Archivio del Tag ‘rivoluzione’
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Polveriera Europa, replay: la Grande Guerra del 2014
I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.La diseguaglianza sociale ed economica nel paese è peggiorata, con la Merkel. Ma anche prima del piccolo incidente sportivo, la cancelliera non sembrava disposta a fare grandi passi (come spesso accade nella miglior tradizione autoritaria ereditata da Guglielmo di Prussia e Germania) e aveva già indicato un “erede al trono”, per assicurare stabilità e continuità anche nel periodo post-Merkel. In altre parole, le politiche economiche neoliberali probabilmente continueranno ad essere applicate in Germania e in Europa per ancora un po’ di tempo. Il 2014 ripropone la situazione del 1914: una possibile Germania imperialista del XXI secolo; il declino della monarchia spagnola e una repubblica italiana fatiscente. Con la sua “volontà d’acciaio”, nel suo terzo mandato la cancelliera sembra determinata a proseguire le politiche draconiane di austerity (distruggendo ulteriormente la crescita economica e favorendo la disoccupazione). Questa scelta implica più fatica e meno guadagni per i milioni di persone che riceveranno questo trattamento, come ad esempio gli spagnoli.A differenza di Berlino e della sua calma apparente, la capitale spagnola si trova ad assistere a continue proteste. Nel frattempo, un vecchio re (a sua volta zoppo per una brutta caduta e costretto ad usare le stampelle per camminare) sta affrontando una “crisi della fiducia in se stesso”. Il re di Spagna Juan Carlos, la cui popolarità un tempo era il simbolo del ritorno alla democrazia dopo il regime franchista, sta assistendo ad una crescente ondata di proteste popolari. Il crescente dissenso della popolazione è fomentato da interminabili scandali dovuti ad episodi di corruzione. La figlia è attualmente coinvolta in uno scandalo per truffa e riciclaggio di denaro. Nel calderone, anche una costante crisi economica. La Spagna riuscì a rimanere neutrale allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.Nel 2014, il paese è ancora in prima linea nella lotta contro l’austerity in Europa. Il futuro della monarchia resta incerto. In tutto il Mediterraneo, il 2013 si è concluso con le strade invase da proteste, come ad esempio in Italia (una repubblica decrepita, se mai è stata una repubblica) con la “protesta dei forconi”. Come la Spagna, l’Italia è contaminata da una profonda corruzione, instabilità sociale, sistematica instabilità istituzionale (a causa delle associazioni criminali), che ostacolano il processo democratico. Ne consegue una diffusione di movimenti demagogici o clownesco-populistici e la crescente xenofobia. Il movimento anti-politico, da quelle parti, sta sfruttando l’ondata di rabbia contro Roma e Bruxelles (il quartier generale dell’Unione Europea).I Balcani, storica polveriera d’Europa, sono nuovamente pronti ad esplodere. Non ci saranno omicidi in programma forse per il prossimo anno nei Balcani, ma sicuramente troverete sul menù un radicale cambiamento politico. Gli scioperi di massa e i movimenti di protesta che sono scoppiati in Grecia nel 2008 si sono estesi agli stati del Sud dei Balcani. Le proteste di massa contro l’aumento del costo della vita, che ha raggiunto livelli usurari (sull’onda della privatizzazione di massa), e contro il costo dell’energia imposto ai consumatori locali, stavano per rovesciare il governo in Bulgaria. Nella vicina Romania, la corruzione dilagante e la lotta epica tra il movimento civile sociale e un’azienda mineraria canadese, sono quasi riusciti a scuotere le fondamenta del governo rumeno. Nonostante quest’elenco di situazioni esplosive, Bruxelles rifiuta ostinatamente di allentare le restrizioni connesse alla libertà di movimento imposta ai cittadini di questi due stati. Il loro ingresso nella “zona Schengen” è stato nuovamente rimandato a data da definirsi. Sicuramente una politica di contenimento di questo tipo sarà pericolosa nel 2014.Oltre ai confini meridionali d’Europa, troviamo ancora forti instabilità nel 2014, che ricordano misteriosamente le tensioni del 1914, quando stava per iniziare la guerra. La promessa di una benigna “primavera araba” si è trasformata in un incubo terribile. In Egitto, Tunisia, Libia, Yemen e, più recentemente, in Libano, si stanno sviluppando conflitti somiglianti a guerre civili. Nel caso della Siria, non è una somiglianza ma una tragica realtà. Questa instabilità regionale rischia di contagiare la Turchia (gli Stati Uniti chiudono le alleanze nella regione). A quei tempi la Turchia era senza dubbio il fulcro dell’Impero Ottomano che governava sulla maggior parte del Medio Oriente. Circa un secolo fa entrò sfortunatamente, già distrutta, nella “grande guerra”. Questo accelerò la sua rovina e condusse al genocidio armeno del 1915. Per quanto tempo ancora Ankara potrà stare a guardare, prima di essere risucchiata nel più ampio conflitto dei suoi vicini? Il 2014 probabilmente sarà determinante.Internamente la Turchia è afflitta da forti dissensi e scossa da continue proteste dal giugno scorso. Il dissenso popolare nei confronti dell’autoritarismo del primo ministro Ergodan non si è placato. La continua lotta tra il movimento laico (kemalista) e quello neo-islamico (e all’interno del partito Akp stesso, “Adalet ve Kalkinma Partisi”, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) rischia di distruggere lo stato turco nel 2014, con le modalità già sperimentate un secolo fa dall’Impero Ottomano. Il potere del governo ha inoltre subito un ulteriore indebolimento negli ultimi tempi a causa degli scandali per corruzione che hanno interessato i suoi vertici. La conseguente epurazione dei corpi di polizia e di pubblica sicurezza ha inasprito la situazione. La tregua con i ribelli curdi nelle zone orientali del paese rimane instabile. In ultimo, il tentativo della Turchia, ormai vecchio di decenni, di diventare un membro dell’Unione Europea, è essenzialmente congelato a causa della repressione contro attivisti e giornalisti locali. Quindi, come nel 2014, il paese è un calderone che galleggia nel mare di instabilità che caratterizza la regione.Passando all’Asia, troviamo crescenti movimenti di protesta in Thailandia, Cambogia e Bangladesh, o rivolte in corso contro le trincerate e corrotte oligarchie locali. Fino ad ora questi sollevamenti sono stati brutalmente repressi con l’ausilio delle forze militari. Chissà se gli eventi attuali saranno la scintilla di un’esplosione simile a quella del 1914. Probabilmente no. Tuttavia questi paesi emergenti sembrano essere nel mezzo di quella che io chiamo “situazione pre-rivoluzionaria”. Quello che vedremo accadere da queste parti nel 2014 somiglia moltissimo allo scenario della rivoluzione messicana (1910-1920), un decennio di dure lotte per liberarsi di quel regime corrotto conosciuto come “Porfiriato”. Se aggiungiamo a quanto detto il rischio di uno scontro militare tra i “grandi poteri” locali, siano essi in crescita o in crisi, così come accadeva nel 1914 (lo dimostra l’attuale ostentazione militare sulle contese Diaoyu e Tiaoyutai nel lontano oriente), si ha realmente l’impressione che la storia si ripeta ancora una volta.(Michael Werbowski, “La polveriera storica, il 2014 come il 1914 in Europa e nel mondo?”, da “Global Research” del 10 gennaio 2014, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.
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Obama finanzia i terroristi, a insaputa degli americani
Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.Lo ricorda il francese Thierry Meyssan, giornalista indipendente, in un’analisi pubblicata da diverse testate e ripresa da “Megachip”. Il paradosso della guerra in Siria? «Le immagini sono esattamente il contrario della realtà». Secondo i media mainstream, il conflitto oppone da un lato gli Stati raccoltisi intorno a Washington e Riyadh, intenti a difendere la democrazia e condurre la lotta mondiale contro il terrorismo, e dall’altra la Siria e i suoi alleati russi, «diffamati come dittature che manipolano il terrorismo». Se tutti sono ben consapevoli del fatto che l’Arabia Saudita non è una democrazia, bensì una monarchia assoluta, «laddove la tirannia di una famiglia e di una setta controlla un intero popolo», gli Stati Uniti godono invece dell’immagine di un democrazia, paladina della “libertà”. Eppure, una notizia-bomba come quella del finanziamento ufficiale della guerriglia jihadista è stata censurata, dal momento che il Congresso «si è riunito segretamente per votare il finanziamento e l’armamento dei “ribelli” in Siria». Può sembrare incredibile, ma «il Congresso tiene incontri segreti che la stampa non può menzionare».Ecco perché la notizia,originariamente pubblicata dall’agenzia di stampa britannica Reuters, è stata «scrupolosamente ignorata dalla stampa e dai media negli Stati Uniti e dalla maggior parte dei media in Europa occidentale e nel Golfo: solo gli abitanti del “resto del mondo” avevano il diritto di conoscere la verità». Poiché nessuno ha letto la legge appena approvata, aggiunge Meyssan, non si sa che cosa stabilisca esattamente. «Tuttavia, è chiaro che i “ribelli” in questione non mirano a rovesciare il governo siriano – ci hanno rinunciato – ma piuttosto a “insanguinarlo”. Ecco perché non si comportano come soldati, ma come terroristi». Sicché l’America, presunta vittima di Al-Qaeda l’11 Settembre e poi leader mondiale della “guerra al terrorismo”, di fatto finanzia «il principale focolaio terroristico internazionale», in cui agiscono due organizzazioni ufficialmente subordinate ad Al-Qaeda. «Non si tratta più di una manovra oscura dei servizi segreti, ma piuttosto di una legge, pienamente assunta, ancorché approvata a porte chiuse per non contraddire la propaganda».D’altra parte, continua Meyssan, ci si chiede in che modo la stampa occidentale – che da 13 anni imputa ad Al-Qaeda di essere l’autrice degli attentati dell’11 Settembre – potrebbe mai spiegare all’opinione pubblica la sua decisione. Infatti, la speciale procedura seguita in questo caso (Cog, “continuità di governo”) è protetta anch’essa dalla censura. «È anche per questo che gli occidentali non hanno mai saputo che, nel corso di quell’11 settembre, il potere era stato trasferito dai civili ai militari, dalle 10 del mattino fino a sera, e durante tutto quel giorno gli Stati Uniti erano governati da un’autorità segreta, in violazione delle loro leggi e della loro Costituzione». Lo stesso discorso annuale di Barack Obama sullo stato dell’Unione «si è trasformato in un eccezionale esercizio di menzogne». Davanti ai 538 membri del Congresso che sin dall’inizio lo applaudivano, il presidente ha dichiarato: «Una cosa non cambierà: la nostra determinazione a non permettere ai terroristi di lanciare altri attacchi contro il nostro paese». E ancora: «In Siria, sosterremo l’opposizione che respinge il programma delle reti terroristiche».Eppure, quando la delegazione siriana ai negoziati di “Ginevra 2” ha sottoposto – a quella che s’intendeva rappresentare come la sua “opposizione” – una mozione, esclusivamente basata sulle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, a condanna del terrorismo, questa è stata respinta senza causare alcuna protesta da parte di Washington. E per una buona ragione: il terrorismo sono gli Stati Uniti, e la delegazione “dell’opposizione” riceve i suoi ordini direttamente dall’ambasciatore Robert S. Ford, presente in loco». Ford è stato assistente di John Negroponte in Iraq. Nei primi anni ‘80, ricorda Meyssan, Negroponte aveva contrastato la rivoluzione nicaraguense arruolando migliaia di mercenari e alcuni collaboratori locali, costituendo i cosiddetti “Contras”. La Corte internazionale di giustizia, cioè il tribunale interno delle Nazioni Unite, ha condannato Washington per questa ingerenza che non osava pronunciare il proprio nome. Poi, negli anni Duemila, Negroponte e Ford riproposero lo stesso scenario in Iraq. Questa volta però l’intento era di annientare la resistenza nazionalista facendola combattere da Al-Qaeda.Oggi, mentre i siriani e la delegazione dell’“opposizione” discutevano a Ginevra, a Washington il presidente Obama, applaudito meccanicamente dal Congresso, ha continuato il suo esercizio di ipocrisia: «Noi lottiamo contro il terrorismo non grazie all’intelligence e alle operazioni militari, ma anche rimanendo fedeli agli ideali della nostra Costituzione e restando un esempio per il mondo intero. E continueremo a lavorare con la comunità internazionale per dare al popolo siriano il futuro che merita: un futuro senza dittatura, senza terrore e senza paura». La guerra orchestrata dalla Nato in Siria ha già causato più di 130.000 morti, secondo i dati del Mi6, l’intelligence inglese. La beffa: «I carnefici attribuiscono la responsabilità al popolo che osa contrastarli e al suo presidente, Bashar el-Assad». Durante la guerra fredda, conclude Meyssan, la Cia «finanziava lo scrittore George Orwell affinché immaginasse la dittatura del futuro: Washington ha creduto così di svegliare le coscienze di fronte alla minaccia sovietica». In realtà, l’Urss «non ha mai assomigliato all’incubo di “1984”, intanto che gli Stati Uniti ne sono diventati l’incarnazione».Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.
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D’Orsi: povera Italia, se resta nelle mani di lorsignori
Ci lamentavamo di Bersani? Becchiamoci Renzi.«Qualcuno annunciava la spaccatura del Pd», e invece «Fassina e Cuperlo hanno appena aderito a tutto», e tace pure «il giovin Civati», mentre Laura Boldrini ha «inferto un colpo quasi mortale alla dialettica parlamentare, con il ricorso alla “ghigliottina”», per bloccare il dibattito in aula e far convertire in legge «il vergognosissimo decreto Imu-Banca d’Italia». Per Angelo d’Orsi, della Boldrini offende il fatto che lei, Napolitano e Grasso «si comportino come parte integrante dell’esecutivo». Ovvero: «Stiamo assistendo alla formazione di un blocco storico, mai visto nella vicenda nazionale, neppure ai tempi bui del fascismo: un blocco che cancella le differenze di ruoli tra le istituzioni (esecutivo e legislativo diventano tutt’uno), che elimina le diversità delle opzioni politiche», visto che Pd-Fi «ormai vanno verso una identità sostanziale», al netto di «leggere sfumature che hanno il mero scopo di preservare una identità ai fini elettorali». Il nuovo blocco di potere «toglie persino il velo alla relazione strettissima tra potentati economico-finanziari e apparati politici».Stesso destino, scrive d’Orsi su “Micromega”, per i sindacati: «Come possiamo ancora distinguere la Cgil dalla voce del padrone?» Di Cisl e Uil «manco vale la pena di parlare, tanto appiattiti sono ormai da anni sulle logiche padronali». C’è il decreto-vergogna per la “ricapitalizzazione” della Banca d’Italia, gigantesco regalo alle grandi banche, e c’è «il silenzio ossequiente verso le scellerate scelte “strategiche” di Marchionne e dell’“azionista di riferimento” Fiat (Agnelli-Elkann), che meriterebbero risposte adeguate», per finire con l’altro scandalo, quello degli F-35 «appena dichiarati pericolosi e costosi dal Pentagono». Mentre il governo Letta, quello “virtuoso”, «persevera nella politica delle commesse alle multinazionali produttrici di questi giocattoli di guerra». E sul tappeto restano inevase le pratiche più scellerate, dall’inutile e mostruoso Tav Torino-Lione della valle di Susa fino al Muos di Niscemi, la piattaforma super-tecnologica siciliana per la guerra totale.«Insomma, un catalogo di orrori – aggiunfe d’Orsi – che sta facendo toccare con mano quanto fossero esatte le funeste previsioni all’ascesa alla guida del Pd del giovane rottamatore, che sta inanellando una vittoria dopo l’altra, nel silenzio complice o inerte degli uni, o nell’adesione convinta o necessitata degli altri». Ma attenzione: «Le vittorie di Renzi sono altrettante sconfitte della democrazia». E il gennaio 2014 sarà ricordato come una “macchia scura” nella vicenda dello stesso sistema liberal-democratico, «per il delitto perfetto che è stato consumato dai “democratici” Renzi e Letta, sotto la regia di Napolitano, con la benevolenza istituzionale dei presidenti delle Camere, e soprattutto la complicità attiva e interessatissima del riesumato Berlusconi e della sua gang». Non paghi di una legge elettorale «persino peggiore della precedente», l’infame “Porcellum”, Pd e Forza Italia mostrano di voler puntare su «uno scenario cimiteriale, dove due partitoni indistinguibili, come sovente sono laburisti e conservatori in Gran Bretagna, democratici e repubblicani negli Usa, occuperanno l’intero panorama politico». E questa sarebbe la “moderna democrazia”?Ma non basta, continua d’Orsi. La nuova «gioiosa macchina da guerra» guidata da Renzi, «il piccolo duce», avanza «nello stupefatto balbettio della minoranza interna», ma anche «nell’entusiasmo di chi lo chiama “Matteo” e lo acclama come la star da opporre finalmente al Berlusconi, e capace di fermare il “fenomeno Grillo”». Ora, guadagnato il fortilizio elettorale, «con un’ultima ignominiosa correzione per impedire che la Lega Nord esca dal giro», la macchina marcia verso la Costituzione, che da almeno tre decenni i soloni del “novitismo”, delle “riforme” e della “governabilità” hanno classificato come “obsoleta”: e in quattro e quattr’otto l’amputazione si farà, «recando una ferita che non sarà più possibile rimarginare, neppure quando ci si liberasse del Berluscone e del Berluschino». Secondo d’Orsi, a quel punto, «occorrerà una rivoluzione per restituire dignità al paese e valore alle sue leggi, rinnovando completamente la sua classe dirigente». Ma questa rivoluzione ancora non si vede: «Si vedono proteste, jacqueries, ribellioni, uno scontento generale e gigantesco che si traduce anche, per fortuna, in atti di resistenza». Episodi numerosissimi e diffusi, che «hanno il solo torto di non essere coordinati e spesso neppure conosciuti». Il che significa che «davanti a questo sfascio, se si prende atto che l’alternativa tra Pd e tutta l’ammucchiata di centrodestra è ormai fasulla, non solo ribellarsi è giusto ma è anche possibile».Purtroppo, sempre secondo d’Orsi, «al di là delle simpatie che si possano provare», il “Movimento 5 Stelle” non è ancora un’alternativa pienamente credibile. Grillo e Casaleggio, «i due capetti», lo tengono tuttora in pugno. Per contro, al di là del «fastidio per tanti suoi ridicoli esponenti (basti pensare a Vito Crimi, degno del senatore Razzi imitato dal comico Crozza», oggi «solo questi ragazzacci», i giovani parlamentari “5 Stelle”, «stanno provando ad alzare la voce contro lo schifo», e certo «è meglio di nulla». E se i colleghi del Pd non provano vergogna nell’intonare “Bella ciao” per difendere il decreto Imu-Bankitalia, Alessandro Gilioli osserva: «È davvero notevole lo sforzo con cui il Pd, Forza Italia, Boldrini e Napolitano stanno trasportando verso il “Movimento 5 Stelle” anche gli italiani meno attratti da Grillo e Casaleggio». Quanto agli antiberlusconiani «schifati di tutte le scelte del Pd» nonché «delusi di un Vendola rimasto capace di affabulare solo se stesso allo specchio», che fare? Rifugiarsi nell’astensionismo? Oppure, viceversa, «connettere le tante isole di opposizione allo schifo», perché «un’altra Italia esiste», e può unire tutti quelli che «sono contro lorsignori».Ci lamentavamo di Bersani? Becchiamoci Renzi.«Qualcuno annunciava la spaccatura del Pd», e invece «Fassina e Cuperlo hanno appena aderito a tutto», e tace pure «il giovin Civati», mentre Laura Boldrini ha «inferto un colpo quasi mortale alla dialettica parlamentare, con il ricorso alla “ghigliottina”», per bloccare il dibattito in aula e far convertire in legge «il vergognosissimo decreto Imu-Banca d’Italia». Per Angelo d’Orsi, della Boldrini offende il fatto che lei, Napolitano e Grasso «si comportino come parte integrante dell’esecutivo». Ovvero: «Stiamo assistendo alla formazione di un blocco storico, mai visto nella vicenda nazionale, neppure ai tempi bui del fascismo: un blocco che cancella le differenze di ruoli tra le istituzioni (esecutivo e legislativo diventano tutt’uno), che elimina le diversità delle opzioni politiche», visto che Pd-Fi «ormai vanno verso una identità sostanziale», al netto di «leggere sfumature che hanno il mero scopo di preservare una identità ai fini elettorali». Il nuovo blocco di potere «toglie persino il velo alla relazione strettissima tra potentati economico-finanziari e apparati politici».
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Sapelli: via tutti, l’Italia si salva solo con una rivoluzione
«Fino al 1450 eravamo l’economia più florida del mondo. Poi abbiamo conosciuto la crisi del ‘600. Perché i figli della borghesia comunale hanno lasciato le città e sono andati a vivere in villa come nobili: quando si guadagnano troppi soldi, non si risponde più a se stessi». Secondo il professor Giulio Sapelli, per l’Italia «forse non c’è più speranza. «A forza di imporre l’ortodossia monetarista e deflazionista, i tedeschi stanno facendo dell’Europa un deserto». Italia addio: «Questa è una nazione ricca, con un grande risparmio. E la cultura. Ma i risparmi si stanno erodendo. E tra 20 anni, forse, saremo un paese desertificato». Come uscirne? Licenziare immediatamente l’attuale classe dirigente, e puntare a una svolta radicale, «socialista e rivoluzionaria», per dire no alla politica della Troika di Bruxelles.Per l’economista che ha conosciuto l’Italia di Olivetti, la grande e la media impresa, le cooperative e i distretti, scrive Giovanna Faggionato su “Lettera 43”, la crisi di oggi è il frutto di un male antico: la persistenza di una classe dirigente che ci condanna alla sudditanza estera. Così, mentre la Commissione Europea certifica che siamo il paese in cui «la situazione sociale si è deteriorata maggiormente», e in cui una quota consistente di occupati non riesce più ad arrivare a fine mese, lo studioso non si dà pace. E si chiede come il Parlamento Ue abbia potuto firmare il Fiscal Compact. Risposta: «Le nostre classi dirigenti cercano approvazione, legami e inserimento nella finanza internazionale. Lo ha fatto Romano Prodi. E poi Mario Monti. E ora anche Enrico Letta punta alle cariche all’estero». Quindi non fanno gli interessi italiani? «Monti ha fatto gli interessi di chi lo ha sempre sostenuto, cioè le istituzioni finanziarie». Draghi? «Lui viene da Goldman Sachs, dalla scuola americana. E prova a fare la politica Usa».La Germania, aggiunge Sapelli nell’intervista, «ci vuole fare morire di deflazione». Meglio gli Stati Uniti, perché a loro «in questo momento serve un’Europa forte». E’ vero, sono proiettati verso il Pacifico perché «preparano la guerra che verrà con la Cina», ma hanno bisogno di avere le spalle coperte, cioè un’economia europea in salute. «Stiamo trattando un accordo di libero scambio transatlantico: possiamo negoziare», dice Sapelli. «E comunque, meglio gli Stati Uniti del dominio tedesco», a cui Draghi “non osa” opporsi. Andiamo verso un crack come quello argentino del decennio scorso? «Dell’Argentina stiamo iniziando a copiare i leader peronisti», a comiciare da Renzi. «Abbiamo avuto due sole “rivoluzioni” generazionali in Italia. Una l’ha fatta Benito Mussolini ed era il fascismo. E l’altra è stata il ‘68. Basta guardare come sono finite». Spiragli? «Avete votato il Pd, Berlusconi…». E cosa bisogna votare, Grillo? «Nessuno. Bisogna rifondare un partito socialista, rivoluzionario. Come Syriza, in Grecia. Che non vuole uscire dall’Europa, ma rinegoziare il debito».«Fino al 1450 eravamo l’economia più florida del mondo. Poi abbiamo conosciuto la crisi del ‘600. Perché i figli della borghesia comunale hanno lasciato le città e sono andati a vivere in villa come nobili: quando si guadagnano troppi soldi, non si risponde più a se stessi». Secondo il professor Giulio Sapelli, per l’Italia «forse non c’è più speranza. «A forza di imporre l’ortodossia monetarista e deflazionista, i tedeschi stanno facendo dell’Europa un deserto». Italia addio: «Questa è una nazione ricca, con un grande risparmio. E la cultura. Ma i risparmi si stanno erodendo. E tra 20 anni, forse, saremo un paese desertificato». Come uscirne? Licenziare immediatamente l’attuale classe dirigente, e puntare a una svolta radicale, «socialista e rivoluzionaria», per dire no alla politica della Troika di Bruxelles.
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Da Google a Twitter, l’élite digitale ha preso il potere
«Informazione, salute, politica, denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”, nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione digitale”, costruttori di computer e geniali inventori di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online e i loro antagonisti, hacker e pirati.«C’è un pianeta parallelo ormai che vive e vegeta in un’altra dimensione, fatta di sterminate, inconcepibili sequenze di numeri che si spostano a velocità impressionanti, si trasformano e appaiono sui nostri schermi quali testi, foto, immagini in movimento e influiscono su ogni attività contemporanea». La “rivoluzione digitale” incede solenne, scrive Benigni nel suo blog in un post ripreso da “Megachip”. Il web «non perde tempo a condividere i valori e le visioni del passato» e in pratica «non rispetta nessuno, neanche i governi e gli ultimi Stati rimasti sovrani». Tutto viene travolto dalle “digital power élites” «costituite da 20enni, 30enni, solo raramente 40enni e 50enni che, giunti in parte dai garage e dalle cantine degli angoli più remoti del mondo e in parte da prestigiose università, oggi siedono nei consigli di amministrazione di enormi “conglomerates” e da lì “shape the history” (danno forma alla Storia del Futuro)».Il 2013 si era aperto con l’annuncio da parte di Pay Pal, il maggior gestore di transazioni economiche in rete, del proprio sistema mobile: per l’e-trading, un’accelerazione radicale, ovvero «la possibilità di spostare denaro con pochi click sul cellulare o sul tablet». In sintonia con questa tendenza, a febbraio Twitter ha siglato l’accordo con l’American Express: da questa accoppiata – social network e gestori di carte di credito – possono scaturire «scenari da fantaeconomia», osserva Benigni, dal momento che ormai «tre italiani su quattro comprano direttamente online», e nel 2016 il mercato italiano varrà 20 miliardi di euro (in Europa ne vale già 311). Il 2013, continua Benigni, è l’anno in cui i vecchi protagonisti della scena, i Ginger e Fred dell’hardware-software, soffrono di più. «Lord Microsoft accusa pesanti colpi al suo fatturato dovuti all’avvento dei nuovi sistemi operativi, primo fra tutti Android. E anche la vecchia lady Apple, per la prima volta in 10 anni, nonostante la cavalcata selvaggia dei suoi I-Phone e I-Pad, vede un calo degli utili». Tablet e smartphone dilagano dovunque: «Anche il sofferente mercato italiano, a maggio, registra un’impennata di vendite, nonostante la crisi». Il ruolo strategico dei social network condiziona motore di ricerca come “Yahoo!”, costretto a limitarsi al 15% delle ricerche mondiali. Come Google, ha bisogno di possedere un suo social network, e quindi tenta di perfezionare una partnership con i francesi di Daily Motion. Offerta rigettata, ma “Yahoo!” si consolerà presto comprando Tumbir, un social network con 108 milioni di blog, per 1,1 miliardi di dollari. E anche Daily Motion si consolerà, volgendo la propria attenzione al Giappone.Sul piano politico, intanto, si segnala l’altolà imposto a Mark Zuckerberg, patron di Facebook, costretto a pagare 62 milioni di dollari per risarcire broker e investitori travolti dal crollo del titolo in Borsa. Stop anche alla lobby dell’enfant prodige, messa in piedi per “infiltrare” il Congresso. Messaggio: ok al business, ma non alle scorribande politiche – a meno che non siano orchestrate dall’intelligence, che utilizza i social network per pilotare «piccole e medie rivolte di piazza, colpi di Stato, rimozioni di primi ministri e presidenti ormai bolliti e non più graditi al Washington Consensus». La Cina, intanto, stanca delle critiche sulla tutela dei diritti umani (e del pressing di Google) annuncia che non chiederà più l’accesso agli Internet Protocol alle autorità Usa, che ne hanno fatto “cosa nostra”, ma si rivolgerà direttamente all’Agenzia delle Nazioni Unite di Ginevra, che è l’istituzione suprema preposta al rilascio. «La decisione genera un grande imbarazzo diplomatico, ma tant’è: è solo uno degli atti di cyber-guerra fredda degli ultimi anni tra le due superpotenze».Il colpo di grazia alla credibilità di Facebook è il caso Datagate, scoppiato a giugno: tutti i dati sensibili degli utenti sono a disposizione della Nsa. I gestori del web sono in imbarazzo, Zuckerberg licenzia 520 dipendenti della sua controllata Zynga e in Borsa perde il 20%, crollando ai minimi, salvo poi recuperare utenti grazie all’uso dei dispositivi mobili. Per Benigni,la transizione dal Pc al laptop è un’altra “rivelazione” del 2013. Amazon fa sapere che i primi 10 prodotti venduti a livello mondiale «sono tutti devices digitali». E pertanto il boss Jeff Bezos, uno che a 49 anni fornisce 225 milioni di clienti e che in un giorno solo, secondo “Fortune”, riesce a guadagnare o a perdere anche 2 miliardi di dollari, annuncia che vuole mettersi in concorrenza con i grandi costruttori di tablet. E’ forte del successo del suo Kindle, che sta rivoluzionando tutta la tradizione di lettura libri, ma non basta. A Seul quelli della Samsung non lo faranno passare. Comincia a perdere anche Amazon.Infine, nella seconda parte del 2013, si apre un vero scontro politico tra l’élite digitale e i governi. Prima questione: i grandi motori di ricerca, Google in testa, devono pagare editori e case discografiche, perché «è grazie a loro che esiste qualcosa da ricercare». Secondo problema, più rilevante per i governi: «Questi furboni devono pagare le tasse come gli altri», perché «non è giusto che facciano profitti con la pubblicità sui territori europei e poi si inguattino i soldi nei paradisi fiscali». Google viene colta con le mani nel sacco: nel solo 2012 ha trasferito in Bermuda 8,8 miliardi di dollari. E dalle sue sedi europee, soprattutto quella irlandese, si è sottratta al fisco con grande destrezza. I lobbisti di Google si scatenano per correre ai ripari: coi francesi chiudono un pagamento di 60 milioni di dollari a favore di editori e case musicali, ma resta per aria la questione delle tasse – che non è ancora risolta.E mentre “volano gli stracci” quando si scopre che la Nsa ha spiato capi di Stato e di governo alleati, Twitter fa il botto a Wall Street, raddoppiando di valore in un solo giorno. «Anche le società digitali start up israeliane fanno il pieno di investimenti. Per un verso sembra di essere tornati ai bei tempi di Nasdaq prima della bolla del 1999. In realtà è Bernanke che pompa 85 miliardi di dollari al mese nel comparto industriale Usa e quindi ne gode anche la Borsa. In ogni caso la rivoluzione digitale smuove oceani di denaro, provocando tsunami e bonacce, sia nella economia degli scambi reali che nella finanza virtuale». Google oscilla attorno ai 300 miliardi di capitalizzazione e genera un fatturato di circa 50 miliardi l’anno. «E’ diventato uno Stato tra gli Stati», dice Benigni. «Quando ti chiede di accettare le sue Condizioni d’Uso per Google+ o YouTube sembra che proponga le nuove norme base di una futura Costituzione Planetaria». E la stessa YouTube, di proprietà di Google, ha annunciato di aver raggiunto l’incredibile cifra di 1 miliardo di utenti attivi al mese. Tutto questo, aspettando i cibernetici “Google Glasses” e le stampanti 3d che permettono a chiunque di riprodurre oggetti solidi, mentre si fa largo la grande promessa del crowdfunding (azionariato popolare per finanziare l’editoria indipendente) e l’ultima “invenzione”, la più scottante, cioè la moneta virtuale rappresentata dai Bitcoin.«Informazione, salute, politica, denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”, nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione digitale”, costruttori di computer e geniali inventori di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online e i loro antagonisti, hacker e pirati.
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Qualcuno era comunista e voleva un’umanità felice
Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica. Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche – lo esigevano tutti. Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto. Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era comunista perché prima – prima, prima – era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo. Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari. Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio. Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio. Qualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendio. Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente. Qualcuno era comunista perché la borghesia, il proletariato, la lotta di classe… Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre. Qualcuno era comunista perché guardava solo Rai Tre. Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione. Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto. Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin. Qualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sé la classe operaia. Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri. Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista. Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista. Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio. Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggior partito socialista d’Europa. Qualcuno era comunista perché lo Stato, peggio che da noi, solo in Uganda. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant’anni di governi democristiani incapaci e mafiosi. Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera…Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista. Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia. Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro. Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana. Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno; era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare… come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo.(Giorgio Gaber e Sandro Luporini, “Qualcuno era comunista”, dall’album “La mia generazione ha perso”, aprile 2001).Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica. Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche – lo esigevano tutti. Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto. Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era comunista perché prima – prima, prima – era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.
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La crisi morde, ma la Cgil si rintana alla corte del Pd
In un convegno organizzato dalla Fiom a Bologna Susanna Camusso ha affermato che lo sciopero generale non basta più. Siccome è difficile credere che con ciò la segretaria della Cgil volesse annunciare il passaggio a forme di lotta rivoluzionarie, è probabile che sia giusta la interpretazione che ne ha voluto dare la stampa: basta con lo sciopero generale. Ma quanti scioperi generali ha fatto la Cgil in questi ultimi anni? L’ultimo che tutti i lavoratori ricordano con rabbia è quello di tre ore per non fermare la riforma Fornero delle pensioni. Uno sciopero finto, fatto per circostanza e con la chiarissima intenzione di non procurare difficoltà al governo Monti appena insediato. Nessuno sentirà la mancanza di lotte come questa, fatte solo per far guadagnare spazietti nei telegiornali, lotte che i lavoratori hanno imparato a disertare. Gli ultimi scioperi di quattro ore di Cgil, Cisl e Uil, sparpagliati in giornate e territori diversi, sono stati semiclandestini. È fallito anche lo sciopero proclamato dalla Fiom in Emilia la scorsa settimana: poche centinaia di persone in piazza a Bologna.È colpa delle persone che non hanno più voglia di lottare? No, è colpa dei gruppi dirigenti sindacali, che proclamano lotte che servono solo a far vedere che si esiste e che hanno la sola funzione di creare frustrazione ed impotenza in chi le fa. Nella più grave crisi economica del dopoguerra la Cgil vivacchia tra un convegno e l’altro, senza pensare al conflitto vero, quello che i lavoratori son ancora disposti ad affrontare con grande coraggio, come hanno mostrato i tranvieri di Genova. Che questa Cgil sia ora spaventata e affascinata dalla nuova leadership del Pd è evidente e anche questo è un segno della sua profonda crisi. Accantonato e dimenticato il goffo tentativo della Spi di sostenere Cuperlo, ora tutto il gruppo dirigente della confederazione spera in una legittimazione da Renzi. Il più lesto è stato Maurizio Landini, che al convegno di Bologna si è ben guardato dal polemizzare con la segretaria della Cgil sugli scioperi, e invece ha parlato tanto del sindaco di Firenze. Che incontrerà nella sua città in un convegno tempestivamente organizzato dalla Fiom locale.Tra Camusso e Landini si è quindi aperta la gara a chi si presenti più innovativo e corrisponda di più al messaggio delle primarie del Pd. La grande informazione ha subito colto il segnale e si prepara a misurare i dirigenti della Cgil in termini di maggiore o minore affinità con il renzismo. Peccato che le due principali figure della Cgil si siano messe d’accordo di fare il congresso sulla stessa posizione, come se nel Pd non si fossero svolte le primarie e ci fosse stata una intesa preventiva di vertice sulla composizione dei gruppi dirigenti. In mancanza di un confronto trasparente sulla guida del principale sindacato italiano, la contesa andrà avanti a convegni e controconvegni, indici di gradimento, battute di corridoio. Naturalmente si potrebbe anche pensare che alla Cgil e ai suoi rappresentati converrebbe oggi allontanarsi dal Pd, principale partito dei governi che praticano quelle politiche di austerità che stanno devastando il mondo del lavoro.Converrebbe anche alla democrazia una Cgil che non lasciasse la protesta sociale ai forconi e che con i lavoratori, i disoccupati, i precari, i pensionati, provasse a bloccare il paese. Invece di rinunciare preventivamente ad uno sciopero generale che da tempo immemore non convoca più. Ma questo sarebbe accusato di essere il sindacato vecchio, vecchio come quello che, nel pieno della rivolta reazionaria di massa a Reggio Calabria, portava i metalmeccanici a sfilare nella città e così a cambiare il segno politico di quella protesta. Ma quello era il sindacato degli anni ‘70, quello che credeva nella funzione degli scioperi generali. Vuoi mettere quel vecchio modello sindacale con le infinite possibilità di cambiamento della realtà che oggi offrono la partecipazione a Ballarò o a Servizio Pubblico? Solo una minoranza di sognatori contrasta questo modo di fare sindacato in Cgil, e ha chiamato questa sua posizione: “Il sindacato è un’altra cosa”. Ma cosa volete che importi, c’è Renzi.(Giorgio Cremaschi, “Camusso e Landini alla corte di Renzi”, da “Micromega” dell’11 dicembre 2013).In un convegno organizzato dalla Fiom a Bologna Susanna Camusso ha affermato che lo sciopero generale non basta più. Siccome è difficile credere che con ciò la segretaria della Cgil volesse annunciare il passaggio a forme di lotta rivoluzionarie, è probabile che sia giusta la interpretazione che ne ha voluto dare la stampa: basta con lo sciopero generale. Ma quanti scioperi generali ha fatto la Cgil in questi ultimi anni? L’ultimo che tutti i lavoratori ricordano con rabbia è quello di tre ore per non fermare la riforma Fornero delle pensioni. Uno sciopero finto, fatto per circostanza e con la chiarissima intenzione di non procurare difficoltà al governo Monti appena insediato. Nessuno sentirà la mancanza di lotte come questa, fatte solo per far guadagnare spazietti nei telegiornali, lotte che i lavoratori hanno imparato a disertare. Gli ultimi scioperi di quattro ore di Cgil, Cisl e Uil, sparpagliati in giornate e territori diversi, sono stati semiclandestini. È fallito anche lo sciopero proclamato dalla Fiom in Emilia la scorsa settimana: poche centinaia di persone in piazza a Bologna.
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Illusi dal consumismo, sperano solo che tutto ricominci
Ho percorso duecento chilometri in auto negli ultimi due giorni ed ho trovato due blocchi del cosiddetto movimento dei forconi. Qualcuno ci vede il baluginare della rivolta che verrà, io ho visto la ripetizione di una tradizione italiana vecchia di un migliaio d’anni: la rivolta per il pane, l’assalto ai forni. Ho visto gente che ha perso tutti i contenitori politici nei quali era transitata. Ho visto gente smarrita, non l’avanguardia rivoluzionaria. Ma so che alcuni ci hanno ricamato sopra una teoria e la teoria dice che questi 30.000 (ma facciamo anche 50.000 o 100.000) sarebbero l’avanguardia della massa che verrà. La teoria dice che questi protestanti – presto o tardi – diventeranno anticapitalisti perché capiranno che il capitalismo li sta massacrando. E così diventeranno anticapitaliste le masse che se ne stanno a casa oggi non appena la crisi morderà le loro “sicurezze”.Questo dice la teoria. Solo che la teoria non funzionerà. Perché non funzionano così le cose. A quei blocchi nessuno pensava minimamente al capitalismo o all’anticapitalismo. C’era gente che aveva perso qualcosa e la rivoleva indietro. E rivolevano indietro quel che avevano vissuto: un posto non troppo freddo ai margini del capitalismo. Un posto che – sono convinti – gli è stato tolto dalle iniquità dei governi, dalla mancanza di politiche protezioniste, dall’Europa, dalle tasse. E mi è venuto da pensare al fenomeno del cambiamento dei consumi di stupefacenti negli ultimi quarant’anni. Che centra? C’entra. Negli anni ’70 ci si faceva di eroina e di acidi lisergici. Ci si faceva di droghe che ti sparavano fuori da un mondo che si sentiva profondamente ingiusto e nel quale non si voleva rimanere. Dietro c’era tutto un movimento tra il culturale e il politico che postulava il rifiuto radicale dei modi di essere e di consumare. Dagli anni ’80 ha preso piede la cocaina e tutta la larga famiglia delle anfetamine. La droga che aiuta non a fuggire dal mondo ma a restarci e ad essere “performante”. Una droga sintonizzata sulla necessità di dimostrare di essere sempre sveglio, attivo, concorrenziale.Guardavo la gente ai blocchi e pensavo che quella gente che mi dava i loro volantini volevano una sola cosa: essere di nuovo parte di un capitalismo che funziona. Non sanno come fare, non hanno le idee chiarissime ma due o tre concetti più o meno interiorizzati: sovranità popolare, lotta ai burocrati europei, lotta alla classe politica. Guardavo i carabinieri alla curva della rotatoria. Immobili, passivi, lasciavano che il blocco ci fosse ma fosse “ragionevole”. Fermali sì ma poi falli passare dopo una decina di minuti. Ci ho parlato per un po’. La maggioranza faceva fatica ad articolarmi un discorso omogeneo. Quello che usciva fuori era un “prima” (quando si stava bene) e un “adesso” nel quale si sta male. Ridateci quello che avevamo, ridateci il capitalismo ben temperato. Segni di anticapitalismo? Nessuno. Neppure una briciola sparsa di luddismo. Le facce smarrite e incazzate raccontavano soltanto la sorpresa e la paura di essere tagliati fuori definitivamente dalla fonte di ogni delizia.Non erano persone che si stavano riappropriando del loro essere cittadini ma, piuttosto, gente che rivoleva essere consumatori. Uno mi ha detto che voleva la meritocrazia e voleva che i migranti (non usava questo termine però) se me tornassero a casa loro. Un altro voleva uscire dall’Europa perché così saremmo stati di nuovo “padroni in casa nostra”. Padroni per fare che? Per tornare a consumare. Era gente che non sa che una economia anticapitalista non prevede la Audi ma semmai una versione moderna della Trabant. Perché se “da ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”. Si tratta di ridistribuire equamente le risorse e la fettina di torta per ciascuno sarà uguale ma non sarà grande. Ma non volevano una cosa del genere, volevano esattamente la fetta che avevano prima. Volevano – appunto – un capitalismo come quello nel quale avevano nuotato sino a ieri. Volevano ricominciare a vendere per poi consumare, per poi vendere ancora e consumare di nuovo.Io ho visto gente che rivoleva la gabbia perché neppure sa di essere in gabbia. Non c’era l’idea di un modello alternativo, c’era solo un urlo sottinteso: “Rimettete in moto la macchina”. E la macchina si chiama capitale. Non pretendo coscienze sociali che non si possono chiedere. Ma se questa che ho visto era l’avanguardia posso agevolmente immaginarmi la massa alla cui testa si muove. Non c’è nessuna parentela con l’iconografia di Pellizza da Volpedo. Mi si dirà che non si può dividere la lotta anticapitalista cosciente dalla protesta per l’impoverimento. Non si può se si pensa che la massa passerà dallo stadio della lotta protestataria alla scoperta della lotta contro il capitale. E chi dice e su quali basi lo afferma che questa gente che ho visto, incazzata per ciò che ha perso, maturerà anche la più pallida idea di un modello differente? Certo magari in qualche testo teorico avviene anche questo miracolo. Ma siamo nel mondo. E il mondo ha visto i tedeschi dell’Est nel 1989 passare il muro e correre a rotta di collo verso il più vicino supermercato di Berlino Ovest.Ed è lo stesso mondo che a Kiev vede un bel po’ di dimostranti scendere in piazza per poter entrare in Europa e non rimanere nell’orbita dei satrapi russi. Naturalmente giusto per far capire che vogliono il capitalismo tirano giù l’ultima statua di Lenin ancora in piedi. Un’altra lotta sacrosanta contro il totalitarismo, o una lotta per entrare nel mondo del capitalismo ben temperato? Ho visto gente accomunata dal comune scivolamento all’indietro della propria possibilità di essere dentro alla macchina del consumo. E a proposito di macchine, uno mi ha detto che ha dovuto vendersi la Golf Gti che con tanti sacrifici s’era comprato. Una per farmi riflettere sul suo scivolamento all’indietro mi ha detto che tutti gli anni riusciva ad andare a farsi una settimana a Sharm-el-Sheik (abbreviato “Sciarm” con la stessa pronuncia di “sciampista”) e che ora non aveva i soldi per pagarsi il mutuo. E allora ho capito che per dissolvere questo prodromo di “rivoluzione” basterebbe un cambiamento di congiuntura, un po’ più di Pil.Qualcuno mi ha detto che se non cambierà qualcosa, l’Italia diventerà come la Grecia. Ossia, voleva dire, ci ribelleremo come i greci. Lui crede che ci sia una rivoluzione, in Grecia. Esattamente come quelli che credono che quanto è accaduto sia il primo raggio della rivoluzione anticapitalista. Sarebbe anche bello, ma non è così. Non è così perché nessuno aveva in mente un modello alternativo. E nessuna delle persone che ho visto a quei blocchi metteva in dubbio il modello cui si aggrappava. Non ci sarà nessuna rivoluzione. Non ci sarà tra un mese, tra un anno o tra dieci. La scorciatoia non arriverà. Perché una rivoluzione, quella vera, è il frutto di un lungo lavoro di penetrazione di idee differenti lungo l’arco di decenni. Voltaire iniziò a scrivere nel 1716 e morì senza aver visto la Rivoluzione che aveva contribuito a rendere cosciente. Qualcuno mi dirà che il rivoltoso che assaliva la Bastiglia nulla sapeva magari di Voltaire. È probabile, anzi, quasi certo. Ma ciononostante quel rivoluzionario aveva chiaro in mente che non voleva più essere parte del regime che assaliva. Ne voleva uno che fosse diverso, non voleva star meglio in quello che c’era. Perché se è vero che la rivoluzione non è un pranzo di gala, è anche vero che non si improvvisa. Quando si improvvisa è una italica rivolta per il pane: quando cala il prezzo tutti se ne tornano a casa.Ho percorso duecento chilometri in auto negli ultimi due giorni ed ho trovato due blocchi del cosiddetto movimento dei forconi. Qualcuno ci vede il baluginare della rivolta che verrà, io ho visto la ripetizione di una tradizione italiana vecchia di un migliaio d’anni: la rivolta per il pane, l’assalto ai forni. Ho visto gente che ha perso tutti i contenitori politici nei quali era transitata. Ho visto gente smarrita, non l’avanguardia rivoluzionaria. Ma so che alcuni ci hanno ricamato sopra una teoria e la teoria dice che questi 30.000 (ma facciamo anche 50.000 o 100.000) sarebbero l’avanguardia della massa che verrà. La teoria dice che questi protestanti – presto o tardi – diventeranno anticapitalisti perché capiranno che il capitalismo li sta massacrando. E così diventeranno anticapitaliste le masse che se ne stanno a casa oggi non appena la crisi morderà le loro “sicurezze”.
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Traditi dal sistema: ma questa è rabbia, non rivoluzione
I forconi, il vuoto e la rivoluzione. La protesta sale? Buon segno: vuol dire che «molti italiani cominciano a capire che devono difendersi», dice Giulietto Chiesa, che però aggiunge: «Molti parlano di rivoluzione, senza sapere cos’è una rivoluzione: e questo non è bene, perché poi subentra la delusione». Quella dei “forconi”? «Per ora è solo protesta: senza una guida, senza obiettivi ben definiti». Verranno «inesorabilmente» momenti successivi, che richiederanno «obiettivi comuni ben meditati». Non mancano «furbi e mestatori che già stanno pensando di usare la protesta e di stravolgerla ai loro fini e nei loro interessi»? Ovvio, perché «in politica il vuoto non esiste: qualcuno cerca sempre di riempirlo. Tutto dipende da chi ci riesce». Concorda Marco Bersani, di Attac, sempre su “Megachip”: queste istanze di ribellione sono facilmente pilotabili, proprio perché «non portano con sé alcuna intuizione di futuro diverso, ma solo la drammatica rabbia per l’insopportabilità del presente».Mentre i movimenti per i beni comuni «hanno da tempo interiorizzato il conflitto di sistema, ovvero vogliono cambiare la società e lo fanno a partire da un conflitto tematico come paradigma (acqua, grandi opere etc.)», la ribellione di questi giorni «è portata avanti dai delusi dal sistema, ovvero da coloro che hanno profondamente creduto che il modello neoliberale li avrebbe tutelati e che oggi si ritrovano la rabbia dell’essere stati abbandonati, senza l’idea che sia possibile un altro modello sociale». Detto questo, per Bersani è obbligatorio cercare di parlare al “popolo” sceso in piazza, «sia perché molti di loro sono accompagnati da una condizione sociale di vera disperazione, sia perché nell’acuirsi del binomio crisi sociale/crisi della democrazia è evidente che le esplosioni di rabbia non possano presentarsi come lineari e compiute», bensì come «moti tanto drastici quanto confusi».Per Bersani, il carattere della protesta dimostra «l’assenza di un vero pensiero rivoluzionario nella società», e ancora una volta «rischiano di gongolare i poteri finanziari: nessuna banca è stata assaltata, nessun obiettivo finanziario è stato messo in campo e si paventa la “marcia su Roma”, non su Piazza Affari». Che fare, dunque? Innanzitutto, serve «una coalizione sociale ampia fra i movimenti per i beni comuni e i diritti». Alleanza oggi ancor più necessaria, «sia perché le singole lotte hanno bisogno di una forza maggiore, sia perché pezzi di società che non reggono più (è successo in questi giorni, ma aspettiamocene altre in forme e modi che non comprendiamo) devono potersi sintonizzare con un percorso di conflitto in atto, ma che abbia il respiro largo e sappia suggerire che all’insopportabilità del presente c’è una possibile risposta collettiva».I forconi, il vuoto e la rivoluzione. La protesta sale? Buon segno: vuol dire che «molti italiani cominciano a capire che devono difendersi», dice Giulietto Chiesa, che però aggiunge: «Molti parlano di rivoluzione, senza sapere cos’è una rivoluzione: e questo non è bene, perché poi subentra la delusione». Quella dei “forconi”? «Per ora è solo protesta: senza una guida, senza obiettivi ben definiti». Verranno «inesorabilmente» momenti successivi, che richiederanno «obiettivi comuni ben meditati». Non mancano «furbi e mestatori che già stanno pensando di usare la protesta e di stravolgerla ai loro fini e nei loro interessi»? Ovvio, perché «in politica il vuoto non esiste: qualcuno cerca sempre di riempirlo. Tutto dipende da chi ci riesce». Concorda Marco Bersani, di Attac, sempre su “Megachip”: queste istanze di ribellione sono facilmente pilotabili, proprio perché «non portano con sé alcuna intuizione di futuro diverso, ma solo la drammatica rabbia per l’insopportabilità del presente».
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Missione, salvare l’Italia: ora Renzi non ha più alibi
Tre milioni di votanti: una mobilitazione popolare inattesa, in un paese assediato dallo sciopero dei “forconi”. Anche chi guarda al Pd con scetticismo e preoccupazione deve ammettere che i numeri popolari espressi dalle primarie dell’8 dicembre che hanno largamente incoronato Matteo Renzi rappresentano un segnale chiaro: la speranza che un cambiamento sia ancora possibile, e che possa avvenire per via elettorale. E’ una sorta di “sentimento democratico”, che – nonostante le abissali differenze – induce periodicamente milioni di italiani a recapitare un messaggio: ai referendum per fermare il nucleare e la privatizzazione dell’acqua, e alle politiche per indirizzare un ultimatum alla casta attraverso Grillo. Così, grazie agli italiani che hanno votato per il sindaco di Fiorenze, la tombale “stabilità” costruita da Napolitano è già in crisi. «Mentre Renzi riceve i voti di milioni di elettori democratici, il premier del Pd, Enrico Letta, riceverà una fiducia scontata con i voti di Alfano, Formigoni, Schifani. E’ molto difficile pensare che queste scene possano stare insieme».Lo sintetizza Jacopo Iacoboni, sulla “Stampa”: il difficile per Renzi comincia ora, perché «si delineano due scene stridenti e totalmente incompatibili». Da una parte «un uomo non ancora quarantenne che conquista la guida del partito con una campagna aperta, popolare, e chiedendo un voto agli italiani», e dall’altra, «in stanze divenute grigie, purtroppo, il Parlamento delle “larve intese” (neanche più larghe)». Dal corpo elettorale del Pd arrivano indicazioni inequivocabili: l’outsider Civati «è andato piuttosto bene, senza fare sfracelli ma dando segno di vitalità», mentre il dalemiano Cuperlo è colato a picco, «non perché non fosse un uomo di valore: semplicemente perché è apparso totalmente schiacciato e legato all’abbraccio mortale della burocrazia del partito (e della Cgil): un tandem micidiale che farebbe perdere una partita anche a Maradona, se esistesse, nell’Italia 2013».«In tempi di disaffezione e di protesta dilagante», scrive Ezio Mauro su “Repubblica”, la risposta dell’8 dicembre è «sorprendente e confortante», perché rappresenta «un atto di fede nella democrazia e persino nella politica, unito a una speranza testarda di cambiamento: in mezzo ad una crisi gravissima, che con la mancanza di lavoro sta erodendo la democrazia materiale del paese, le primarie dicono che per il popolo di sinistra la politica è ancora l’unico strumento per cambiare l’Italia, a patto che incominci a cambiare se stessa». Aggiunge Mauro: «Ogni volta che la sinistra dischiude le sue porte e chiede ai cittadini di partecipare la reazione è positiva, nonostante le delusioni e le frustrazioni accumulate in passato per la dissipazione dei dirigenti». Secondo il direttore di “Repubblica”, giornale “organico” al Pd, «la sinistra è seduta su un giacimento di energia democratica». Archiviata l’ombra lunga della nomenklatura dalemiana, ora non ci sono più alibi: «Renzi ha vinto soprattutto per questo: per la promessa di cambiare il Pd e il paese. Dovrà farlo subito, cominciando dalla legge elettorale, dai costi della politica, dalla crisi del lavoro».Guai se il sindaco di Firenze disperdesse l’ultima speranza, aggiunge Mauro, perché i milioni di elettori che hanno votato Renzi pretendono un cambiamento radicale. Un notevolissimo atto di fiducia, se si considera che il neosegretario non ha ancora detto praticamente nulla su come “rivoluzionerebbe” l’Italia. Pochi spiragli anche dal discorso della vittoria, pronunciato a caldo: «Ci siamo resi conto che tocca a noi perché abbiamo conosciuto l’euro e non l’Europa». L’orizzonte che conta è quello delle europee: con l’annunciata battaglia no-euro affidata alla credibilità di un certo Berlusconi e alle sgangherate analisi che Grillo ha offerto alla platea del V-Day di Genova. Finora, Renzi ha ignorato il problema, sostenendo che l’Italia può rimediare – da sola – ai guasti di Bruxelles, semplicemente ripulendo se stessa dai suoi vizi. Nel frattempo, il paese sta affondando, col premier di turno costretto a tagliare servizi vitali per rispettare i lacci e le tagliole fiscali imposte da una Troika che nessuno ha eletto. Attenti a non dare per morto il Pd, avverte Aldo Giannuli, perché i suoi elettori (regolarmente frustrati da pessimi dirigenti) pretendono una svolta “di sinistra”, che punti cioè a tutelare i diritti della maggioranza. Manca ancora l’attesa spiegazione: nemmeno Renzi ha finora spiegato perché il paese stia crollando, ricattato dai poteri forti che dominano le istituzioni europee e impongono la capitolazione del sistema-Italia. Tre milioni di voti sono un’enorme apertura di credito. L’ultima, prima che qualcuno spenga la luce.Tre milioni di votanti: una mobilitazione popolare inattesa, in un paese assediato dallo sciopero dei “forconi”. Anche chi guarda al Pd con scetticismo e preoccupazione deve ammettere che i numeri popolari espressi dalle primarie dell’8 dicembre che hanno largamente incoronato Matteo Renzi rappresentano un segnale chiaro: la speranza che un cambiamento sia ancora possibile, e che possa avvenire per via elettorale, persino attraverso gli attuali partiti. E’ una sorta di “sentimento democratico”, che – nonostante le abissali differenze – induce periodicamente milioni di italiani a recapitare messaggi espliciti: ai referendum per fermare il nucleare e la privatizzazione dell’acqua, e alle politiche per indirizzare un ultimatum alla casta attraverso Grillo. Così, grazie agli italiani che hanno votato per il sindaco di Firenze, la tombale “stabilità” costruita da Napolitano è già in crisi. «Mentre Renzi riceve i voti di milioni di elettori democratici, il premier del Pd, Enrico Letta, riceverà una fiducia scontata con i voti di Alfano, Formigoni, Schifani. E’ molto difficile pensare che queste scene possano stare insieme».
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Contro Usa e Israele: il Mandela che non osano citare
«Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».Mandela è stato da lungo tempo sostenitore dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, offrendosi come mediatore politico tra Israele e i suoi vicini. «Israele dovrebbe ritirarsi da tutte le aree che ha conquistato a danno degli arabi nel 1967, e in particolare dovrebbe ritirarsi completamente dalle Alture del Golan, dal sud del Libano e dalla Cisgiordania», dichiarò Mandela, come riferì Suzanne Belling dell’agenzia “Jewish Telegraph”. Storico l’incontro con Fidel Castro nel 1991, insieme a cui tenne un discorso intitolato “Quanto lontano siamo andati noi schiavi”. Il paese stava commemorando il 38° anniversario della presa della caserma Moncada da parte dei castristi, e Mandela salutò il «posto speciale» di Cuba nel cuore della gente dell’Africa. «Fin dai suoi primi giorni, la rivoluzione cubana è stata anche una fonte di ispirazione per tutte le persone che amano la libertà. Ammiriamo i sacrifici del popolo cubano nel mantenere la propria indipendenza e sovranità di fronte alla malvagia campagna imperialista orchestrata per distruggere l’impressionante miglioramento realizzato nel corso della rivoluzione cubana».Sempre il leader sudafricano invitò a porre fine alle dure sanzioni imposte dall’Onu alla Libia nel 1997, e promise il suo sostegno a Gheddafi, a sua volta un suo sostenitore di lunga data. «È nostro dovere dare sostegno al leader fratello, soprattutto per quanto riguarda le sanzioni, che non stanno colpendo solo lui ma stanno colpendo la massa della gente qualunque, i nostri fratelli e sorelle africani», dichiarò Mandela. In occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, il 4 dicembre 1997, Mandela assemblò un gruppo «in qualità di sudafricani, di palestinesi nostri ospiti e di umanisti, per esprimere la nostra solidarietà nei confronti del popolo della Palestina». Nel discorso, fece appello affinché le fiamme metaforiche della solidarietà, della giustizia e della libertà fossero tenute accese. «L’Onu ha preso una posizione forte contro l’apartheid, e nel corso degli anni è stato costruito un consenso internazionale, che ha contribuito a porre fine a questo sistema iniquo. Ma sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».«Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».
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Truce Germania smemorata: noi le condonammo i debiti
Strana, pericolosa Germania: è risorta dalla vergogna mondiale del nazismo ricorrendo alla “politica della memoria” che l’ha riabilitata, beneficiando di un colossale taglio del debito accordatole nel ’53 (per motivi geopolitici, certo) da ben 65 paesi, tra cui l’Italia. Ma ora pare vittima di un’amnesia capitale, pretendendo che il debito altrui venga saldato, costi quel che costi, foss’anche la morte per fame dei poveri greci o la devastazione economica di un grande paese come il nostro. Per Barbara Spinelli, rischia di tornare in scena il peggio della storia europea: proprio i tedeschi stanno infliggendo al resto d’Europa la stessa “punizione” che furono i primi a subire, per mano della Francia, che dopo la Prima Guerra Mondiale demolì la Repubblica di Weimar spianando la strada alle camicie brune. Stessa ricetta degli “austeritari” di allora: deflazione spietata, super-export, crollo dei consumi interni, crescente irresponsabilità bellicosa verso i vicini.