Archivio del Tag ‘rottamazione’
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Magaldi: guerra al rigore, o Renzi è finito. E attorno, il nulla
Matteo, ripensaci: hai un’ultima chance, azzerare il renzismo sbruffone e prendere il toro per le corna, cioè mandare a quel paese Bruxelles e archiviare l’austerity. Parola di Gioele Magaldi, all’indomani delle elezioni siciliane che hanno fotografato la peggiore Italia possibile, elettoralmente parlando: da una parte la vecchia nomenklatura berlusconiana dell’isola, e dall’altra l’inconcludenza velleitaria dei 5 Stelle. Ultimo della fila, ridotto all’irrilevanza, un Pd in aperto declino, affossato dal “pesce lesso” Gentiloni, mentre l’ex rottamatore – fischiato a ogni stazione, nel suo surreale tour ferroviario – corre a rifugiarsi da Obama (altro perdente di successo, visto chi siede oggi alla Casa Bianca). «Su quale pianeta vive, Matteo Renzi? Possibile che non capisca che gli italiani stanno male, che le loro condizioni economiche stanno precipitando?». Si metta d’accordo con se stesso, l’ex primo ministro: qual è il vero Renzi? «Non c’è traccia, nella sua azione politica, delle lodevoli idee che pure ha espresso nel suo ultimo libro, “Avanti”, in cui se la prende giustamente col “pensiero unico” che ha condotto all’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione».Reduce da un convegno del Movimento Roosevelt proprio sulla revisione della Carta costituzionale (con un’idea su tutte: rendere obbligatoria la piena occupazione, per legge), Magaldi – ai microfoni di “Colors Radio” – ragiona con David Gramiccioli sull’infelice momento della politica italiana. In Sicilia non ha votato neppure un elettore su due, il che la dice lunga sulla fiducia degli italiani verso i partiti – incluso il Movimento 5 Stelle, che anche sull’isola (come a Roma) non è andato oltre la promessa di una politica pulita, senza corrotti né privilegi di casta. Il centrodestra? «Musumeci sarà anche la brava persona che si dice, ma i siciliani già conoscono il personale politico berlusconiano che ha a lungo governato la Sicilia». Inutile parlare della sinistra ufficiale: non va oltre la testimonianza di Claudio Fava, «che peraltro si è segnalato per una proposta di legge discriminatoria come quella che chiede di vietare ai massoni gli incarichi pubblici, fingendo di non sapere che era massone persino Meuccio Ruini, il padre della “commissione dei 75” che diede vita alla Costituzione democratica. Piuttosto, è evidente la voragine rappresentata dall’auto-affondamento del Pd, abbandonato al suo destino da un Renzi «che forse non sa che si sta bruciando le ultime carte».Tanta attenzione per Renzi, da parte di Magaldi, è presto spiegata: «E’ stato un leader vero, con grandi potenzialità e doti di comunicazione». Il problema? «Si è limitato a vendere fumo, senza capire che anche gli italiani dopo un po’ si stancano, di essere presi giro». Il guaio è che, via Renzi, chi altro c’è in campo? Nonno Silvio? Grillo, che continua a non spiegare come governerebbe l’Italia? Il futuro è nuvoloso: il Rosatellum è fatto apposta per costruire l’ennesimo inciucio e mandare a Palazzo Chigi un’altra comparsa, stile Gentiloni. «Ma Renzi non si illuda: se adesso non compie una svolta, una precisa scelta di campo, finirà ben presto anche la sua leadership, la sua carriera politica». Cosa dovrebbe fare? «L’ha scritto nel suo libro: mettere fine al rigore, alla “dittatura” del pensiero unico, senza timore di scontrarsi – ma per davvero – con la Merkel e con Draghi». A differenza di Bersani, Renzi il pareggio di bilancio non l’ha votato: non era ancora in Parlamento, all’epoca. «E se la rimozione del pareggio di bilancio l’avesse inserita nel quesito referendario del 4 dicembre scorso, probabilmente Renzi non l’avrebbe perso, quel referendum». Un appello ad personam: ne vogliamo riparlare, Matteo?Nonostante tutto, Magaldi considera Renzi un vettore potenziale di buona politica: l’unico teoricamente in campo, a patto che – per la prima volta – si decida a fare sul serio. «Temo che viva in un’altra dimensione e non si renda conto dello stato di crisi in cui versa l’Italia», sostiene il presidente del Movimento Roosevelt. Dov’era, Renzi, negli ultimi anni, quando il “pensiero unico” (il rigore di bilancio) divorava l’economia del paese? «Stava a Palazzo Chigi, da dove si è limitato a partorire il Jobs Act, che anziché aggredire la disoccupazione ha semplicemente aggravato la precarizzazione del lavoro». Ora scrive che il “nemico vero” è a Bruxelles? «Benone, ma ci dimostri che non sono le solite chiacchiere. Finora è andato dalla Merkel a baciarle l’anello. E ha chiesto, invano, di essere accolto dei circuiti della massoneria sovranazionale di stampo reazionario, quella contro cui noi ci battiamo». Piccola profezia: se non scende in campo finalmente dalla parte giunta, il politico Matteo Renzi è praticamente finito. «Ricorda Tremonti, che nei libri tuonava contro il neoliberismo ma poi, nei summit internazionali, restava in silenzio». Se la sente, l’ex rottamatore, di passare dalle parole (di un libro) ai fatti?Matteo, ripensaci: hai un’ultima chance, azzerare il renzismo sbruffone e prendere il toro per le corna, cioè mandare a quel paese Bruxelles e archiviare l’austerity. Parola di Gioele Magaldi, all’indomani delle elezioni siciliane che hanno fotografato la peggiore Italia possibile, elettoralmente parlando: da una parte la vecchia nomenklatura berlusconiana dell’isola, e dall’altra l’inconcludenza velleitaria dei 5 Stelle. Ultimo della fila, ridotto all’irrilevanza, un Pd in aperto declino, affossato dal “pesce lesso” Gentiloni, mentre l’ex rottamatore – fischiato a ogni stazione, nel suo surreale tour ferroviario – corre a rifugiarsi da Obama (altro perdente di successo, visto chi siede oggi alla Casa Bianca). «Su quale pianeta vive, Matteo Renzi? Possibile che non capisca che gli italiani stanno male, che le loro condizioni economiche stanno precipitando?». Si metta d’accordo con se stesso, l’ex primo ministro: qual è il vero Renzi? «Non c’è traccia, nella sua azione politica, delle lodevoli idee che pure ha espresso nel suo ultimo libro, “Avanti”, in cui se la prende giustamente col “pensiero unico” che ha condotto all’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione».
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Elezioni irrilevanti: dopo, avremo il solito Governo dei Proci
Prepariamoci: non cambierà niente, in Italia, dopo le elezioni. L’ultima volta s’è votato nell’ormai remoto 2013. Un match concluso con la “non vittoria” di Bersani, la flessione del Cavaliere (bombardato dalla filiera mediatica Nato-Ue) e la squillante ma pletorica affermazione dei 5 Stelle. Risultato: governicchi di compromesso (da Letta a Gentiloni) intervallati dalla meteora Renzi, il finto rivoluzionario rottamatore, ben attento a non disturbare il vero manovratore finanziario, atlantico, europeo. Ora siamo alla parità perfetta di tre blocchi elettorali, ma sempre in assenza in proposta politica: nessuno si candida a sbloccare la situazione di crisi, innanzitutto economica e democratica. «Dato che abbiamo tre poli politici – Pd, M5S, Centrodestra – ciascuno vicino al 30%, consegue che, probabilmente, col sistema elettorale attuale (e non vi è impegno di mutarlo), frutto del lavoro della Corte Costituzionale su leggi elettorali incostituzionali, dopo le imminenti elezioni politiche semplicemente non ci potrà essere una maggioranza uscita dalle urne, un governo che sia espressione democratica», scrive l’avvocato e saggista Marco Della Luna, che teme l’avvento del “governo dei Proci”, i saccheggiatori di Itaca.«Un governo dovrà però esser formato in ogni caso, perché lo esigono i “mercati”(=lobby bancaria) come condizione per continuare a comperare i buoni del Tesoro», scrive Della Luna sul suo blog. Quindi, aggiunge, questo nuovo governo post-elettorale «lo si formerà grazie all’intervento dei soliti “responsabili” – forse mediante un’alleanza tra Berlusconi e Pd (=lobby bancaria), col sostegno di Mattarella, dell’“Europa” (=lobby bancaria), dell’Eurogruppo (=lobby bancaria), del Fmi (=lobby bancaria)». Morale: «E’ il trionfo dei Proci, che saccheggiano Itaca e il palazzo di Odisseo approfittando della sua assenza e tramando affinché non tornasse più sul trono». Tradotto: sarebbe «la cuccagna della partitocrazia italiana, di questi partiti consistenti in coalizioni di comitati di affari per il saccheggio delle risorse pubbliche». Mano libera, ai “Proci”, grazie a «due leggi elettorali incostituzionali di fila», nonché «un Parlamento eletto incostituzionalmente». Fattori che «garantiscono che il popolo non possa scegliere chi governa». E così, «la partitocrazia si ritrova in una situazione che neutralizza gli elettori e lascia pertanto le segreterie partitocratiche (=coordinamenti dei comitati di affari) padrone di negoziare tra loro stesse le più opportune e redditizie lottizzazioni».Tutto questo, aggiunge Della Luna, avverrà «sopra la testa della gente, creando governi servili agli interessi non-italiani dominanti in Europa e in generale in Occidente». Interessi, dice, a cui la palude italiana «continuerà ad appoggiarsi», per ottenere «sostegno e legittimazione», aspetti necessari a «portare avanti le sue pratiche ladresche e di svendita degli interessi nazionali». Se Della Luna non usa toni diplomatici, è difficile non convenire sulla serietà dei rischi che paventa: la Germania è alle prese con i primi incubi (il malessere incarnato da Afd per un’economia asimmetrica, votata all’export e basata sulla compressione di salari e consumi) ma per ora continua a dormire tra due guanciali, la Cdu e l’Spd, così come la Francia che – dopo il sedativo Hollande, strattonato dal super-potere oligarchico – ha scelto direttamente l’originale: Macron è un prodotto fabbricato in vitro e orgogliosamente rivendicato come tale dal suo padrino Jacques Attali, eminente supermassone reazionario, tra i massimi guru ispiratori dell’architettura neo-artistocratica, antipopolare e antidemocratica chiamata Unione Europea. E in questa situazione, con l’economia appesa ai diktat della Bce e della Bundesbank, l’Italia schiera Di Maio e Berlusconi, Salvini e Renzi, Bersani e D’Alema. Chi di loro arriverà a Palazzo Chigi? Non importa, è del tutto indifferente, sostiene Della Luna: per l’Italia non cambierà niente.Prepariamoci: non cambierà niente, in Italia, dopo le elezioni. L’ultima volta s’è votato nell’ormai remoto 2013. Un match concluso con la “non vittoria” di Bersani, la flessione del Cavaliere (bombardato dalla filiera mediatica Nato-Ue) e la squillante ma pletorica affermazione dei 5 Stelle. Risultato: governicchi di compromesso (da Letta a Gentiloni) intervallati dalla meteora Renzi, il finto rivoluzionario rottamatore, ben attento a non disturbare il vero manovratore finanziario, atlantico, europeo. Ora siamo alla parità perfetta di tre blocchi elettorali, ma sempre in assenza in proposta politica: nessuno si candida a sbloccare la situazione di crisi, innanzitutto economica e democratica. «Dato che abbiamo tre poli politici – Pd, M5S, Centrodestra – ciascuno vicino al 30%, consegue che, probabilmente, col sistema elettorale attuale (e non vi è impegno di mutarlo), frutto del lavoro della Corte Costituzionale su leggi elettorali incostituzionali, dopo le imminenti elezioni politiche semplicemente non ci potrà essere una maggioranza uscita dalle urne, un governo che sia espressione democratica», scrive l’avvocato e saggista Marco Della Luna, che teme l’avvento del “governo dei Proci”, i saccheggiatori di Itaca.
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Sogni d’oro, Italia: il superpotere Ue festeggia il Rosatellum
Aveva ben presente, l’allora giovane rottamatore Renzi, quale fosse il cuore del problema: metter fine alla sciatteria di una farsa, recitata da partiti impresentabili. Un acquario virtuale, dentro cui c’erano mille sigle ma mancava la bandiera fondamentale, quella dell’Italia: il calpestato popolo italiano, non più sovrano né decentemente rappresentato nelle sue istanze fondamentali. Solo che il Matteo ne ha organizzata un’altra, di farsa – la sua – limitandosi a fingere di rottamare un sistema ingessato, perfettamente funzionale alla grande oligarchia affaristica internazionale, con i suoi terminali nella piccola oligarchia nazionale. E’ stato ferocemente boicottato, Renzi, e poi si è auto-affondato con un referendum sbilenco. Ma intanto gli era già caduta la maschera: il suo dirompente potenziale comunicativo l’aveva sprecato scagliandolo appositamente fuori bersaglio, contro ipotetici mulini a vento (le “auto blu” grillesche, la “casta”, gli “sprechi”), sparacchiando a casaccio contro l’antropologia partitocratica, per poi affrettarsi a svendere gioielli di famiglia (Poste Italiane) mettendosi in coda: ecco, sono io il nuovo feudatario, è con me che dovete parlare per continuare il grande saccheggio. “Sburocratizzare”, è stata la sua parola d’ordine, perfettamente adatta a evitare di sfiorare l’unica vera burocrazia nefasta, quella di Buxelles, da cui l’Italia è intrappolata.Oggi si indignano, i dinosauri dell’Ulivo, di fronte allo spettacolo dell’ultima legge elettorale imposta con la forza, manu militari, arrivando a rimpiangere il Berlusconi del Porcellum, avversato con autentico odio per vent’anni, salvo poi spalancare le porte a Mario Monti, al pareggio di bilancio, al Fiscal Compact, alla legge Fornero sulle pensioni. Non una parola di autocritica dalla sfinge Prodi – demolitore dell’Iri, fanatico supporter dell’euro e del Trattato di Maastricht, presidente della Commissione Europea, super-privatizzatore, advisor europeo di Goldman Sachs. Contro Renzi si agita D’Alema, che vantò il record europeo delle privatizzazioni all’epoca in cui aveva trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank. E sul già famerigerato Rosatellum si abbattono i fulmini dei grillini, ben decisi anche loro – esattamente come Renzi – a non sfiorare nemmeno lo zerbino di Bruxelles, astenendosi da qualsiasi proposta per contrastare la super-oligarchia Ue-Nato, i diktat di Juncker e Merkel, le sanzioni alla Russia, l’infame euro-sistema, le regole intoccabili dell’austerity. Inservibili, anche loro: buoni solo a drenare rabbia, illudendo un elettore su tre di poter votare per il meno peggio. Alla freschezza spontanea di una base di militanti e attivisti è stato imposto un regime di caserma, con ordini impartiti dall’alto ed eseguiti a comando da figure debolissime, come l’avatar Di Maio.Piangono un po’ tutti, per la nuova super-schifezza elettorale, perché sanno di dover recitare – per un riflesso di decenza – almeno l’avanspettacolo del pianto. Ma sono ben contenti di aver rinnovato l’abbonamento a vita alla palude, l’acquitrino dove ciascun nuotatore sa perfettamente che non deciderà nulla, dovendo limitarsi a ratificare scelte adottate fuori dall’Italia. Il nuovo concorso-poltrone, progettato per un potere piccolo e senza idee (quello dei Letta, dei Gentiloni) dimostra solo che l’Italia continuerà a restare innocua e sottomessa, inoffensiva, di fronte ai grandi poteri che si trincerano dietro la Merkel e Macron. Un’Italia inerte, alla deriva nel Mediterraneo, in balia di un equipaggio inaffidabile, mediocre, mercenario. Non uno straccio di idea, di progetto per il paese. Meno tasse e più servizi? Investimenti strategici per uscire dalla cosiddetta crisi? Servono soldi, ma per metterli a bilancio bisogna litigare coi signori dell’Europa. Troppa fatica, troppi rischi. Meglio restare a guardare la nave che lentamente affonda, tenendosi stretti alla poltrona riconquistata con il sotterfugio di una legge elettorale che imbarazza persino chi l’ha imposta. Grasse risate, come al solito, da Parigi a Berlino: sogni d’oro, Italia. Nessuno disturberà il manovratore.Aveva ben presente, l’allora giovane rottamatore Renzi, quale fosse il cuore del problema: metter fine alla sciatteria di una farsa, recitata da partiti impresentabili. Un acquario virtuale, dentro cui c’erano mille sigle ma mancava la bandiera fondamentale, quella dell’Italia: il calpestato popolo italiano, non più sovrano né decentemente rappresentato nelle sue istanze fondamentali. Solo che il Matteo ne ha organizzata un’altra, di farsa – la sua – limitandosi a fingere di rottamare un sistema ingessato, perfettamente funzionale alla grande oligarchia affaristica internazionale, con i suoi terminali nella piccola oligarchia nazionale. E’ stato ferocemente boicottato, Renzi, e poi si è auto-affondato con un referendum sbilenco. Ma intanto gli era già caduta la maschera: il suo dirompente potenziale comunicativo l’aveva sprecato scagliandolo appositamente fuori bersaglio, contro ipotetici mulini a vento (le “auto blu” grillesche, la “casta”, gli “sprechi”), sparacchiando a casaccio contro l’antropologia partitocratica, per poi affrettarsi a svendere gioielli di famiglia (Poste Italiane) mettendosi in coda: ecco, sono io il nuovo feudatario, è con me che dovete parlare per continuare il grande saccheggio. “Sburocratizzare”, è stata la sua parola d’ordine, perfettamente adatta a evitare di impensierire l’unica vera burocrazia nefasta, quella di Bruxelles, da cui l’Italia è intrappolata.
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Rivoluzione colorata: l’imbroglio Macron seppellirà i francesi
Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».L’opinione pubblica, senza eccezioni, «reagisce sostenendo la “rottamazione”: tutto quel che è vecchio è corrotto, mentre tutto quel che è nuovo è giusto e buono», scrive Meyssan. «Tuttavia, non c’erano basi per dimostrare nessuno dei crimini di cui tutti stavano parlando». E’ uno schema, che funziona sempre: «Nelle rivoluzioni colorate precedenti, l’opinione pubblica ci metteva tra i tre mesi (la Rivoluzione dei Cedri in Libano) e i due anni (la Rivoluzione delle Rose in Georgia) prima di svegliarsi e scoprire di essere stata manipolata». L’arte di coloro che organizzano le “rivoluzioni colorate” consiste «nel realizzare senza aspettare un istante tutti i cambiamenti che i loro sponsor intendevano operare nelle istituzioni». Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild, ha annunciato in anticipo le sue intenzoni: riforma d’urgenza del Codice del Lavoro, modifica del Consiglio economico e sociale, dimezzamento del numero degli eletti a tutti i livelli, nonché “moralizzazione” della vita politica. Tutti questi progetti, osserva Meyssan, ricalcano il solco tracciato dalla relazione pubblicata dalla Commissione per la liberalizzazione della crescita francese del 2008, di cui era presidente Jacques Attali, mentre Emmanuel Macron era il vice segretario generale.Il rapporto della Commissione Attali (creata dal presidente Sarkozy) inizia con queste parole: «Questo non è un rapporto, né uno studio, ma un manuale per le riforme urgenti e fondanti. Non è né partisan né bi-partisan: è non partisan». Per quanto riguarda il codice del lavoro, scrive Meyssan, «si punta ad abbandonare il sistema giuridico romano e alla sua sostituzione con il sistema attualmente in vigore negli Stati Uniti: un dipendente e il suo padrone potrebbero così entrare in negoziati bilaterali e concludere un contratto in contrasto con la legge». E il sistema educativo «dovrà produrre studenti bilingui (francese/inglese) già alla fine della scuola primaria». Eppure, aggiunge l’analista, questo cambiamento di paradigma non è mai stato discusso in Francia: «Tutt’al più, è stato evocato durante i dibattiti parlamentari sulla legge El-Khomri/Macron del 2016», detta anche “Loi Travail”, che di fatto “americanizza” la situazione, come il Jobs Act renziano in Italia. E le riforme istituzionali annunciate da Macron? «Nessuna di esse era attesa dai francesi», nonostante una certa insofferenza per «la stratificazione amministrativa (Comuni, Comunità di Comuni, Dipartimenti, Regioni, Stato) e la proliferazione di commissioni inconcludenti».In realtà, sostiene Meyssan, «il presidente Macron avanza indossando una maschera». E spiega: «Il suo obiettivo a medio termine, ampiamente annunciato nel 2008, è quello di abolire Comuni e Dipartimenti. Si tratta di omogeneizzare le collettività locali francesi con il modello già imposto ovunque in altri paesi dall’Unione Europea. L’Eliseo, nel rifiutare l’esperienza storica del popolo francese, considera che possa essere governato come tutti gli altri europei». La riforma del Consiglio economico e sociale, invece, «rimane vaga». Tuttalpiù, «sappiamo che si tratterebbe sia di sciogliere le innumerevoli commissioni inutili, sia di affidargli il dialogo sociale». Aggiunge Meyssan: «Il fallimento di Charles de Gaulle nel raggiungere questo obiettivo nel 1969 ci fa pensare che, qualora questa riforma venisse realizzata, non sarebbe per risolvere un problema, ma per seppellirlo una volta per tutte». In realtà, la proposta di riforma del Codice del Lavoro «priverà questo dialogo del suo oggetto concreto». Nel 1969, ricorda Meyssan, il presidente de Gaulle «si era rassegnato ad abbandonare ancora una volta il suo vecchio progetto di “partecipazione”, cioè di ridistribuzione della crescita del capitale delle imprese tra i loro proprietari e i loro lavoratori», e in cambio aveva proposto «di far partecipare il mondo del lavoro al processo legislativo».Per farlo, de Gaulle aveva pensato di fondere il Consiglio economico e sociale con il Senato, in modo che la Camera Alta riunisse sia i rappresentanti regionali sia quelli del mondo professionale. In particolare, aveva proposto che questa Camera non potesse più redigere essa stessa le leggi, ma che emettesse un parere su ogni testo prima che questo fosse discusso dall’Assemblea Nazionale. «Si trattava dunque di concedere un potere che consisteva in un parere legislativo alle organizzazioni rurali e cittadine, ai sindacati degli operai e del padronato, alle università, alle associazioni familiari, sociali e culturali». Macron si sta muovendo in direzione opposta. Le due priorità che il neopresidente intende perseguire «prima che i suoi elettori si risveglino» possono essere riassunte come segue: «Reggere il mercato del lavoro secondo i principi dell’ordinamento giuridico statunitense; conformare gli enti locali alle norme europee e incistare le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro in un assemblea puramente onorifica. Oltre a cancellare (a vantaggio dei soli capitalisti) qualsiasi traccia proveniente da diversi secoli di lotte sociali, Emmanuel Macron dovrebbe quindi allontanare gli eletti dai loro elettori e scoraggiare questi ultimi dall’impegnarsi nella cosa pubblica».Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».
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Rancore, odiografia dei sinistrati: D’Alema, Prodi, Bersani
Perché a sinistra ci si odia così tanto? Intanto non è una cosa di adesso, ma antica. E ha anche un’origine nobile, quasi prometeica. Essendo nata la sinistra come una forza che voleva cambiare il mondo, ogni dirigente si è sentito sempre interprete di una missione salvifica dell’umanità. Come si arriva dal desiderio di cambiare il mondo alla lotta fratricida? Perché chi sta più vicino a te e non la pensa come te diventa un traditore di questa causa, per cui ti senti più in dovere di combattere chi sta vicino a te, che non chi sta più lontano. E così, da un’origine nobile, ne scaturisce una pratica devastante. Nella sinistra è così fin all’inizio. Il movimento operaio, dalla fine dell’800 in poi, è sempre stato una storia di scissioni, lotte intestine e odi personali. A destra la politica è sempre stata vista in maniera più limitata, non come qualcosa che potesse cambiare la storia delle persone. Mentre nell’utopia folle della sinistra si è pensato che si potesse intervenire dall’alto per cambiare l’umanità. Tentativo sconfitto nel secolo breve, con la tragedia della fine del comunismo. Si è dimostrato che la politica non può cambiare l’uomo.La rivalità più feroce? Nella vicenda che porta dal Pci al Pd, gli odi più forti ci sono stati dentro il Pci. Il rapporto tra Veltroni e D’Alema è esemplare. Anche se devo dire che la rivalità più aspra è stata tra Occhetto e D’Alema. Poi si è trasferita tra D’Alema e Veltroni, perché Occhetto voleva Veltroni come suo successore. Anche se poi D’Alema e Veltroni hanno sempre mantenuto un filo. C’è chi dice che ora vadano d’accordo. Non so. Ma pur nel rapporto conflittuale, hanno sempre conservato una misura, anche per ragioni familiari: le figlie si conoscevano. Poi è arrivato l’Ulivo. Ma l’odio non è passato, anzi. È aumentato. Quando nella storia del Pci-Pds-Ds sono arrivati gli ex Dc, tutto è esploso. D’Alema parlò di “amalgama mal riuscito”. Se tu in un corpaccione così strutturato come quello dell’ex Pci ne innesti un altro, quello democristiano, altrettanto strutturato, è chiaro che non può nascere nulla di buono. Mentre Veltroni e D’Alema avevano una storia comune, con gli ex Dc questo non c’era.Una fusione fredda. Ma c’è un altro elemento che ha pesato. La parte ex comunista era fatta da funzionari di partito, che non hanno altro mestiere. Questo sono D’Alema, Bersani e Veltroni, anche se poi Walter un lavoro se l’è inventato. Mentre tra gli ex Dc c’erano più persone con una professione. Prodi, per dire, non solo ha un mestiere, ma è riverito in mezzo mondo. Non rimane a piedi quando viene emarginato nello scontro politico. Pure Renzi non ha un lavoro, ma ha quarant’anni. È un politico moderno e, come ha detto lui stesso, se smette con la politica può andarsene in giro per il mondo a fare il conferenziere. Prodi e Renzi, in questo senso sono simili: hanno attirato livori profondi. Sono simili, ma diversi. Prodi e Renzi sono di sicuro i leader più importanti della parte ex Dc, quelli che prima hanno egemonizzato poi fagocitato gli ex Pci. Vent’anni fa i comunisti non potevano andare al governo in prima persona, per cui si ritrovarono sotto l’egemonia di Prodi che, però, riuscì a tenere il rapporto con gli ex Pci.Prodi non aveva occupato militarmente il partito. Cosa che ha fatto Renzi, facendoli sbroccare anche dal punto di vista personale. Per questo lo odiano tanto. Renzi è stato ed è ancora considerato un corpo estraneo non perché parla di rottamazione o non nomina D’ Alema commissario, ma perché ha occupato il partito. Tutto ciò ha creato una deriva di rancori personali molto forti. Chi è il più livoroso? La risposta scontata è D’Alema, perché il suo livore è esplicito, ha qualcosa finanche di ingenuo. In Prodi il livore è più sofisticato, gestito in maniera più pretesca: si ammanta di bonomia, ma è più acuminato. Poi è fortissimo anche in Bersani: gli emiliani hanno questa apparente bonomia ma che nasconde un fondo sospettoso, che non lascia prigionieri.(Claudio Velardi, dichiarazioni rilasciate a Elisa Calessi di “Libero” per l’intervista “Odiografia dei sinistrati”, ripresa da “Dagospia” il 3 luglio 2017. Già consigliere politico di D’Alema a Palazzo Chigi, Velardi è il creatore di “Reti” e della Fondazione “Ottimisti e razionali”).Perché a sinistra ci si odia così tanto? Intanto non è una cosa di adesso, ma antica. E ha anche un’origine nobile, quasi prometeica. Essendo nata la sinistra come una forza che voleva cambiare il mondo, ogni dirigente si è sentito sempre interprete di una missione salvifica dell’umanità. Come si arriva dal desiderio di cambiare il mondo alla lotta fratricida? Perché chi sta più vicino a te e non la pensa come te diventa un traditore di questa causa, per cui ti senti più in dovere di combattere chi sta vicino a te, che non chi sta più lontano. E così, da un’origine nobile, ne scaturisce una pratica devastante. Nella sinistra è così fin all’inizio. Il movimento operaio, dalla fine dell’800 in poi, è sempre stato una storia di scissioni, lotte intestine e odi personali. A destra la politica è sempre stata vista in maniera più limitata, non come qualcosa che potesse cambiare la storia delle persone. Mentre nell’utopia folle della sinistra si è pensato che si potesse intervenire dall’alto per cambiare l’umanità. Tentativo sconfitto nel secolo breve, con la tragedia della fine del comunismo. Si è dimostrato che la politica non può cambiare l’uomo.
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Ma il Renzi francese finirà tra i fischi, come quello italiano
Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successive alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honorum della politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la Jp Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e “France Insoumise” nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).No, non era interesse dei media soffermarsi su questi curiosi, ma scomodi, particolari: la loro volontà era piuttosto quella di evidenziare come entrambi incarnino il rinnovamento, la modernità, l’europeismo, l’apertura agli ideali liberali. Soprattutto, si è tentato in Italia di sfruttare la vittoria di Emmanuel Macron per rilanciare Renzi, quasi che l’ex-premier potesse ricevere in dono dal nuovo inquilino dell’Eliseo una seconda vita politica. “L’Espresso” di Carlo De Debenetti è arrivato addirittura a scrivere, lo scorso 5 aprile: «La nuova sfida di Renzi: diventare Macron. L’ex premier guarda al candidato centrista francese. Perché una sua vittoria avrebbe effetti anche in Italia. E gli lancerebbe la volata verso la riconquista di partito e governo». Viviamo, si sa, un’epoca in cui cadono le illusioni sulla democraticità delle nostre istituzioni, un’epoca di massiccia e costante guerra psicologica, un’epoca in cui la razionalità è una merce sempre più rara. Sono tempi in cui si potrebbe leggere sul giornale: “La nuova sfida della frittata: diventare uovo”.Già. Non c’è alcun dubbio che la narrazione dei media su Macron e Renzi sia deliberatamente invertita dal punto di vista cronologico. Non è l’ex-premier italiano che può diventare Macron (perché il momento magico che quest’ultimo ora vive, Renzi lo ebbe nella lontana primavera del 2014), quanto piuttosto è il nuovo presidente francese ad essere probabilmente ossessionato dal triste epilogo dell’ex-presidente del Consiglio. L’Italia, infatti, si colloca rispetto alla Francia un passo in avanti in termini di crisi economica/politica: l’esperienza del giovane “rottamatore” appartiene non al nostro presente, ma al nostro passato, ed è stata brutalmente archiviata il 4 dicembre scorso con la bocciatura del referendum costituzionale. Sono bastati mille giorni (Job Acts, privatizzazioni, inasprimenti fiscali, immigrazione incontrollata, disoccupazione a due cifre, stagnazione economica) perché l’indice di gradimento di Renzi scivolasse sotto il 30% e gli italiani decidessero di sbarazzarsi di lui, ricordando l’infausta promessa “se perdo il referendum, lascio la politica”.Constata l’identità tra l’agenda di Renzi e quella di Macron, è facile prevedere che lo stesso tempo sia sufficiente per annichilire politicamente l’ex-Rothschild: data la maggiore dose di “mercato” che Macron deve introdurre in Francia, l’assenza di un saldo partito di riferimento e la bellicosità della società francese, è addirittura ipotizzabile che l’enfant prodige della politica francese entri in crisi addirittura nel secondo anno di presidenza. Il “Financial Times” a suo tempo descrisse Renzi come “the last hope for the italian élite”: noi possiamo senza alcun indugio descrivere Macron come “l’ultima speranza dell’establishment francese”. Dopo il quinquennio dell’ex-Rothschild, non ci sarà più nessuna presidenza socialista, né centrista, né repubblicana: sarà l’ora delle forze anti-sistema, che si chiamino Front National o con un altro nome, che a guidarle sia ancora Marine Le Pen od un’altra figura. Il pendolo ha ripreso il suo viaggio verso la dissoluzione economica dell’Unione Europea e, in ordine cronologico, sono tre le prossime tappe salienti: il precipitare della situazione italiana, complice anche la prossima instabilità politica; una nuova recessione globale che cova sotto le ceneri; il rialzo dei tassi da parte dalla Fed e/o della Bce. Come direbbero in Francia: nous avons perdu une bataille, on gagnera la guerre!(Federico Dezzani, estratto dal post “La Francia ha scelto il suo Matteo Renzi, e già sappiamo che fine farà”, dal blog di Dezzani dell’8 maggio 2017).Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successive alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honorum della politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la Jp Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e “France Insoumise” nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).
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Harry Potter all’Eliseo: partiti (e cittadini) non servono più
Nei salotti mainstream campeggia la figura del nuovo Harry Potter francese sbucato dal nulla, il maghetto dei miracoli elettorali scaturito come un sortilegio con un’unica missione, sbarrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen per tamponare la falla apertasi nell’euro-sistema dopo la defezione della Gran Bretagna. Umoristi e politologi si cimentano in suggestivi paragoni tra Macron e Renzi, l’uno “senza partito” e l’altro con al seguito il riottoso Pd, come se in Europa i partiti dell’establishment avessero prodotto un leader degno di tale nome, negli ultimi trent’anni. Partiti – tutti – fanatizzati (fronte destro) o infiltrati (fronte sinistro) dall’unico vero potere rimasto in campo, quello – non elettivo, non democratico, non responsabile – del Big Business, multinazionali finanziarizzate, cupole bancarie, retrobottega supermassonici internazionali alle prese, dagli anni ‘80, con le ininterrotte alchimie globaliste, fondate su rivoluzioni invisibili ma inarrestabili: lavoro e consumi, stili di vita, nuove tecnologie e colossali speculazioni, manipolazioni mediatiche e terremoti geopolitici regolarmente pilotati, fino all’abominio (indicibile) dell’auto-terrorismo funzionale alla “guerra infinita” con la sua filiera dell’orrore, dai super-armamenti al subdolo super-spionaggio di massa inflitto agli ignari cittadini, tra email e smartphone.E’ la fotografia – inquietante – che ormai scattano, sul fronte web, gli analisti più critici e pessimisti, allarmati da quello che appare uno scenario quotidiano di guerra, alimentato da crisi continue (economiche, finanziarie, climatiche, demografiche) e devastazioni sempre più dirompenti, di cui l’esodo biblico dei migranti sembra solo la vetta di un iceberg che persino gli osservatori meglio documentati faticano a misurare per intero, data la sua imponderabile vastità, in continua evoluzione. Un terremoto costante, senza più argini da parte di alcuna istituzione: il diritto internazionale sembra un residuato archeologico, smarrito nel feroce caos quotidiano, tra proiezioni, statistiche e “fake news” televisive, dove nessuno sembra in grado allungare davvero lo sguardo nemmeno sul semestre seguente, nell’unica certezza che il potere – quello dei veri decisori – sia lontanissimo, irraggiungibile e neppure coeso, ma dilaniato al suo interno da scontri durissimi. Guerre segrete senza quartiere, di cui al pubblico, qualche volta, può arrivare soltanto l’eco. Nonostante questo, si recita – ancora – lo spettacolo delle elezioni, la democrazia rappresentativa, che sa ancora generare fenomeni di auto-ipnosi fino alla tifoseria, dalla Brexit al referendum italiano, dal voto per la Casa Bianca a quello per la presidenza francese.I soliti esperti si affrettano a dichiarare chiusa la partita, in Francia, con la scontata vittoria di Macron, mentre altri osservatori – come il direttore di “Limes”, Lucio Caracciolo – preferiscono la prudenza: messi insieme, i due candidati antisistema (Le Pen e Mélenchon) sono il “primo partito” francese, e non è detto che i grandi sconfitti del primo turno riescano a far convergere i loro voti sul “maghetto” dei Rothschild. Che cosa poi riuscirebbe davvero a fare la Le Pen, se eletta, non è dato immaginarlo. Se non altro, il suo Front National è un super-partito a tutto tondo, tradizionale, fatto di sezioni e votazioni congressuali. Un “luogo della democrazia” dove il consenso cresce per gradi, confrontando opzioni e programmi. Cioè esattamente quello che è andato scomparendo altrove, dall’ectoplasma post-politico del Pd renziano fino all’estremo esperimento “apartitico” di Macron, che celebra l’estinzione definitiva dell’entità-partito come ponte, teorico e pratico, tra il cittadino e l’istituzione. Sembra il compimento del Vangelo di Lewis Powell, 1971: svuotare la democrazia per demolire la sinistra dei diritti sociali, da cui l’azione della Trilaterale e i cantori della “crisi della democrazia”. Un piano inclinato, inesorabile: la Guerra del Golfo, e l’11 Settembre, il Medio Oriente trasformato in inferno per profughi. Fino alla follia della guerra con la Russia, subita da un’Europa letteralmente frastornata, messa in croce dall’Eurozona.Rassegnatevi: i partiti non servono, non serviranno più. E’ il messaggio che proviene dal mezzo successo francese di Macron. Mettetevi l’anima in pace: è finita per sempre l’epoca delle assemblee, dei delegati. E’ già nella spazzatura della storia, insieme ai sindacati. E in Italia, la presunta alternativa in campo – il Movimento 5 Stelle – è guidato da un leader che licenzia chiunque non gli piaccia. Non è mai stato celebrato un solo congresso. Le periodiche votazioni, che pure avvengono, si svolgono online. E chi partecipa può scegliere solo in base a un menù predefinito, a monte, da un vertice-fantasma che nessuno ha eletto. L’avatar Macron è il futuro che ci aspetta? Certamente sì, scommettono i più esasperati, se i cittadini non si decidono a riappropriarsi della loro sovranità essenziale, fondata sulla partecipazione. Gli strumenti di ieri sono tutti caduti, archiviati, rottamati. Per contro, cresce la frustrazione degli esclusi, che sospettano di essere ormai la grande maggioranza. Un vastissimo popolo, ancora immobile. Strattonato dalle crisi a testata multipla – lavoro, sicurezza – e intimidito ogni giorno da notizie spaventose, attentati, previsioni angoscianti. La scomparsa del futuro è ormai spacciata per normalità. Il calcio tiene ancora banco, più che mai. E nelle tabaccherie furoreggia il Superenalotto. C’è chi sostiene che i grandi decisori siano inquieti, che temano la rabbia dei delusi, elettoralmente espressa dai cosiddetti populismi. Ma basta fare un giro su Facebook, su WhatsApp, per scoprire che non ci sono rivoluzioni culturali in vista.Nei salotti mainstream campeggia la figura del nuovo Harry Potter francese sbucato dal nulla, il maghetto dei miracoli elettorali scaturito come un sortilegio con un’unica missione, sbarrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen per tamponare la falla apertasi nell’euro-sistema dopo la defezione della Gran Bretagna. Umoristi e politologi si cimentano in suggestivi paragoni tra Macron e Renzi, l’uno “senza partito” e l’altro con al seguito il riottoso Pd, come se in Europa i partiti dell’establishment avessero prodotto un leader degno di tale nome, negli ultimi trent’anni. Partiti – tutti – fanatizzati (fronte destro) o infiltrati (fronte sinistro) dall’unico vero potere rimasto in campo, quello – non elettivo, non democratico, non responsabile – del Big Business, multinazionali finanziarizzate, cupole bancarie, retrobottega supermassonici internazionali alle prese, dagli anni ‘80, con le ininterrotte alchimie globaliste, fondate su rivoluzioni invisibili ma inarrestabili: lavoro e consumi, stili di vita, nuove tecnologie e colossali speculazioni, manipolazioni mediatiche e terremoti geopolitici regolarmente pilotati, fino all’abominio (indicibile) dell’auto-terrorismo, funzionale alla “guerra infinita” con la sua filiera dell’orrore, dai super-armamenti al subdolo super-spionaggio di massa inflitto agli ignari cittadini, tra email e smartphone.
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Mediobanca: nessuno peggio di UnipolBanca oggi in Europa
«Questo non è uno scoop», premette Paolo Barnard, che però prende nota di «cosa pensano i nipotini di Enrico Cuccia, a Mediobanca, della banca più marcia d’Europa, per non parlare d’Italia». Tutto questo è «divertente», perché così uno «impara cosa davvero sta dando coliche seriali ai vertici del Pd, e non sono Renzi, Bersani o Grillo: è Unipol Banca, cioè il disastro finanziario più irrimediabile del Belpaese». In premessa, il giornalista fa una precisazione “per la zia Marta”, ricordando che le grandi banche si dividono in due categorie: quelle di tipo A, «pericolose per risparmiatori e correntisti (quasi tutte)», e quelle di tipo B, «definite come pericolo “sistemico”», e cioè «banche talmente grandi che, se falliscono, si portano dietro uno o due continenti». In Italia, aggiunge Barnard, «la banca “sistemica” più fallita è Unicredit, sprofondata all’ultimo posto in Ue dopo Hscb, Bnp, Ing, Swedbank, Ubs, Lloyds, Commerzbank, Deutsche Bank, Intesa, Credit Suisse e tutte le altre». Ma, torniamo alle banche del gruppo A, quelle dove «ci smenano» i piccoli risparmiatori, le famiglie e le piccole e medie aziende, Mediobanca ne cita addirittura 114. E «ci dice che la più rottamata, la più marcia, la più pezzente è appunto Unipol Banca».
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Se l’Italia cambia padrone, qualcuno la sta “sovragestendo”
«Matteo Renzi è un politico finito. Ha deluso tutti, non ha mai rispettato la parola data: a Bersani, Letta, Berlusconi». Ora ha anche tradito l’impegno preso con gli italiani, a cui aveva promesso di sparire dalla circolazione in caso di sconfitta al referendum. Che il “rottamatore” fosse al capolinea lo diceva, prima ancora del 4 dicembre, l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina oscuri retroscena del potere italiano, «sovragestito dalla P1», struttura-ombra (mai denunciata da nessun altro) che sarebbe il vero “dominus” delle trame di palazzo, attraverso personaggi come il politologo americano Michael Ledeen, che Carpeoro presenta come esponente di vertice della super-massoneria reazionaria, anche affiliato al B’nai B’rith, cellula massonica super-segreta controllata dal Mossad. Per Carpeoro, Ledeen avrebbe “gestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». La tesi dell’avvocato: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone».Cambiano i musicisi, non la musica. Renzi? «Pur dicendosi “di sinistra” ha bussato per anni, inutilmente, alle porte della super-massoneria conservatrice», afferma Gioele Magaldi, autore del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”. Non gli è stato aperto: «Persino Napolitano si è rifiutato di fargli da garante». Ora, sembra arrivato l’avviso di sfratto: per via giudiziaria, tanto per cambiare. «Via Renzi, è già pronto Di Maio», diceva Carpeoro, mesi fa. Alla luce degli ultimi sviluppi, in effetti, suona meno “strano” l’improvviso voltafaccia di Grillo al Parlamento Europeo, con il rocambolesco abbandono di Farage dopo la vittoria sulla Brexit per tentare di approdare al gruppo centrista pro-euro, in cui milita Mario Monti. Come se il capo dei 5 Stelle avesse voluto inviare un segnale chiarissimo di “affidabilità”, rispetto al vero potere che gestisce l’Europa, l’economia, la finanza. Altro dettaglio, fondamentale: nel “MoVimento”, chi dissente è perduto: condannato alla pubblica esecrazione, e persino – se cambia casacca – invitato a pagare una penale.Impossibile coltivare idee diverse da quelle del Capo: è dunque un esercito di terracotta, quello che domani – tramontato Gentiloni – potrebbe prendere in mano il governo del paese? Tiene ancora banco il refrain dell’“uno vale uno”, ma – beninteso – ammesso che sia allineato con l’unico, vero Numero Uno. In libri come “Il golpe inglese”, scritto con Mario Josè Cereghino, il giornalista Mario Fasanella sostiene che l’Italia sia sempre stata “sovragestita” da poteri esterni, stranieri, economici e finanziari. Lo stesso Jobs Act, rivela Paolo Barnard, è stato scritto – due anni prima dell’adozione, da parte di Renzi – dalla potentissima “Business Europe”, think-tank che “detta le leggi” alla Commissione Europea. L’Italia politica è nel caos: il Pd si spappola, Renzi è sotto attacco (il padre indagato, nell’inchiesta che sta coinvolgendo il ministro Lotti e altri renziani) e i 5 Stelle che serrano i ranghi, dichirando guerra al dissenso interno: come se si stesse avvicinando una grande burrasca (le elezioni francesi, la Le Pen, l’euro che vacilla insieme all’Ue). Serviranno “soldati”, addestrati a obbedire? E nel caso, a chi? Chi sta “sovragestendo”, oggi, la palude italiana?«Renzi finirà asfaltato dai No, e il suo successore lo stabilirà il Vaticano», disse, mesi prima del referendum, il “profeta” Rino Formica, già ministro socialista nella Prima Repubblica. Bingo: Paolo Gentiloni è discendente della famiglia dei conti Gentiloni Silveri, “nobili di Filottrano, Cingoli e Macerata”, storicamente al servizio della Santa Sede. Dai media mainstream, sempre lontani anni luce dalle “fake news” (leggasi: notizie scomode) contro cui si sta abbattendo l’offensiva di Laura Boldrini (una legge speciale per imbavagliare il web, come se già non esistessero leggi a tutela dei cittadini diffamati), è impossibile ricavare analisi di scenario, oltre alla piccola agenda tattica di partiti e leader. Chi sta “sovragestendo” il paese, oggi, a parte il Vaticano che sicuramente “apprezza” Gentiloni? Carpeoro è pessimista: «Non emerge un piano-B che contesti l’attuale sistema, in base al quale, perché noi si stia meglio, qualcuno deve per forza stare peggio». Unico spiraglio: «La base elettorale dei 5 Stelle, animata da forti motivazioni etiche».Più ottimista invece Magaldi, che dopo aver segnalato (mai smentito da nessuno) la presenza di D’Alema, Napolitano, Monti e Padoan nella super-massoneria oligarchica, responsabile della globalizzazione antidemocratica, privatizzatrice e mercantilista, oggi scommette sul collasso del Pd, che «darebbe fiato a nuove istanze progressiste e democratiche finalmente autentiche», archiviata la “finta sinistra” che ha svenduto il paese ai potentati economici stranieri precipitando l’Italia in questa crisi senza fine. Troppo ottimista, Magaldi? Da più parti si fa notare il ritorno della “giustizia a orologeria” denunciata per anni da Berlusconi: l’inchiesta che lambisce Renzi coincide alla perfezione con il calendario della condanna in primo grado dell’alleato Verdini. Sembra un messaggio all’ex premier, mai accolto nel “salotto buono” in cui siedono molti altri italiani, da Mario Draghi a Emma Marcegaglia. Il caos cresce, e del Piano-B (restituire sovranità finanziaria a un governo finalmente eletto, autorizzato a investire denaro pubblico per produrre occupazione) non c’è neppure l’ombra.«Matteo Renzi è un politico finito. Ha deluso tutti, non ha mai rispettato la parola data: a Bersani, Letta, Berlusconi». Ora ha anche tradito l’impegno preso con gli italiani, a cui aveva promesso di sparire dalla circolazione in caso di sconfitta al referendum. Che il “rottamatore” fosse al capolinea lo diceva, prima ancora del 4 dicembre, l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina oscuri retroscena del potere italiano, «sovragestito dalla P1», struttura-ombra (mai denunciata da nessun altro) che sarebbe il vero “dominus” delle trame di palazzo, attraverso personaggi come il politologo americano Michael Ledeen, che Carpeoro presenta come esponente di vertice della super-massoneria reazionaria, anche affiliato al B’nai B’rith, cellula massonica super-segreta controllata dal Mossad. Per Carpeoro, Ledeen avrebbe “gestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». La tesi dell’avvocato: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone».
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Sfratto a Renzi, per via giudiziaria. Il potere vuole i 5 Stelle?
Le vicende giudiziarie che stanno sfiorando Matteo Renzi «sembrano essere lo specchio di una ristrutturazione in corso dei poteri del paese», sostiene “Infoaut”. «Dopo la batosta del 4 dicembre, su cui aveva puntato tutte le sue fiches, Renzi parrebbe essere giudicato sempre più inservibile da ampie parti dell’establishment». Settori di vertice che, «per destabilizzarne la tenuta», ormai «iniziano ad utilizzare lo strumento della magistratura e delle inchieste», strumento «da sempre orientato all’azione politica nell’ottica del riequilibrio del sistema, il più utile a questo genere di operazioni». Renzi rischia di essere toccato dall’inchiesta Consip? «Se ciò accadesse sarebbe davvero difficile reggere ad un colpo del genere», osserva “Infoaut”. «Ma anche se non dovessero emergere relazioni dirette tra padre e figlio, le parole di Marroni (ad di Consip nominato dallo stesso premier) che tirano in ballo l’imprenditore Alfredo Romeo, Tiziano Renzi padre di Matteo e l’imprenditore Carlo Russo riguardo a pressioni indebite sui dirigenti Consip per indirizzare o ottenere appalti lucrosi, sembrano essere un colpo molto duro da incassare».Quantomeno a livello mediatico, continua il newsmagazine dell’area “antagonista” torinese, che dichiara di fornire “informazione di parte”, i piani dell’ex premier impegnato nella corsa del consenso verso le elezioni del 2018 sembrano essere scompaginati. «Mentre nuovi interrogatori dovranno definire la portata reale dei fatti contestati, sembra esserci il caos nelle fila del cosiddetto Giglio Magico, il gruppo di potere che ruota intorno a Renzi. Le sedi di Rignano e Scandicci del Pd sono chiuse, Renzi addirittura effettua un viaggio in Puglia senza avvertire il Pd locale per evitare contestazioni, mentre il fedelissimo Lotti, tirato in ballo nelle carte, frettolosamente si affanna a ribadire la sua onestà e la sua estraneità ai fatti». Intanto, Renzi «viene abbandonato via via da sempre più big del Pd, che dichiarano il proprio appoggio ad Emiliano o Orlando nelle primarie fissate per il prossimo 30 aprile». E se la minoranza del Pd è riuscita finalmente a scindersi, forse «più che indirizzati da motivazioni etico-politiche» Bersani e compagni «sembrano voler scendere dalla nave che affonda, prima che sia troppo tardi».Strano tempismo: «Forse c’è chi aveva fiutato, o sapeva tramite vecchi amici, che dopo il No referendario l’aria che tirava non era delle migliori e ha preso la balla al balzo». A pesare è anche «lo stesso scandalo delle decine di migliaia di nuove tessere in Campania», che aggiunge ombre al «rapporto morboso tra il Pd renziano e ambiti di potere quantomeno oscuri di quei territori». Osserva “Infoaut”: «È interessante notare che l’attacco al sistema Renzi avviene nello stesso momento in cui la giunta Raggi su Roma ha ceduto – perchè di questo si tratta, al di là di come i 5 Stelle stanno abbellendo la vicenda – sulla questione stadio, dopo la messa da parte di Berdini che suonava già come una avances ai palazzinari e agli speculatori locali». Dopo il “no” alle Olimpiadi, e mesi di clamore su ogni minuzia della giunta Raggi, «ora la sindaca romana è praticamente sparita dalla scena, mentre lo scandalo Consip emerge con un timing preciso. Che nel gotha dei poteri economici si stia iniziando ad apprezzare la prospettiva pentastellata, non fosse altro per manifesta inesistenza di alternative credibili?». Ormai le sorprese sono all’ordine del giorno, «e l’attacco giudiziario non sembra essere casuale».Di fronte alla peggiore delle ipotesi dell’accusa (corruzione e nepotismo, con il padre di Renzi che farebbe il “lavoro sporco” per il figlio, pressando il vertice della Consip, l’ente che dispensa i lucrosi appalti pubblici) «la retorica renziana della meritocrazia e della rottamazione si scioglie come neve al sole», conclude “Infoaut”, che traccia un parallelo tra quello che chiama “il sistema Renzi”, le polemiche sul ministro Giuliano Poletti e i torbidi retroscena di Mafia Capitale alle spalle della giunta Marino. Lo stesso Renzi, «pur di assicurarsi la stabilità», non ha esitato a scendere a patti con Denis Verdini, condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino. «Anche questa sentenza arriva a suo modo con un timing preciso, e sembra squalificare dal gioco uno dei potenziali neo-alleati, quantomeno a livello di spostamento di voti e prebende varie, del Pd a guida assoluta renziana». Traduzione: «Un sistema di potere sembra andare in pezzi, quali altri emergeranno?».Le vicende giudiziarie che stanno sfiorando Matteo Renzi «sembrano essere lo specchio di una ristrutturazione in corso dei poteri del paese», sostiene “Infoaut”. «Dopo la batosta del 4 dicembre, su cui aveva puntato tutte le sue fiches, Renzi parrebbe essere giudicato sempre più inservibile da ampie parti dell’establishment». Settori di vertice che, «per destabilizzarne la tenuta», ormai «iniziano ad utilizzare lo strumento della magistratura e delle inchieste», strumento «da sempre orientato all’azione politica nell’ottica del riequilibrio del sistema, il più utile a questo genere di operazioni». Renzi rischia di essere toccato dall’inchiesta Consip? «Se ciò accadesse sarebbe davvero difficile reggere ad un colpo del genere», osserva “Infoaut”. «Ma anche se non dovessero emergere relazioni dirette tra padre e figlio, le parole di Marroni (ad di Consip nominato dallo stesso premier) che tirano in ballo l’imprenditore Alfredo Romeo, Tiziano Renzi padre di Matteo e l’imprenditore Carlo Russo riguardo a pressioni indebite sui dirigenti Consip per indirizzare o ottenere appalti lucrosi, sembrano essere un colpo molto duro da incassare».
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Macron, l’uomo dei Rothschild, non fermerà Marine Le Pen
Tra un po’ salterà fuori la verità sul finto “rottamatore” Emmanuel Macron, ex banchiere della Rothschild & Compagnie. E il 7 maggio, «Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno “le candidat du fric”, il candidato dei soldi», profetizza Federico Dezzani: «Come insegna la parabola di Matteo Renzi, il primo contatto di questi leader di cartapesta con l’elettorato in rivolta è spesso anche l’ultimo». Si surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta unica. Il punto di svolta saranno le presidenziali che si apriranno il 23 aprile in un paese «sempre meno “motore” dell’Unione Europea e sempre più europeriferia». L’elettorato è in rivolta, come già dimostrato dalle primarie del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il “filo-russo” François Fillon. «Per scongiurare un ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen, l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il repubblicano con uno scandalo mediatico» e lanciando verso il ballottaggio il giovane Macron. Ma «la manovra si basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato», dato che Macron proviene dal gruppo Rothschild: i francesi non si lasceranno incantare.Mentre i falchi tedeschi attaccano Mario Draghi e il governatore della Bce ricorda “l’irrevocabilità” della moneta unica, ammettendo però implicitamente che la sua dissoluzione è nell’ordine delle cose, Angela Merkel ipotizza un’Europa a due velocità per liberarsi dal fardello dell’europeriferia. E il governo italiano («forse bluffando, forse alienato dalla realtà») plaude alle proposte di Berlino, come se l’euro-marco non avesse già relegato l’Italia ai margini dell’Europa. La situazione si fa incandescente, scrive Dezzani nel suo blog: «Messa di fronte al fallimento dell’euro come strumento politico per strappare gli Stati Uniti d’Europa (“nein” tedesco agli eurobond, all’unione bancaria, alla transfer-union), l’oligarchia euro-atlantica ha scelto di arroccarsi, difendendo strenuamente le posizioni dall’avanzata dei “populisti”, ossia dei partititi che catalizzano il malessere della società accumulato in sette anni di eurocrisi». L’apice della tensione sarà certamente toccato nelle elezioni transalpine, dove Marine Le Pen – vicinissima alla vittoria – potrà innescare la dissoluzione dell’Ue. La Francia è un paese-cardine dell’Unione, «è la seconda economia della moneta unica, nonché parte integrante del famigerato “motore franco-tedesco” (da tempo sbiellato)».Il successo dei “populisti” alle prossime presidenziali, dice Dezzani, sancirebbe automaticamente la fine dell’euro e delle istituzioni di Bruxelles, con buona pace delle pretese di irrevocabilità dell’euro ed i sogni di Angela Merkel di un’Europa a più velocità. «Il giorno dopo la vittoria dei populisti francesi, l’Unione Europea arriverebbe al capolinea, imboccando la strada della disgregazione, forse concordata, ma più probabilmente caotica». Da tempo la situazione sta precipitando, con «un capo dello Stato, François Hollande, tra i più impopolari della Quinta Repubblica», poi «un debito pubblico che è lievitato dal 60% al 100% del Pil da quando è stato adottato l’euro», nonché «una bilancia commerciale in cronico disavanzo e una disoccupazione record, pari al 10% della forza lavoro». Perché la Francia possa rimanere agganciata all’euro, «andrebbe anch’essa sottoposta alle dure ricette dell’austerità e della svalutazione interna». Ma la Francia non è l’Italia: «I cugini d’Oltralpe vantano una lunga storia di rivoluzioni e sono naturalmente inclini a ribellarsi se giudicano lo Stato troppo vessatorio. Lo hanno ricordato il piano di esuberi ad Air France, che per poco non è degenerato in un linciaggio dei dirigenti, e le proteste contro il “Jobs Act” francese», il pacchetto Loi Travail, che ha generato «mobilitazioni di massa di lavoratori e sindacati che hanno portato il paese ad un passo dalla paralisi».Dezzani spiega così l’offensiva terroristica (targata Isis) di cui è stata vittima la Francia: una vera e propria «strategia della tensione», nel tentativo di «sedare l’elettorato e soffocare le pulsioni populiste», rafforzando i «partiti di sistema». Dezzani sottolinea la progressione degli eventi: nell’autunno 2013 Hollande inanella un nuovo record di impopolarità; nella primavera 2014 Manuel Valls è nominato primo ministro; nel gennaio 2015 è inaugurata, con la strage di Charlie Hebdo, la lunga scia di attentati «gestita dalla Dgse», l’intelligence francese, «e dai servizi segreti atlantici (Mossad, Cia, Mi6)». Seguono la carneficina del Bataclan, la strage di Nizza e uno stillicidio di attentati minori con cadenza mensile: «Circa 200 persone muoiono nell’arco di due anni, ed è facile attendersi ancora qualche colpo di coda prima delle presidenziali». Sull’onda della strage di Parigi, è dichiarato lo stato d’emergenza (novembre 2015) e la serie quasi interrotta di attentati permette di protrarlo ad ogni scadenza: «Per la prima volta dalla guerra in Algeria, i francesi voteranno quindi in un contesto di limitazioni alle libertà personali».Ma se gli attentati servano a mobilitare 10.000 riservisti, a ripetere il mantra “la Francia è in guerra” e ad iniettare «effimere dosi di popolarità alla presidenza di Hollande», in realtà i consensi dei principali partiti d’establishment «si squagliano come neve al sole», se è vero che «a distanza di un mese dalla carneficina del Bataclan il Front National si impone come prima forza politica alle regionali del dicembre 2015 e si rafforza la certezza che il Fn conquisterà il ballottaggio alle presidenziali del 2017». Se nel 2002 finì al ballottaggio il fascistoide impresentabile Jean-Marie Le Pen, cosa che spinse anche i socialisti a votare per Jacques Chirac, oggi il Front National è però rappresentato dall’accattivante volto della figlia, Marine Le Pen. E, «complice la grande debolezza dei repubblicani (ancora convalescenti dalla presidenza di Nicolas Sarkozy) e la liquefazione dei socialisti, il partito è ben posizionato per raccogliere voti a destra (sicurezza, lotta all’immigrazione, gaullismo anti-Nato) ed a sinistra (difesa dell’industria nazionale, contrasto all’impoverimento post-euro, attacco ai soliti notabili parigini). Le probabilità di una vittoria del Front National aumentano settimana dopo settimana, concretizzando i peggiori incubi dell’establishment euro-atlantico: dopo Donald Trump alla Casa Bianca, Marine Le Pen all’Eliseo».Marine Le Pen sarebbe «favorevole all’Europa della Nazioni, all’uscita dall’euro ed al ritorno al franco, allo svincolamento della Francia dalla Nato (con il probabile avvallo di Donald Trump) ed a rapporti solidi e proficui con la Russia (da cui ha sinora ricevuto finanziamenti per la campagna elettorale)». Dopo Brexit e Trumo, la vittoria di Marine sarebbe «il colpo di grazia alla già traballante impalcatura Cee-Ue/Nato su cui basa da 70 anni il dominio angloamericano sul Vecchio Continente». Il potere è già corso ai ripari. Ma, puntando su Macron, secondo Dezzani sta sbagliando i suoi conti. Nell’arco di soli tre mesi, «l’oligarchia euro-atlantica ha mutato la strategia in base all’esito delle primarie, passando dall’iniziale scenario “Alain Juppé versus Marine Le Pen” a quello “Emmanuel Macron versus Marine Le Pen”, sacrificando nel mezzo il repubblicano François Fillon, reo di essere troppo filo-russo ed euro-tiepido: è stata una scelta non solo azzardata, ma quasi certamente anche errata, perché le probabilità di vittoria di Marine Le Pen, anziché diminuire come sperato, sono invece paradossalmente aumentate».Ebbene sì, madame Le Pen avrà l’onore di abbattere il Muro di Bruxelles. Convinzione che Dezzani ricava dalla ricostruzione delle manovre in corso in Francia per tentare di fermare la first lady del Front National. Punto di partenza, «l’impopolarità record di François Hollande e il conclamato sfaldamento del partito socialista», condannato all’esclusione dal ballottaggio. L’establishment punta dapprima sul navigato Alain Juppé, più volte ministro, europeista convinto, ostile a Putin. Ma ci sono ostacoli: «Il primo è Nicolas Sarkozy, la cui eliminazione politica è relativamente facile: è sufficiente rivangare i finanziamenti illeciti ricevuti durante la campagna elettorale del 2012 e l’ex-presidente è neutralizzato». Il secondo ostacolo è François Fillon, ultra-liberista ma indigesto all’élite: contrario al Trattato di Maastricht, critico sull’Ue e sulle sanzioni alla Russia. Ma i sondaggi (quelli veri) rivelano che nessuno di questi candidati può farcela, contro Marine Le Pen. Serve un nuovo personaggio, che sembri un outsider: Emmanuel Macron, 38 anni, già ministro dell’economia, fresco di dimissioni. Le probabilità di vittoria, scrive inizialmente “Le Monde”, sono esigue, perché Macron ha intenzione di correre senza l’appoggio di alcun partito tradizionale: il suo progetto è quello di “superare la sinistra e la destra”. «Già, però “Le Monde” dimentica che Macron dispone di qualche solida amicizia nel mondo della finanza: la banca Rothschild, dalle cui fila uscì a suo tempo il presidente Georges Pompidou».A testimonianza della ribellione che serpeggia tra l’elettorato, le primarie del centrodestra incoronano Fillon, che si impone su Juppé. «Considerato che i socialisti sono matematicamente estromessi dal ballottaggio, si figura quindi un singolare duello tra “les amis de Vladimir Poutine”, Fillon e Len Pen. Il colpo incassato dall’oligarchia euro-atlantica è molto duro, forse anche un po’ troppo, considerata la sua successiva mossa che sembra davvero poco lucida: segare le gambe a François Fillon, per portare al ballottaggio il suo “protégé” Emmanuel Macron». Contro Fillon «è scatenato il solito scandalo mediatico-giudiziario, incentrato sui compensi ricevuti dalla moglie, assunta come assistente parlamentare». Fillon denuncia pubblicamente il “colpo di Stato istituzionale” ai suoi danni, ma il battage della stampa martella senza sosta: «Benché non ci sia nulla d’illegale nella condotta di Fillon, sono forti le pressioni perché si ritiri dalla campagna elettorale. L’ex-primo ministro ha recentemente asserito di non voler gettare la spugna, ma è chiaro che la sua corsa verso l’Eliseo è stata gravemente compromessa, a vantaggio dell’astro nascente di queste ultime settimane, l’ex-banchiere Emmanuel Macron».Tra il 2008 ed 20126, Macron, «già pupillo di quel Jacques Attali che contribuì a scrivere il Trattato di Maastricht», ha lavorato infatti presso la Rothischild & Compagnie. «E ci sono pochi dubbi che dietro la sua fulminea ascesa si nasconda la solita oligarchia finanziaria liberal: quella che tira i fili dell’Unione Europea, quella che sogna il cambio di regime in Russia, quella che aveva scommesso tutto su Hillary Clinton, quella che ha portato Bergoglio al soglio pontificio». È così evidente il nesso tra Macron ed i circoli dell’alta finanza, continua Dezzani, che «gli osservatori, specie se italiani, non possono che sorridere, notando le incredibili analogie tra Macron e l’ex-premier Matteo Renzi, a sua volta espressione di Jp Morgan. Entrambi “rottamatori”, entrambi per il superamento della sinistra e della destra (vedi Partito della Nazione), entrambi “ultimo argine” contro i populismi, entrami “europeisti”, entrambi creati artificialmente in laboratorio, con l’auspicio che l’elettore voti “la novità” come compera un detersivo pubblicizzato in televisione. Il motto scelto da Macron per la campagna elettorale, “En marche!”, è addirittura quasi la traduzione de “l’Italia riparte” usato dallo sfortunato Renzi».Basta un mese scarso di campagna elettorale perché si imponga, sui media, il “fenomeno Macron”, «il giovane rottamatore che conquista i cuori e le menti degli elettori grazie ai social network, al sorriso accattivante, al superamento delle ideologie e alla retorica liberal». A cronometro, ai primi di febbraio, «escono (dietro suggerimento dei soliti noti) sondaggi sorprendenti. il sorpasso è avvenuto!». Sicché, il ballottaggio del 7 maggio non vedrà più fronteggiarsi i due filo-russi Fillon e Le Pen, ma l’europeista Macron e la populista Le Pen. E poi, perché fermarsi al ballottaggio? “Francia, sondaggio: Macron 65% al ballottaggio contro Le Pen. Fillon si scusa ma va avanti”, titola il “Sole 24 Ore” il 6 febbraio. «L’ex-banchiere della Rothschild & Compagnie ha già vinto, 65% contro 35! Et voilà! Il voto della prossima primavera è solo una formalità: anche la più grande minaccia per l’impalcatura euro-atlantica è stata scongiurata e l’establishment può tirare un sospiro di sollievo. Ma è davvero così?». Dezzani scommette di no: «Supponiamo che i sondaggi siano effettivamente corretti ed il “rottamatore” Macron conquisti il ballottaggio a discapito di François Fillon, dimezzato dagli scandali. La domanda da porsi è: la banca Rothschild, così facendo, ha ridotto le probabilità di una vittoria finale della populista Le Pen? La risposta è no». Anzi, le chance di una vittoria di Marine Le Pen al ballottaggio sono virtualmente in aumento.Per Dezzani, la strategia dell’oligarchia euro-atlantica sta sbagliando tutto, «ennesimo sintomo dell’incapacità delle élite di leggere la realtà: la stessa incapacità già riscontrata in Italia, dove l’enorme capitale politico di Matteo Renzi è stato dilapidato in soli tre anni, fino all’esaurimento totale con la sconfitta referendaria del 4 dicembre». In un ballottaggio tra François Fillon e Marine Len, giocato tutto alla destra dell’arena politica, il candidato repubblicano aveva (e forse ha) qualche possibilità di successo, perché «in grado di intercettare i voti dei socialisti e del centro, sommandoli a quelli dell’Ump/repubblicani». Con Fillon, «l’opinione pubblica avrebbe percepito il ballottaggio come una sfida tra due “outsider”, rendendo più difficile al Front National catalizzare il voto anti-sistema, divenuto sempre più importante in termini numerici». In un ballottaggio tra Macron e la Le Pen, invece, «tutto il bacino della destra francese, repubblicana, gollista e nazionalista (in sostanza i due principali partiti politici), confluisce verso il Front National, aprendo le porte dell’Eliseo a Marine Le Pen con una facilità persino maggiore che in duello con Fillon».Non solo: quel ballottaggio «si configurerebbe anche come una sfida tra “le candidat du fric” (il candidato dei soldi) e la populista, tra l’ex-banchiere dei Rothschild e la candidata che raccoglie i voti nelle periferie, tra i notabili di Parigi ed il resto della Francia. Poteva chiedere di meglio il Front National?». Aggiunge Dezzani: «Azzoppando Fillon e scommettendo tutto su Macron, la banca Rothschild & Compagnie ha in sostanza commesso un clamoroso errore politico, frutto di una valutazione completamente distorta della realtà: non c’era modo migliore che aprire le porte dell’Eliseo a Marine Le Pen che schierarle contro un ex-banchiere d’affari, discepolo di Jacques Attali, ministro dell’economia sotto la presidenza Hollande ed espressione del grande capitale internazionale». In più, «circolano voci di imminenti rivelazioni su Emmanuel Macron, compromettenti notizie sui suoi legami con l’alta finanza e/o con la lobby omosessuale: sarebbe, secondo alcune ricostruzioni, un tentativo della Russia di soccorrere il “proprio candidato”, quella Marine Le Pen che promette di liberare la Francia dal giogo dell’euro e della Nato». Morale: «Il Front National vincerà con alte probabilità le elezioni presidenziali, ma non dovrà sdebitarsi col Cremlino», perché «l’assist più prezioso» le è stato involontariamente fornito dai Rothschild e dal loro “candidat du fric”».Tra un po’ salterà fuori la verità sul finto “rottamatore” Emmanuel Macron, ex banchiere della Rothschild & Compagnie. E il 7 maggio, «Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno “le candidat du fric”, il candidato dei soldi», profetizza Federico Dezzani: «Come insegna la parabola di Matteo Renzi, il primo contatto di questi leader di cartapesta con l’elettorato in rivolta è spesso anche l’ultimo». Si surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta unica. Il punto di svolta saranno le presidenziali che si apriranno il 23 aprile in un paese «sempre meno “motore” dell’Unione Europea e sempre più europeriferia». L’elettorato è in rivolta, come già dimostrato dalle primarie del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il “filo-russo” François Fillon. «Per scongiurare un ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen, l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il repubblicano con uno scandalo mediatico» e lanciando verso il ballottaggio il giovane Macron. Ma «la manovra si basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato», dato che Macron proviene dal gruppo Rothschild: i francesi non si lasceranno incantare.
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Grillo, Togliatti, l’Europa. E la marea degli elettori (grillini)
C’è qualcosa di sinistro, in quello che sembra il suicidio programmato del Movimento 5 Stelle, dopo il boom elettorale del 2013 che aveva punito l’esanime Bersani e lo stra-rottamato Berlusconi, entrambi reduci dal catastrofico sostegno al governo Monti-Troika, con l’ultra-rigore dei tagli sanguinosi alla spesa, il massacro sociale, la legge Fornero, il pareggio di bilancio in Costituzione. «Noi non siamo contro l’euro», chiarì Gianroberto Casaleggio intervistato da Travaglio alla vigilia delle europee 2014, come se si potesse stare all’opposizione del sistema in Italia ma non in Europa. Non fidatevi dei 5 Stelle, ammonì ripetutamente Paolo Barnard, che ai neo-parlamentari pentastellati aveva invano offerto un Piano-B per l’Italia (recupero di sovranità finanziaria) attraverso il team internazionale di economisti democratici guidato da Warren Mosler. Nemmeno tre anni dopo, si scopre che Grillo – dopo aver verbalmente “divorziato” dall’euro – ha manovrato segretamente al Parlamento Europeo per imbucare i 5 Stelle tra i massimi sostenitori dell’euro-establishment, per il giubilo dello stesso Monti.State attenti a Luigi Di Maio, avvertì nei mesi scorsi l’avvocato e saggista Gianfranco Carpeoro, quando la stella di Renzi si stava chiaramente appannando: «Se cade il premier, il potere ha già scelto Di Maio come suo successore, con la benedizione degli Usa, delle cui sedi diplomatiche il leader grillino è assiduo frequentatore». Da 5 Stelle a “stelle e strisce”, «attraverso i rapporti che legano Grillo a un personaggio come Michael Ledeen, che proviene da settori della massoneria reazionaria collegata all’intelligence». A Roma, prima di sprofondare negli imbarazzi dell’immobile giunta Raggi, i 5 Stelle avevano rifiutato – dopo averla pubblicamente apprezzata – la proposta “rivoluzionaria” avanzata dall’economista Nino Galloni: fare della capitale un avamposto dimostrativo e strategico per la rinascita della sovranità italiana, devastata dall’élite globalista pro-euro con la complicità della vera super-casta, quella non colpita da Tangentopoli.La candidatura di Galloni, propugnata dal massone progressista Gioele Magaldi, avrebbe rappresentato una sfida aperta ai registi della storica de-industrializzazione del paese, ormai sottomesso alla Germania, a sua volta ridotta a spietato guardiano di un’Europa programmaticamente in declino, da “smontare” dall’interno, scoraggiandone l’indipendenza e la proiezione economica verso la Russia. Se Alexis Tsipras è stato demolito da Bruxelles e “Podemos” non fa più paura a nessuno, a inquietare i dominus Ue del dopo-Brexit è soprattutto Marine Le Pen. In ogni modo – anche con le recenti missioni diplomatiche dello stesso Di Maio – i 5 Stelle hanno rimarcato la loro distanza sostanziale da qualsiasi prospettiva “eversiva”, rispetto all’ordoliberismo euro-teutonico fondato sulla mortificazione della spesa strategica, quindi sui tagli che producono solo crisi e disoccupazione. Dai 5 Stelle, nessuna vera ricetta alternativa: solo la proposta di irrobustire gli ammortizzatori sociali con il “reddito di cittadinanza”, da finanziare solo con tagli “intelligenti” alla spesa, senza cioè intaccare sistema, basato sul principio – aberrante – del rigore “istituzionale” imposto dall’Ue.Nel movimento-fenomeno creato in modo spettacolare da Grillo e gestito per via telematica, con consultazioni on-line ma senza congressi né contronti tra linee apertamente divergenti, le illusioni dell’“uno vale uno” hanno rivelato, in controluce, tutt’altra realtà: a suon di esplusioni e “scomuniche”, è emersa una versione 2.0 del “centralismo democratico” togliattiano, un nuovo unanimismo con in più una vocazione – leninista – a non rivelare mai, apertamente, il vero obiettivo strategico: la logica sembra quella dei continui sacrifici democratici, la perenne autocensura richiesta alla base, in nome del bene supremo e quasi fideistico, il Sol dell’Avvenire. Finora, come riconosce anche il mainstream, il “format” 5 Stelle ha funzionato benissimo, se non altro come formidabile “gatekeeper” per drenare e canalizzare il dissenso, contenendolo nei binari della prassi democratica. Ma a che prezzo? E a vantaggio di chi?Se la lucidità del “popolo grillino” deve anche fatalmente fare i conti con la passione fisiologica che travolge ogni genuina tifoseria, laddove si pretende che le proprie pecche siano sempre deformate, ingigantite e strumentalizzate dal perfido nemico, diabolico per definizione, i soliti implacabili sondaggi (ovviamente gestiti dallo stesso mainstream) si divertono a rilevare un calo dei consensi, a partire dall’agonia romana per arrivare all’harakiri di Strasburgo. L’inizio della fine? Di fatto, quasi un elettore italiano su tre ha manifestato – votando 5 Stelle – la propria volontà di radere al suolo un sistema letteralmente marcio, chiedendo essenzialmente aria pulita. Il calo della “pazienza” di molti elettori può segnalare il tramonto di una leadership solo in apparenza democratica, ma in realtà piuttosto “sovietica”? E il disastro del Parlamento Europeo – con gli stessi liberali ultra-euro che, in extremis, sconfessano il patto segreto con Grillo – costringerà il “popolo” pentastellato a domandarsi, finalmente, che Europa vuole e come intende arrivarci, per mettere in sicurezza l’Italia, cestinando i comodi slogan tattici dei vari Di Battista contro le piccole caste e il piccolo malaffare delle banche?C’è qualcosa di sinistro, in quella che sembra l’anteprima del possibile suicidio programmato del Movimento 5 Stelle, dopo il boom elettorale del 2013 che aveva punito l’esanime Bersani e lo stra-rottamato Berlusconi, entrambi reduci dal catastrofico sostegno al governo Monti-Troika, con l’ultra-rigore dei tagli sanguinosi alla spesa, il massacro sociale, la legge Fornero, il pareggio di bilancio in Costituzione. «Noi non siamo contro l’euro», chiarì Gianroberto Casaleggio intervistato da Travaglio alla vigilia delle europee 2014, come se si potesse stare all’opposizione del sistema in Italia ma non in Europa. Non fidatevi dei 5 Stelle, ammonì ripetutamente Paolo Barnard, che ai neo-parlamentari pentastellati aveva invano offerto un Piano-B per l’Italia (recupero di sovranità finanziaria) attraverso il team internazionale di economisti democratici guidato da Warren Mosler. Nemmeno tre anni dopo, si scopre che Grillo – dopo aver verbalmente “divorziato” dall’euro – ha manovrato segretamente al Parlamento Europeo per imbucare i 5 Stelle tra i massimi sostenitori dell’euro-establishment, per il giubilo dello stesso Monti.