistema non possono avere altra sorte». Peggio ancora le sinistre “radicali” (Linke, Front de Gauche, Izquierda Unida, Rifondazione Comunista e Sel), che «stanno subendo lo stesso declino perché non hanno iniziativa politica e non possono averla, perché, incapaci di iniziativa internazionale (neppure a livello europeo), mancano di una proposta politica che non sia pura propaganda senza contenuto».Niente di buono neppure da Grecia e Spagna: secondo Giannuli, “Syriza” è destinata al fallimento «perché non trova supporto internazionale e perché non ha il coraggio di utilizzare l’unica arma (a doppio taglio) in suo possesso: il ricatto del debitore». Quanto a “Podemos”, che lo storico dell’ateneo milanese considera «una variante intermedia fra Sel ed il M5S», è destinata ad analogo insuccesso, «perché non pensa neppure di mettere in discussione la cornice europeista». E in Italia? «Il M5S temo sia destinato a schiantarsi contro le resistenze del sistema perché, pur avendo intuito che il nodo è quello dell’ordine internazionale (come dimostra la posizione sull’euro), non riesce ad articolare questa intuizione in un progetto politico adeguatamente articolato». Per Giannuli, il Movimento 5 Stelle «non svolge alcuna azione internazionale e, quando tenta qualcosa, sbaglia (leggi Ukip), perché non ha costruito uno strumento organizzativamente adeguato allo scontro».Come si vede siamo in un cul de sac, conclude Giannuli. Un vicolo cielo, «dal quale non usciremo né con improbabili referendum e colpi di testa, né con le solite alchimie di orrendi cartelli elettorali costruiti sul nulla». Il politologo vede solo una possibilità, in termini di avvicinamento preliminare alla soluzione, nella costruzione di una piattaforma europea delle opposizioni, ancorché debolissime e divise. «Sarebbe già un passo avanti una convenzione europea, nella quale “Podemos”, “Syriza”, M5S, la “sinistra radicale”, i restanti partiti comunisti e le sinistre socialdemocratiche concordino una o più campagne europee sulla ristrutturazione del debito, sull’uscita concertata dall’euro, la revisione dei principali accordi internazionali». Certo, ammette il professore, «non sarebbe la soluzione dei nostri problemi, ma un possibile inizio». L’unica opportunità da mettere in campo, perché «il resto è già votato al fallimento».Espropriati di ogni diritto, privati del lavoro, rasi al suolo come cittadini. E’ il nuovo ordine neoliberista, e non abbiamo scampo. Lo sostiene lo storico Aldo Giannuli, che analizza l’eclissi epocale della sinistra in ogni sua forma, da quella storica – assorbita nella socialdemocrazia – a quella “radicale”, che voleva cambiare il sistema ed è in via di completa estinzione. Peggio ancora: nessuna, delle nuove formazioni politiche che si affacciano tra le macerie dell’Europa, ha le carte in regola per progettare una via d’uscita. Siamo in trappola, schiacciati dal primo comandamento della “rivoluzione neoliberista”: lo Stato dei cittadini deve morire, per lasciar posto al primato della finanza sull’economia e dell’economia sulla politica. Fine delle trasmissioni. Con tanti saluti alle illusioni del riformismo, che nei decenni del dopoguerra riuscì a convertire l’aspirazione rivoluzionaria in correzioni sociali all’interno del sistema, estensione del benessere relativo, ascensore sociale, garanzie, welfare. Tempo scaduto: i nuovi padroni del mondo non hanno più tempo per la democrazia, fabbricano leader-servi, impongono leggi, sbaraccano Costituzioni.
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Lavoratori sotto minaccia, eccoci nel fascismo aziendale
Il quotidiano “Il Sole 24 Ore” anticipa i contenuti del decreto sul demansionamento, che il governo si prepara a varare. «Non è una notizia – afferma Giorgio Cremaschi – perché è oramai scontato che gli esperti ministeriali di Renzi e Poletti operino sotto la dettatura dei tecnici della Confindustria», il cui quotidiano «ci comunica la gioia delle imprese e dei loro uffici legali per il fatto di poter finalmente fare tutto ciò che era proibito dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, senza dover incorrere in costose e spesso perdenti azioni legali». Un regalo ai profitti d’impresa, ai danni dei diritti e del salario dei lavoratori. Di fatto, «una sanatoria per tutti gli abusi ai danni della professionalità delle persone», e cioè «la licenza di mobbizzare e ricattare». Questa, per Cremaschi, «l’infamia di un provvedimento che realizza un altro sogno della Confindustria e produrrà incubi per chi deve subire il potere dell’impresa», amche perché ora «si potrà degradare il lavoratore per ragioni tecniche e organizzative, cioè quando al padrone serve».In teoria, scrive Cremaschi su “Micromega”, il salario dovrebbe rimanere lo stesso, ma senza le indennità. E un operaio montatore che fa i turni o va in trasferta potrà essere degradato a facchino nei magazzini e si vedrà ridotta la paga del 30%. I lavoratori licenziati per ragioni economiche? Potranno conciliare con l’azienda se accettano di riprendere a lavorare a mansione inferiore. «Questo è proprio il corollario che mancava al contratto senza articolo 18. Una misura che farà risparmiare alle imprese sull’indennità di licenziamento, rispondendo chiaramente ad un calcolo preciso degli uffici studi confindustriali». Come si sa, aggiunge Cremaschi, gli incentivi di 8.000 euro all’anno – che sono alla base delle assunzioni, secondo il Jobs Act – presto finiranno. «A quel punto le imprese si troveranno lavoratori licenziabili sì, ma pagando una indennità. Se però quei lavoratori verranno licenziati e poi riassunti con il demansionamento, l’indennità la pagherà il lavoratore con la qualifica più bassa, e per l’impresa sarà come se gli incentivi continuassero».Infine, conclude Cremaschi, se il padrone può degradare quando vuole, il lavoratore non può rivendicare la promozione. Con l’articolo 13 dello Statuto, se si operava per 3 mesi in mansioni superiori si aveva diritto alla qualifica corrispondente. Con il demansionamento, invece, bisognerà aspettare il doppio del tempo, salvo accordi peggiorativi nei contratti. «Insomma, dopo il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiusto salta anche quello alla qualifica, e in ogni azienda le direzioni potranno fare di tutto ai propri sottoposti. E questo è il risultato più importante per i padroni: la licenza di mobbing. Le minacce di licenziamento o degradazione in molti caso saranno sufficienti per imporre di lavorare di più e peggio senza chiedere nulla. Il sadismo di certi capi e capetti avrà piena possibilità di dispiegarsi». Inutile girarci attorno: «Quando si dice che quello di Renzi e del suo sponsor Marchionne è fascismo, per ora aziendale, non si esagera: si descrive semplicemente quello che si sta giuridicamente realizzando misura dopo misura con il Jobs Act».Il quotidiano “Il Sole 24 Ore” anticipa i contenuti del decreto sul demansionamento, che il governo si prepara a varare. «Non è una notizia – afferma Giorgio Cremaschi – perché è oramai scontato che gli esperti ministeriali di Renzi e Poletti operino sotto la dettatura dei tecnici della Confindustria», il cui quotidiano «ci comunica la gioia delle imprese e dei loro uffici legali per il fatto di poter finalmente fare tutto ciò che era proibito dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, senza dover incorrere in costose e spesso perdenti azioni legali». Un regalo ai profitti d’impresa, ai danni dei diritti e del salario dei lavoratori. Di fatto, «una sanatoria per tutti gli abusi ai danni della professionalità delle persone», e cioè «la licenza di mobbizzare e ricattare». Questa, per Cremaschi, «l’infamia di un provvedimento che realizza un altro sogno della Confindustria e produrrà incubi per chi deve subire il potere dell’impresa», amche perché ora «si potrà degradare il lavoratore per ragioni tecniche e organizzative, cioè quando al padrone serve».
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Euro Macht Frei, l’Europa è solo un’espressione germanica
L’Italia è solo un’espressione geografica e l’Europa è solo un’espressione germanica: euro macht frei. L’Unione Europea e l’euro vennero spacciati come strumento per unificare i paesi europei. L’effetto è opposto. I paesi mediterranei, pieni di debiti e di disoccupati, dopo aver ceduto gli asset migliori, vengono spinti verso il Terzo Mondo, mentre il Terzo Mondo, sui barconi, viene spinto dentro di essi. La separazione tra nord e sud d’Europa viene resa sempre più dura e insuperabile. Zero solidarietà e zero veduta d’insieme. Menefreghismo totale e compiaciuto: i paesi nordeuropei si stanno costruendo il loro subcontinente coloniale per trarne mano d’opera e lavorazioni a buon mercato. L’idea di unificazione europea era assurda sin dall’inizio: bastava guardare alle costanti storiche delle principali nazioni europee che dovevano unificarsi, per predire che questo progetto era irrealizzabile. E che, se realizzato, avrebbe portato a un incrocio tra una polveriera come la Jugoslavia unita e una palude malata come l’Italia unita.Superiore efficienza, solidarietà interna, conformismo, sopraffazione degli altri popoli, soprattutto se mediterranei, assenza di scrupoli: queste sono le caratteristiche politiche e culturali del popolo tedesco oggi, esattamente come ai tempi del Terzo Reich, ai tempi del Secondo Reich e anche prima. Le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, le invasioni di paese neutrale, le stragi di civili, anche di bambini, le compivano anche nella prima, non avevano bisogno di aspettare Hitler e il nazismo. Hitler e il nazismo sono un’espressione dell’animo tedesco profondo (accanto ad altri, ben diversi), una sua costante, non un fattore esogeno e transitorio di disturbo, separabile dalla nazione. Nella consapevolezza di ciò, dopo la Prima Guerra Mondiale, i vincitori le imposero dure condizioni economiche, studiate per impedire che risorgesse come potenza militare. Visto che ciò non era bastato, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la si si ridusse molto di dimensioni e la si divise in quattro zone di controllo; ma esistevano piani più radicali per renderla inoffensiva, facendone un paese puramente agricolo.Quasi dimenticavo: durante e dopo la guerra, sovietici e statunitensi sterminarono deliberatamente diversi milioni di civili e di prigionieri tedeschi, trucidandoli o facendoli morire di fame e di stenti. Effetto di queste misure e di queste stragi, è stato di consolidare l’atteggiamento morale condiviso da quel popolo, ossia considerare gli altri popoli come avversari da sottomettere non appena possibile. Con mezzi economici, se non con mezzi militari. Passiamo al Regno Unito. Anche i britannici di oggi continuano i caratteri storici del loro atteggiamento verso l’Europa continentale: Né dentro né fuori, ma meglio fuori che dentro, possibilmente alla distanza giusta per controllare. Nel 2017, faranno un referendum per l’uscita dall’Unione Europea. È però ben possibile che minaccino di farlo allo scopo di ottenere, come già hanno fatto in passato, più vantaggi economici e privilegi dall’Unione Europea, disposta a pagare pur di evitare l’uscita di un membro così insigne, la quale sarebbe una dimostrazione di fallimento dell’Unione Europea stessa, forse l’inizio della sua scomposizione.Ossia, è probabile che da Londra stiano dicendo: Voi, eurocrati predoni e parassiti di Bruxelles e Strasburgo, se volete continuare a fare i vostri comodi, se volete che non rompiamo il vostro giocattolo, la vostra macchina da soldi, pagateci. La Francia mantiene costante la sua identità e fierezza nazionale, la sua forza militare e nucleare indipendente, la sua politica razionalmente egoista anche se spesso ingenua, come dimostrato dagli esiti del suo asse con la Germania, con cui i suoi nani politici si illudevano, e illudevano la gente, che la Francia potesse condividere con questa il dominio sull’Europa, anziché restare al guinzaglio finanziario delle sue banche. Dell’Italia, paese senza peso internazionale, anzi ormai sostanzialmente governato dall’esterno, con oltre vent’anni di ininterrotta decadenza funzionale alle spalle e la mafia come mentalità e metodo della sua politica e della sua burocrazia, non serve dire molto: per un paese appena efficiente, l’unirsi ad essa sarebbe autolesionismo. Quanto puerile idealismo necessita, quanto bisogna… spinellarsi, per credere oggi che da questi presupposti di fatto possa nascere un’Europa unita, se non attraverso la violenza, la coercizione e la sopraffazione? Ma se questo è il progetto degli illuminati architetti che hanno congegnato e calato dall’alto questo ordinamento europeo e questa moneta unica con le sue regole di bilancio, allora proprio la Germania, la patria dei Lager e dei campi di lavoro forzato, è il suo vero e immancabile strumento di realizzazione. Euro macht frei.(Marco Della Luna, “L’Europa è solo un’espressione germanica”, dal blog di Della Luna del 30 maggio 2015).L’Italia è solo un’espressione geografica e l’Europa è solo un’espressione germanica: euro macht frei. L’Unione Europea e l’euro vennero spacciati come strumento per unificare i paesi europei. L’effetto è opposto. I paesi mediterranei, pieni di debiti e di disoccupati, dopo aver ceduto gli asset migliori, vengono spinti verso il Terzo Mondo, mentre il Terzo Mondo, sui barconi, viene spinto dentro di essi. La separazione tra nord e sud d’Europa viene resa sempre più dura e insuperabile. Zero solidarietà e zero veduta d’insieme. Menefreghismo totale e compiaciuto: i paesi nordeuropei si stanno costruendo il loro subcontinente coloniale per trarne mano d’opera e lavorazioni a buon mercato. L’idea di unificazione europea era assurda sin dall’inizio: bastava guardare alle costanti storiche delle principali nazioni europee che dovevano unificarsi, per predire che questo progetto era irrealizzabile. E che, se realizzato, avrebbe portato a un incrocio tra una polveriera come la Jugoslavia unita e una palude malata come l’Italia unita.
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Mosler: salvi col deficit all’8%, ma Berlino vi vuole morti
Le nostre idee sono arrivate a Obama, quando sono stato candidato al Senato in Connecticut, nel 2010, proponendo una riduzione o un’eliminazione del cuneo fiscale. Del resto, la tassazione sulla busta paga è l’imposta più regressiva che abbiamo negli Usa e l’argomento è quindi efficace. Scrissi alcuni articoli e feci alcune apparizioni televisive, e Jamie Galbraith, consigliere di Obama, cominciò a riprendere i nostri contenuti pubblicamente. L’idea suscitò anche l’interesse dell’amministratore delegato della General Electric, Jeffrey Immelt, e poi quello di Troy Nash, un altro degli assistenti di Obama. E così il taglio del cuneo fiscale è diventato legge. Si tratta di un taglio minimo, del 2%, ma importante, anche perché è uno dei pochi provvedimenti bipartisan. Questa misura ha contribuito ad alimentare la crescita negli Stati Uniti, che ha subìto poi un sostanziale rallentamento nel momento in cui il governo ha voluto iniziare a ridurre il deficit pubblico.Nell’area Euro i trattati rendono difficili, se non impossibili gli investimenti e l’ampliamento del welfare. Manca la volontà politica. Ed è un peccato, perché basterebbe decidere di aumentare il vincolo di rapporto col Pil dal 3 per cento all’8. Senza altre variazioni nella struttura delle istituzioni Ue, la disoccupazione diminuirebbe e la crescita potrebbe arrivare anche al 4%. Non è una strada che piace alla Germania, però. La Germania ha un problema del tutto ideologico, persino filosofico. Gli intellettuali progressisti hanno a lungo visto nell’Unione Europea una via maestra per il rifiuto delle politiche regressive di stampo nazionalista. Sfortunatamente chi governa oggi questa istituzione ha sviluppato un’agenda economica fortemente regressiva, di destra. Uscirne tuttavia significa esporsi, appunto, ad un alto rischio di crescita del nazionalismo. La sfida è capire quale fra tutte le possibili strade sia meno “di destra” rispetto alle altre.Restando nell’Eurozona, se vi fosse la volontà politica di fare qualunque cosa di diverso rispetto alle politiche attuali, allora bisognerebbe puntare ad incrementare il deficit. Le istituzioni europee credono che agire sui tassi di interesse migliori l’economia e che le riforme strutturali consentano di aumentare l’occupazione. Non è così. L’euro a due velocità? Ancora una volta, credo manchi la volontà. I politici sono stati trasformati in esattori delle tasse: non hanno nessuna prospettiva economica. E in Italia non hanno nessun interesse, al governo sono totalmente passivi. Qualcuno mi ha chiesto quale politica economica abbia in mente Renzi: ho risposto che non ne ha una! E come lui, però, nessuno, in Europa. Manca la logica. Ad esempio: mettiamo che voi crediate realmente che in Grecia siano tutti pigri e nessuno abbia voglia di lavorare. Anche se voleste punirli, che senso ha creare politiche in cui gli stessi greci sono messi nelle condizioni di non poter più lavorare?Credo che il tasso di cambio dell’euro si rafforzerà molto e la Germania vedrà le esportazioni nette deteriorarsi. Non c’è nulla che siano in grado di fare. Sono impotenti. Sarà una distruzione della società fondata sulla deflazione e l’apprezzamento della valuta. Nei sei mesi scorsi l’euro è sceso temporaneamente, perché le banche centrali mondiali hanno reagito al Quantitative Easing e hanno iniziato a vendere grandi quantità di euro; questo processo però terminerà. Ora che l’euro tornerà a crescere, cosa faranno? Non gli resta nulla.(Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a “Left” per l’intervista “In Germania un problema ideologico, persino filosofico”, pubblicata il 23 maggio 2015 e ripresa dal blog “Vox Populi”)Le nostre idee sono arrivate a Obama, quando sono stato candidato al Senato in Connecticut, nel 2010, proponendo una riduzione o un’eliminazione del cuneo fiscale. Del resto, la tassazione sulla busta paga è l’imposta più regressiva che abbiamo negli Usa e l’argomento è quindi efficace. Scrissi alcuni articoli e feci alcune apparizioni televisive, e Jamie Galbraith, consigliere di Obama, cominciò a riprendere i nostri contenuti pubblicamente. L’idea suscitò anche l’interesse dell’amministratore delegato della General Electric, Jeffrey Immelt, e poi quello di Troy Nash, un altro degli assistenti di Obama. E così il taglio del cuneo fiscale è diventato legge. Si tratta di un taglio minimo, del 2%, ma importante, anche perché è uno dei pochi provvedimenti bipartisan. Questa misura ha contribuito ad alimentare la crescita negli Stati Uniti, che ha subìto poi un sostanziale rallentamento nel momento in cui il governo ha voluto iniziare a ridurre il deficit pubblico.