Archivio del Tag ‘rivoluzione’
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Roberto Alice: un altro mondo è possibile, bisogna volerlo
«Si parla tanto di un progetto completamente assurdo e inutile come il costosissimo Tav Torino-Lione, mentre la Regione Piemonte ha chiuso 500 chilometri di ferrovie per i pendolari. E così, ogni giorno sono 400.000 le auto che inondano Torino». Follie piemontesi: «Il treno che da Pont Canavese raggiunge il capoluogo impiega un’ora e mezza per percorrere 55 chilometri. Con i soldi del Tav potremmo comprare 1.000 nuovi treni per il Piemonte, oppure 14.000 autobus elettrici o 200.000 auto elettriche. Risolveremmo una volta per tutte il problema del traffico e dell’inquinamento, mettendo fine all’inferno quotidiano dei pendolari». Parola di Roberto Alice, progettista hardware nel settore dell’elettronica per le telecomunicazioni. Torinese, è stato fra i tanti italiani che, anni fa, risposero all’appello di Beppe Grillo per ridare speranza all’Italia, sfinita dalla cattiva politica. Oggi la “rivoluzione” grillina è impigliata tra le luci e le ombre del governo gialloverde, troppo timido con Bruxelles nel rivendicare la propria autonomia finanziaria, indispensabile per investire in modo massiccio nei settori strategici, capaci di creare posti di lavoro. Lo sa benissimo Roberto Alice, keynesiano convinto, esponente piemontese del Movimento Roosevelt e collaboratore di “Scenari Economici”, il newsmagazine fondato da Antonio Maria Rinaldi, ora candidato alle europee con la Lega.Anche Alice è candidato, ma con i 5 Stelle e alle regionali piemontesi. «Il 26 maggio – dice Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt – gli elettori di Torino e provincia potranno arricchire la Regione Piemonte con la sensibilità “rooseveltiana” di Roberto Alice, sul piano della buona amministrazione e di una cultura politica di impronta keynesiana, fieramente ostile al neoliberismo che ha condizionato centrodestra e centrosinistra, meri esecutori dell’austerity Ue che, a cascata, ha impoverito Stati, Regioni e Comuni». Se Salvini e Di Maio possono non entusiasmare molti elettori, resta comunque intatta la solida passione degli attivisti come quelli che formano, ad esempio, la base pentastellata. Questione di impegno sociale personale: Roberto Alice vive la militanza nel Movimento 5 Stelle come strumento diretto di partecipazione civile, mettendo a disposizione la sua esperienza. Sogna un Piemonte più pulito e vivibile, da migliorare mettendoci la faccia. Di formazione scientifica, Roberto ha studiato fisica. Parla inglese e francese, viaggia, si guarda intorno. E’ comunque contento che, un anno fa, gli italiani abbiano mandato a casa la vecchia casta dei politici condizionati dai tecnocrati. Ecologia: fare pulizia a casa propria, innanzitutto. Il Piemonte? E’ un po’ come l’Italia: tante potenzialità, ma poco sfruttate. Cosa manca? Una visione: tecnologie pulite, al servizio dei cittadini.Quando ormai il Nord Europa brillava per la capacità di fare business riciclando i rifiuti con procedure a impatto zero, Torino non ha trovato di meglio che costruire un gigantesco inceneritore. Pessima idea: «Se i rifiuti li brucio, la loro massa non sparisce affatto: finisce semplicemente nell’aria, che poi respiriamo», dice Roberto. «Smettiamola di considerarli rifiuti, gli scarti che buttiamo via. Se anziché bruciarli li ricicliamo, abbiamo solo vantaggi: non inquiniamo, otteniamo materie prime rigenerate e risparmiamo molto denaro, in termini di energia». Facile a dirsi. Ma in Piemonte sembra tutto più complicato, a partire dai trasporti: i tagli – spesso imposti dalle politiche neoliberiste basate sul rigore – hanno colpito moltissime località periferiche, da cui ogni mattina sciamano lavoratori e studenti diretti nel capoluogo. Il Piano-B è semplice: incentivare la mobilità elettrica, creare parcheggi di scambio e aggregare i viaggiatori su vettori elettrici, treni e pullman. Efficienza, rapidità, aria pulita. «Abbiamo meno di 200 treni regionali, ormai vecchi, che spesso viaggiano a una media di 20 chilometri all’ora. E siamo nel 2019». Attenzione: «Quello dei pendolari rappresenta il 90% del trasporto regionale». Ma siamo in Piemonte, appunto, e non si smette di farneticare sull’ipotetico Tav Torino-Lione, inutile doppione (per merci inesistenti) dell’attuale linea Torino-Modane che già collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, appena riammodernato con una spesa di quasi mezzo miliardo di euro.Non è tutto, naturalmente. Tra i cavalli di battaglia di Roberto Alice c’è la contestazione del nuovo distretto sanitario torinese a valenza regionale, la Città della Salute, che si otterrebbe “traslocando” in periferia i poli ospedalieri d’eccellenza come il Cto (traumatologia), il Sant’Anna (neonatologia) e il Regina Margherita (pediatria). Veri e propri gioielli, di fama europea, cresciuti attorno all’ospedale maggiore, le Molinette, lungo il Po e di fronte alla collina. «Una location prestigiosa, appetibile per costruire alloggi residenziali: operazione che puzza di speculazione edilizia», avverte Alice. Poi ci sono altri pericoli, secondo il candidato grillino: «Si prevede una riduzione di 900 posti letto. E nel futuro maxi-quartiere ospedaliero rischia di sparire l’autonomia sanitaria dei centri di eccellenza. Senza contare la triste sorte dell’Ospedale Oftalmico, già colpito da scriteriati tagli orizzontali». Una politica lontana dai cittadini, progettata dall’alto e in modo opaco? E’ quanto sostengono gli esponenti piemontesi del Movimento 5 Stelle, forti – se non altro – delle prove di trasparenza sin qui offerte dall’amministrazione cittadina guidata dalla grillina Chiara Appendino, sindaco di Torino dal 30 giugno 2016.«Viviamo in un momento difficile», ammette Roberto Alice: «Ad ogni passo, se pur piccolo, verso una politica umanistica, si contrappone il fuoco di fila da parte dei grandi media, che rende faticoso il cammino. Per questo non bisogna mollare». Il governo gialloverde? «Sono cosciente delle difficoltà che deve affrontare». Un consiglio? «Un po’ più di coraggio nelle politiche economiche: i bravi economisti non ci mancano». Quello, infatti, è il vero nodo italiano: «Anziché le fallimentari politiche di austerità, per far crescere il benessere bisogna usare le leve keynesiane: investimento pubblico strategico». Con che soldi? Per esempio, quelli indicati da Nino Galloni, che lo stesso Roberto Alice ha presentato lo scorso 15 marzo a Torino, in un affollato convegno del Movimento Roosevelt: moneta parallela, non a debito, per creare posti di lavoro. «Dobbiamo abbandonare il modello neoaristocratico e turbo-liberista, accogliendo un modello equilibrato dove umanesimo e libero mercato concorrano come forze simbiotiche e non opposte». Come tradurre tutto ciò nelle elezioni regionali? «Impeganrsi nella Regione è importante – dice Roberto Alice – perché è la giusta dimensione intermedia fra il livello locale e quello nazionale ed europeo». Se l’Europarlamento conta pochissimo, e in ogni caso non elegge la Commissione Ue, almeno nelle Regioni sono ancora i cittadini-elettori e decidere, intercettando anche le istanze dei Comuni.Non è poco, in un sistema neo-feudale e post-democratico dominato da lobby potenti che, di fatto, scrivono direttamente le normative europee. Negli ultimi decenni, i livelli decisionali locali sono quasi scomparsi, in favore di una centralizzazione verticale del potere, a spese della sovranità democratica degli elettori. «E’ in Regione – insiste Roberto – dove le possibilità economiche date dallo Stato e dall’Europa possono essere tradotte in politiche virtuose verso il cittadino». Nei trasporti, per esempio: «Il diavolo si nasconde nei dettagli: a che serve disporre di grandi risorse per sviluppare la mobilità elettrica, se poi vengono usate solo per fare appalti a pioggia?». Roberto Alice ragiona da italiano semplice, ma fa parte di una categoria particolare: quella dei cittadini che si sono stancati di assistere passivamente al ripetersi del solito, deludente copione. Per questo si sono rimboccati le maniche, mettendosi a studiare problemi e soluzioni. «In una cornice ambientale sostenibile – ribadisce – possiamo guardare le nostre montagne sotto cieli azzurri, in un Piemonte di grandi tradizioni culturali ma spinto verso un futuro migliore grazie all’adozione di tecnologie pulite». D’accordo, ma perché mai un elettore dovrebbe votare proprio Roberto Alice? «Difficile rispondere», si schermisce l’interessato. «Conosco il territorio e le sue problematiche, ma sono tutte cose che potrebbe fare chiunque». Già, ma non tutti lo fanno. C’è qualcosa di intimamente personale, nello sguardo di Roberto: «Lo ammetto: ho la passione per vedere l’armonia, da cui deriva il benessere e forse anche la felicità. Che dite, può bastare?».«Si parla tanto di un progetto completamente assurdo e inutile come il costosissimo Tav Torino-Lione, mentre la Regione Piemonte ha chiuso 500 chilometri di ferrovie per i pendolari. E così, ogni giorno sono 400.000 le auto che inondano Torino». Follie piemontesi: «Il treno che da Pont Canavese raggiunge il capoluogo impiega un’ora e mezza per percorrere 55 chilometri. Con i soldi del Tav potremmo comprare 1.000 nuovi treni per il Piemonte, oppure 14.000 autobus elettrici o 200.000 auto elettriche. Risolveremmo una volta per tutte il problema del traffico e dell’inquinamento, mettendo fine all’inferno quotidiano dei pendolari». Parola di Roberto Alice, progettista hardware nel settore dell’elettronica per le telecomunicazioni. Torinese, è stato fra i tanti italiani che, anni fa, risposero all’appello di Beppe Grillo per ridare speranza all’Italia, sfinita dalla cattiva politica. Oggi la “rivoluzione” grillina è impigliata tra le luci e le ombre del governo gialloverde, troppo timido con Bruxelles nel rivendicare la propria autonomia finanziaria, indispensabile per investire in modo massiccio nei settori strategici, capaci di creare posti di lavoro. Lo sa benissimo Roberto Alice, keynesiano convinto, esponente piemontese del Movimento Roosevelt e collaboratore di “Scenari Economici”, il newsmagazine fondato da Antonio Maria Rinaldi, ora candidato alle europee con la Lega.
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Magaldi: Salvini abbaia ma non morde, proprio come l’Italia
Povera patria, cantava Battiato, ai tempi in cui il radar stava per inquadrare lo sfacelo di Tangentopoli e i rottami delle auto di Falcone e Borsellino, mentre su RaiTre i vari Ghezzi e Guglielmi scavavano tra le macerie civili nella vana speranza di rintracciare qualcosa che potesse somigliare a un umanesimo post-comunista. Nel frattempo – lontano dagli occhi, e dal cuore – l’altra sinistra, quella di potere, si accingeva a svendere segretamente l’Italia, impiccandola al “vincolo esterno” di Maastricht che l’avrebbe ridotta a colonia minore, docile preda dell’asse franco-tedesco. Quasi trent’anni dopo, sostituiti gli attori, il copione ripropone la stessa canzone. Povera patria, e povero Salvini: ridotto a farsi applaudire da un antagonista da salotto come Diego Fusaro per la ridicola crociata contro la cannabis light, dopo aver lisciato il pelo, a Verona, ai cultori dell’archeologia familistica pre-moderna, reazionaria, ottusamente tradizionalista. «Non ne azzecca più una, il leader della Lega». E dove sarebbe la notizia? Perché mai dovrebbero interessarci, le avvisaglie di declino che sfiorano il Capitano? Semplice: perché è stato l’unico, in questi anni, a mettere a fuoco il problema del paese, il vero avversario. Ma il suo attuale smarrimento fotografa alla perfezione la fragilità del sistema-Italia di fronte all’ostacolo – sempre lo stesso – che condanna la penisola alla depressione sociale ed economica.Non si smuove di un millimetro l’impero abusivo di Bruxelles, dominato da lobbisti travestiti da statisti. L’altra notizia è che la situazione sta peggiorando a vista d’occhio. E il governo gialloverde non sa che pesci pigliare, non avendo osato sfidare gli oligarchi tenendo duro almeno sulla richiesta di deficit. Povero Salvini, comunque: tacciato di xenofobia, pur essendo stato l’unico a far eleggere un senatore di origine africana. Lo hanno anche accusato di fascismo per il libro pubblicato dall’editrice vicina a CasaPound, sfrontatamente cacciata dal Salone del Libro di Torino – strano posto, dove si fa la guerra (elettorale) a un’azienda, anziché eventualmente lasciar procedere i magistrati (nel caso, per apologia di fascismo) contro la discutibile sortita verbale, individuale, di uno dei suoi responsabili. E a proposito di Torino: quante volte il Salone dell’Ipocrisia ha ospitato editori e autori dichiaratamente comunisti, quindi teoricamente altrettanto ostili, sulla carta, all’orizzonte culturale e antropologico della democrazia liberale? Ne ha per tutti, Gioele Magaldi, nell’osservare il caos che domina la vigilia delle europee: «Elezioni perfettamente inutili», sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, che annuncia che diserterà le urne. Motivo: impossibile sperare in un voto utile. Tutto resterà come prima, nelle mani del neoliberismo di regime incarnato da Ppe e Pse.Da una parte c’è il mostruoso e grottesco Juncker, che – in spregio di qualsiasi etica e decenza democratica – già annuncia che “i populisti” saranno tenuti lontani dai ruoli-chiave, a prescindere dal risultato della consultazione. All’ombra di Juncker siede l’altrettanto imbarazzante Moscovici, il “signor no” del deficit italiano, in conferenza stampa con l’ectoplasmatico Gentiloni, alter ego dell’impalpabile Zingaretti. A loro va bene così: con l’Italia che “subisce ancora”, come Fantozzi, votata – per una assurda maledizione – a non crescere, a restare sottomessa e depressa, a non guarire mai. Ma chi fronteggia l’impostura? In campo ci sono (rumorosamente) soltanto loro, i cosiddetti sovranisti, cioè la pessima compagnia che si è scelto Matteo Salvini: «I primi a opporsi all’Italia quando chiedeva più deficit sono stati proprio Polonia e Ungheria, gli alleati teorici della Lega», fa notare Magaldi, che nel bestseller “Massoni” ha disegnato la mappa segreta del potere mondialista, interamente massonico, che ha progettato questa globalizzazione senza diritti che stiamo tutti scontando, italiani senza lavoro e giovani senza futuro, aziende sull’orlo del fallimento, professionisti costretti a mendicare pagamenti che non arrivano mai.Sovranismo contro globalismo? Falsa dicotomia, checché ne pensi l’ex ideologo grillino Paolo Becchi: non contano le dimensioni del sistema, le sue frontiere, ma le modalità di gestione – democratiche oppure oligarchiche, progressiste o conservatrici (alzi la mano chi vorrebbe vivere nella Corea del Nord, paese teoricamente ultra-sovranista). E il nostro Salvini? S’è perso per strada, prima ancora di cominciare: «Abbaia, ma non morde», dice Magaldi. In questo, ricorda sinistramente l’altro Matteo, il Renzi che – a parole – sembrava sul punto di resuscitare l’Italia, opponendosi agli abusi della subdola tecnocrazia europea. In un attimo, è passato dal 40% agli scantinati della politica, tra gli ex. Potrebbe succedere anche al condottiero leghista: l’imboscata sleale di Di Maio e Conte – decapitare Armando Siri, per offrire una stampella moralistica ai 5 Stelle in pieno panico pre-elettorale – è già costata un 6% di consensi, alla Lega, almeno stando ai sondaggi. Su Siri, Magaldi è indignato: il sottosegretario doveva restare al suo posto, essendo solo indagato. «Salvini doveva difenderlo a oltranza. E invece cosa ha fatto? Al solito: ha abbaiato, minacciando sfracelli, ma poi ha ingoiato il rospo anche stavolta, incassando una sconfitta bruciante». Un guerriero di latta, il cui consenso si sta mostrando pericolosamente effimero e friabile.«Salvini sa benissimo che è Bruxelles, che dovrebbe mordere, e non i negozi di cannabis terapeutica: queste battaglie tragicomiche le lasci a Fusaro, e spenda meglio il suo tempo. Pensi all’Italia, alla crisi che sta azzannando il paese». Già, la grande crisi che tutti fingono di non vedere. Fino a ieri, se non altro, Salvini la indicava senza ipocrisie: è riuscito a piazzare al Senato un economista keynesiano come Alberto Bagnai. Dopodiché, nebbia in Val Padana. «Oltre ad aver ceduto di fronte al diktat di Bruxelles sul deficit, che avrebbe fatto crescere il Pil riducendo l’incidenza del debito – argomenta Magaldi – il governo gialloverde non ha neppure preso in considerazione la proposta che l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, avanza da anni: creare moneta parallela, non a debito e perfettamente ammessa dal Trattato di Lisbona, per aggirare la scarsità artificiosa di liquidità che affligge l’Eurozona e creare quei posti di lavoro di cui l’Italia ha drammaticamente bisogno».Infrastrutture strategiche, servizi, welfare, sicurezza del territorio. Servono soldi, che però l’élite neo-feudale non vuole che si spendano: la fine della crisi sarebbe anche la fine dell’attuale potere oligarchico, basato sulla precarizzazione del lavoro. Il piano avanza da anni, implacabile: tagliare i viveri allo Stato per costringerlo ad alzare le tasse, comprimere i salari e colpire i consumi. Amputare il welfare significa spremere il paese, spingendolo a erodere i risparmi. Il cielo si chiude: rassegnazione. Meno opportunità, meno diritti. Le elezioni? Non contano: lo dice Juncker, spettrale tecnocrate al quale Fabio Fazio, sulla Rai, stende il tappeto rosso. Se la ride, l’oligarca del Lussemburgo (rinomato paradiso fiscale, per decenni), già sapendo che l’alleanza di piombo tra popolari e socialisti europei ridurrà le elezioni del 26 maggio a una lugubre barzelletta. Ci vuole ben altro, per rovesciare questi cialtroni: un programma rivoluzionario, radicale, che smonti le loro menzogne travestite da scienza economica e vendute al popolo bue come dogma di fede. Salvini, almeno lui, lo sa benissimo. Ed è per questo che è imperdonabile, oggi, il suo ostinarsi ad abbaiare – contro falsi obiettivi – senza mai decidersi a mordere davvero.(Il pensiero di Magaldi è sintetizzato in due interventi su YouTube, l’11 maggio in video-chat con Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt, e il 13 maggio con Fabio Frabetti, conduttore di “Border Nights”. Dopo il recente convegno di Londra sul New Deal rooseveltiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, i temi esposti da Magaldi – come risolvere la crisi italiana, affrontando finalmente l’oligarchia di Bruxelles – saranno alla base dell’assemblea che il 14 luglio, a Roma, darà vita al “Partito che serve all’Italia”, laboratorio politico che si candida a smascherare le ipocrisie e la mancanza di coraggio della politica italiana di fronte alle reali cause del malessere del paese).Povera patria, cantava Battiato, ai tempi in cui il radar stava per inquadrare lo sfacelo di Tangentopoli e i rottami delle auto di Falcone e Borsellino, mentre su RaiTre i vari Ghezzi e Guglielmi scavavano tra le macerie civili nella vana speranza di rintracciare qualcosa che potesse somigliare a un umanesimo post-comunista. Nel frattempo – lontano dagli occhi, e dal cuore – l’altra sinistra, quella di potere, si accingeva a svendere segretamente l’Italia, impiccandola al “vincolo esterno” di Maastricht che l’avrebbe ridotta a colonia minore, docile preda dell’asse franco-tedesco. Quasi trent’anni dopo, sostituiti gli attori, il copione ripropone la stessa canzone. Povera patria, e povero Salvini: ridotto a farsi applaudire da un antagonista da salotto come Diego Fusaro per la ridicola crociata contro la cannabis light, dopo aver lisciato il pelo, a Verona, ai cultori dell’archeologia familistica pre-moderna, reazionaria, ottusamente tradizionalista. «Non ne azzecca più una, il leader della Lega». E dove sarebbe la notizia? Perché mai dovrebbero interessarci, le avvisaglie di declino che sfiorano il Capitano? Semplice: perché è stato l’unico, in questi anni, a mettere a fuoco il problema del paese, il vero avversario. Ma il suo attuale smarrimento fotografa alla perfezione la fragilità del sistema-Italia di fronte all’ostacolo – sempre lo stesso – che condanna la penisola alla depressione sociale ed economica.
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Torino, Auschwitz: vergognosa censura contro CasaPound
Osservavo in silenzio, con disgusto ormai antico, l’eterno ripetersi della Discriminazione Antifascista anche in quel carnevale del libro che è diventato il Salone di Torino. Liste di proscrizione, scomuniche, dimissioni, presìdi, mobilitazioni. Il solito repertorio che ormai conosciamo e vediamo ogni giorno. È una coazione a ripetere, gli antifascisti coatti sono forzati ai loro esorcismi, non possono farne a meno anche se sanno di sortire l’effetto opposto. Ho cercato di superare la nausea per studiare con distacco la loro pantomima e per cogliere la molla che scatta in questi casi: cos’è, da dove nasce, a che scopo, per poi manifestarsi col solito rituale. E ho scoperto che al fondo agisce una legge logico-matematica con un inquietante risvolto medico-sanitario: alla base di tutto c’è l’applicazione della proprietà transitiva. Seguitemi nel ragionamento, vi propongo lo schema generale. Se sei ritenuto a torto o ragione di destra, sei inevitabilmente colluso con la destra estrema, altrimenti ti dissoceresti in modo netto e vistoso. E se sei colluso o perlomeno contiguo all’estrema destra, sei in odore di fascismo, altrimenti ti dichiareresti antifascista; ma se sei in odore di fascismo, sei automaticamente in odore di nazismo e di razzismo. Ergo, sei il terminale di una filiera che parte da casa tua e arriva diritto ad Auschwitz.È quel che è accaduto a Torino: per la proprietà transitiva sono partiti dall’editore vicino a Casa Pound per censurare a cascata editori e autori di destra. Con me si sono evitati il problema in partenza: sono escluso da anni, sono fuori salone. Se gli inviti ricevuti ti allietano, gli inviti negati ti onorano. Comunque, ammetto, non ne soffro la mancanza. In realtà l’obbiettivo finale è oggi Salvini, il Gatto Mammone di turno. Immaginate cosa accadrebbe se la proprietà transitiva si applicasse anche a sinistra? Arriveremmo dalle Br e i gulag a Zingaretti e “La Repubblica”. Follia. E si caccerebbe, per citarne solo uno, un grande storico come Luciano Canfora perché è comunista. Discriminazione che nessuno a destra ha mai auspicato. La stessa progressione si pratica verso chi ritiene che si debbano frenare i flussi migratori, verso chi simpatizza per Salvini o si definisce patriota, conservatore e via dicendo. Dallo stop ai migranti al campo di sterminio c’è un filo conduttore, anzi un filo spinato, come hanno mostrato i propagandisti dell’Eterno Nazismo, utilizzando una foto di Salvini con Orban sui confini. La proprietà transitiva qui è condita con la frase: così cominciò Hitler. E allora se Hitler cominciò la sua rivoluzione in birreria mettiamo fuori legge tutte le birrerie?La proprietà transitiva applicata al tempo si chiama “sequenza fatale”; si comincia così, da un filo spinato, e poi si sa dove si va a finire. E io che continuavo a identificare il filo spinato con la cortina di ferro dei regimi comunisti, da cui non si poteva uscire… La proprietà transitiva regala sorprese; per esempio se sei di destra, per i vasi comunicanti suddetti, ti trovi complice di due sciagurati ragazzi di CasaPound che hanno violentato una ragazza. T’illumini d’infamia per la proprietà transitiva: se l’editore Altaforte, vicino a Casa Pound, pubblica un libro-intervista con Salvini, allora Salvini è dalla parte del nazifascismo, del terrorismo e dei due violentatori. La stessa proprietà transitiva vale in senso verticale come ereditarietà: tu puoi essere alla quarta generazione, ma se ti chiami Mussolini – per la proprietà transitiva che risale dal figlio al padre, al nonno e al bisnonno – non puoi candidarti, sei contaminato, di stirpe maledetta; sei criminale nel sangue. L’ereditarietà della pena è l’applicazione biologico-giuridica della proprietà transitiva. Indipendentemente da quello che sei e che hai fatto in vita tua, in quanto pronipote di Mussolini, sei colpevole per ragioni di sangue, di nome e dna: ma questo non è razzismo allo stato “puro”?Come si può capire, la proprietà transitiva sottintende un criterio medico-sanitario: se A è vicino a B e B è vicino a C che a sua volta è vicino a D, allora A ha contaminato D. È una catena di infetti. E’ necessario isolare A, B, C, D e tutti coloro che sono vicini a loro o solo d’accordo; è necessario metterli in quarantena, espellerli, escluderli. Sono intoccabili nel senso dei paria indiani, la casta infame da tenere separata per non contaminarsi. Dunque è necessario allestire un cordone sanitario per isolare gli infetti e i loro stand e al contempo esercitare a scopo di profilassi una discriminazione razziale a cascata. Un effetto perverso di questa proprietà, già sperimentato con successo da diversi decenni, è istigare a spezzare la catena per immunizzarsi: è così accaduto che i moderati, i liberali, i democristiani, spaventati dall’accusa di collusione e contagio, siano stati costretti a erigere muri verso la destra.E questa chiusura ha beneficiato i loro avversari: infatti era possibile il centro-sinistra ma non il centro-destra, l’agibilità del centro poteva allargarsi a sinistra fino alla sinistra estrema e ai comunisti, ma non poteva allearsi con la destra, perché – in virtù della proprietà transitiva – ti allei di fatto con l’estrema destra, razzista e xenofoba e quindi coi nazifascisti. Berlusconi, va detto, spezzò questa catena e questo interdetto, così il centro-destra diventò maggioranza e andò al governo. Ma Hitler non andò al potere… L’effetto più curioso che produce la proprietà transitiva, con la relativa sequenza fatale, è l’applicazione dell’effetto farfalla: come il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano in un’altra parte del mondo, così un saluto romano a Canicattì può provocare un uragano su Salvini e paraggi. La fisica al servizio del delirio partigiano produce queste assurde scemenze.(Marcello Veneziani, “Censurati per proprietà transitiva”, da “La Verità” del 9 maggio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Osservavo in silenzio, con disgusto ormai antico, l’eterno ripetersi della Discriminazione Antifascista anche in quel carnevale del libro che è diventato il Salone di Torino. Liste di proscrizione, scomuniche, dimissioni, presìdi, mobilitazioni. Il solito repertorio che ormai conosciamo e vediamo ogni giorno. È una coazione a ripetere, gli antifascisti coatti sono forzati ai loro esorcismi, non possono farne a meno anche se sanno di sortire l’effetto opposto. Ho cercato di superare la nausea per studiare con distacco la loro pantomima e per cogliere la molla che scatta in questi casi: cos’è, da dove nasce, a che scopo, per poi manifestarsi col solito rituale. E ho scoperto che al fondo agisce una legge logico-matematica con un inquietante risvolto medico-sanitario: alla base di tutto c’è l’applicazione della proprietà transitiva. Seguitemi nel ragionamento, vi propongo lo schema generale. Se sei ritenuto a torto o ragione di destra, sei inevitabilmente colluso con la destra estrema, altrimenti ti dissoceresti in modo netto e vistoso. E se sei colluso o perlomeno contiguo all’estrema destra, sei in odore di fascismo, altrimenti ti dichiareresti antifascista; ma se sei in odore di fascismo, sei automaticamente in odore di nazismo e di razzismo. Ergo, sei il terminale di una filiera che parte da casa tua e arriva diritto ad Auschwitz.
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Bernays e il golpe mentale che ci ha trasformati in pecore
«L’individuo opera le sue scelte mosso da impulsi irrazionali e incontrollati. E’ compito di una minoranza di persone elette guidarlo “come un gregge di pecore va guidato”». Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, lo zio Freud, il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria della rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese, si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione.Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni. La logica economica, dopo aver asservito l’industria bellica per accrescere la propria produzione, si avvicina così alla neonata scienza della psicoanalisi. Ma come fare a convincere i cittadini a consumare nuovi prodotti non avendo esaurito i vecchi acquistati? Per Bernays, la risposta è semplice: basta «inquadrare l’opinione pubblica così come un esercito inquadra i suoi soldati». Lo zio Sigmund aveva dato luce alla parte oscura che muove il desiderio spinto dall’inconscio: attraverso il meccanismo di compensazione dei desideri, l’individuo sposta l’orizzonte del suo desiderio represso e non ammissibile verso la sfera esterna della materialità per poterlo soddisfare.Appresa la lezione, Bernays offre la sua preziosa consulenza nella campagna della American Tobacco Company per abbattere il tabù dell’America del primo dopoguerra verso la pratica del fumo da parte delle donne. Nel 1929 inscena la parata delle “fiaccole della libertà”: ingaggia una decina di suffragette che, nel pieno di una manifestazione pasquale, accendono in modo teatrale l’oggetto del desiderio manifesto allora proibito, le sigarette, che nell’inconscio femminile rappresentavano il pene. La notizia fa il giro del mondo, veicolata come gesto di libertà e emancipazione femminile, intaccando fortemente il tabù puritano. L’individuo, dunque, è disposto ad assumere comportamenti irrazionali, orientati al consumo di prodotti non solo inutili per la sua vita, ma addirittura dannosi, pur di sentir soddisfatti alcuni sui aneliti inconfessabili e inappagati, pur di veicolare all’esterno un’immagine che lo gratifichi e lo faccia sentire apprezzato dagli altri.E proprio perché in preda a forze inconsce gli essere umani vanno controllati, “come un gregge di pecore va guidato”. Alle minoranze più intelligenti (élite) spetta il compito di fare proselitismo e indirizzare le masse indisciplinate e irrazionali. Una sorta di compito morale degli eletti: «Solo così si può coniugare l’interesse individuale con quello collettivo per favorire lo sviluppo e il benessere dell’America» (“Propaganda”, 1928). L’elenco dei clienti di Bernays è un pullulare di nomi del gotha economico e politico americano: Procter & Gamble, l’American General Electric, la General Motors e il presidente Usa Eisenhower sono solo alcuni dei nomi presenti nello sterminato portfolio di Bernays, capace di camuffare da colpo di stato il golpe guatemalteco del 1953 per favorire, al fianco della Cia, gli interessi della United Fruit Company. La sua fama arriverà oltreoceano, conquistando con le sue teorie il Ministro della Propaganda nazista Goebbels, suo dichiarato fan. E’ a lui che devono la paternità tutte le attuali figure “professionali”, come gli spin doctor, che hanno fatto della propaganda l’arma del consenso sociale.(Ilaria Bifarini, “Il padre della propaganda: Edward Bernays”, dal blog della Bifarini del 29 aprile 2019).«L’individuo opera le sue scelte mosso da impulsi irrazionali e incontrollati. E’ compito di una minoranza di persone elette guidarlo “come un gregge di pecore va guidato”». Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, lo zio Freud, il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria della rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese, si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione.
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Tra CasaPound e NoTav, a Torino il Salone dell’Ipocrisia
Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu tradotto, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.La città che esibisce la sua ostilità militante verso l’apologia del fascismo (nostalgia ostentata da Francesco Polacchi, presidente della casa editrice Altaforte), poi non riesce a tollerare il popolo della vicina valle di Susa, che resiste da vent’anni contro un progetto-monstre dalla comprovata inutilità, imposto al territorio da tutte le forze politiche (tranne una, i 5 Stelle) ridotte a cinghie di trasmissione del potere neoliberista europeo che lucra in modo imperiale e feudale sulle grandi opere, impedendo alla politica di far emergere la voce dei cittadini. Tecnicamente: sospensione della democrazia. Destra o sinistra, è uguale: sul Tav Torino-Lione, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (e pure CasaPound) la pensano come il Pd. Che i centomila valsusini siano contrari all’opera, a loro non importa. In questi anni, con l’aiuto dei migliori tecnici universitari, i NoTav hanno demolito sistematicamente qualsiasi ragione a supporto dell’infrastruttura, ma invano. L’Italia ha un bisogno disperato di infrastrutture utili, eppure Torino preferisce svenare il bilancio nazionale per una ferrovia desolatamente inutile. E tace, la città, se la polizia carica i manifestanti al corteo del Primo Maggio, colpevoli di sventolare bandiere NoTav.Perché il Pd torinese aveva tanta paura dei valsusini, nel giorno della festa del lavoro? Ovvio: avrebbero contestato i sindacati-fantasma che – Cgil in testa – il lavoro se lo sono lasciato sfilare di mano a colpi di controriforme neoliberali convalidate dai funesti governi di centrosinistra. Precarizzazione, flessibilità, delocalizzazioni, cancellazione dei diritti sociali. Arresasi su ogni fronte, la Cgil però tiene duro sul Tav, un feticcio ridicolo – poche centinaia di addetti, a tempo determinato – per il quale però Sergio Chiamparino s’è inventato le “madamine”, pronte a scendere dalle residenze in collina (zona Agnelli) per invocare il ritorno dell’occupazione (e soprattutto seppellire mediaticamente gli insopportabili NoTav). Così piovono manganellate sugli inermi, che il Primo Maggio avrebbero contestato l’ignavia dei sindacati italiani di fronte allo sfacelo del paese, culminato con la strage sociale messa in atto dai tecnocrati di Monti, coadiuvati dalla torinese Fornero, fino al pareggio di bilancio inserito nella Costituzione anche con i voti delle anime morte del Pd guidate da Bersani.A salvare la situazione – ripulendo le cattive coscienze – ora ci pensano i brutti e cattivi di CasaPound: che fortuna, per molti torinesi, potersela vedere con loro, rispolverando (piuttosto abusivamente) l’identità antifascista della città di Gobetti, la capitale operaia dove Gramsci e Togliatti studiavano da rivoluzionari nel biennio rosso, quasi cent’anni prima che gli stessi torinesi applaudissero Marchionne, il manager venuto dalla finanza per smontare la Fiat per portarla lontano da Torino. Sfila l’orgoglio antifascista, al Salone dell’Ipocrisia, tra i cerotti e i lividi dei manifestanti ai quali, il Primo Maggio, è stato fisicamente impedito di presenziare in piazza, sotto il palco dei sindacalisti che hanno svenduto i diritti del lavoro e puntellato la guerra sociale dell’élite contro il popolo lavoratore. Il primo a denunciarlo fu l’ennesimo grande torinese, il sociologo Luciano Gallino, anch’esso scomparso senza che la sua città se ne accorgesse.Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu proposto nelle scuole, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.
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Magaldi: il coraggio di una vera rivoluzione per il XXI secolo
Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.Coraggio che manca ai nostri politicanti di oggi, tutti preoccupati di abbaiare e di litigare per avere qualche percentuale irrisoria in più alle elezioni europee. Ma poi – una volta al potere – si limitano a vegetare, facendo i propri affari, dimenticandosi di quello che avevano promesso per raccogliere il consenso elettorale. Palme e Sankara sono stati assassinati quando il neoliberismo non voleva ostacoli davanti a sé, nemmeno ideologici, e men che meno da parte di statisti influenti e capaci di bloccare quello che doveva accadere all’inizio degli anni ‘90. Oggi, soffiare sul fuoco della violenza per fermare una rivoluzione anti-neoliberista non appare più una soluzione percorribile, per tante ragioni. C’è ormai una platea di cittadini, in Italia e nel mondo, che vedono ormai con chiarezza quello che non funziona. Tutti i politici che parlano di cambiamento, e poi si dimostrano essere dei bluff, ci mettono poco a essere sbugiardati dal corpo elettorale.Paolo Becchi, già ideologo dei 5 Stelle, oggi – con il libro “Italia sovrana” – si presenta come ideologo di un nuovo sovranismo, interessante nella sua declinazione intellettuale: la contrapposizione tra globalismo e sovranismo. Ma una volta scelto il sistema, globale o nazionale, poi tutto cambia se viene gestito con presupposti neoliberisti o keynesiani, post-democratici o democratici, liberal-conservatori o social-liberali. Di quale ideologia e cultura politica vogliamo nutrire il nostro futuro, nel XXI secolo? Quella dell’inganno neoliberista, secondo cui socialismo e liberalismo sono antitetici, e quella dell’inganno neoaristocratico, secondo cui basta servire su un piatto ai cittadini la ritualità della democrazia, dimenticando la sostanza? Oppure vogliamo richiedere un’idea equilibrata di gestione delle nostre società, nella quale il libero mercato e lo stesso capitalismo non siano demonizzati, ma trovino una complementarità nelle istanze sociali, cioè in un socialismo che è fatto di integrazioni, contrappesi e di una ritrovata autorevolezza di ciò che è pubblico?Pubblico e privato non sono antitetici. La narrazione neoliberista è stata all’insegna della svalutazione di ciò che è pubblico e statuale, della lentezza dei processi democratici rispetto all’esigenza di trattare la cosa pubblica come un’azienda che produce efficienza e profitti. Il mondo della libera impresa, che è storicamente collegato all’affermarsi delle democrazie, è un mondo diverso da quello della sfera pubblica, dove il core business non è la produttività in senso economicistico, bensì quella rete di servizi sociali, civili e materiali, infrastrutturali, che consente lo sviluppo di una vita felice, equilibrata. Le istituzioni pubbliche sono adatte a offrire un’uguaglianza delle opportunità, distinguendosi così dalle (giuste) leggi competitive del libero mercato. Le istituzioni pubbliche parlano di cooperazione, non di competitività.Il Movimento Roosevelt intende offrire un orizzonte ideologico nuovo, da abitare, per i cittadini del XXI secolo. Serve una rivoluzione culturale, perché non basta una semplice riforma dell’esistente. C’è bisogno di affrontare, pacificamente ma in modo deciso e forte, tutta una serie di poteri che non gradiscono questa conversione verso la democrazia sostanziale. La globalizzazione in atto è un processo che offre, piano piano, una disabitudine alla democrazia. E le contrapposizioni violente – su scala locale e internazionale – servono proprio a impedire un approccio di pace e armonia sociale. Quelli come noi vogliono costruire un orizzonte di eliminazione del conflitto sociale, attraverso una compesazione per le diseguaglianze prodotte dal mercato: va bene la disparità generata dal merito individuale, ma in cambio bisogna offrire a tutti i cittadini del globo gli elementi di base che consentono di avere un progetto di vita dignitoso. E’ una cosa che sembra semplice, ma in realtà oggi è rivoluzionaria. Esiste una nuova ideologia, il socialismo liberale, declinabile anche da angolazioni politiche diverse. E l’Italia può fare con orgoglio quello che ha già fatto nei secoli passati: offrire per prima una pietanza politico-culturale e ideologica agli altri popoli, agli altri paesi.Dall’Italia sono sempre partite le primizie – buone e cattive – che poi hanno influenzato il resto del mondo: la civiltà giuridica promana da Roma, l’universalismo giuridico viene dall’Italia romanizzata. E non dimentichiamo la lezione del Rinascimento, una sorta di manifesto ideologico-culturale che diventò poi storia concreta, trasformando le istituzioni e il modo stesso di concepire la realtà. Quel grande italiano che fu Giovanni Pico della Mirandola, con la “Oratio de hominis dignitate” costruì una nuova antropologia: l’antropologia dell’uomo artista, mago e scienziato, che non si limita a chinare il capo come creatura peccaminosa, bisognosa di redenzione, che quindi non ardisce conoscere e mettersi in rapporto dialettico con la natura. Da lì nasce l’idea dell’uomo che può trasformare le cose – la società, la natura stessa. Poi c’è il Risorgimento: i nostri eroi risorgimentali erano presi a modello in tutto il mondo, da popoli che anelavano all’autodeterminazione.C’è stato anche il fascismo, naturalmente: altra primizia italiana. Una dottrina post-democratica e di fatto neoaristocratica, tuttavia affascinante per i tanti che si lasciarono influenzare da quella che – per me, che sono fieramente democratico – non è che una perversione. Siamo orogliosi di essere italiani, senza che questo ci spinga a pensare che abbia davvero un futuro la contrapposizione tra sovranismo e globalismo. Sto molto apprezzando il libro di Paolo Becchi, “Italia sovrana”, e il senso in cui lui parla di sovranismo. Però credo che la sfida vera sia quella di “glocalizzare” la democrazia, uscendo da questo film che contrappone i nazionalismi alle oligarchie globali, come se globalizzare i rapporti fosse per ciò stesso sinonimo di diminuzione della democrazia. Io credo piuttosto che si possano globalizzare anche i diritti universali. Ma come fare, se non si ha una visione globale di questi diritti, e se ciascuno si preoccupa soltanto di recuperare la sovranità del proprio Stato e del proprio popolo?Alla fine, questo è un nazionalismo non aggressivo, teso a sottrarre alle oligarchie apolidi il controllo della moneta, dell’economia, della società e delle istituzioni. Ma come possiamo però immaginare un XXI secolo in cui non ci curiamo di tanti territori, dove le popolazioni non sono mai nemmeno passate per processi democratici?In fondo, anche il processo risorgimentale italiano metteva insieme più Stati e staterelli coi propri usi, tradizioni, dialetti e lingue. Eppure c’era un sentimento di italianità che univa tutti. Ma la lingua italiana era quasi artificiale, creata per unire popoli che parlavano lingue diverse, e si è affermata definitivamente solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie alla Rai. Il Movimento Roosevelt è convinto che l’Italia possa insegnare molto a molti, e che l’orgoglio patriottico (non nazionalistico) del nostro paese possa essere un fattore coesivo, per una proposta politico-culturale convincente.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella video-chat su YouTube del 6 maggio 2019. Presidente del Movimento Roosevelt, Magaldi ripercorre le tappe di quella che chiama “rivoluzione rooseveltiana”: dopo il convegno a Londra il 30 marzo sul New Deal keynesiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, è seguita l’assise milanese del 3 maggio sul socialismo liberale, in omaggio a Rosselli, Palme e Sankara. Il 14 luglio, a Roma, lo stesso Magaldi sarà tra i promotori del “Partito che serve all’Italia”, cantiere politico per offrire un’alternativa agli elettori, superando le timidezze del governo gialloverde, incapace di opporsi al paradigma neoliberista del rigore Ue).Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.
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Cosa ci manca per essere come Rosselli, Palme e Sankara
Quando parliamo di costruire il futuro, spesso facciamo uso di sogni e visioni. Oggi, qui, invece, possiamo partire dalla realtà, che non di rado è meno piacevole. La realtà ci dice che Thomas Sankara è morto giovane e non è diventato il padre nobile di un’Africa democratica, più consapevole ed economicamente evoluta, che infatti ancora non c’è. La realtà ci dice che Carlo Rosselli non è sopravvissuto al fascismo e non ha potuto contribuire direttamente a rendere l’Italia e l’Europa postbelliche più libere e felici. E la realtà dice anche che Olof Palme non è diventato segretario generale delle Nazioni Unite. Sono stati assassinati e, soprattutto, nessuno ha potuto, o saputo, prendere il loro posto. Eppure sono stati degli esempi, per noi. Prendiamo Sankara: ha realizzato un piano tutto interno al Burkina Faso, coinvolgendo per quattro anni sette milioni di africani abbandonati a sé stessi e alla propria povertà. Ha fatto costruire scuole, ospedali, pozzi, dighe, strade, campi sportivi. Ha promosso la piantumazione del Sahel, e lo sviluppo agricolo e dell’allevamento. Ha esteso le cure sanitarie a tutti, consentito un aumento della vita media e favorito la prevenzione dell’Aids. Ha reso possibile l’istruzione diffusa e ha consentito a tutti di dire il proprio pensiero alla radio nazionale, senza filtri e senza mediazioni.Ha impegnato l’esercito in opere civili, e convertito parte dei fondi militari destinandoli a progetti di sviluppo. Ha liberato la donna dal giogo culturale maschile e proibito le mutilazioni genitali femminili, valorizzando quindi gli aspetti culturali costruttivi del suo paese e intervenendo su quelli deteriori. Ha chiesto di cancellare il debito estero di origine coloniale. Un presidente non ancora quarantenne ha realizzato tutto ciò in quattro anni. L’emozione che sentiamo di fronte alle azioni di Sankara è un pugno nello stomaco per la nostra coscienza, perché ci fa vedere quanto e quanto in fretta è possibile cambiare. Palme ha proposto un mondo senza dittature, che controlla le armi nucleari, cancella l’apartheid, distribuisce la ricchezza e rende i lavoratori piccoli azionisti delle aziende per le quali prestano la propria opera. Rosselli ha insegnato a coinvolgere tutti, nelle decisioni che riguardano tutti, al fine di raggiungere il benessere per tutti: liberalismo come metodo, socialismo come fine.Potremmo forse considerare questi tre leader degli idealisti o, peggio, degli ingenui. Ingenuo sarebbe colui che guarda solo i propri ideali, incapace di comprendere il mondo per quello che è. Si dice che in politica il contrario dell’ingenuità sia invece il realismo, cioè la capacità di guardare la dura realtà e governare le masse di conseguenza, senza illusioni, per raggiungere quello che si può. Eppure, Sankara per conoscere il suo paese girava le città e le campagne anche in bicicletta, pagava il mutuo e quando morì c’erano pochissimi soldi sul suo conto corrente; aveva ben presenti i suoi nemici e sapeva quale pericolo rappresentavano per lui; Palme si oppose alla guerra in Vietnam (che gli Usa persero, e tale sconfitta dimostrò quanto fossero falsi i motivi per i quali era stata combattuta); Rosselli previde che l’esito della parabola nazifascista sarebbe stato una guerra fratricida. Che cosa accomuna questi tre leader? Tutti hanno usato in modo costruttivo le risorse materiali e mentali a disposizione, per raggiungere obiettivi di valore. Usare la cooperazione al posto della competizione, che ha nella guerra la sua fine più stupida e ingloriosa, non è certo mancanza di realismo politico.Il vero realismo politico è conoscere la miseria della nostra razza e, con i propri principi spirituali, trovare soluzioni per modificarla (la miseria, non la razza). Se siamo dunque qui a parlare di Rosselli, Palme e Sankara come dei “nostri esempi” è perché abbiamo perso quegli stessi esempi per strada considerandoli inconsciamente “idealistici”, e abbiamo dormito il sonno della ragione e della coscienza: tutti noi, sia le masse dei governati sia le élite dei cosiddetti leader, progressisti compresi. Il problema è proprio che Palme, Rosselli e Sankara sono ancora i nostri fari (fuori di noi) e non parte del nostro Dna (dentro di noi). È questo il paradosso della leadership: dichiariamo di seguirla ma non l’abbiamo interiorizzata. Guardiamo i nostri capi attuali. Non soltanto i soliti Kim, Putin, Trump, Erdogan, Orban, Bolsonaro, Maduro, Macron, Merkel, May e così via. Mi riferisco anche alle alte cariche dello Stato in Italia, nazionali e locali, rappresentanti della Costituzione che loro dovrebbero difendere. Quando siamo chiamati a un referendum si dimenticano di ricordare che, proprio secondo la Costituzione, l’esercizio del voto è dovere civico (guadagnato per noi da milioni di soldati e civili morti nell’ultimo conflitto mondiale).E noi non pensiamo che, se anche i politici “tradiscono le decisioni referendarie”, in Parlamento noi possiamo votare ancora (e ancora, e ancora) per ribaltare quei tradimenti, informandoci e dedicando mezz’ora del nostro tempo per mettere una croce sulla scheda. Gli stessi politici naturalmente non ricordano ai giornalisti il loro dovere di informare i cittadini prima del voto perché possano conoscere per deliberare. Tutti tacciono e, quando i parlamentari alterano l’esito referendario, la volta dopo noi ce ne stiamo a casa “per protestare”, come bambini incapricciati. È normale che, appena prima del referendum sulla Brexit, il “Sun” titolasse dando ancora indicazioni su come votare? Una decisione così importante avrebbe dovuto essere stata presa dai lettori di quel tabloid settimane prima del voto: un voto che non può essere cambiato dopo cinque anni, come nelle elezioni generali, ma che avrà impatto per decenni sulla vita del Regno Unito. Come è possibile che gli elettori abbiano deciso sulla base di un titolo di giornale?I nostri politici non hanno più, o non hanno mai avuto, la spiritualità di Sankara, Rosselli e Palme. E noi non abbiamo quel livello di spiritualità che, se fosse presente, ci farebbe rendere conto che avere capi politici come i nostri non è normale. Diceva Oscar Wilde che il coraggio è sparito dalla nostra razza o forse non lo abbiamo mai avuto veramente… perché, aggiungeva, ci facciamo governare dal terrore della società (che è la base della morale) e dal terrore di Dio (che è la base della religione). In un mondo governato dai principi spirituali, un presidente come Sankara sarebbe considerato un buon amministratore della cosa pubblica, e non un rivoluzionario; un politico normale, che con il cuore e la ragione dei buoni padri di famiglia favorisce la felicità di quelli che dipendono da lui. I politici diversi sarebbero visti come anomalie geneticamente modificate, involucri privi della coscienza, cioè della capacità di distinguere ciò che crea sofferenza da ciò che produce benessere. Il modello di leadership delle nostre società è invece quello del capobranco con il suo gregge, modello che produce povertà e dolore e che nessun essere spirituale accetterebbe mai come “normale”.Molti nostri predecessori sono morti sperando che noi avremmo raccolto la loro eredità di cambiamento. Finora non lo abbiamo fatto a sufficienza. Ma le crisi della coscienza sono salutari perché la risvegliano. Che cosa possiamo fare noi oggi di diverso? Quando ci troviamo di fronte a un problema, una crisi, un conflitto, qualcosa che non ci piace, possiamo guardarci dentro e interpellare la nostra scala dei valori, e se riusciamo anche la nostra scintilla divina; poi possiamo ripensare alla scintilla divina che ha animato persone come Palme, Rosselli e Sankara, collegarci ad essa e chiederci: “Ma io, lasciando perdere tutte le distorsioni che mi hanno raccontato sul realismo politico, che cosa farei in questa situazione seguendo i miei principi?”. E poi, possiamo agire di conseguenza. Se lo facessimo, a quel punto ci accorgeremmo che, come non siamo rivoluzionari noi, non lo erano nemmeno Rosselli, Palme e Sankara. Erano uomini con la U maiuscola e la schiena dritta, che hanno fatto semplicemente ciò che andava, ragionevolmente, fatto.(Zvetan Lilov, “Rosselli, Palme, Sankara e noi: il paradosso della leadership”, intervento al convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” organizzato dal Movimento Roosevelt il 3 maggio 2019 a Milano).Quando parliamo di costruire il futuro, spesso facciamo uso di sogni e visioni. Oggi, qui, invece, possiamo partire dalla realtà, che non di rado è meno piacevole. La realtà ci dice che Thomas Sankara è morto giovane e non è diventato il padre nobile di un’Africa democratica, più consapevole ed economicamente evoluta, che infatti ancora non c’è. La realtà ci dice che Carlo Rosselli non è sopravvissuto al fascismo e non ha potuto contribuire direttamente a rendere l’Italia e l’Europa postbelliche più libere e felici. E la realtà dice anche che Olof Palme non è diventato segretario generale delle Nazioni Unite. Sono stati assassinati e, soprattutto, nessuno ha potuto, o saputo, prendere il loro posto. Eppure sono stati degli esempi, per noi. Prendiamo Sankara: ha realizzato un piano tutto interno al Burkina Faso, coinvolgendo per quattro anni sette milioni di africani abbandonati a sé stessi e alla propria povertà. Ha fatto costruire scuole, ospedali, pozzi, dighe, strade, campi sportivi. Ha promosso la piantumazione del Sahel, e lo sviluppo agricolo e dell’allevamento. Ha esteso le cure sanitarie a tutti, consentito un aumento della vita media e favorito la prevenzione dell’Aids. Ha reso possibile l’istruzione diffusa e ha consentito a tutti di dire il proprio pensiero alla radio nazionale, senza filtri e senza mediazioni.
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Carpeoro: Palme fu ucciso perché voleva abolire la povertà
Il 28 febbraio del 1986 io ero in piazza Duomo 19 a Milano, nell’ufficio di Bettino Craxi, quando arrivò la notizia dell’uccisione di Palme. Non ero da solo. C’era la deliziosa Alma Cappiello, avvocato e parlamentare socialista. C’era Luciano Belipaci, che era il presidente del Circolo Rosselli (da cui quel giorno nacque il Circolo Olof Palme). C’era Enzo Saponara, che era il segretario dei giovani socialisti. C’erano tante persone. Noi lo sapevamo bene, chi era Olof Palme, ma in Italia non è che lo sapessero benissimo. Era il leader dei socialisti europei, e non perché qualcuno l’avesse eletto. Ci sono due modi di essere leader: per autorità e per autorevolezza. Tanti preferiscono il primo, pochi arrivano al secondo. Tutti i socialisti d’Europa pendevano dalle labbra di Olof Palme, perché aveva realizzato la rivoluzione copernicana del socialismo. Aveva scritto, detto e insegnato – in tutte le salse – che il socialismo doveva superare Marx e il classismo. Il socialismo si era sclerotizzato nella cosiddetta lotta di classe. Anzi: aveva figliato il comunismo, sulla base della lotta di classe. Immaginava le classi come le placche dell’arteriosclerosi nel sangue di una persona invecchiata precocemente. Una situazione sclerotica, schematica, intoccabile, con classi sociali ciascuna con le sue colpe e le sue caratteristiche, mentre una sola aveva dei meriti.Si immaginava una nobiltà anti-rivoluzionaria e una borghesia rivoluzionaria solo nel Settecento, mentre l’unico vero corpo rivoluzionario era il proletariato. Questa è una teoria esoterica: si sfiorava la religione. Olof Palme non accettò questa teoria. Rifiutò il concetto di classe. Disse: se proprio vogliamo enfatizzare la parola classe, possiamo dire che una classe (che cambia, di tempo in tempo) è la categoria di persone che ha gli stessi bisogni, le stesse necessità – non gli stessi interessi. Perché, secondo lui, un socialista non doveva occuparsi degli interessi, ma delle necessità. Questa era la sua visione, condivisibile o meno. Ma è una visione veramente rivoluzionaria, perché scardinava la base del marxismo – una base esoterica, ideologica, mistica. La scardinava: la toglieva dai cardini e lasciava la porta aperta. Quando Claudio Martelli iniziò a utilizzare il termine “area laica e socialista”, lo fece perché quel termine l’aveva inventato Olof Palme. E lo aveva anticipato in un pranzo, in occasione di un convegno in Germania, nel quale aveva detto: noi dobbiamo creare l’area laica e socialista. Significava allargare il concetto di socialismo: non nei confronti di tutte le speculazioni classiste e pseudo-rivoluzionarie che lo avevano quasi completamente ammorbato, nonostante il distacco dal comunismo. Significava che la vera mediazione doveva avvenire nei confronti della cultura illuministica. Cioè: il socialismo si doveva riconciliare con l’umanesimo illuminista.In Italia, umanesimo illuminista voleva dire per esempio repubblicani, liberali, radicali, reduci del Partito d’Azione: tutti eredi, come i socialisti, della Rivoluzione Francese. Pochi anni dopo la Rivoluzione, infatti, a Parigi c’erano i socialisti: c’era Saint-Simon, c’era Proudhon, c’era Blanqui, c’era Blanc (il cosiddetto socialismo utopistico). Sapete, quando uno ti vuole delegittimare – senza offrire argomentazioni – ti dice che sei un utopista. Ma è una cosa bellissima, l’utopia: è un non-luogo (“ou-topos”). Significa che tutto quello che avviene in un non-luogo è utopistico; ma non significa che non esista, e non significa neanche che non possa essere degno di attenzione. Il problema è che Palme l’aveva fatta, questa rivoluzione – era colpevole di farla fatta – e in un contesto che non era molto favorevole (quello di adesso lo è ancora meno, perlatro), dove comunque gli altri leader socialisti europei erano in difficoltà. Craxi cominciava a perdere la salute, e il diabete galoppante gli provocava anche scatti caratteriali imprevedibili; Mitterrand era in pieno bonapartismo, per cui non è che fosse proprio affidabile; e Schmidt è la persona più piatta che si sia conosciuta nella storia del socialismo europeo. Capirete che non erano proprio passeggiate di salute. Eppure, Palme era stato capace di gettare le basi del socialismo europeo.Tanto era stato fondamentale, Palme, per il socialismo europeo, che poco prima di venir ucciso era candidato – dato per vincente – a diventare segretario generale dell’Onu. Poteva essere un modo comodo per toglierlo dalla guida del governo svedese, e per allontanarlo dalla gestazione di questa Europa che abbiamo visto nascere? Per come uno conosce Olof Palme, in realtà, l’elezione alle Nazioni Unite poteva essere un’arma a doppio taglio. Rimane il fatto che questo personaggio, che nel 1968 era a Praga a manifestare contro i carri armati sovietici, che nei primi anni ‘70 promosse una mozione dell’Onu contro la guerra in Vietnam, e che nel 1974 andò in Sudafrica a manifestare per la scarcerazione di Nelson Mandela, non si era fatto molti amici: era stato capace di contestare chiunque. Ma aveva un solo riferimento: la vera guida di Olof Palme era la libertà, intesa nell’accezione iniziatica del termine. Libertà non è fare ciò che che vuoi, è sapere quello che si vuole. La libertà è, prima di tutto, una consapevolezza della nostra mente: è uno stato mentale, la libertà, prima di essere uno stato fisico. Io ho fatto l’avvocato: in galera ho conosciuto persone libere, e ho conosciuto persone che erano “in galera” da libere. Perché prima di essere una condizione sociale, politica, giudiziaria – la libertà è uno stato mentale. Io ho conosciuto menti sempre libere, dovunque fossero, qualunque cosa facessero, così come ho conosciuto menti prigioniere (dovunque fossero, e qualunque cosa facessero).Olof Palme era una mente libera, e questa sua mente libera gli ha fatto superare il socialismo adottando un economista – Rudolf Meidner – che è l’uomo che ha inventato il cosiddetto “progetto economico svedese”. Un progetto rivoluzionario: realizzato con la creazione di fondi di comproprietà delle aziende a favore dei sindacati (in quota, certo: non si mise a nazionalizzare); con la previsione di un tipo di contribuzione assistenziale, previdenziale e sanitaria rivoluzionaria. E’ vero, all’epoca usò una leva fiscale piuttosto consistente, ma non so se oggi farebbe la stessa cosa, perché già nel suo secondo mandato attenuò il prelievo fiscale. Evidentemente, si regolò sul contesto economico contingente. Ma la sua regola ispirativa era questa: la politica e lo Stato devono rispondere alle necessità dei cittadini, e il compito di una forza politica è quello di stabilire quali sono le priorità, rispetto a queste necessità. Due elementi fondamentali, dei quali nessun altro politico, all’epoca sua, tenne conto. Dopo Palme ci ritrovammo Blair, Hollande. Pensate che, attualmente, nel direttivo del Partito Socialista Europeo il nostro rappresentante è la Mogherini. Lei fa l’anestesista: nel senso che tu non senti nulla (né dolore, ma neanche piacere).La chiamo “eutanasia del socialismo”: il socialismo si è ucciso da solo, dopo la morte di Palme, perché è mancato un tipo di guida a dei personaggi che non erano in grado di fare, da soli, la “nuova era” socialista. Nemmeno Craxi lo era: grande politico e grande statista, ma non era Palme. Così il socialismo si è suicidato. In che modo? Ha svenduto il suo marchio, senza chiedere garanzie sui contenuti – così come si svende tutto, nel sistema di potere contemporaneo. Il potere oggi si impossessa di marchi, cancella quello che c’è sotto (e quello che c’è stato prima) e poi lo utilizza. E’ successo parzialmente anche con la massoneria, con le religioni. Sapete, una cosa illuminante su cui farsi domande è questa: perché non c’è nessuna religione che dichiari che la povertà è illegittima? Tutte le religioni chiedono di aiutare i poveri. La povertà la danno come inevitabile, inesorabile. Era anche uno degli argomenti di Palme, impegnato in quel suo assistenzialismo così avanzato. Queste cosiddette dottrine spirituali ci vengono a dire: aiutate i poveri. Non ci dicono: facciamo in modo che non esistano più, i poveri. Vi siete mai chiesti perché?(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate al convegno “Nel segno di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara, contro la crisi della democrazia”, promosso il 3 maggio 2019 a Milano dal Movimento Roosevelt. A margine dei lavori, Carpeoro – avvocato e saggista, a lungo collaboratore di Craxi – ha aggiunto che Palme fu ucciso da agenti di un servizio segreto, probabilmente bulgaro, su ordine della P2 di Gelli, per conto della massoneria reazionaria internazionale. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016 per Revoluzione, Carporo ricorda che – alla vigilia del premier socialdemocratico scandinavo – Licio Gelli telegrafò al senatore statunitense Philip Guarino il seguente messaggio: “La palma svedese sta per cadere”. Carpeoro spiega che Guarino era il braccio destro di Michael Ledeen, influente storico e politologo statunitense di origine ebraica, membro del B’nai B’rith – esclusiva massoneria del Mossad – nonché del Jewish Institute. Sempre secondo Carpeoro, dopo aver danneggiato lo stesso Craxi (provocando la crisi di Sigonella, traducendo in modo fuorviante le parole di Reagan durante una conversazione telefonica tra il presidente Usa e il premier italiano), Ledeen avrebbe “sovragestito” Antonio Di Pietro, quindi Matteo Renzi e contemporanamente Luigi Di Maio).Il 28 febbraio del 1986 io ero in piazza Duomo 19 a Milano, nell’ufficio di Bettino Craxi, quando arrivò la notizia dell’uccisione di Palme. Non ero da solo. C’era la deliziosa Alma Cappiello, avvocato e parlamentare socialista. C’era Luciano Belipaci, che era il presidente del Circolo Rosselli (da cui quel giorno nacque il Circolo Olof Palme). C’era Enzo Saponara, che era il segretario dei giovani socialisti. C’erano tante persone. Noi lo sapevamo bene, chi era Olof Palme, ma in Italia non è che lo sapessero benissimo. Era il leader dei socialisti europei, e non perché qualcuno l’avesse eletto. Ci sono due modi di essere leader: per autorità e per autorevolezza. Tanti preferiscono il primo, pochi arrivano al secondo. Tutti i socialisti d’Europa pendevano dalle labbra di Olof Palme, perché aveva realizzato la rivoluzione copernicana del socialismo. Aveva scritto, detto e insegnato – in tutte le salse – che il socialismo doveva superare Marx e il classismo. Il socialismo si era sclerotizzato nella cosiddetta lotta di classe. Anzi: aveva figliato il comunismo, sulla base della lotta di classe. Immaginava le classi come le placche dell’arteriosclerosi nel sangue di una persona invecchiata precocemente. Una situazione sclerotica, schematica, intoccabile, con classi sociali ciascuna con le sue colpe e le sue caratteristiche, mentre una sola aveva dei meriti.
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Magaldi: Lunga Marcia, per la rivoluzione che serve all’Italia
«C’è ormai una sorta di teatro stucchevole: si celebrano elezioni che non decidono nulla. Le prossime europee? Doppiamente inutili: in un Europarlamento notoriamente senza potere, saranno i soliti noti a spartirsi le stesse poltrone». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, non crede alla “carica” dei sovranisti: a Strasburgo, dice, non cambierà proprio niente. Fine dell’equivoco gialloverde: il governo Conte doveva opporsi all’austerity infinita, e invece si limita a tirare a campare. Che fare? «Una rivoluzione», sostiene Magaldi. Meglio: «Una lunga marcia, come quella di Mao». Non comunista, certo: una rivoluzione democratica. «Ma ci vuole una lunga marcia, in mezzo a questo grande caos di gente vecchia. Vecchi partiti, che cantano canzoni stonate senza aver più nulla da dire. E nuovi partiti, che riescono solo a litigare tra di loro e si rassegnano a usare pannicelli caldi, anziché aggredire la grave malattia socio-politica ed economica dell’Italia». Per Magaldi, il convegno del 3 maggio a Milano su Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara è «la seconda tappa della rivoluzione rooseveltiana avviata a Londra il 30 marzo». Tema: un New Deal per l’Italia e l’Europa, contro la crisi della democrazia. Relatori: economisti come Nino Galloni, Danilo Broggi, Ilaria Bifarini, Guido Grossi. La tesi: dalla post-democrazia Ue, che impone la folle disciplina ideologica del rigore, si esce solo rispolverando Keynes e rilanciando l’economia con poderosi investimenti pubblici.Esponente del network massonico progressista internazionale, Magaldi ha dato alle stampe nel 2014 il saggio “Massoni”, in cui si svela il ruolo decisivo di 36 superlogge occulte, sovranazionali, nel back-office del potere mondiale. Nel 2015 ha creato il Movimento Roosevelt, entità meta-partitica con una missione precisa: indurre la politica a recuperare la sovranità democratica, costringendo l’oligarchia massonica che domina l’Ue a rivedere le regole dell’austerity. Ora, l’agenda del gruppo si infittisce di impegni pubblici. Dopo Londra, Milano: ci sarà anche Paolo Becchi tra i relatori dell’assise che – omaggiando la memoria civile e politica del socialismo liberale attraverso le figure di Rosselli, Palme e Sankara – sfiorerà anche un altro grande, l’economista italiano Federico Caffè, misteriosamente scomparso a Roma nel 1987. «La sua sparizione – spiega Magaldi – è direttamente connessa con gli omicidi di Palme e di Sankara». Caffè era il cervello dell’economia keynesiana europea, poi travolta dal neoliberismo: un uomo scomodo, da togliere di mezzo. Per Magaldi, il tempo dell’attesa è finito: il 14 luglio, a Roma, verrà costituito il “Partito che serve all’Italia”, cantiere di lavoro ormai in dirittura d’arrivo. Obiettivo: creare finalmente un’alternativa, che metta gli italiani in condizione di scegliere il proprio futuro, senza più soggiacere ai diktat devastanti dei poteri forti europei.«La politica è deludente anche perché i cittadini non si sono impegnati abbastanza, e hanno votato per i personaggi sbagliati, compiendo atti di fede etnico-tribali verso i gruppi dirigenti sbagliati», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Se non sai fotografare bene il mondo, e analizzare in modo onesto e coraggioso le forze in campo, difficilmente potrai offrire una cura». Magaldi scommette sull’analisi proposta dal Movimento Roosevelt, e anche dal nascente “Partito che serve all’Italia”: «Credo che le persone coinvolte in questi progetti siano difficili da assimilare al deludentissimo ceto politico attuale». E insiste: «Ci prepariamo a fare – democraticamente, però – quello che ha fatto Mao Tse-Tung». Lunga marcia, per scuotere gli elettori. Il paesaggio da attraversare ovviamente non è la Cina, ma la palude italiana: da una parte i rottami dell’establishment della Seconda Repubblica, veri e propri “terminali” del vero potere europeo, e dall’altra il velleitarismo parolaio e inconcludente dei gialloverdi. «Il “governo del cambiamento” non sta cambiando granché, c’è troppa timidezza: è sterile nei risultati, al di là dei proclami».Cambiare il sistema dall’interno, come dice Salvini? E’ l’unica strada, conferma Magaldi: a gridare “no all’euro” e “no all’Ue” sono «gruppi marginalissimi, quindi ininfluenti». Contro Bruxelles e l’Eurozona, ieri, tuonavano anche la Lega e i 5 Stelle. «Una volta al governo, però, questi partiti non si sono preoccupati di radicalizzaere lo scontro, hanno invece attutito le proprie posizioni». Un programma serio? «Spiegare agli elettori che qualunque riforma o rivoluzione si fa “step by step”», attraverso passi concreti e progressivi. «I gialloverdi avrebbero dovuto cambiare il sistema dall’interno, iniziando – come sistema Italia – a proporsi come i riformatori della Disunione Europea attuale, contrastando i vincoli dell’Eurozona. Ma non l’hanno fatto». Trasformare l’Ue dall’interno, continua Magaldi, «lo si può fare se si è forti, se si è decisi ad affrontare quella che è una guerra politica». Gli avversari li conosciamo: «Si allineano ai tecnocrati e alle cancellerie più arcigne, nel difendere l’austerità infinita, e magari finanziano in modo occulto le posizioni più estremiste anti-euro, perché questo consente di non introdurre un dibattito serio».Lega e 5 Stelle dovrebbero passare dalle chiacchiere ai fatti, insiste Magaldi. «Non c’è partito oggi in Italia che non dica che Ue ed Eurozona andrebbero cambiate. Ma la domanda è: cosa state facendo, per cambiare le regole? Nulla». Osserva il presidente del Movimento Roosevelt: «Quello della Disunione Europea è un sistema post-democratico, ma l’Italia è ancora formalmente una democrazia, come gli altri partner Ue. Ed è proprio assumendo in pieno la sovranità democratica che si può mettere in crisi la post-democrazia Ue». Benissimo se la Lega vuol ripristinare l’elezione diretta degli amministratori delle Province, riavvicinando i cittadini alla partecipazione democratica. «Ma siamo sempre nell’ambito dei pannicelli caldi, che non curano la grande malattia del sistema-Italia». Scandaloso, poi, il polverone sulla vicenda Siri: il sacrificio del sottosegretario (solo indagato, per ora) servirebbe a riavvicinare Lega e 5 Stelle? Tutti si agitano: da Mattarella a Di Pietro, che insorge «salutando il risveglio dei 5 Stelle, che avrebbero ritrovato un rigurigito di moralità». Protesta Magaldi: «Di Pietro dovrebbe vergognarsi e andarsi a nascondere, perché è stato insieme ad altri lo strumento inconsapevole di un vero e proprio golpe, che ha spazzato via un’intera classe politica».«Se siamo nell’attuale situazione di disfacimento totale della politica – ribadisce Magaldi – è grazie a quella perversa operazione che ha inaugurato la Seconda Repubblica». Ora ci stanno di fronte verità ineludibili: l’Ue ha impedito all’Italia di aumentare il deficit oltre il 2%, e il governo Conte è tornato a Roma con le pive nel sacco. Palazzo Chigi sa benissimo che quei soldi non basteranno a finanziare le misure di cui il paese ha bisogno. «Ma la risposta alla post-democrazia delle istituzioni europee, per quanto riguarda sia la Disunione Europea che la tragicomica Eurozona – dice Magaldi – non è il sovranismo, non è il nazionalismo e non è la risposta dei finti europeisti, che hanno sempre detto di sognare gli Stati Uniti d’Europa, e poi in realtà si sono appecoronati alla peggiore conservazione». Ppe e Pse, popolari e socialisti europei, sono «conservatori mediocri, senza idee e senza vera vocazione democratica». Di fatto, «hanno traghettato stancamente il vecchio continente a essere quello che è, cioè un soggetto che non ha un’unità politica, dove gli Stati si fanno concorrenza tra loro. Non c’è una politica estera comune, non c’è una politica fiscale comune, non c’è nessuna salvaguardia dell’interesse comune. Non c’è un’unione, appunto».Ma la risposta a tutto questo – aggiunge Magaldi – non sta in quello che viene raccontato. La Lega? Crescerà, ma inutilmente: «Nel governo non ha inciso, se non nella speranza ancora viva dei suoi elettori: la votano perché sperano, non perché abbiano visto dei risultati». Secondo Magaldi «la Lega ha sbagliato tragicamente, sul piano europeo, a inseguire un’alleanza coi paesi cosidetti sovranisti». Anzi, «è un errore madornale parlare di sovranismo come ricetta contro la post-democrazia, che invece si combatte solo con la rigenerazione della democrazia». Sta qui il sale della “rivoluzione rooseveltiana”: «Serve, questa rivoluzione, perché tutti gli altri stanno facendo cose che non servono – se non a conservare poltrone e narcisismi, in mezzo al chiacchiericcio italiano».«C’è ormai una sorta di teatro stucchevole: si celebrano elezioni che non decidono nulla. Le prossime europee? Doppiamente inutili: in un Europarlamento notoriamente senza potere, saranno i soliti noti a spartirsi le stesse poltrone». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, non crede alla “carica” dei sovranisti: a Strasburgo, dice, non cambierà proprio niente. Fine dell’equivoco gialloverde: il governo Conte doveva opporsi all’austerity infinita, e invece si limita a tirare a campare. Che fare? «Una rivoluzione», sostiene Magaldi. Meglio: «Una lunga marcia, come quella di Mao». Non comunista, certo: una rivoluzione democratica. «Ma ci vuole una lunga marcia, in mezzo a questo grande caos di gente vecchia. Vecchi partiti, che cantano canzoni stonate senza aver più nulla da dire. E nuovi partiti, che riescono solo a litigare tra di loro e si rassegnano a usare pannicelli caldi, anziché aggredire la grave malattia socio-politica ed economica dell’Italia». Per Magaldi, il convegno del 3 maggio a Milano su Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara è «la seconda tappa della rivoluzione rooseveltiana avviata a Londra il 30 marzo». Tema: un New Deal per l’Italia e l’Europa, contro la crisi della democrazia. Relatori: economisti come Nino Galloni, Danilo Broggi, Ilaria Bifarini, Guido Grossi. La tesi: dalla post-democrazia Ue, che impone la folle disciplina ideologica del rigore, si esce solo rispolverando Keynes e rilanciando l’economia con poderosi investimenti pubblici.
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Prove di guerra: sventato dalla Russia il golpe in Venezuela
La spallata finale di Juan Guaidó non c’è stata, la rivolta non è andata oltre qualche immagine sui social. Nicólas Maduro è ancora al potere, appoggiato dalla gran parte delle forze armate. A poche ore dall’annuncio della sua liberazione dai domiciliari, scrive Rocco Cotroneo sul “Corriere della Sera”, il leader oppositore Leopoldo López è dovuto correre a rinchiudersi nuovamente, stavolta nell’ambasciata spagnola con moglie e figlia, per evitare la quasi certa vendetta del chavismo. Intanto a Caracas si sono verificati nuovi scontri tra manifestanti e la Guardia Nazionale Bolivariana, mentre sono in corso le marce contrarie di sostenitori di Maduro e oppositori. Anche per Guaidó non sono ore tranquille, aggiunge il “Corriere”: l’autoproclamato presidente ad interim potrebbe essere arrestato in qualsiasi momento, e vive in una sorta di semiclandestinità. Ma perché la giornata della rivolta finale (o del golpe, secondo il regime) si è afflosciata nel giro di poche ore? Chi ha sbagliato? O meglio: come ha fatto Maduro a liquidare la questione senza nemmeno aver bisogno di una forte repressione? Se fossero vere le parole di John Bolton, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria stangata ai danni di Guaidó. «C’era un accordo dietro le quinte», ha detto Bolton: «Alcuni uomini chiave del regime avrebbero dovuto disertare, spianando la strada alla caduta di Maduro».Parole rafforzate dalla ricostruzione dei fatti (anch’essa da prendere con le pinze) del segretario di Stato Mike Pompeo: «Maduro era pronto a salire su un aereo, per scappare a Cuba. Poi è stato fermato dai russi». Secondo Cotroneo siamo di fronte «a uno scenario da post guerra fredda, in grado di far impallidire quella vera, con tutto il contorno dei film di spionaggio». Se così fosse, prosegue il giornalista del “Corriere”, gli Usa avrebbero erroneamente dato il via libera all’operazione finale di Guaidó e López, fornendo loro però informazioni fasulle: non esisteva uno scenario di deposizione di Maduro all’interno del regime stesso. E alla “fregatura” avrebbero partecipato attivamente uomini di Mosca. I militari venezuelani infatti non si sono spaccati, tranne poche diserzioni di soldati semplici. «Il quadro del fallimento era già chiaro nel primo pomeriggio ora di Caracas, a otto ore dall’inizio dell’operazione. A quel punto – e Maduro non era nemmeno apparso in pubblico – López aveva già deciso di chiedere aiuto diplomatico (prima al Cile, infine alla Spagna) e una ventina di militari ribelli avevano fatto lo stesso con il Brasile».Non secondaria, infine, la mancata risposta della piazza, osserva il “Corriere”: «C’erano poche migliaia di manifestanti nelle strade, i venezuelani sono esausti. Fine della sfida». Non per questo, però, gli Usa molleranno la presa sul Venezuela: la decisione dell’amministrazione Trump di non desistere dalla partita venezuelana resta chiara. «Pur preferendo una transizione democratica, l’opzione militare resta in piedi», ha insistito Pompeo. È stato un fallimento o una prova generale? Se lo domanda, sul suo blog, un analista geopolitico come Gennaro Carotenuto: «Intorno all’autoproclamato Juan Guaidó – scrive – è come se si svolgessero da mesi dei ripetuti “stress test”, dove quello che non si vede è ben maggiore di quello che è visibile in superficie. Se così non fosse, a cento giorni di distanza dalla giocata, vorrebbe dire che davvero l’opposizione non abbia la forza né politica né militare per rovesciare il governo di Nicolás Maduro». Quello di martedì 30 aprile «è stato uno stress test sull’esercito per vedere, come già a Cúcuta a fine febbraio, se c’è un punto d’inflessione oltre il quale un numero decisivo di esponenti degli stati maggiori possano rivoltarsi, giocando con una guerra civile dietro l’angolo».Secondo Carotenuto, è stato uno stress test anche per la società civile, che è servito – come per i blackout di marzo – a misurare chi scende in piazza, e chi tra i leader dell’opposizione è coerente e accetta l’attuale leadership, che ora sembra «tornata ufficialmente a Leopoldo López, al quale Guaidó scaldava il posto». Aggiunge Carotenuto: il “golpetto” di fine aprile è piaciuto «alla parte destra dell’opposizione», pronta alla violenza. Ma gli scontri sono spenti velocemente, come già nel 2014 e nel 2017: «Ancora una volta – per fortuna – la società civile, chavista e anti-chavista, polarizzata quanto si vuole, si è tenuta lontana dalla violenza». Ogni attore ha la sua agenda, scrive Carotenuto. Ma di agende, in Venezuela, sembrano essercene troppe, in queste ore: da una parte gli Usa, la Colombia e il Brasile, dall’altra Cuba, la Russia e la Cina. L’Europa? Pressoché assente. «L’unica soluzione non drammatica e non violenta, in Venezuela, l’aveva sfiorata Zapatero col tavolo fatto inopinatamente saltare ad accordo fatto, prima delle presidenziali di maggio 2018. Tanto c’è Maduro, al quale si possono dare tutte le colpe».Il mondo, riassume Carotenuto, ha guardato per 24 ore al Venezuela per la diserzione di una trentina di soldati di grado medio, con alla testa un solo generale di peso, Manuel Ricardo Figueroa, subito rimosso. E tutto soltanto per liberare Leopoldo López dai domiciliari? Troppo poco per essere vero: «Il senatore Marco Rubio, già protagonista del disastro di febbraio a Cúcuta, per giorni ha chiamato le Forze Armate Nazionali Bolivariane, Fanb, al golpe. Lo ha fatto con un discorso a metà strada tra l’invito, la minaccia e la promessa. Invito a restaurare la democrazia, minaccia di far passare l’esercito a essere parte del problema in caso di intervento esterno, promessa di prebende infinite e amnistia tombale in caso di golpe». Il problema, aggiunge Carotenuto, è che minacce e promesse non possono ripetersi all’infinito: «A Cúcuta, le poche decine di militari che disertarono, lamentarono che Marco Rubio in persona avesse promesso loro 20.000 dollari a testa. Ovviamente mai visti». La realtà è che gli Usa non sono affatto onnipotenti, come spesso vengono rappresentati (da amici e nemici). Cose simili a quelle di Rubio le ha dette il “miles gloriosus” Mike Pompeo, «sempre con la mano alla pistola», e così John Bolton e lo stesso Elliott Abrams, «il più sinistro dei personaggi coinvolti, conclamato terrorista di Stato, massacratore delle guerre in Centroamerica, che ha sostenuto che i presunti militari golpisti avrebbero a un certo punto spento i cellulari».Certamente a Pompeo, Bolton e Abrams «di certo la soluzione militare piace», ma – di fronte alla fallito golpe – non sanno più cosa tentare, sostiene Carotenuto, secondo cui si sta ripetendo la stessa situazione di Cúcuta, «altro stress test», quando si scomodò il vice del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il generale Hamilton Mourão, per chiarire oltre ogni ragionevole dubbio che il Brasile non accetta interventi esterni. Non saranno né statunitensi né colombiani a intervenire in quello che Brasilia considera il proprio spazio strategico amazzonico. «Diverso è solo il caso dei 5.000 mercenari che Blackwater avrebbe reclutato, pagati da prominenti multimilionari venezuelani, sui quali molto ha scritto la “Reuters”». I mercenari «potrebbero infiltrarsi in mille modi e commettere le più odiose delle azioni terroristiche, sabotaggi, assassinii». Aggiunge Carotenuto: «Se c’è qualche liberaldemocratico che, pur di liberarsi di Chávez, fa il tifo perfino per i tagliagole che già agirono in Iraq, alzo le mani». E’ grave che ora i disertori avessero alla loro testa Manuel Ricardo Figueroa, il capo del Sebin (i servizi venezuelani). Doveva essere un’azione suicida, oppure la partita è davvero sul terreno militare come in Cile nel 1973? Altra domanda: la liberazione di Leopoldo López è servita più che altro a tamponare il declino dell’insignificante leadership di Guaidó?Carotenuto ricorda che, durante il fallito colpo di Stato del 2002, proprio López condusse l’assalto all’ambasciata di Cuba. «Da allora dosa il ruolo di oppositore tra violenza e politica, contando sulla connivenza dei media che continuano a rappresentarlo come una specie di John Kennedy caraibico e di perseguitato politico. Pensa di essere più utile dall’estero che ai domiciliari?». E Guaidó? Adesso chiama a uno sciopero generale, ma scaglionato: «Tutt’altro che la spallata finale a un regime descritto nuovamente sul predellino dell’aereo che deve portarlo in esilio». Può Maduro fare ancora finta di niente o si caricherà del costo politico di arrestarlo, con la grande stampa internazionale pronta a considerare Guaidó un martire? «In vent’anni di rivoluzione bolivariana, con una buona dozzina di crisi maggiori, abbiamo visto che sul breve termine l’opposizione ha grande capacità di convocazione, ma col passare delle settimane sono i chavisti quelli che restano in piazza a difendere quello che continuano a considerare il governo popolare e il mandato di quello che è stato il più popolare e amato leader latinoamericano degli ultimi decenni». Anche stvolta i chavisti stanno dimostrando compattezza, scendendo in piazza in numeri almeno comparabili a quelli dell’opposizione. «Il golpetto di Caracas lascia più domande che risposte – conclude Carotenuto – ma che i chavisti esistano e continuino e continueranno a resistere è una delle poche certezze che questi tre mesi ci hanno donato».La spallata finale di Juan Guaidó non c’è stata, la rivolta non è andata oltre qualche immagine sui social. Nicólas Maduro è ancora al potere, appoggiato dalla gran parte delle forze armate. A poche ore dall’annuncio della sua liberazione dai domiciliari, scrive Rocco Cotroneo sul “Corriere della Sera”, il leader oppositore Leopoldo López è dovuto correre a rinchiudersi nuovamente, stavolta nell’ambasciata spagnola con moglie e figlia, per evitare la quasi certa vendetta del chavismo. Intanto a Caracas si sono verificati nuovi scontri tra manifestanti e la Guardia Nazionale Bolivariana, mentre sono in corso le marce contrarie di sostenitori di Maduro e oppositori. Anche per Guaidó non sono ore tranquille, aggiunge il “Corriere”: l’autoproclamato presidente ad interim potrebbe essere arrestato in qualsiasi momento, e vive in una sorta di semiclandestinità. Ma perché la giornata della rivolta finale (o del golpe, secondo il regime) si è afflosciata nel giro di poche ore? Chi ha sbagliato? O meglio: come ha fatto Maduro a liquidare la questione senza nemmeno aver bisogno di una forte repressione? Se fossero vere le parole di John Bolton, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria stangata ai danni di Guaidó. «C’era un accordo dietro le quinte», ha detto Bolton: «Alcuni uomini chiave del regime avrebbero dovuto disertare, spianando la strada alla caduta di Maduro».
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Rosselli, Palme e Sankara: rivoluzione, se oggi fossero qui
Puoi avere tutte le ragioni del mondo; ma a che serve, se nessuno ti ascolta? Quanti sapevano chi fosse, Carlo Rosselli, quando fu assassinato? Mezzo secolo dopo, al grande pubblico italiano del 1986, diceva qualcosa di particolare il nome del leader svedese Olof Palme? Ma certo: un elegante signore del Nord Europa, barbaramente ucciso da qualche folle terrorista, più o meno come quelli che avevano appena finito di mettere a ferro e fuoco l’Italia. E alzi la mano chi ricorda come la nostra stampa nazionale diede la notizia dell’omicidio dell’allora più che oscuro Thomas Sankara. Era il giovane leader di un paese africano che, per moltissimi europei, poteva ancora chiamarsi Alto Volta: all’epoca, Nelson Mandela stava ancora a spaccare pietre a Robben Island, e l’espressione “Burkina Faso” non era ancora entrata nell’ordinario lessico geografico dell’uomo bianco. Ci vollero anni – Internet, YouTube – per trasformare Sankara in una specie di star della politica: è l’ex ragazzo in camicia verde che, al vertice panafricano di Addis Abeba, svela la schiavitù del debito e propone all’Occidente di smettere di “aiutare” l’Africa.Per far uscire Thomas Sankara dalle catacombe della memoria collettiva c’è stato bisogno dell’11 Settembre, lo choc che ha costretto gradualmente milioni di persone a interrogarsi sulla natura del cosiddetto Deep State. Strana nebulosa, a geometria variabile: domina il pianeta manipolando i governi o scavalcandoli, al limite azzerandone i leader più scomodi – già rarissimi ieri, e oggi pressoché introvabili. Tuttora, comunque, vastissimi strati dell’opinione pubblica continuano a restare scettici di fronte alla denuncia della manipolazione della storia e dell’attualità: tendono ad allinearsi al mainstream che reputa fantasiosa la teoria del complotto, boccia le verità alternative sull’11 Settembre, si rassegna alle campagne sanitarie di massa come il Tso infantile dei vaccini imposti senza spiegazioni. E ovviamente deride chi “crede alle scie chimiche”, preferendo non domandarsi per quale ragione il cielo non sia più blu, ma vistosamente rigato, ogni giorno, dalle tracce persistenti rilasciate dagli aerei. Ci si rifugia dietro comodi neologismi (complottismo, cospirazionismo) per liquidare domande fastidiose, anche col provvidenziale contributo degli stessi “complottisti”, spesso prontissimi a sfornare risposte grottesche, surreali e sensazionalistiche.A monte, però, le domande restano sempre inevase: e questo spiega il fiorire delle narrazioni recenti, anche le più improbabili. Cosa sta succedendo, davvero? Nessuno può garantire di saperlo con precisione. Molti si rendono conto, onestamente, di esserne all’oscuro. Per questo smettono di seguire i telegiornali – tempestivi nel dar conto degli eventi, ma senza mai spiegarli. Se oggi riapparisse in televisione Thomas Sankara, quale anchorman sarebbe in grado di intervistarlo? Vespa e Floris, Formigli e Gruber: da che parte comincerebbero, dovendo fare domande all’avatar di Olof Palme? La nostra attuale comunicazione – smart, ultra-semplificata, a risposta immediata – non prevede più il modulo dell’analisi: ce ne manca il tempo. Nel mainstream risulterebbe semplicemente favolistico il racconto sul Memorandum di Lewis Powell, a cui l’élite occidentale chiese – nel remoto 1971 – un vademecum per “riprendersi tutto”, sbaraccando la democrazia dei diritti sociali. Facile: dall’altra parte del mondo c’era ancora il gigantesco freezer dell’Unione Sovietica, e di lì a poco i neoliberisti avrebbero potuto agevolmente indossare la maschera reaganiana dei liberatori, dei vincitori definitivi, ritagliandosi persino il ruolo di tronfi celebranti della “fine dalla storia”.Da dove ricomincia, la storia? Dall’alfabetizzazione politica di massa, probabilmente. In parte sta avvenendo, nella macro-nicchia del web (che infatti l’Unione Europea si è affrettata ad arginare, con la legge-bavaglio sul copyright a cui nessun governo si è finora opposto). La buona notizia, forse, è che l’invisibile Deep State in fondo ha paura dei sudditi, visto che si affanna a mantenerli nella quiete apparente della false certezze, nonostante i colpi mortali di una crisi che sta letteralmente cancellando la classe media in Europa, al punto da riempire le strade francesi di gilet gialli. Economia, moneta, guerre, energia, clima, crisi regionali. Scampoli di verità? Su qualche libro, nei risvolti del web, in mezzo alle smancerie dei social. Per gli ottimisti, l’umanità si starebbe risvegliando da una sorta di letargo. Non che manchino segnali di consapevolezza, ma sono sovrastati dal fragore del mainstream. Oggi finalmente si ascoltano relazioni acutissime da economisti onesti, che però non saranno mai ospitati in prima serata, con piena facoltà di parola. Si saranno divertiti, gli arconti impalpabili, nel vedere che l’Italia della gloriosa rivoluzione gialloverde non si è nemmeno ribellata al diktat medievale di Bruxelles sul piccolo deficit invocato per il 2019. Il potere imperiale, neo-feudale, ha incassato una vittoria piena. E si è persino goduto le passeggiate di Macron e Juncker sui teleschermi della Rai, tra gli inchini dello sconcertante anti-italiano Fabio Fazio.Ha davvero paura della maggioranza, il famoso 1% contro cui naufragò la pletorica protesta di Occupy Wall Street? Di certo, scrive Franco Fracassi nel saggio “G8 Gate”, aveva una paura matta dei NoGlobal, il cui sanguinoso funerale fu organizzato a Genova nel 2001, due mesi prima della mattanza di Manhattan (3.000 morti nelle Torri Gemelle e altri 12.000 americani uccisi dal cancro, poco dopo, a causa dell’immensa nube d’amianto). A dire che le maggiori multinazionali planetarie temessero così tanto i NoGlobal è Wayne Madsen, all’epoca dirigente dell’intelligence Usa: racconta di 1500 agenti della Nsa, più 700 dell’Fbi, al lavoro per essere certi che nel capoluogo ligure tutto andasse secondo i piani, cioè malissimo. Deep State, appunto. All’occorrenza, la legge del terrore: Al-Qaeda e poi l’Isis, dalla Siria all’Europa. Di fronte a questo cos’hanno da dire, i novelli sovranisti? Come se la caverebbero, Salvini e Di Maio, al cospetto di personaggi come Rosselli, Palme e Sankara? Cosa inventerebbero, il leader della Lega e quello dei 5 Stelle, per tentare di spiegare come riesumare il socialismo liberale nell’Europa di oggi? Che figura farebbe, Di Maio, nel presentare il suo reddito di cittadinanza al gigante Olof Palme, inventore del miglior welfare europeo? E cosa racconterebbe, il mini-sceriffo Salvini, al sorriso luminoso dello stratega che sapeva di giocarsi la pelle nell’eroico tentativo di metter fine alla razzia bianca a spese del continente nero, da cui l’esodo tanto spettacolarizzato dalle opposte tifoserie odierne?Davvero è inquieto, il mitico 1%, nel dubbio che i popoli si sveglino? Ammesso che sia vero, sembra che gli ultimi a saperlo siano proprio gli abitanti dell’umanità sottostante, il 99%. Al massimo, votiamo per l’ultima protesta offerta dal supermarket della politica, una specie di discount ingombro di sottomarche low cost. Per ora ha stravinto l’impeccabile Lewis Powell: il suo Memorandum è stato applicato alla lettera. I pochi dominano sui molti, che infatti non sanno nemmeno chi fosse, quell’avvocato di Wall Street. Il pericolo, semmai, siamo abituati a riconoscerlo nel sorriso sornione di personaggi come l’anziano Kissinger, l’architetto del golpe cileno, l’uomo che minacciò di morte Aldo Moro. Che sospiro di sollievo, quando il fenomenale Obama prese il posto di Bush. Ennesima illusione, durata lo spazio di un mattino: quasi solo teatro, ancora e sempre Deep State. Da dove ricominciare? Da ciascuno di noi, verrebbe da dire, nel dubbio che l’ipotetico “mostro” tema, sul serio, il risveglio dei dormienti. Primo passo, scovare idee che possano camminare. E poi raccontarle, in modo semplice: il Memorandum Powell, che ha cambiato la faccia della Terra, era lungo appena 11 paginette. Parlava chiaro anche Rosselli, così come Palme e Sankara: nessuno deve restare indietro, mai. L’italiano, lo svedese, il burkinabè: veri e propri monumenti, postumi, all’umanità che non si volle far nascere. Li si potrà riascoltare a Milano il 3 maggio, a patto però di non dimenticarli più. Morirono, tutti e tre, perché il 99% non era al loro fianco. E non è un testamento, quello che ci hanno lasciato: è un programma politico, e sembra scritto oggi.(Giorgio Cattaneo, “Una rivoluzione della verità: nel nome di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 aprile 2019. Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli e Thomas Sankara, contro la crisi globale della democrazia”, in programma il 3 maggio 2019 a Milano, Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23, dalle ore 10 alle 17.30, sarà trasmesso in diretta da Radio Radicale).Puoi avere tutte le ragioni del mondo; ma a che serve, se nessuno ti ascolta? Quanti sapevano chi fosse, Carlo Rosselli, quando fu assassinato? Mezzo secolo dopo, al grande pubblico italiano del 1986, diceva qualcosa di particolare il nome del leader svedese Olof Palme? Ma certo: un elegante signore del Nord Europa, barbaramente ucciso da qualche folle terrorista, più o meno come quelli che avevano appena finito di mettere a ferro e fuoco l’Italia. E alzi la mano chi ricorda come la nostra stampa nazionale diede la notizia dell’omicidio dell’allora più che oscuro Thomas Sankara. Era il giovane leader di un paese africano che, per moltissimi europei, poteva ancora chiamarsi Alto Volta: all’epoca, Nelson Mandela stava ancora a spaccare pietre a Robben Island, e l’espressione “Burkina Faso” non era ancora entrata nell’ordinario lessico geografico dell’uomo bianco. Ci vollero anni – Internet, YouTube – per trasformare Sankara in una specie di star della politica: è l’ex ragazzo in camicia verde che, al vertice panafricano di Addis Abeba, svela la schiavitù del debito e propone all’Occidente di smettere di “aiutare” l’Africa.
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A Milano tutta la verità sulla scomparsa di Federico Caffè
Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.Cosa c’era in ballo? Il nuovo assetto del mondo: l’imminente crollo dell’Urss e l’avvento della “dittatura” tecnocratica di Bruxelles, fondata sull’austerity. Fino al dilagare del neoliberismo globalizzato, dominato dalla finanza predatoria. Nel saggio “Il più grande crimine”, Paolo Barnard indica una data precisa per l’inizio della grande restaurazione, da parte dell’élite antidemocratica: il 1971, anno in cui a Wall Street l’avvocato d’affari Lewis Powell fu incaricato dalla Camera di Commercio Usa di redigere il famigerato Memorandum per la riconquista del potere da parte dell’oligarchia, costretta sulla difensiva per decenni in tutto l’Occidente grazie alla storica avanzata del progressismo liberale, socialista e sindacale. Era il segnale della “fine della ricreazione”: da allora, sempre meno diritti – per tutti. Ci vollero anni, naturalmente, per passare ai fatti. E’ del 1975 il manifesto “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale a Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki. La tesi: troppa democrazia fa male. Parola d’ordine: togliere agli Stati il potere di spesa, necessario per alimentare il welfare e quindi il benessere diffuso.Cinque anni dopo esplosero Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito. Cattivi maestri: l’austriaco Friedrich von Hayek e l’americano Milton Friedman, economista della Scuola di Chicago. Stesso dogma: tagliare il debito pubblico, rinunciare al deficit. Pareggio di bilancio: meno soldi al popolo, all’economia reale. Un incubo, culminato con i recentissimi orrori del rigore europeo, capace di martirizzare la Grecia lasciando gli ospedali senza medicine per i bambini. Come si è potuti arrivare a tanto? In molti modi, e attraverso infiniti passaggi. Il primo dei quali è tristemente noto: la demolizione di John Maynard Keynes, il più eminente economista del ‘900. Se il lascito di Marx aveva forgiato la coscienza sociale degli operai, sfruttati dal capitalismo selvaggio, l’inglese Keynes escogitò un sistema perfetto per rimettere in equilibrio capitale e lavoro, attraverso la leva finanziaria strategica dello Stato. Ereditando un’America messa in ginocchio dalla Grande Depressione del 1929, Roosevelt con il New Deal fece esattamente il contrario di quanto gli aveva consigliato la destra economica: anziché tagliare la spesa per “risanare” i conti pubblici, mise mano a un deficit illimitato per creare lavoro.L’altra mossa, decisiva, fu il Glass-Steagall Act: netta separazione tra banche d’affari e credito ordinario, per evitare che i risparmi di famiglie e imprese finissero ancora una volta nella roulette della Borsa. Un atto eroico, la guerra contro la finanza speculativa, rinnegato – a distanza di mezzo secolo – dal “progressista” Bill Clinton, subito dopo il famoso sexgate che l’aveva travolto, l’affare Monica Lewinsky. Nel frattempo, in Europa, era stato Tony Blair a rottamare il socialismo liberaldemocratico dei laburisti, inaugurando – con Clinton – la sciagurata “terza via” che avrebbe condotto l’ex sinistra a smarrire se stessa. Desolante il caso italiano: passando per Romano Prodi, lo smantellatore dell’Iri, si va dal Massimo D’Alema che nel 1999 si vantava di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank, realizzando il record europeo delle privatizzazioni, per arrivare all’infimo Bersani, capace nel 2011 si sottomettere il Pd al governo Monti, sottoscrivendo i tagli senza anestesia, il Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio in Costituzione.Una pesca miracolosa, quella condotta dall’élite tra le fila dell’ex sinistra: a partire dallo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la regia di Ciampi, la vera “notte della Repubblica” (attacco ai diritti del lavoro, flessibilità e precarizzazione) è stata condotta con la complicità di personaggi come Visco, Bassanini, Padoa Schioppa, Amato, lo stesso Ciampi e altri baroni della nuova tecnocrazia “incoronata” da Mani Pulite, al servizio delle potenze straniere intenzionate a saccheggiare il Belpaese grazie alla “cura” finto-europeista. Lo spiegò lo stesso Galloni in una memorabile intervista a “ByoBlu”: la deindustrializzazione dell’Italia fu pretesa della Germania come compensazione, in cambio della rinuncia al marco. Era stata la Francia di Mitterrand a imporre l’euro ai tedeschi, pena il veto francese alla riunificazione delle due Germanie. Cominciava una festa, per molta parte d’Europa, caduta la Cortina di Ferro grazie a Gorbaciov. Per l’Italia, invece, il sogno si sarebbe trasformato in un incubo. Supremo regista della grande illusione, Mario Draghi: a bordo del Britannia di mise a disposizione dei poteri che progettavano la svendita del paese, venendo poi premiato prima come governatore di Bankitalia e poi come presidente della Bce.Oggi, grazie a tutto questo, è diventato “normale” che un governo italiano non riesca a ottenere un deficit del 2,4% (irrisorio), ed è “fisiologico” che il fantasma dell’ex sinistra – il Pd – trovi giusto che siano i commissari Ue, non eletti da nessuno, a poter calpestare un esecutivo regolarmente eletto. Peggio: è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a spiegare – bocciando la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia – che sono i mercati, e non gli elettori, ad avere l’ultima parola. Contro questa palude si muove il laboratorio politico rappresentato dal Movimento Roosevelt. Obiettivo: ribaltare il tavolo delle convenzioni dogmatiche degli ultimi trent’anni, risvegliando la politica dormiente fino a portarla a riscrivere le regole. La prima: Europa o meno, il popolo deve tornare sovrano. Tradotto: le elezioni devono poter decidere chi governerà davvero, e come. E a dire di no a un governo eletto potrà essere solo, domani, un governo federale europeo a sua volta emanato democraticamente dall’Europarlamento, sulla base di una Costituzione democratica che oggi l’Ue non sa neppure cosa sia. Chi l’ha detto che il deficit non può superare il 3% del Pil? Il Trattato di Maastricht va gettato nella spazzatura, ecco il punto. Bel problema: da dove cominciare?La prima cosa da fare è dire finalmente la verità: lo sostiene Magaldi, che il Movimento Roosevelt l’ha creato. Rivelazioni e denunce continue, da parte sua. Mattarella? Un paramassone che obbedisce al massone Visco di Bankitalia, a sua volta un burattino del massone Draghi. Di Maio che omaggia la Merkel, dopo aver ceduto sul deficit gialloverde? Brutto segno: tenta di accreditarsi presso le superlogge come la Golden Eurasia, quella della Cancelliera, sperando così di sopravvivere al prevedibile declino dei 5 Stelle. Grande occasione perduta, il governo del non-cambiamento, di fatto prono ai diktat della Disunione Europea che sta mandando in malora l’economia del continente. Fenomeno vistoso: si sta impoverendo la classe media alla velocità della luce, come dimostrano i Gilet Gialli in Francia, dove qualcuno – dice sempre Magaldi – ha pensato bene di dare alle fiamme persino un simbolo nazionale come Notre-Dame. Sono sempre loro, i registi occulti della strategia della tensione europea: hanno seminato il terrore nelle piazze per spianare la strada all’austerity dei governi.Rosselli, Palme e Sankara: ecco, da dove ripartire. Socialismo liberale: il grande premier svedese voleva “tagliare le unghie al capitalismo”. Stava per essere eletto segretario generale dell’Onu: poltrona da cui avrebbe vegliato anche sull’Europa, impedendo che si arrivasse a questo aborto di Unione Europea. Certo, c’è dell’altro: qualcuno nel frattempo avrebbe fatto entrare la Cina nel Wto senza pretendere nessuna garanzia, da Pechino, sui diritti dei lavoratori. Risultato: concorrenza sleale sui prezzi delle merci e grande crisi della manifattura occidentale. E qualcun altro, l’11 settembre del 2001, avrebbe fatto saltare in aria le Torri Gemelle a New York. Obiettivo: poter invadere l’Iraq e l’Afghanistan, fabbricando il fantasma del terrorismo jihadista (Al-Qaeda, Isis) con cui ricattare il mondo. Bagni di sangue (Libia, Siria) o rivoluzioni colorate (Georgia, Ucraina), o magari primavere arabe (Tunisia, Egitto): il risultato non cambia, si punta sempre sul caos. Così l’Italia si scanna sui migranti e il Pd attacca Salvini anziché Macron. E nessuno guarda al di là del mare.Lo fa Ilaria Bifarini, anche lei attesa al convegno di Milano con il suo saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Negli anni ‘80, quando Olof Palme faceva della Svezia il paradiso europeo del welfare, l’africano Thomas Sankara trasformava l’Alto Volta coloniale nel coraggiosissimo Burkina Faso, il “paese degli uomini liberi”, con una promessa: nessuno, qui, morirà più di fame. Lo disse ad alta voce, nel 1987, davanti ai leader africani: chiediamo all’Occidente di cancellare il debito dell’Africa. Tre mesi dopo fu ucciso, su mandato francese. In Africa, il giovane Sankara godeva di un prestigio immenso, pari a quello di Palme in Europa. Con loro ancora al potere, non avremmo visto né questa Ue né i barconi dei migranti. Il premier svedese era stato freddato un anno prima, da un killer rimasto sconosciuto. Non così i mandanti: “La palma svedese sta per cadere”, telegrafò alla vigilia dell’omicidio Licio Gelli, il capo della P2, avvertendo il parlamentare statunitense Philip Guarino. Lo scrive, nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, lo stesso Gianfranco Carpeoro, altro esponente “rooseveltiano” impegnato nell’assise milanese, da cui ora si attendono precise rivelazioni sulle connessioni tra i delitti Palme e Sankara e la scomparsa di Caffè. Erano uomini da eliminare: troppo ingombranti, per chi voleva instaurare – in Europa e nel mondo – il regno del caos e dei profitti stellari, al prezzo dell’impoverimento generale.Tutto questo, purtroppo, è molto massonico. Lo sostiene Gioele Magaldi, che nel suo saggio spiega che nel 1980 tutte le superlogge – anche quelle progressiste – aderirono al patto “United Freemasons for Globalization”. Una tregua armata, dopo che negli anni Sessanta erano stati uccisi Bob Kennedy e Martin Luther King: un ticket fantastico, che le Ur-Lodges democratiche avrebbero voluto alla Casa Bianca, come presidente e vice. E’ come se la stessa mano provvedesse a uccidere gli avversari che non si possono corrompere né intimidire. Per inciso, aggiunge Magaldi, erano massoni anche Palme e Sankara, così come Gandhi, Mandela e lo stesso Yitzhak Rabin, assassinato da manovalanza estremista. Quanto al convegno di Milano, chiosa Magaldi, non si tratta di limitarsi a celebrare la memoria di giganti come Rosselli e Palme, Sankara e Caffè: l’intenzione è quella di creare una nuova agenda politica, in base alla quale nessuno possa più fingere di essere progressista mentre soggiace alla post-democrazia Ue. Una sfida a viso aperto: c’è da fare una rivoluzione culturale. Il pareggio di bilancio? E’ un crimine politico contro il popolo. Sarebbe ben lieto di spiegarlo autorevolmente lo stesso Caffè, se fosse ancora qui, in questa Italia le cui televisioni spacciano per verità le frottole quotidiane di personaggi come Elsa Fornero e Carlo Cottarelli, mestieranti nostrani del peggior neoliberismo.(Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” è promosso dal Movimento Roosevelt venerdì 3 maggio 2019 a Milano, col patrocinio del Comune, presso la sala conferenze del Museo del Risorgimento a Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23 (zona Brera), dalle ore 10 alle 17.30. Interverranno Angelo Turco, Gioele Magaldi e l’ambasciatore italiano in Svezia Marco Cospito, insieme a Felice Besostri, Nino Galloni, Paolo Becchi, Gianfranco Carpeoro, Otto Bitjoka, Marco Moiso, Sergio Magaldi, Egidio Rangone, Danilo Broggi, Pierluigi Winkler, Giovanni Smaldone, Michele Petrocelli, Aldo Storti, Marco Perduca e Lorenzo Pernetti. Nel corso dell’evento, introdotto da brevi rappresentazioni teatrali su Sankara e Rosselli offerte da Ricky Dujany e Diego Coscia, verrà presentato il bestseller di Ilaria Bifarini “I coloni dell’austerity”, mentre Carlo Toto e Paolo Mosca anticiperanno il trailer del docu-film “M: il Back-Office del Potere”. Tra i dirigenti del Movimento Roosevelt interverranno anche Daniele Cavaleiro, Roberto Alice, Fiorella Rustici, Zvetan Lilov, Alberto Allas, Roberto Luongo, Roberto Hechich, Massimo Della Siega e Roberto Peron. Per informazioni: segreteria generale e presidenza del MR. Coordinamento ufficio stampa e relazioni esterne: Monica Soldano, 348.2879901).Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.