Archivio del Tag ‘rivoluzione’
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Odio nucleare: era Israele il peggior nemico di Kennedy
Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: cinque diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era largamente infiltrata dal Mossad.La teoria secondo sui sarebbe stata proprio la Cia ad assassinare Kennedy si basa sulla profonda inimicizia che regnava tra Jfk e l’intelligence, dopo che il presidente si era rifiutato di sostenere militarmente l’agenzia durante l’invasione della Baia dei Porci nel 1963, fallita poi miseramente, causando il rafforzamento del regime rivoluzionario di Fidel Castro a Cuba. Stanco degli eccessi della Cia, Kennedy confidò al suo collaboratore Clark Clifford di voler smantellare la Cia in mille pezzi. E Israele, attraverso i suoi uomini nell’agenzia di Langley, era a conoscenza di questi rapporti di tensione tra Kennedy e l’intelligence, scrive Alami in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Possibile manovalanza dell’omicidio messo a segno a Dallas il 22 novembre 1963, la vasta rete criminale facente capo al gangster Meyer Lansky, boss della potentissima mafia ebraica negli Usa, anch’essa in stretto collegamento col servizio segreto israeliano.Le tensioni tra Usa e Israele cominciano tre anni prima dell’omicidio Kennedy, nel 1960, quando già il presidente uscente, Eisenhower, chiede spiegazioni al premier israeliano Ben Gurion sul misterioso impianto di Dimona, in pieno deserto. Gli israeliani mentono, sostenendo che si tratta di una innocua fabbrica tessile. La Cia però indaga fino a ottenere fotografie dell’installazione, classificate “top secret” ma poi pubblicate in prima pagina sul “New York Times”. Quando si insedia Kennedy, il 20 gennaio 1961, il caso Dimona è ormai diventato «un’autentica bomba a orologeria nelle relazioni fra Tel Aviv e Washington», ricorda Alami. La Casa Bianca aumenta le pressioni, e ottiene la prima ammissione: l’impianto in effetti è nucleare, ma “per scopi pacifici”. Kennedy allora rifiuta di invitare Ben Gurion a Washington, così il premier israeliano – per allentare la tensione – autorizza un’ispezione di due scienziati statunitensi, Ulysses Staebler e Jess Croach, che in un rapporto confermano la versione israeliana: Dimona non è un impianto militare. Questo sblocca il veto di Kennedy, che finalmente incontra Ben Gurion il 30 maggio e si fa promettere che Israele consentirà agli Usa (che non si fidano dell’alleato mediorientale) un monitoraggio costante dell’installazione.«Nei due anni successivi al colloquio, però – scrive Alami – la volpe israeliana non mantenne le promesse». Così, Kennedy si spazientisce e il 13 maggio 1963 intima a ben Gurion di riaprire alle ispezioni il sito di Dimona, pena l’isolamento mondiale di Israele. Per tutta risposta, Ben Gurion si dimette da primo ministro. A metà giugno, Jfk rivolge lo stesso ultimatum al successore di Ben Gurion, Levi Eshkol. Ed è qui – suggerisce Said Alami – che forse nasce il cambio radicale di strategia: far fuori il presidente-nemico, con l’aiuto della Cia. Il curriculum dei premier israeliani non è certo rassicurante, aggiunge Alami, ricordando le responsabilità della leadership di Tel Aviv nell’attività terroristica condotta per anni in Palestina, dalla pulizia etnica contro la popolazione civile agli attentati per colpire il protettorato britannico e ottenere lo status di paese indipendente.Ben Gurion, padre dello Stato di Israele, è responsabile di genocidio contro i civili palestinesi: il leader sionista fondò il primo gruppo armato, Hashomer, già nel 1909. Il suo successore al governo di Tel Aviv, Levi Eshkol, era uno dei capi dell’Haganah, organizzazione terroristica generata da Hashomer. Entrambi erano considerati «due criminali», peraltro «reclamati negli anni ’30 e ’40 dalla polizia britannica in Palestina e nel resto del mondo per i loro numerosi omicidi e attentati», ricorda Alami. Terzo illustre terrorista e futuro primo ministro di Israele è Yitzhak Shamir: era membro del gruppo terroristico ebraico Irgun e poi del gruppo Lehi, altra organizzazione terroristica in Palestina. Quando Eshkol diventò primo ministro, Shamir era a capo del comando omicidi del Mossad, dove ha servito dal 1955 al 1965, periodo in cui risiedeva per la maggior parte del tempo a Parigi, sede europea del Mossad.«Shamir serviva il Mossad, tra le altre cose, per eseguire l’Operazione Damocle, operazione in cui vennero uccisi vari scienziati tedeschi trasferiti in Egitto dopo la Rivoluzione degli Ufficiali Liberi in Egitto nel 1952 e l’arrivo al potere di Nasser», continua Alami. L’elenco prosegue col nome del quarto uomo, Menachem Beghin, anch’egli prima terrorista e poi premier. Già ricercato dalla giustizia britannica, Begin aveva militato fra i terroristi dell’Irgun fino a diventarne leader nel 1943. «E’ stato colui che ordinò la mattanza all’Hotel Rey David, a Gerusalemme, nel 1946, dove morirono 91 persone». Due anni più tardi, aggiunge Alami, 132 terroristi di Irgun, comandati proprio da Begin, furono protagonisti della famosa strage di Deir Yasin, in cui vennero assassinate centinaia di persone in due villaggi palestinesi, donne e bambini compresi. E’ dimostrato, dice Alami, che proprio Beghin abbia incontrato un gangster della mafia ebraica statunitense due settimane prima dell’omicidio di Kennedy: si tratta di Micky Cohen, uomo di fiducia di Meyer Lansky nella West Coast. Secondo Collins Piper, fu proprio Cohen a reclutare un altro ebreo, Jack Rubenstein, meglio conosciuto come Jack Ruby, per assassinare Lee Harvey Oswald, l’uomo accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Dallas.Dalla ricostruzione, tacciata di “antisemitismo” dall’epoca dell’uscita del libro di Collins Pipier, negli anni ‘90, non si salva neppure il quinto futuro premier israeliano, il coraggioso Yitzhak Rabin, protagonista della storica pace con Arafat (gli accordi di Oslo del 1993) che gli valsero il Premio Nobel per la Pace ma anche la “condanna a morte”, eseguita nel ‘95 da un colono ebreo estremista. La notizia è che Rabin si trovava a Dallas il giorno dell’omicidio Kennedy. «Non sarebbe proprio una coincidenza – sostiene Alami – tenendo conto del fatto che anche Rabin lavorava per il Mossad». Collins Pipier ipotizza che proprio Rabin, in veste di giornalista, abbia intervistato Jack Ruby il giorno prima dell’assassinio di Oswald nel quartier generale della polizia di Dallas. Anche il dossier di Said Alami mette in luce un clamoroso intreccio di potenti uomini d’affari americani collegati a Israele, al Mossad, alla Cia e alla criminalità ebraica negli Usa. «In realtà, la teoria che Israele stia dietro all’omicidio Kennedy non è né nuova né strana», ammette Alami. La “notizia”, semmai, è che Washington e i media l’hanno semplicemente dimenticata. Magico potere della mitica “lobby ebraica” che presidia Wall Street? Una cosa è certa: i tempi in cui la Casa Bianca osa fare la voce grossa con Israele, pretendendo trasparenza, sono finiti esattamente cinquant’anni fa, nella stessa tomba di Kennedy.Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era «largamente infiltrata dal Mossad».
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Benvenuti nel neo-feudalesimo totalitario e tecnocratico
«Se la lotta contro i banchieri, la casta, le multinazionali, vi è sempre sembrata una guerra, non avete ancora visto nulla. Quella era una scampagnata. Adesso si piange veramente». Paolo Barnard certifica l’avvento definitivo di «una politica tecnocratica che in Usa ed Europa ora mena ceffoni ai banchieri, cosa mai accaduta dal XIV secolo a oggi». Un allarme speciale: se oggi a essere colpite sono anche le banche, significa che «qualcosa di orribilmente sinistro sta accadendo all’interno del Vero Potere», cioè l’élite mondiale che non ha mai digerito lo Stato democratico moderno – quello che vive di spesa pubblica, cioè deficit per investimenti sociali – e oggi «ha fatto fuori la borghesia in tutti i paesi avanzati, ha esautorato i Parlamenti, ha abolito il diritto». Ora anche le banche sono in ginocchio, «esattamente come nei secoli dal X al XVII». Le banche, cioè gli istituti di credito che «con la mano destra servono il Vero Potere ma che con la sinistra possono acquisire troppa ricchezza, dunque potere».Da almeno 90 anni, sostiene Barnard, il Vero Potere si è semplicemente detto: «La rivoluzione borghese finanziata dalle banche, la griglia di potere superiore affidata alla democrazia e la politica elettiva non ci fotteranno mai più. Lo hanno fatto una volta, ora mai più. Vanno distrutte». Detto fatto. «Il loro progetto è un ritorno, adattato alla modernità, del potere feudale. Neofeudalesimo moderno, quindi tecnocratico». La versione aggiornata del feudalesimo medievale: non c’è posto per la democrazia, perché è il supremo potere del vertice che detta le regole, trasformate in leggi da istituzioni totalmente asservite all’élite, colonizzate dall’oligarchia planetaria. «Il Vero Potere è tornato, vestito di nuovo: è il Neofeudalesimo delle tecnocrazie internazionali», quelle che – per inciso – ora “spiegano” a Washington e Bruxelles come devono riscrivere le regole del commercio tra Usa ed Europa, col Trattato Transatlantico, a vantaggio delle grandi multinazionali e a scapito di chiunque altro – governi, cittadini e lavoratori, abbandonati a se stessi anche su temi cruciali come l’ambiente, la salute, i servizi vitali, la sicurezza alimentare.Riassume Barnard: «La Fed americana, come la Bce, non sono banche. Sono branche del governo. Ma in questi casi i governi cui appartengono – in Usa la rete neoliberista delle fondazioni e in Europa la rete neoclassica, neomercantile tedesca e neofeudale della Commissione Ue – hanno deciso da tempo che le componenti che minacciano il loro potere vanno totalmente distrutte». Nell’ordine, vanno rase al suolo «la borghesia piccolo-medio industriale, i Parlamenti col potere di legiferare, e anche le banche». L’euro? Un puro strumento di dominazione, vocato al sabotaggio dell’economia diffusa e del reddito medio. Il tutto, accettato passivamente da una sinistra inquinata, infiltrata dall’élite. Per un economista come Joseph Halevi, il piano egemonico può essere fermato solo con una forte resistenza politica. Mission impossibile: come raccomandato da Lewis Powell nel famigerato memorandum del 1971, l’oligarchia ha comodamente “comprato” i leader delle organizzazioni che avrebbero dovuto tutelare i lavoratori.«Se la lotta contro i banchieri, la casta, le multinazionali, vi è sempre sembrata una guerra, non avete ancora visto nulla. Quella era una scampagnata. Adesso si piange veramente». Paolo Barnard certifica l’avvento definitivo di «una politica tecnocratica che in Usa ed Europa ora mena ceffoni ai banchieri, cosa mai accaduta dal XIV secolo a oggi». Un allarme speciale: se oggi a essere colpite sono anche le banche, significa che «qualcosa di orribilmente sinistro sta accadendo all’interno del Vero Potere», cioè l’élite mondiale che non ha mai digerito lo Stato democratico moderno – quello che vive di spesa pubblica, cioè deficit per investimenti sociali – e oggi «ha fatto fuori la borghesia in tutti i paesi avanzati, ha esautorato i Parlamenti, ha abolito il diritto». Ora anche le banche sono in ginocchio, «esattamente come nei secoli dal X al XVII». Le banche, cioè gli istituti di credito che «con la mano destra servono il Vero Potere ma che con la sinistra possono acquisire troppa ricchezza, dunque potere».
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Tempi duri per i nuovi Goebbels: il web li smaschera
Da sempre i governanti tentano di persuaderci circa la correttezza delle loro azioni, perché le folle non seguono gli uomini di cui si conosca appieno la cattiveria. Il XX secolo ha visto comparire nuove modalità di diffusione delle idee che non si fanno intralciare dalla verità. Gli occidentali fanno risalire la propaganda moderna al ministro nazista Joseph Goebbels. È un modo per far dimenticare che l’arte di distorcere la percezione delle cose è stata precedentemente sviluppata dagli anglosassoni. Nel 1916, il Regno Unito creò la Wellington House a Londra, seguita dalla Crewe House. Contemporaneamente, gli Stati Uniti crearono il Committee on Public Information (Cpi). Considerando che la Prima Guerra Mondiale contrapponeva le masse e non più solo le forze armate, queste organizzazioni hanno tentato di intossicare la propria popolazione altrettanto quanto quelle dei loro alleati e dei loro nemici.La propaganda moderna inizia con la pubblicazione a Londra del Rapporto Bryce sui crimini di guerra tedeschi, che fu tradotto in trenta lingue. Secondo questo documento, l’esercito tedesco aveva violentato migliaia di donne in Belgio, e pertanto l’ armata britannica lottava contro la barbarie. È stato scoperto alla fine della Prima Guerra Mondiale che l’intera relazione era una bufala, composta di false testimonianze con l’aiuto di giornalisti. Da parte sua, negli Stati Uniti, George Creel inventò un mito secondo il quale la Seconda Guerra Mondiale era una crociata delle democrazie per una pace volta a realizzare i diritti dell’umanità. Gli storici hanno dimostrato che la guerra mondiale rispondeva sia a cause immediate sia a cause profonde, delle quali la più importante era la competizione tra le grandi potenze per espandere i loro imperi coloniali.Gli uffici britannici e statunitensi erano organizzazioni segrete che lavoravano per conto dei loro Stati. A differenza della propaganda leninista, che aspirava a “rivelare la verità” alle masse ignoranti, gli anglosassoni cercavano di ingannarle per manipolarle. E per questo le agenzie statali anglosassoni dovevano nascondersi e usurpare delle false identità. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno trascurato la propaganda e le hanno preferito le pubbliche relazioni. Non si trattava più di mentire, ma accompagnare per mano i giornalisti affinché vedessero solo ciò che gli veniva mostrato. Durante la guerra del Kosovo, la Nato ricorse ad Alastair Campbell, consigliere del primo ministro britannico, affinché raccontasse alla stampa una storia edificante al giorno. Mentre i giornalisti la riproducevano, l’Alleanza poteva bombardare “in pace”. Lo storytelling puntava meno a mentire quanto semmai a distrarre.Tuttavia, lo storytelling è tornato in forze con i fatti dell’11 settembre 2001: si trattava di focalizzare l’attenzione del pubblico sugli attentati contro New York e Washington affinché non percepisse il colpo di Stato militare organizzato in quel giorno: il trasferimento dei poteri esecutivi del presidente Bush a un’unità militare segreta e gli arresti domiciliari di tutti i parlamentari. Questo avvelenamento avveniva particolarmente ad opera di Benjamin Rhodes, oggi consigliere di Barack Obama. Nel corso degli anni successivi, la Casa Bianca ha installato un sistema di intossicazione con i suoi alleati chiave (Regno Unito, Canada, Australia e naturalmente Israele). Ogni giorno questi quattro governi hanno ricevuto istruzioni o discorsi pre-scritti dall’Ufficio dei media globali per giustificare la guerra in Iraq o diffamare l’Iran. Per la rapida diffusione delle sue bugie, Washington si è appoggiata, sin dal dal 1989, alla Cnn. Nel corso del tempo, gli Stati Uniti hanno creato un cartello di catene d’informazione satellitari (Al-Arabiya, Al-Jazeera, Bbc, Cnn, France 24, Sky).Nel 2011, durante il bombardamento di Tripoli, la Nato giunse a sorpresa a convincere i libici che avevano perso la guerra e che era inutile resistere ancora. Ma nel 2012, la Nato non è riuscita a replicare questo modello e a convincere i siriani che il loro governo sarebbe inevitabilmente caduto. Questa tattica è fallita perché i siriani erano a conoscenza della manipolazione effettuata dalle televisioni internazionali in Libia e hanno potuto prepararsi. E questo fallimento segna la fine dell’egemonia di questo cartello dell’“informazione”. L’attuale crisi tra Washington e Mosca sull’Ucraina ha costretto l’amministrazione Obama a rivedere il proprio sistema. Infatti, Washington ora non è più la sola a parlare, deve contraddire il governo e i media russi, accessibili ovunque nel mondo via satellite e via internet. Il Segretario di Stato John Kerry ha perciò nominato un nuovo vice per la propaganda, nella persona dell’ex direttore di “Time Magazine”, Richard Stengel. Ancor prima di prestare giuramento, il 15 aprile, stava già occupando il suo ufficio e, dal 5 marzo, ha inviato ai principali mezzi di comunicazione atlantisti una “Scheda documentata” sulle “10 contro-verità” che Putin avrebbe enunciato sull’Ucraina. Si ripeteva il 13 aprile con una seconda scheda che presentava “10 altre contro-verità”.Ciò che colpisce nel leggere questa prosa è la sua inettitudine. Punta a convalidare la storia ufficiale di una rivoluzione a Kiev e screditare il discorso russo sulla presenza di nazisti nel nuovo governo. Tuttavia, ora sappiamo che in realtà più che di una rivoluzione, si trattava casomai di un colpo di Stato organizzato dalla Nato e attuato dalla Polonia e da Israele mescolando le ricette delle “rivoluzioni colorate” e delle “primavere arabe”. I giornalisti che hanno ricevuto queste schede e le hanno ritrasmesse conoscevano perfettamente le registrazioni delle conversazioni telefoniche dell’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland, sulla maniera in cui Washington avrebbe cambiato il regime a spese dell’Unione europea, e il ministro affari esteri estone Urmas Paets sulla vera identità dei cecchini di Maidan. Inoltre, hanno poi appreso le rivelazioni del settimanale polacco “Nie” sulla formazione – due mesi prima degli eventi – dei rivoltosi nazisti presso l’Accademia di polizia polacca.Quanto a negare la presenza di nazisti nel nuovo governo ucraino, equivale ad affermare che la notte è luminosa. Non è nemmeno necessario andare a Kiev, per constatarlo basta leggere gli scritti degli attuali ministri o ascoltare i loro propositi. In definitiva, se questi argomenti contribuiscono a dare l’illusione di un ampio consenso dei media atlantisti, non hanno alcuna possibilità di convincere i cittadini curiosi. Al contrario, è così facile con Internet scoprire l’inganno che questo tipo di manipolazione non potrà che intaccare ancora di più la credibilità di Washington. L’unanimità dei media atlantisti in occasione dell’11 Settembre ha consentito di convincere l’opinione pubblica internazionale, ma il lavoro svolto da molti giornalisti e cittadini – di cui sono stato precursore – ha dimostrato l’impossibilità materiale della versione ufficiale. Tredici anni dopo, centinaia di milioni di persone sono diventate consapevoli di quelle menzogne.Questo processo potrà solo crescere, dato il nuovo dispositivo di propaganda statunitense. In definitiva, tutti coloro che riamplificano gli argomenti della Casa Bianca, specie i governi e i media della Nato, distruggono da soli la propria credibilità. Barack Obama e Benjamin Rhodes, John Kerry e Richard Stengel hanno effetto solo a breve termine. La loro propaganda convince le masse solo per poche settimane e fa sì che si ribellino quando capiscono la manipolazione. Involontariamente, minano la credibilità delle istituzioni degli Stati della Nato che le ritrasmettono consapevolmente. Hanno dimenticato che la propaganda del XX secolo poteva avere successo solo perché il mondo era diviso in blocchi che non comunicavano tra loro, e che il suo principio monolitico è incompatibile con i nuovi mezzi di comunicazione. La crisi ucraina non è finita, ma ha già profondamente cambiato il mondo: nel contraddire in pubblico il presidente degli Stati Uniti, Vladimir Putin ha compiuto un passo che ormai impedisce il successo della propaganda statunitense.(Thierry Meyssan, “Verso la fine della propaganda statunitense”, da “Megachip” del 20 aprile 2014).Da sempre i governanti tentano di persuaderci circa la correttezza delle loro azioni, perché le folle non seguono gli uomini di cui si conosca appieno la cattiveria. Il XX secolo ha visto comparire nuove modalità di diffusione delle idee che non si fanno intralciare dalla verità. Gli occidentali fanno risalire la propaganda moderna al ministro nazista Joseph Goebbels. È un modo per far dimenticare che l’arte di distorcere la percezione delle cose è stata precedentemente sviluppata dagli anglosassoni. Nel 1916, il Regno Unito creò la Wellington House a Londra, seguita dalla Crewe House. Contemporaneamente, gli Stati Uniti crearono il Committee on Public Information (Cpi). Considerando che la Prima Guerra Mondiale contrapponeva le masse e non più solo le forze armate, queste organizzazioni hanno tentato di intossicare la propria popolazione altrettanto quanto quelle dei loro alleati e dei loro nemici.
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Caro Michele Serra, non sono i No-Tav i ladri del 25 Aprile
Eternamente sdraiato sulla sua amaca, Micheleserra dedica (anche) al movimento No Tav un passo della sua personale invettiva contro la consueta celebrazione “partigiana” (di parte) della festa della Liberazione. Sul giornale di famiglia (Debenedetti) di oggi 26 aprile – sabato italiano – cita con fastidio «i vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa». La sua prosa prosegue con la più evergreen delle citazioni giornalistiche: la collocazione “in cortile” di tutti i temi “estranei” che sono stati portati nelle manifestazioni di Torino (No Tav), Palermo (No Muos) e Milano (No Canal). Un evidente, implicito indulgere nella celebrazione retorica cara al suo partito di riferimento, che cambia continuamente nome ma conserva pervicacemente il vizio di ritenersi unico autentico depositario della Verità su Democrazia, Costituzione e Resistenza.Una verità consolidata quanto comoda, secondo cui l’ultima fu una unificante e corale lotta di un intero popolo contro un manipolo di feroci ma minoritari fascisti rimasti fedeli agli “invasori” nazisti, quindi in quanto tali alieni… Serra non è notoriamente un frequentatore del nostro “cortile”. Se lo invitassimo ad una delle nostre serate non verrebbe di sicuro, per timore di restar contagiato dal virus incurabile che ha aggredito Erri De Luca. Ma è un peccato (per lui, s’intende): intanto perché, restando appollaiato nella sua Milanodabere (& prossimamente da mangiare, grazie all’Expo) non può ritenersi al riparo dalla propagazione di una epidemia che ha dimostrato di poter colpire a distanza come è successo – ad esempio – al suo “ex collega” Stefano Benni. Ma soprattutto perché, se avesse frequentato anche solo i “nostri” tre giorni a cavallo del sessantanovesimo anniversario della Liberazione, avrebbe faticato a trovare un rassicurante confine all’invasività (benefica) del nostro cortile: cimentarsi in un elenco è quanto di più temerario perché si rischia di riempire pagine senza garantirsi di non incorrere in gravi dimenticanze.Provo allora con alcuni esempi di iniziative particolarmente significative, anche per il forte valore simbolico che hanno avuto, suggerendo al famoso corsivista erede di Fortebraccio alcuni spunti che avrebbe potuto trarne, perché la sua vena non abbia prima o poi ad esaurirsi (con irreparibili conseguenze, visto l’impegnativo modo che ha scelto per guadagnarsi il pane): fosse stato a Bussoleno – alla Libreria del Sole – il pomeriggio del 24 avrebbe potuto ascoltare una antagonista NoTav come Ermelinda Varrese leggere alcune pagine del diario partigiano di Ada Gobetti.Una lettura attenta e sensibile nel sottolinearne l’umanità e la tolleranza che fecero di lei (che fu forse l’unica o una delle poche donne congedata con il grado di maggiore dell’esercito) un raro esempio di chi ha praticato come metodo la disponibilità a capire le ragioni degli altri, anche nei terribili frangenti di una guerra civile! E Gigi Richetto spiegare la contraddizione solo apparente della ostinazione del marito – Piero Gobetti – nel collocare nella rivoluzione liberale di Benedetto Croce e Luigi Einaudi il ruolo della classe operaia di Antonio Gramsci! E il racconto lucido, “didattico” di Ugo Berga, classe 1922, partigiano combattente e commissario politico della 106^ Brigata Garibaldi, che – senza ombra di retorica, né di “appartenenza” – ha spiegato il percorso coerente che portò Ada ad aderire alle formazioni di “Giustizia e Libertà” e la sua capacità di fare causa comune coi “comunisti” sulle nostre montagne.Le nostre montagne luogo di confine come le acque che circondano Lampedusa cantate da Giacomo Sferlazzo a Venaus in una continuità ideale con la “filiazione” sul tema migranti che il Valsusa Film Fest – alla sua diciottesima edizione – ha voluto con l’isola più distante dal nostro profondo nordovest, promuovendovi qualche anno fa una rassegna che ormai cammina sulle sue gambe. Un “favore” che i lampedusani hanno voluto quest’anno “restituire” offrendoci il loro apprezzato concerto; e non in una serata qualsiasi, ma al termine della ormai tradizionale fiaccolata in memoria della Resistenza dei sindaci e dei cittadini di valle che Piera Favro, sindaco di Mompantero, Nilo Durbiano, primo cittadino di Venaus e Sandro Plano, presidente di una Comunità Montana sciolta dall’uomo dalle mutande verdi, ma più unita che mai, hanno chiuso con un saluto a quattro ragazzi che – in attesa che le gravissime accuse a loro carico vengano provate – stanno scontando mesi di carcere duro e preventivo.Le nostre montagne avvolte da nuvole cariche di pioggia anche nel pomeriggio della ricorrenza, quando le mura che delimitano il cortile in cui Serra ci vorrebbe reclusi sono del tutto svanite per accogliere due alberelli spediti sin qui – il primo a Susa e il secondo a Venaus – rispettivamente da Hiroshima e Nagasaki. Due “esseri viventi” sopravvissuti all’olocausto nucleare “alleato” che Elso, uno dei partigiani che il brillante editorialista (del giornale fondato dell’ex guf Scalfari) descrive – forse perché non li frequenta – come sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi, ricorda non essere ancora stato “giustificato” neppure su un piano strettamente militare. E lo fa di fronte agli scolari di Venaus che si sono fatti carico di accudire la pianticella di kaki: il “dono”, come spiega con etimologia virtuosa il loro maestro Paolo Bertini, venuto da tanto lontano e non solo per regalarci i suoi frutti dorati – quando sarà divenuto un albero robusto a dispetto della morte totale da cui fu circondato il suo “progenitore”.Un albero che Tiziana Volta, pacifista bresciana, ha ormai diffuso in tanti luoghi-simbolo del nostro paese e il cui percorso verso la Valle di Susa, come ha ricordato, è iniziato timidamente e in punta di piedi oltre due anni fa. Una pianta cui farà compagnia una scultura di Daniela Baldo. Un “fiore dell’acqua” realizzato non per caso in legno – un antico trave proveniente dal tetto di una vecchia casa – che è stato scolpito e decorato con la collaborazione degli stessi scolari. Un venticinque aprile che si è chiuso idealmente il giorno dopo a Villar Focchiardo con la consegna, alle madri-coraggio della Terra dei Fuochi, del premio intitolato al partigiano Bruno Carli, primo orgoglioso presidente del Valsusa Film Fest, voluto proprio per collegare memoria storica e difesa della terra. Con buona pace del Serra “distante” che – dolcemente cullato dal dondolio della sua amaca – pare non essersi accorto di chi della Resistenza ha fatto e fa continuamente un uso ben più spregiudicato di quello che lui addebita ai “movimenti: quello di chi, per esempio, dopo averci costruito una carriera politica “ricca” e longeva è arrivato, quest’anno, quasi a paragonarne gli eroi rimasti uccisi e a cui dobbiamo la libertà, a due uccisori che – arruolati in difesa di una nave mercantile – hanno scambiato pescatori per pirati al largo delle coste di un oceano ben lontano dal “mare nostrum”.Forse per collocarsi nel solco inaugurato da un suo – sin qui – mancato delfino (il più fedele dei suoi “saggi”) che fu capace di inventarsi, disinteressatamente in pieno ventennio berlusconiano, una pari dignità tra i morti partigiani e quelli repubblichini. Né pare essersi indignato, il graffiante opinionista, per “l’uscita” del prefetto di Pordenone che ha ritenuto, prima di una retromarcia quasi più indecorosa del suo stesso editto, cagionevole per l’ordine pubblico e la sicurezza che si intonasse “Bella ciao” durante la manifestazione in ricordo della Resistenza! Perché la resistenza, caro Serra, è stata e resta sanamente divisiva. L’unità è una necessità, ma non è detto che sia una virtù. Perlomeno fin tanto che chi stette dalla parte sbagliata non ha l’onestà e la dignità di ammetterlo. Ma forse i grandi giornali non sono il luogo migliore per farsene una ragione. Perché sono luoghi molto più angusti del più piccolo dei cortili.(Claudio Giorno, “(25) aprile, dolce dormire”, dal blog di Giorno del 26 aprile 2014).Eternamente sdraiato sulla sua amaca, Micheleserra dedica (anche) al movimento No Tav un passo della sua personale invettiva contro la consueta celebrazione “partigiana” (di parte) della festa della Liberazione. Sul giornale di famiglia (Debenedetti) di oggi 26 aprile – sabato italiano – cita con fastidio «i vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa». La sua prosa prosegue con la più evergreen delle citazioni giornalistiche: la collocazione “in cortile” di tutti i temi “estranei” che sono stati portati nelle manifestazioni di Torino (No Tav), Palermo (No Muos) e Milano (No Canal). Un evidente, implicito indulgere nella celebrazione retorica cara al suo partito di riferimento, che cambia continuamente nome ma conserva pervicacemente il vizio di ritenersi unico autentico depositario della Verità su Democrazia, Costituzione e Resistenza.
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Gli 007: l’Italia soffre e protesta, ma non farà rivoluzioni
L’Italia in preda alla grande crisi sta soffrendo molto, ma la protesta è rimasta finora all’interno di limiti accettabili, grazie anche agli ammortizzatori sociali e all’azione moderatrice dei sindacati. Lo sostengono i servizi segreti, nella relazione annuale indirizzata al Parlamento. Secondo l’Aisi, per cui l’estremismo di destra non supera il folklore dei “forconi” o la violenza sporadica degli ultras del calcio, il problema sono le «strumentalizzazioni estremiste», che – potenziate dalla capacità di comunicazione del web – conterrebbero una potenziale «minaccia eversiva». Nel mirino degli 007, le “frange estreme” ai margini dei principali movimenti sociali: No-Tav e No-Muos, movimento per la casa, Terra dei Fuochi, comitati milanesi contro l’Expo 2015. E’ l’Italia che alza la voce nella sua protesta anti-crisi, quella che contesta il Fiscal Compact e i trattati neoliberisti della Troika europea, «con l’obiettivo di aggregare la militanza attorno all’appello “anticapitalista”», una lotta dal basso «per costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico».In pratica, segnala Federico Rucco su “Contropiano”, a suscitare l’attenzione dei servizi segreti sono «i movimenti di sinistra e antagonisti», quelli che «intervengono nel “sociale” in tutte le sue declinazioni (sindacali, problema abitativo, ambientale, antimilitarista». Non mancano gli anarchici, che «continuano ad essere identificati come la minaccia principale». Una “lettura politica” estremamente interessante, annota Rucco. Premessa: «Gli ammortizzatori sociali e il ruolo di mediazione dei sindacati confederali – scrive l’Aisi – hanno continuato ad agire da depotenziatori del conflitto, limitando i margini d’intervento delle frange estreme della sinistra antagonista». Per “Contropiano”, «non si potrebbe definire in modo più chiaro quello che siamo andati denunciando in questi anni rispetto al ruolo di Cgil, Cisl e Uil». Le lotte nei call center e nella logistica vengono indicate come «sporadiche, emergenti forme di autorganizzazione operaia».Per i servizi di sicurezza, «il ruolo del web si è confermato determinante quale amplificatore delle iniziative di lotta funzionale allo sviluppo di campagne condivise». Interessante l’analisi sulla dinamica dei conflitti sociali. All’Aisi non sfugge l’importanza della due giorni di mobilitazione nazionale del 18 e 19 ottobre «con lo sciopero generale dei sindacati di base e la manifestazione per il diritto alla casa e contro la crisi». Agli analisti dell’intelligence non sfugge l’importanza di forme di lotta come «la pratica dell’occupazione della piazza», che – pensando a Turchia, Grecia e Spagna – potrebbe «diventare una pratica di aggregazione del consenso facilmente replicabile anche altri ambiti, sia territoriali che tematici». Allarme rosso, ovviamente, per la mobilitazione in Sicilia contro l’insediamento militare Usa del Muos a Niscemi. Secondo i servizi, «il movimento No-Muos continua a vedere impegnati da un lato i “comitati popolari” intenzionati a muoversi in un contesto legale, e dall’altro componenti radicali determinate a compiere, con il supporto di esponenti antagonisti e anarchici siciliani, azioni di lotta più incisive, incentrate prioritariamente sulla tematica antimilitarista».Oltre alla crescita «dell’attivismo degli ambienti antimperialisti a sostegno della causa palestinese», l’Aisi rileva le «proteste di crescente spessore dell’antagonismo lombardo contro l’Expo di Milano 2015» e di quello pugliese contro il gasdotto Tap. Riferendosi poi alla Campania e alla Terra dei Fuochi, i servizi segreti sottolineano che è sotto «attenzione informativa» il tentativo, da parte di «settori dell’antagonismo locale», di «strumentalizzare la tematica, inserendosi nella protesta animata dalla popolazione locale». Ovviamente, aggiunge Rucco, un ampio dossier è dedicato al movimento No-Tav. In valle di Susa, secondo i servizi, c’è una netta differenziazione tra le «frange oltranziste» e la «componente popolare» del movimento, decisa a continuare una “resistenza “pacifica” alla grande opera, «anche se nel suo ambito – sempre secondo i servizi – si sono talora registrate posizioni di acquiescenza ad episodi di sabotaggio». E attenzione: alla lunga, la popolazione potrebbe dare segni di esasperazione. I servizi temono «l’innalzamento del livello di contrapposizione quale inevitabile conseguenza della “reazione” della popolazione a politiche decise dall’alto e al dispositivo repressivo».Quanto alle frange a vocazione violenta – anarchiche o marx-leniniste – la conclusione a cui giungono i servizi segreti è che «si tratta di gruppi esigui, in condizione di minoranza rispetto all’area antagonista». Al più, è possibile temere «azioni violente di limitato spessore operativo da parte di aggregazioni estemporanee o di individualità, intese non tanto a colpire il cuore del sistema, quanto piuttosto a dimostrare la capacità di ribellione, al fine di alimentare una progressiva radicalizzazione delle istanze contestative». Forte la sottolineatura sul ruolo di “pompieri sociali” svolto dalle organizzazioni sindacali, efficaci nel contenere il conflitto sociale in modo che resti «più ribelle che rivoluzionario». Conclude Rucco: «Chissà se l’iconoclastia di Renzi verso i sindacati e gli ammortizzatori sociali terrà conto di questo suggerimento dei servizi di sicurezza».L’Italia in preda alla grande crisi sta soffrendo molto, ma la protesta è rimasta finora all’interno di limiti accettabili, grazie anche agli ammortizzatori sociali e all’azione moderatrice dei sindacati. Lo sostengono i servizi segreti, nella relazione annuale indirizzata al Parlamento. Secondo l’Aisi, per cui l’estremismo di destra non supera il folklore dei “forconi” o la violenza sporadica degli ultras del calcio, il problema sono le «strumentalizzazioni estremiste», che – potenziate dalla capacità di comunicazione del web – conterrebbero una potenziale «minaccia eversiva». Nel mirino degli 007, le “frange estreme” ai margini dei principali movimenti sociali: No-Tav e No-Muos, movimento per la casa, Terra dei Fuochi, comitati milanesi contro l’Expo 2015. E’ l’Italia che alza la voce nella sua protesta anti-crisi, quella che contesta il Fiscal Compact e i trattati neoliberisti della Troika europea, «con l’obiettivo di aggregare la militanza attorno all’appello “anticapitalista”», una lotta dal basso «per costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico».
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Castells: grazie a Internet, la libertà non è più utopia
Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.Lo spiega in un dialogo con Tomás Ibañez, a cui dobbiamo un ottimo “elogio del relativismo” pubblicato da Elèuthera nel 2012 (”Il libero pensiero”). Elèuthera ora ripropone anche questo botta e risposta informale, pubblicato in Spagna nel 2006. Titolo: “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”. Un libretto agile. Più che altro un’introduzione al tema. In cui si sostiene che l’era digitale ha creato le condizioni perché l’anarchismo (lui lo definisce “neoanarchismo”) e il pensiero libertario tornassero d’attualità. «Nella società attuale esiste un’esigenza di libertà» che va al di là dell’ideologia o delle battaglie condotte dai nuovi movimenti “alteromondisti”. E’ una questione empirica e strutturale. Ha a che vedere con la possibilità di costituire facilmente «reti di relazioni tra individualità», quindi non più individui atomizzati che subiscono passivamente il mercato anonimo e la comunicazione di massa.I movimenti si auto-organizzano e a volte riescono a darsi strutture autonome senza gerarchie stabilite, che lavorano in una sorta di assemblea permanente (una delle pratiche utopiche tipiche del pensiero anarchico). D’altra parte oggi è «la stessa struttura produttiva a richiedere, per essere più efficiente di prima, un funzionamento basato su strutture organizzative non gerarchizzate». Sta cambiando anche il modello di sviluppo, nel quale si intravvedono «modalità e relazioni che si allontanano dalle posizioni propriamente capitaliste e che si avvicinano al libertarismo». Nei tempi in cui viviamo, lo Stato, contro cui ha tradizionalmente lottato l’anarchismo, è diventato uno “strumento di dominio secondario”. La battaglia si è spostata sul piano della produzione e diffusione delle idee.E’ vero che le tecnologie informatiche non sono in grado di «promuovere, di per sé, un cambiamento sociale positivo», anche perché consentono alle autorità di avere un controllo senza precedenti sugli individui e le reti che li uniscono. Ma è pur vero che si tratta di “tecnologie di libertà” malleabili, flessibili: sono insomma un’occasione senza precedenti. Attraverso Internet ti possono sorvegliare, certo, ma potevano farlo anche prima, la differenza è che ora, grazie a Internet (a un suo utilizzo consapevole) «anche tu li puoi sorvegliare». Molto utile la postfazione di Andrea Staid, che mette i puntini sulle “i” e aggiorna il dialogo ai tempi (recentissimi) delle cosiddette “wikirivolte”, i nuovi movimenti insurrezionali che hanno spazzato via dittature longeve «nel più completo stupore delle democrazie occidentali».Non c’è rivoluzione che non abbia sfruttato il medium dell’epoca (una citazione di Foucault ci ricorda la funzione rivoluzionaria dei discorsi di Khomeini diffusi sotto forma di audiocassette) e quindi anche i social media possono essere uno strumento importante. Ma non potranno mai sostituire «la condivisione fisica delle emozioni» che avviene nelle strade e nelle piazze. Staid avverte: «Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che sarà la rete a salvarci… Non basterà Internet per risolvere il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali, sulla terra. La mutazione culturale libertaria deve essere in grado di penetrare nelle reti di rapporti reali fra esseri umani». Insomma, la cara vecchia battaglia per “decostruire il dominio”». Una cosa è certa: il pensiero libertario (l’anarchismo) non può che essere pluralista, “in divenire” e anti-dogmatico, si deve nutrire di una “concezione relativista critica”, quindi deve essere in grado di adattarsi ai contesti e alle circostanze, soprattutto oggi, in un’epoca in cui, come dice Castells, «il nodo problematico che caratterizza la società rimanda all’idea di libertà», che non può essere solo quella dell’individuo ma la «libertà di tutti».(Fabrizio Tassi, “Tecnologie di libertà”, da “Micromega” dell’11 marzo 2014. Il libro: Manuel Castells e Tomàs Ibañez, “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”, Eléuthera, 67 pagine, 7 euro).Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.
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Schmidt: capisco Putin, l’Occidente scherza col fuoco
«Nelle due guerre mondiali la Russia era con l’Occidente e la Germania era dalla parte sbagliata, oggi lo dimentichiamo». L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt avverte l’Europa: la politica di Obama è pericolosa, sulla Crimea è «comprensibile» la posizione di Putin. «Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mi asterrei come hanno fatto i cinesi», dice Schmidt, intervistato da Matthias Nass per “Die Zeit” e “Reoubblica”. La situazione potrebbe precipitare, se l’Occidente continuasse il suo “assedio” nei confronti della Russia. Specie nella contesa sull’Ucraina, che non è mai neppure esistita, veramente, come Stato nazionale. Dall’anziano statista tedesco un monito esplicito: «Si discute molto sulle cause della Prima Guerra Mondiale, che nessuno voleva, eppure scoppiò. La maggior parte delle guerre non sono pianificate. Lo furono solo alcune: l’attacco di Napoleone alla Russia, o la Seconda Guerra Mondiale, pianificata da Hitler. Una Terza Guerra Mondiale è molto inverosimile, ma non è totalmente impensabile».La situazione è pericolosam spiega Schmidt, perché «il nervosismo dell’Occidente crea nervosismo anche in Russia». Poco saggio, secondo l’ex cancelliere, utilizzare solo il metro del diritto internazionale, magari per giudicare “una violazione” l’annessione della Crimea, peraltro attuata a furor di popolo. «Il diritto internazionale è molto importante, ma è stato violato molte volte. Per esempio l’ingerenza nella guerra civile in Libia: l’Occidente ha ben ecceduto il mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Attenzione: «Lo sviluppo storico della Crimea è più importante del diritto internazionale». Tanto più che, fino ai primi anni ‘90, «l’Occidente non ha dubitato che Crimea e Ucraina fossero parti della Russia». Kiev è capitale di uno Stato indipendente ma non nazionale: «E’ molto discusso, tra gli storici, se esista una nazione ucraina». Quella di Putin, quindi, sarebbe una “violazione” molto anomala, perché commessa «contro uno Stato che, provvisoriamente, attraverso la rivoluzione di Majdan, non esisteva e non era capace di funzionare».A chi teme che Mosca ora potrebbe mettere un’ipoteca anche sull’Ucraina orientale popolata da russi e russofoni, Schmidt risponde che «sarebbe un errore, da parte dell’Occidente, comportarsi pensando che un simile sviluppo sia l’inevitabile prossimo passo russo». Uno scontro militare è possibile? «È pensabile. Non è né necessario, né inevitabile. Al momento il pericolo è piccolo, ma non è nullo». Le sanzioni antui-Cremlino? «Sono una stupidaggine. Specialmente il divieto di viaggio in Occidente per alte personalità della leadership russa. E sanzioni economiche colpirebbero l’Occidente come i russi». Idem per le forniture energetiche: l’Europa dovrebbe divenire indipendente dall’energia russa, come vorrebbero gli Usa? «È possibile», ma «non sarebbe saggio», perché «anche alla fine del XXI secolo la Russia resterà il vicino molto importante che fu dai tempi di Pietro il Grande». Quindi: cautela diplomatica, o si scherza col fuoco. E’ possibile che Putin si senta «erede di Pietro, dei Romanov e di Lenin», ma certo «non è un megalomane», dice Schmidt al giornalista di “Die Zeit”. «Si metta nei suoi panni: probabilmente sulla Crimea avrebbe reagito come lui».«Nelle due guerre mondiali la Russia era con l’Occidente e la Germania era dalla parte sbagliata, oggi lo dimentichiamo». L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt avverte l’Europa: la politica di Obama è pericolosa, sulla Crimea è «comprensibile» la posizione di Putin. «Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mi asterrei come hanno fatto i cinesi», dice Schmidt, intervistato da Matthias Nass per “Die Zeit” e “Repubblica”. La situazione potrebbe precipitare, se l’Occidente continuasse il suo “assedio” nei confronti della Russia. Specie nella contesa sull’Ucraina, che non è mai neppure esistita, veramente, come Stato nazionale. Dall’anziano statista tedesco un monito esplicito: «Si discute molto sulle cause della Prima Guerra Mondiale, che nessuno voleva, eppure scoppiò. La maggior parte delle guerre non sono pianificate. Lo furono solo alcune: l’attacco di Napoleone alla Russia, o la Seconda Guerra Mondiale, pianificata da Hitler. Una Terza Guerra Mondiale è molto inverosimile, ma non è totalmente impensabile».
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Reporter senza frontiere, ora sindaco lepenista a Béziers
«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.I francesi, scrive Leonardo Martinelli sul “Fatto Quotidiano”, se lo ricordano per anni a difendere con entusiasmo e determinazione «il diritto a informare e a essere informati in tutto il mondo». Protagonista di blitz sorprendenti, Ménard: nel 2008 salì di notte in cima a Notre-Dame, a Parigi, per poi sventolare una bandiera con la scritta “Freedom in China”, in occasione del passaggio della fiamma dei Giochi olimpici di Pechino nelle strade della capitale francese. «Oggi, ecco il nuovo Ménard: sindaco di Béziers, città del profondo Sud francese, una delle più degradate e povere del paese», nel cuore della regione dove nacque la lingua d’Oc. Ménard è stato un uomo simbolo, in Francia, delle tradizionali battaglie sociali della sinistra: gli stessi francesi faticano a comprenderne la “metamorfosi”, ora che si è schierato con un partito sovranista ed euroscettico, che la gauche – francese e non solo – continua a definire “sciovinista e di estrema destra”, non volendo riconoscere il “patriottismo socio-economico” invocato dalla Le Pen, per tornare alla “sovranità democratica nazionale” contro i diktat dell’Unione Europea.Classe 1953, Ménard è nato a Orano, in Algeria. «È quindi un pied-noir, figlio di coloni dell’Algeria francese, che dovette abbandonare dopo la raggiunta indipendenza», scrive Martinelli. Famiglia di origini modeste, il padre era un sindacalista comunista che poi passò all’Oas, l’organizzazione paramilitare che voleva mantenere il dominio della Francia sull’Algeria. La madre, una fervente cattolica. «Sono elementi non secondari, se si guarda alla vita che verrà del piccolo Robert». Lasciata in fretta Orano, andarono a vivere a Béziers, nel quartiere (ancora oggi) popolare della Devèze. «Negli anni Settanta il giovane Robert aderì alla Lega comunista rivoluzionaria, per poi prendere la tessera del Partito socialista nel 1979, abbandonato, a dire il vero, poco dopo l’elezione di François Mitterrand», uno dei massimi artefici dell’attuale Unione Europea. Ménard continuò negli anni Ottanta a impegnarsi animando radio libere, per poi entrare a far parte, come giornalista, della redazione locale di “Radio France”, l’emittente di Stato.A Montpellier, ancora nel Sud, fondò nel 1985 con un gruppo di amici “Reporters Sans Frontières”, «una Ong che in seguito ha assunto un ruolo importante, anche a livello internazionale, nella difesa dei giornalisti perseguitati in tutto il mondo», ricorda Martinelli. Sebbene Rsf non sia legata direttamente ad alcun partito, ha sempre avuto in Francia un’immagine di sinistra. «Ménard veniva invitato sempre più spesso in tv: diretto nell’eloquio, perfino un po’ irascibile. Ormai era diventato un personaggio pubblico». A sorpresa Ménard lasciò Rsf nel settembre 2008 per andare a Doha, in Qatar, a dirigere il “Centro per la libertà dell’informazione”, «finanziato dall’emirato, che non si può proprio definire una democrazia perfetta». Ma «fuggì anche da lì, l’anno seguente, in mezzo alle polemiche, per rientrare in Francia e ricominciare la sua carriera di giornalista, con trasmissioni alla tv e in radio». È a quel momento, continua il “Fatto”, che è emersa chiaramente la virata verso il Front National, firmando il libro “Vive Le Pen!”, uscito nel 2011. Il paladino francese della libertà d’informazione ha sempre rifiutato di iscriversi al partito. E anche a Béziers, la città della sua giovinezza, quando ha deciso di presentarsi alle comunali ha costituito una lista indipendente, con personaggi provenienti da vari orizzonti culturali, non solo quello del Fn, di cui ha chiesto solo in seguito l’appoggio esterno.In ogni caso, riguardo al discorso politico di Marine Le Pen, dice di «condividerne almeno l’80%», in modo assolutamente spiazzante: è favorevole alla linea dura sull’immigrazione mentre è contrario al maggior cavallo di battaglia del Fronte Nazionale, cioè l’uscita della Francia dall’euro. «Adesso – ha dichiarato – dico quello che penso e che prima non osavo dire o non ammettevo neanche a me stesso». Si è quindi lanciato contro il «perbenismo della sinistra», accusata di essere troppo “politicamente corretta”. «Sul matrimonio gay, ad esempio – scrive Martinelli – si è espresso in maniera critica, definendolo un “capriccio” e assicurando che, una volta eletto a Béziers, si sarebbe rifiutato di celebrarne al municipio della città». Il “Fatto” sottolinea che Ménard ha scritto quasi tutti i suoi ultimi libri assieme a Emmanuelle Duverger, sua moglie, che proviene da una famiglia cattolica di destra.Partita in sordina nell’estate scorsa, la campagna elettorale di Ménard è diventata progressivamente un caso in Francia e soprattutto a Béziers, città rivierasca del sud-ovest mediterraneo con 76.000 abitanti, di cui il 32% vive al di sotto della soglia di povertà. Béziers, che ha vissuto un lento declino economico a partire dagli anni Ottanta, esce da 19 anni ininterrotti di dominio dell’Ump, il partito conservatore, protagonista di un governo locale accusato a più riprese di corruzione. «Anche questo ha favorito la lista di Ménard, oltre al fatto che la sinistra è storicamente debole in città», conclude Martinelli. «L’ex agitatore di Rsf ha costituito una lista “con l’obiettivo di riunire elettori di sinistra e di destra”. Obiettivo decisamente centrato».«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – che fu ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.
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Il socialista Hitler: riuscirò dove Marx e Lenin fallirono
Il 16 giugno 1941, mentre Hitler preparava le sue forze per l’Operazione Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica), Josef Goebbels lavorava al “nuovo ordine” che i nazisti avrebbero imposto alla Russia, una volta conquistata. Non ci sarebbe stato ritorno, egli scriveva, per i capitalisti, per i preti e per gli Zar. Piuttosto, in luogo del degradato bolscevismo ebraico, la Wehrmacht avrebbe imposto “Der echte Sozialismus”: il socialismo reale. Goebbels non ha mai dubitato del fatto di essere un socialista. Egli concepiva il nazismo come una migliore e più plausibile forma di socialismo, rispetto a quella che veniva propagandata da Lenin. Invece di diffondersi attraverso le nazioni, il socialismo avrebbe operato all’interno del Volk, il popolo. Così totale è la vittoria culturale della sinistra moderna, che finanche il mero racconto di questi eventi finisce con l’essere stridente. Ma è una questione che pochi, all’epoca, avrebbero trovato particolarmente controversa.George Watson così ha scritto nel “The Lost Literature of Socialism”: «E’ chiaro oltre ogni ragionevole dubbio che Hitler ed i suoi collaboratori credevano di essere socialisti e che altri, inclusi i socialdemocratici, la pensavano allo stesso modo». L’indizio è nel nome. Le generazioni successive della sinistra hanno cercato di spiegare la presenza (imbarazzante) del termine “socialista” nel nome di quel partito, Partito Nazionale Socialista dei Lavoratori Tedeschi, definendola come una cinica trovata pubblicitaria, o un’imbarazzante coincidenza. Il termine, invece, indicava esattamente quello che lo Nsdap si proponeva. Ad Hermann Rauschning, un prussiano che aveva brevemente lavorato per i nazisti – prima di respingere quest’ideologia e fuggire dal paese – e che aveva molto ammirato il pensiero dei rivoluzionari conosciuti in gioventù e che credeva fossero, però, più dei chiacchieroni che dei prevaricatori, Hitler, in effetti, disse: «Ho messo in pratica ciò che questi venditori ambulanti, questi pennivendoli, avevano timidamente cominciato a fare», aggiungendo che l’intero nazionalsocialismo si basava su Marx.Hitler credeva che l’errore di Marx fosse stato quello di favorire la guerra di classe, invece dell’unità nazionale – ovvero di aver volto i lavoratori contro gli industriali, invece di arruolare entrambi i gruppi nel rispettivo ordine corporativo. Il suo scopo, come sosteneva il suo consigliere economico, Otto Wagener, era quello di convertire il “Volk” tedesco al socialismo, senza eliminare al contempo i vecchi individualisti – termine con il quale indicava i banchieri ed i proprietari della fabbriche – che potevano meglio servire il socialismo, egli pensava, generando entrate per lo Stato. «Quello che il marxismo, il leninismo e lo stalinismo non sono riusciti a raggiungere – sosteneva Wagener – saremo in grado di ottenerlo noi». I lettori di sinistra staranno ormai ribollendo. Ogni volta che tocco quest’argomento, quelli che si ritengono progressisti e considerano l’antifascismo come parte della propria ideologia, danno in escandescenze. Beh, ragazzi, forse ora sapete com’è che ci sentiamo noi conservatori quando associate liberamente il nazismo con “la destra”.Per essere chiaro, non credo assolutamente che le sinistre moderne abbiano delle subliminali tendenze naziste, o che il loro odio per Hitler sia in alcun modo una finzione. Non è questo quello che voglio dire. Quello che voglio sostenere, in tutta sincerità, è che la continuità ideologica tra libero mercato e fascismo è un’idea altrettanto falsa. L’idea che il nazismo non sia che una forma di conservatorismo, seppur più estrema, si è fortemente insinuata nella cultura popolare. Ce ne rendiamo conto non solo quando dei foruncolosi studenti gridano “fascista” ai Tories, ma anche quando gli esperti definiscono i partiti rivoluzionari anticapitalisti – come ad esempio il Bnp, British National Party, e Alba Dorata – come “estrema destra”. Su che cosa si basa questa connessione? E’ come se si dicesse, puerilmente, che quelli di sinistra sono compassionevoli, mentre quelli di destra sono brutti, e che i fascisti sono cattivi.Messa giù in questo modo l’idea sembra un po’ idiota… ma pensate ai gruppi di tutto il mondo che la Bbc, ad esempio, definisce “di destra”: ovvero ai talebani (che vogliono la proprietà comune dei beni), oppure ai rivoluzionari iraniani (che hanno abolito la monarchia, sequestrato le industrie e distrutto la classe media), o a Vladimir Zhirinovsky, che si strugge per lo stalinismo. La barzelletta che “i nazisti erano di estrema destra” non è che un sintomo della più ampia nozione riguardo il termine “destra”, che non è altro che un sinonimo di “cattivo”. Uno dei miei elettori, una volta, si lamentò con la Bbc per un rapporto sulla repressione dei popoli indigeni del Messico, il cui governo veniva etichettato come “di destra”. Il partito al governo, fece notare, era un membro dell’Internazionale Socialista e questa cosa era rilevabile dal suo stesso nome: Partito Rivoluzionario Istituzionale. Impagabile fu la risposta della Bbc. Sì, accettiamo il fatto che si trattava di un partito socialista, «ma ciò che il nostro corrispondente stava cercando di far passare è che si trattava di un partito autoritario».L’autoritarismo, nella realtà, è stata una caratteristica comune ai socialisti di entrambe le varietà (quelli di tipo nazionale e quelli di tipo leninista), che si attaccavano l’un l’altro nei campi di prigionia, e usavano reciprocamente i plotoni di esecuzione. Ogni fazione detestava l’altra in quanto eretica, ma entrambi disprezzavano gli individualisti del libero mercato perché irrecuperabili. Friedrich von Hayek sottolineò, nel 1944, che la loro battaglia fu molto feroce perché si trattava, in realtà, di una battaglia tra fratelli. L’autoritarismo – ovvero, tanto per dargli un nome meno carico, la convinzione che la coazione statale sia giustificata dal perseguimento di un obiettivo più alto, come ad esempio il progresso scientifico o una maggiore uguaglianza – è stato tradizionalmente una caratteristica sia dei socialdemocratici che dei rivoluzionari.Jonah Goldberg ha lungamente descritto il fenomeno nella sua opera magna, “Liberal Fascism”. Molte persone si sentono offese dal suo titolo, evidentemente senza averlo letto perché, fin dalle prime pagine, egli rivela che la frase non era sua. Citava un impeccabile progressista, HG Wells, il quale, nel 1932, disse ai giovani liberali che dovevano diventare “liberal-fascisti” e “nazisti illuminati”. In quei giorni molti tra i più importanti intellettuali progressisti, tra cui Wells, Jack London, Havelock Ellis ed i Webbs, erano a favore dell’eugenetica, convinti che solo le ossessioni dei religiosi stavano trattenendo lo sviluppo di una specie più sana. Il modo asettico con cui ne furono precisate le conseguenze è stato ampiamente modificato nel nostro discorso, come del resto le reali parole di Hitler. George Bernard Shaw, ad esempio, così ebbe a dire nel 1933: «Lo sterminio deve essere fatto su base scientifica (se mai uno sterminio sia mai stato effettuato con umanità e con rimorso) e fino in fondo… Se vogliamo un certo tipo di civiltà e di cultura, dobbiamo sterminare il genere di persone che non vi rientra».L’eugenetica, naturalmente, sfocia facilmente nel razzismo. Lo stesso Engels parlò di «spazzatura razziale», riferendosi a quei gruppi che sarebbero stati necessariamente soppiantati una volta che il socialismo scientifico fosse stato attuato. Condite tutto ciò con una spolverata di anticapitalismo e spesso otterrete l’antisemitismo di sinistra, un qualcosa che abbiamo tagliato dalla nostra memoria, ma che una volta sarebbe passata senza obiezioni. «Com’è possibile che un socialista possa non essere antisemita?». E’ questo quello che Hitler aveva chiesto ai membri del suo partito, nel 1920. Gli intellettuali della sinistra contemporanea che criticano Israele sono, in segreto, antisemiti? No. Non nella stragrande maggioranza dei casi. Sono, i socialisti moderni, interiormente desiderosi di mettere nei campi di prigionia gli scettici del riscaldamento globale? No. Vogliono, i keynesiani, introdurre l’intero impianto del corporativismo, che fu definito da Mussolini come «tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato»? Ancora una volta, no.Ci sono degli idioti, ovviamente, che finiscono con lo screditare ogni causa, ma la maggior parte delle persone di sinistra è sincera nel suo dichiarato impegno per i diritti umani, per la dignità personale e per il pluralismo. Il mio risentimento verso molte persone di sinistra (non tutte) è semplice da descrivere. Rifiutando di restituire il complimento, assumendo quindi una sorta di superiorità morale, rendono il dialogo politico quasi impossibile. Usare il termine “destra” per significare un qualcosa di “indesiderabile” ne costituisce un piccolo ma importante esempio. La prossima volta che sentite le sinistre usare la parola “fascista” come un insulto a carattere generale, sottolineate delicatamente la differenza che c’è tra ciò che a loro piace immaginare dello Nsdap e ciò che questo partito ha effettivamente proclamato.(Daniel Hannah, “La sinistra diventa incandescente se qualcuno ricorda le radici socialiste del nazismo”, da “The Telegraph”del 25 febbraio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Giornalista e politico britannico, esponente del Partito Conservatore, Hannah è deputato al Parlamento Europeo).Il 16 giugno 1941, mentre Hitler preparava le sue forze per l’Operazione Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica), Josef Goebbels lavorava al “nuovo ordine” che i nazisti avrebbero imposto alla Russia, una volta conquistata. Non ci sarebbe stato ritorno, egli scriveva, per i capitalisti, per i preti e per gli Zar. Piuttosto, in luogo del degradato bolscevismo ebraico, la Wehrmacht avrebbe imposto “Der echte Sozialismus”: il socialismo reale. Goebbels non ha mai dubitato del fatto di essere un socialista. Egli concepiva il nazismo come una migliore e più plausibile forma di socialismo, rispetto a quella che veniva propagandata da Lenin. Invece di diffondersi attraverso le nazioni, il socialismo avrebbe operato all’interno del Volk, il popolo. Così totale è la vittoria culturale della sinistra moderna, che finanche il mero racconto di questi eventi finisce con l’essere stridente. Ma è una questione che pochi, all’epoca, avrebbero trovato particolarmente controversa.
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La non-Europa lascia l’Ucraina in pasto a Usa e Russia
In parte per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante. Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni. È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina – quella insorta in piazza a Kiev – vuole “entrare in Europa”. Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale – non denunciato a Occidente – forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ‘39 collaborò con Hitler.È sbagliato chiamare l’Est ucraino regioni secessioniste perché “abitate da filorussi”. Non sono filo-russi ma russi, semplicemente. In Crimea il 60% della popolazione è russa, e il 77% usa il russo come lingua madre (solo il 10% parla ucraino). È mistificante accomunare Nato e Europa: se tanti sognano l’Unione, solo una minoranza aspira alla Nato (una minaccia, per il 40%). Sbagliato è infine il lessico della guerra fredda applicato ai rapporti euro-americani con Mosca, accompagnato dal refrain: è “nostra” vittoria, se Mosca è sconfitta. Dal presente dramma bellicoso si uscirà con altri linguaggi, altre dicotomie. Con una politica – non ancora tentata – che cessi di identificare i successi democratici con la disfatta della Russia. Che integri quest’ultima senza trattarla come immutabile Stato ostile: con una diplomazia intransigente su punti nodali ma che «rispetti l’onore e la dignità dei singoli Stati, Mosca compresa», come scrive lo studioso russo-americano Andrej Tsygankov.L’Ucraina è una regione più vitale per Mosca che per l’Occidente, e i suoi abitanti russi vanno rassicurati a ogni costo. È il solo modo per esser severi con Mosca e insieme rispettarla, coinvolgerla. Siamo lontani dunque dalla guerra fredda. Che era complicata, ma aveva due elementi oggi assenti: una certa prevedibilità, garantita dalla dissuasione atomica; e la natura ideologica (oggi si usa l’orrendo aggettivo valoriale) di un conflitto tra Est sovietizzato e liberal-democrazie. Grazie allo spauracchio dell’Urss, Europa e Usa formavano un “occidente” senza pecche, qualsiasi cosa facesse. L’Urss era nemico esistenziale: letteralmente, ci faceva esistere come blocco di idee oltre che di armi. Questo schema è saltato, finita l’Urss, e l’Est è entrato nell’Unione. Mentre l’Urss crollava un alto dirigente sovietico, Georgij Arbatov, disse: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico». Non aveva torto, se ancora viviamo quel lutto come orfani riottosi.Ma non è più l’antagonismo ideologico a spingerci. La Russia aspira a Riconquiste come la Nato e Washington. Fa guerre espansive in Cecenia mentre gli Usa, passivamente seguiti dall’Europa, fanno guerre illegali cominciando dall’Iraq e proseguendo con le uccisioni mirate tramite i droni. «Oggi la Russia di Putin e “l’Occidente” condividono un’identica visione basata sulla ricerca di profitto e di potere: in tutto tranne su un punto, e cioè a chi debbano andare profitto e potere», scrive Marco D’Eramo su “Pagina 99”. Questo significa che non la guerra fredda torna, ma il vecchio equilibrio tra potenze (balance of power) che regnava in Europa fino al ‘45: i Grandi Giochi dell’800, in Asia centrale o Balcani. Qui è la perversione odierna, obnubilata. Washington ha giocato per anni con l’idea di spostare la Nato a Est, fino ai confini russi. Più per mantenere in piedi l’ostilità del Cremlino che per aiutare davvero nazioni divenute indipendenti.L’Europa avrebbe potuto essere primo attore, perso il “nemico esistenziale”. Non lo è diventata. È un corpo con tante piccole teste, alcune delle quali (Germania per prima) curano propri interessi economico-strategici da soli. Lo scandalo è che nel continente c’è ancora una pax americana opposta alla russa. Una pax europea neppure è pensata. Eppure una pax simile potrebbe esistere. L’unità europea fu inventata proprio in risposta all’equilibrio delle potenze, per una pace che non fosse una tregua ma un ordine nuovo. L’ombrello Usa ha protetto un pezzo del continente, consentendogli di edificare l’Unione, ma ha viziato gli europei, abituandoli all’indolenza passiva, all’inattività irresponsabile, al mutismo. Finite le guerre fratricide, l’Europa occidentale s’è occupata di economia, pensando che pace-guerra non fosse più di attualità. Lo è invece, atrocemente.Priva di visioni su una pace attiva, l’Europa cade in errori successivi fin dai tempi dell’allargamento. Allargamento che non definì la pax europea: i paesi dell’Est si liberarono, senza apprendere la libertà. Il poeta russo Brodsky lo disse subito: «La verità è che un uomo liberato non diventa per questo un uomo libero. La liberazione è solo un mezzo per raggiungere la libertà, non è un sinonimo della libertà (…) Se vogliamo svolgere il ruolo di uomini liberi, dobbiamo esser capaci di accettare o almeno imitare il comportamento di una persona libera che conosce lo scacco: una persona libera che fallisce non getta la pietra su nessuno». L’Est si liberò dalle alleanze con Mosca, ma quel che ritrovò, troppo spesso, fu il nazionalismo di prima. Non a caso molti a Est si misero a difendere la sovranità degli Stati, senza esser contestati. E la “liberazione” criticata da Brodsky risvegliò ataviche passioni mono-etniche, intolleranti del diverso. Si aggravò lo status dei Rom: ridivenuti apolidi. Si riaccesero nazionalismi irredentisti, come nell’Ungheria di Orbán. Nata contro le degenerazioni nazionaliste, L’Europa ammutolì.Kiev corre gli stessi rischi, proprio perché manca una pax europea che superi le sovranità statali assolute, e la loro fatale propensione bellicosa. Se tanti sono eurofili ignorando la filosofia dell’Unione, è perché anche l’Unione l’ignora. Bussola resta l’America: lo Stato che meno d’ogni altro riconosce autorità sopra la propria. Oppure il nazionalismo russo. Tra Russia e Usa il rapporto è antagonistico, ma a parole. Nei fatti è un rapporto di rivalità mimetica, di somiglianza inconfessata. L’Ucraina è una nazione dalle molte etnie, con una storia terribile. Storia di russificazioni forzate, che in Crimea risalgono al ‘700: ma oggi i russi che sono lì vanno protetti. Storia di deportazioni in massa di tatari dalla Crimea, che pagarono la collaborazione col nazismo e tornarono negli anni ‘90. Storia di una carestia orchestrata da Stalin, e di patti con Hitler su cui non è iniziata alcuna autocritica (il collaborazionista Bandera è un mito, per le destre estreme che hanno pesato nei recenti tumulti).Uno dei più nefasti fallimenti della rivoluzione a Kiev è stata la decisione di abolire la tutela della lingua russa a Est: cosa che ha attizzato paure e risentimenti antichissimi dei cittadini russi, timorosi di trasformarsi in paria inascoltati dal mondo. Tutte queste etnie convivevano, quando in Europa c’erano gli imperi. Pogrom e Shoah son figli dei nazionalismi. Oggi regnano due potenze dal comportamento imperialista (Usa, Russia), che però non sono imperi multietnici ma nazioni-Stato distruttive come in passato. Se l’Europa non trova in sé la vocazione di essere impero senza imperialismo, via d’uscita non c’è. Se non trova il coraggio di dire che mai considererà “filo- europei” neonazisti che si gloriano di un passato russofobo che combatté i liberatori dell’Urss, le guerre nel continente son destinate a ripetersi. Le tante chiese ucraine lo hanno capito meglio degli Stati.In parte per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante. Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni. È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina – quella insorta in piazza a Kiev – vuole “entrare in Europa”. Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale – non denunciato a Occidente – forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ‘39 collaborò con Hitler.
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La favola (vera) del paese inglese dove il cibo è gratis
C’era una volta una piccola cittadina inglese, Todmorten, dove tutto quello che cresceva – broccoli, mele, ribes, patate – poteva essere raccolto e mangiato. Gratuitamente. Sembra quasi una favola per bambini, e invece è cronaca: la cronaca favolosa del Paese Commestibile. Todmorten è una piccola cittadina di 15mila abitanti a nord di Manchester, protagonista da qualche anno di una rivoluzione gentile e generosa, che promuove la produzione e il consumo di cibo locale, conosciuta con il nome di “Incredible edible”. Nata a febbraio del 2008, l’iniziativa è fiorita rigogliosa, ispirando decine e decine di altri centri, dalla Francia a Cuba, da Hong Kong fino all’Australia (in Italia registriamo germogli del progetto a San Bonifacio, nel Veronese). E solo l’anno scorso ha attirato mille curiosi visitatori da ogni angolo del mondo, accorsi a ammirare lo straordinario potere dei piccoli gesti.Tutto cominciò dall’orto di Pam, diventato un giorno oggetto di furti. Invece di alzare il muro di recinzione, lei lo abbassò, piantò ortaggi e accanto a loro un cartello con la scritta “Servitevi”. «C’erano annunci che invitavano le persone a prendersi qualcosa dall’orto, ma ci sono voluti mesi alla gente per capire che ciò era davvero possibile», ricorda Pam, all’anagrafe Pamela Warhurst, ambientalista, attivista e fondatrice del movimento “Incredible edible”. Insieme a lei Mary Clear, Estelle e tante altre persone appassionate che da allora lavorano quotidianamente per coltivare piante e relazioni, coinvolgendo negozi, scuole, contadini e l’intera comunità. «Il nostro sogno è quello di diventare la prima cittadina autosufficiente dal punto di vista alimentare».Il cibo è servito: fagioli, piselli, erbe aromatiche crescono un po’ ovunque nelle aiuole e nei giardini del paese, persino davanti alla stazione di polizia, all’ospedale e nel giardino del cimitero. «Gli obiettivi del movimento sono quelli di fornire l’accesso al cibo locale per tutti, attraverso il lavoro comune, la diffusione di conoscenze e competenze e il sostegno alle imprese del territorio», dichiarano. Già, perché le ricadute sull’economia locale di questa piccola rivoluzione dal pollice verde hanno anche loro dell’incredibile. I negozi hanno incrementato le loro vendite, puntando soprattutto sul cibo a filiera corta, sono nati una Incredible Farm, una fattoria dove i giovani imparano a diventare imprenditori alimentari, un centro educativo con l’attivazione di un nuovo diploma dedicato allo studio dell’ambiente e del territorio, eventi e corsi di cucina, di panificazione e giardinaggio per tutti. L’eco mediatica che ne stanno ottenendo ha mosso anche il Principe Carlo, loro regale fan, andato in visita a Todmorten nel 2009. Se state già pianificando una trasferta anche voi, ricordate di scrivere alla gentile Estelle, che vi prenoterà lusingata un tour del centro, con presentazione e pranzo nel favoloso Paese Commestibile.(Alessandra Mazzotta, “Incredible edible, la favola (vera) del paese inglese dove il cibo è gratis”, dal newsmagazine “Econote”, ripreso da “Tiscali notizie” il 6 marzo 2014).C’era una volta una piccola cittadina inglese, Todmorten, dove tutto quello che cresceva – broccoli, mele, ribes, patate – poteva essere raccolto e mangiato. Gratuitamente. Sembra quasi una favola per bambini, e invece è cronaca: la cronaca favolosa del Paese Commestibile. Todmorten è una piccola cittadina di 15mila abitanti a nord di Manchester, protagonista da qualche anno di una rivoluzione gentile e generosa, che promuove la produzione e il consumo di cibo locale, conosciuta con il nome di “Incredible edible”. Nata a febbraio del 2008, l’iniziativa è fiorita rigogliosa, ispirando decine e decine di altri centri, dalla Francia a Cuba, da Hong Kong fino all’Australia (in Italia registriamo germogli del progetto a San Bonifacio, nel Veronese). E solo l’anno scorso ha attirato mille curiosi visitatori da ogni angolo del mondo, accorsi a ammirare lo straordinario potere dei piccoli gesti.
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Guerra al gas russo? Ma a pagare il conto saremo noi
Dietro alla crisi dell’Ucraina, cioè il grande crocevia dei gasdotti, si nasconde una colossale operazione geopolitica: gli Usa puntano a uscire dalla crisi economica a spese dell’Europa, trasformata in importatrice di gas americano? A quanto pare, ci aspettano 6-7 anni d’inferno: tanto occorre, infatti, per attrezzare il vecchio continente in modo che possa rinunciare al gas russo e passare a quello norvegese e americano. Analoga scelta anche per la Russia: le servono 6-7 anni per sviluppare i nuovi gasdotti verso il più grande mercato industriale del mondo, la Cina. Per l’Europa, pessime notizie: riguardo all’energia e quindi all’economia, l’Unione Europea dipenderebbe al 100% dagli Usa e dai suoi prezzi. Secondo Giulietto Chiesa, dobbiamo aspettarci «una guerra fredda intensificata», perché «saremo sul fronte del combattimento» tra Washington e Mosca e «saremo costretti a pagarne il prezzo». Una sfida pericolosa, perché «l’intera sicurezza europea sarà completamente rivoluzionata, coi missili americani piazzati in Ucraina a 400 chilometri da Mosca».Putin, osserva Giulietto Chiesa in un video-editoriale su “Pandora Tv”, non può più arretrare: o si arrende, facendo la fine di Yanukovich, o – al contrario – ribatterà colpo su colpo, come sta facendo in Crimea. Facile previsione: «La popolarità di Putin aumenterà vertiginosamente». Il capo del Cremlino diventa il “salvatore” della Russia: «Lo hanno capito i russi d’Ucraina, lo stanno capendo i russi di Crimea, lo capiranno i 150 milioni di russi». E questo, aggiunge Chiesa, è un segnale molto preoccupante per l’Occidente, che gioca il tutto per tutto: «In una decina d’anni si decide il destino non solo dell’Europa e della Russia, ma del mondo intero». Sul peso della posta in gioco non ci sono dubbi: basta osservare la precisione con cui alcuni strateghi americani come Strobe Talbott, già consigliere di Clinton, si affrettano ad “avvertire” Putin sulle conseguenze finanziarie del braccio di ferro con Obama. Invasa la Crimea, la Borsa di Mosca è franata del 12%, provocando il crollo del rublo. Emergenza che «ha costretto Putin a intervenire per salvare la sua moneta con 60 miliardi di dollari. gli è costata più quest’operazione che non le Olimpiadi di Sochi».Da Gazprom a Rosneft, i colossi mondiali dell’energia russa sono quotati nelle maggiori Borse del pianeta e compartecipati da capitale internazionale, anche americano. Per non parlare degli “oligarchi” di Mosca, i cui asset sono depositati nelle banche occidentali. «E se improvvisamente gli Stati Uniti, tra le sanzioni, mettessero il congelamento dei loro conti? Che succederebbe alla gran parte dell’oligarchia russa? Ecco il grande problema. Putin – spiega Giulietto Chiesa – ha potuto prosperare e far aumentare la sua popolarità in Russia grazie a gigantesche entrate statali, prodotte dalla vendita di gas e petrolio. Ma se improvvisamente questa vendita diventasse difficoltosa, come potrebbe continuare ad aumentare le pensioni, come ha fatto, o gli stipendi dei militari, della polizia e degli alti funzionari, facendo prosperare un certo ceto medio? Come potrebbe, Putin, in una situazione del genere?». La minaccia è chiara. Perché «l’operazione “conquista dell’Ucraina” significa “conquista dei gasdotti”, attraverso i quali passa il 90% del gas russo verso gli utilizzatori europei». La Crimea? Trascurabile. Come dice Talbott: se la prendano pure, gliela porteremo via dopo. L’importante, adesso, è l’Ucraina: cioè il rubinetto del gas destinato all’Europa, oggi venduto a prezzi accessibili. Ma domani? Che fine farà la manifattura tedesca, italiana e francese, senza più la garanzia del gas russo?Gli analisti statunitensi ci promettono un altro gas, ovvero «il gas norvegese – che c’è già ma ha un difetto: non ha i gasdotti – oppure il gas americano e canadese, quello nuovo, che sta arrivando adesso, dicono, in grandi quantità e a prezzi economicissimi». Entrambi però «devono essere prima liquefatti, trasportati attraverso l’oceano e poi nuovamente rigassificati sulle coste di tutti i paesi europei». Quanto costerà l’operazione? «Le cifre sono vertiginose e fanno pensare a un vero disegno strategico: l’America si rilancerà, rilancerà la sua economia attraverso la costruzione di un gigantesco ponte gasifero attraverso l’Oceano Atlantico». Tempi già calcolati, dai russi ma anche dall’Eni: non meno di 6-7 anni per allestire le nuove infrastrutture. Cosa accadrà nel frattempo? «Nessuno lo sa. L’unica cosa certa è che con questo piano tutta l’industria europea dipenderà dalle decisioni degli Stati Uniti e dal prezzo del gas che stabiliranno loro. Quindi avremo rincari evidenti». Secondo Chiesa, «il colpo alla Russia sicuramente sarà inferto», perché – con questa “guerra del gas” – l’Europa finirà «sotto il controllo diretto degli Stati Uniti, anche economico oltre che finanziario». Ecco spiegato il fervore “democratico” con cui gli Usa sostengono Kiev contro Mosca. Un gioco molto pericoloso, tenendo conto che l’obiettivo finale, strategico, resta Pechino.Dietro alla crisi dell’Ucraina, cioè il grande crocevia dei gasdotti, si nasconde una colossale operazione geopolitica: gli Usa puntano a uscire dalla crisi economica a spese dell’Europa, trasformata in importatrice di gas americano? A quanto pare, ci aspettano 6-7 anni d’inferno: tanto occorre, infatti, per attrezzare il vecchio continente in modo che possa rinunciare al gas russo e passare a quello norvegese e americano. Analoga scelta anche per la Russia: le servono 6-7 anni per sviluppare i nuovi gasdotti verso il più grande mercato industriale del mondo, la Cina. Per l’Europa, pessime notizie: riguardo all’energia e quindi all’economia, l’Unione Europea dipenderebbe al 100% dagli Usa e dai suoi prezzi. Secondo Giulietto Chiesa, dobbiamo aspettarci «una guerra fredda intensificata», perché «saremo sul fronte del combattimento» tra Washington e Mosca e «saremo costretti a pagarne il prezzo». Una sfida pericolosa, perché «l’intera sicurezza europea sarà completamente rivoluzionata, coi missili americani piazzati in Ucraina a 400 chilometri da Mosca».