Archivio del Tag ‘rivolta’
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Menti raffinatissime: i poteri a cui Grillo ora svende l’Italia
“Fare la storia, cambiare l’Italia: occasione irripetibile”. Ogni volta che parte la supercazzola di Beppe Grillo, ci siamo: sta per succedere qualcosa di orrendo. Il segnale: basta che il padrone del Movimento 5 Stelle si metta a parlare come un rivoluzionario dei cartoni animati. Caricatura di se stesso solo in apparenza, l’infido Grillo: è il servitore decisivo del potere europeo, l’unico capace di ripristinare la totale sottomissione del Belpaese. Dopo l’ambigua e velleitaria sbornia gialloverde, che aveva illuso la Lega (e gli italiani) che le regole potessero davvero cambiare, è intervenuto l’uomo del Britannia: è stato l’ex comico a dare il via libera alla “soluzione finale”. Senza il suo intervento padronale, i valletti grillini – pur traumatizzati dall’incubo delle elezioni anticipate – non ce l’avrebbero fatta, a calare le brache fino al punto di arrendersi all’odiato Matteo Renzi, decretando in questo modo la morte politica del Movimento 5 Stelle. L’indecorosa trattativa è stata affidata a manovali recalcitranti come Di Maio e Zingaretti, che hanno finto di prendere sul serio l’imbarazzante prestanome Giuseppe Conte. Ma è evidente che a decidere è stato il Giglio Magico, che ha colto al volo l’assist – decisivo – del Mago di Genova.
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Non morì in croce e aveva 43 anni: l’altro Gesù, quello vero
Non credeva nella vita dopo la morte, come del resto nessuno dei suoi, e non si sognò mai di fondare un culto. Finì sulla croce per sedizione, ma non aveva 33 anni: era ben oltre la quarantina (probabilmente era nato 43 anni prima). Voleva il riscatto dell’umanità? Niente affatto: tutto quello che gli interessava era liberare il suo popolo dalla dominazione imperiale, ma gli è andata male. Morto e risorto? Nemmeno: fu tramortito probabilmente con la mandragora raccomandata da Ippocrate. Di quella pozione speciale, già usata come anestesia dai proto-chirurghi, doveva essere imbevuta la “spongia soporifera” con cui si dissetò, un istante prima di perdere conoscenza. Poté così essere calato dal patibolo senza che gli venissero spezzate le ginocchia, cosa che gli sarebbe costata la vita. Fu quindi curato, nel finto sepolcro, con un’overdose da 45 chili di farmaco: una potentissima mistura a base di aloe, usata non per i defunti ma per i feriti in battaglia. Dopodiché, in capo a 36 ore (non tre giorni) fu estratto dalla grotta da due individui che, per raggiungerlo, avevano spostato a fatica la pesante pietra che ne ostruiva l’ingresso. Ancora malconcio, sorretto dai due misteriosi soccorritori, sparì in una “nube” di luce: esattamente come l’eroe Prometeo nonché lo stesso Romolo (il fondatore di Roma, figlio di Marte e della mortale Rea Silvia). “Rapito” dalla nuvola luminosa, come tutti gli altri semidei dell’antichità.E’ la possibile, vera storia di Yehoshua di Gàmala, poi ribattezzato Gesù di Nazareth (villaggio che all’epoca probabilmente non esisteva ancora), secondo l’affascinante ricostruzione che il biblista Mauro Biglino fornisce insieme a Francesco Esposito, studioso del cristianesimo delle origini. Ne parlano nell’avvincente saggio “Dei e semidei”, che esplora “il Pantheon dell’Antico e del Nuovo Testamento”. A differenza dei negazionisti, anche autorevoli, che escludono categoricamente la reale storicità del personaggio, i due ricercatori sono propensi a credere che quel “rabbi giudeo messianista”, poi trasformato nella fonte stessa del successivo cristianesimo, sia realmente esistito. Doveva essere un individuo temerario, capace di sfidare il peggior potere: cioè le armi dei colonialisti romani e quelle dei loro alleati e collaborazionisti, i vari Erode e la potente casta sacerdotale del Sinedrio di Gerusalemme. Caduto il Tempio nel 70 dopo Cristo, quella stessa nomenklatura (che era stata capace di denunciare a Pilato il rivoltoso) finirà poi per trasferirsi a Roma, ottenendo di beneficiare di una vita dorata tra i lussi della capitale, come premio per aver ceduto all’impero l’ingente tesoro ebraico, mettendo così fine a ogni ulteriore tentativo di insurrezione nazionalistica. E proprio Roma, secoli dopo, diverrà la capitale della nuova religione.“Dei e semidei” esplora lo strano rapporto tra il futuro “Cristo” e Giovanni Battista, di cui era forse cugino. Entrambe le madri, Maria ed Elisabetta, erano rimaste incinte dopo aver incontrato “l’arcangelo Gabriele”, cioè il Ghevèr-El (ambasciatore di un El, personaggio in carne e ossa), che secondo il teologo e cardinale Jean Daniélou verrà poi chiamato “spirito santo”, nel corso della plurisecolare spiritualizzazione con cui le religioni hanno deformato gradualmente il testo biblico, ex-post, fino a introdurvi elementi mistici del tutto assenti nella versione letterale. Nell’ebraico originario, infatti, non esiste neppure la parola Dio, né l’idea stessa di divinità universale onnisciente, così come non c’è traccia dei concetti di eternità, spirito, onnipotenza. L’Antico Testamento racconta semplicemente la storia del patto stipulato tra la sola tribù di Giuda, uno dei 12 figli di Giacobbe-Israele, e l’El chiamato Yahwè, uno dei tanti Elohìm presenti nel testo. Quello che compare per primo, presentandosi ad Abramo, si fa chiamare El-Shaddài, cioè “signore della steppa” secondo la prestigiosa École Biblique di Gerusalemme, fiore all’occhiello dell’esegesi domenicana. In altri passi della Bibbia viene citato Elyòn, il capo supremo, che a un certo punto ammonisce gli Elohìm in assemblea: fate gli arroganti solo perché siete potenti e molto longevi, ma – li avverte – un giorno morirete anche voi, proprio come gli umani.Sempre la Bibbia parla spesso degli “angeli”, i messaggeri degli Elohìm. In ebraico, sono i “malachìm”. Il greco traduce correttamente il termine “malàch” con “ànghelos”, portaordini, mentre il latino – anziché adeguarsi al greco, (magari con il termine “legatus”?) – preferisce coniare il neologismo “angelus”, importandolo direttamente dalla lingua greca senza tradurlo, e preparandosi poi – nell’iconografia successiva – a sfornare angioletti alati e asessuati. Paolo di Tarso, l’inventore del cristianesimo, è il primo a scrivere – nelle sue lettere – che è meglio che le ragazze si coprano i capelli, nelle assemblee in cui sono presenti “gli angeli”, perché quei tizi poco raccomandabili non vanno tanto per il sottile, con le donne giovani. Le successive traduzioni bibliche tradiranno il testo in modo sconcertante: gli angeli cominceranno ad “apparire e scomparire”, persino a “volare con leggerezza”, quando invece la Bibbia scrive che erano fatti come noi, sudavano e soffrivano, e li si vedeva arrivare arrancando, “sfatti di fatica”. I cosiddetti arcangeli? Dal greco: angeli-capi. I “Gabriele”, per esempio: essere un “Ghevèr-El” significava avere la statura di un pezzo da novanta, che gestisce il potere per conto di un El. Fu proprio un “Gabriele”, forse addirittura lo stesso, a ingravidare (come, non si sa) prima Elisabetta e poi Maria.I loro figli, Giovanni e Yehoshua (Giosuè) secondo i Vangeli si incontrano e si conoscono benissimo: hanno lo stesso mandato, o funzioni parallele? Forse il primo ha un’investitura sacerdotale (discendente da Aronne), mentre l’altro politica, davidica (ereditata da Israele). Nelle acque del Giordano, Giovanni battezza i giudei zeloti, cioè i membri della fazione ostile ai romani: lo si capisce dai loro nomi. Ed è uno strano battesimo: razza di vipere, li chiama. E li avverte: se non cambiate subito mentalità, per voi la scure è già pronta, e i vostri corpi bruceranno nella Gheenna, o meglio il Ghe-Hinnom (la discarica lungo il torrente Hinnom, dove venivano gettati e arsi i cadaveri dei guerrieri sconfitti). In un mondo come quello giudeo, ultra-materiale e privo di qualsiasi cognizione di spiritualità – è la tesi del libro – sembra lecito domandarsi se, più che redimere “anime”, a Giovanni non interessasse reclutare guerriglieri: l’elenco dei loro “peccati”, infatti, è una sfilza di crimini cruenti (peraltro quasi esibiti, rivendicati con fierezza). Preparativi di una rivolta?Così dovette vederla Erode, che non ci pensò due volte: prima che fosse troppo tardi, fece decapitare il sedizioso “battista”. Di fronte alla cui morte, il suo alter ego Yehoshua-Giosuè pensò che era meglio cambiare aria. I testi evangelici dicono che si ritirò “nel deserto”, cioè sulle alture della Galilea, per 40 giorni. Ma probabilmente – secondo Biglino ed Esposito – la pausa di riflessione durò anni. Al suo ritorno, poi, ci mise poco e reclutare gli ex discepoli di Giovanni. Lo conoscevano già e in fondo lo aspettavano, per il grande momento: rovesciare finalmente la corrotta oligarchia del Sinedrio, che aveva svenduto il paese ai romani in cambio dei privilegi concessi dal potere imperiale. Il primo tentativo doveva essere fallito, con la cacciata dei mercanti dal Tempio. Il secondo, quello decisivo, fu preparato con l’ipotetica “resurrezione” di Lazzaro a Betania, paese d’origine della Maddalena. Il crisma del messia? Forse proprio questo doveva emergere, nell’evento raccontato come miracoloso: alla portata solo di un profeta, cioè un individuo prescelto e autorizzato a parlare e agire in nome di un El. Ma il carisma di Yehoshua, che non bastò a infiammare il popolo (che infatti non lo riconobbe come “mashiàh” e quindi non lo sostenne), fu sufficiente ad allarmare la casta sacerdotale, che provvide a denunciarlo per sbarazzarsene.Poi la storia si appanna, tra possibili doppi giochi: da un lato il presunto traditore Giuda l’Iscariota, e dall’altro l’uomo-ombra, il misterioso Giuseppe d’Arimatea, a sua volta membro del Sinedrio ma segretamente alleato dei “gesuani”, capace di reclamare il corpo del condannato e forse anche di salvargli la vita, tirandolo giù dalla croce in extremis e poi facendolo curare. Ricostruzione coerente? Sì, ma solo se “facciamo finta” che quella storia sia realmente accaduta, dicono Biglino ed Esposito: le tracce disponibili sono davvero esigue e frammentarie. Stando al gioco, gli autori prendono per buoni i Vangeli canonici, facendoli però letteralmente a pezzi: inevitabile, perché offrono versioni lacunose e discordanti, spesso inverosimili. L’ipotetico puzzle si completa solo attingendo ad altri testi, come i Vangeli apocrifi e gli scritti di storici come Giuseppe Flavio. “Dei e semidei” resta una lettura complessa, che procede con la massima cautela in una selva di citazioni, con il supporto di decine di autori e non meno di 90 volumi puntualmente chiamati in causa. «Restiamo nel campo legittimo delle semplici ipotesi», ammettono alla fine i due studiosi, la cui unica sicurezza è «la non certezza del dato tradizionale». Nel corso dei secoli, infatti, la tradizione «ha volontariamente coperto, attraverso sempre più complicate elaborazioni teologiche, quella che può essere una storia semplice e allo stesso tempo affascinante».E’ questo, infatti, il vero cuore del libro: con estrema accuratezza, dimostra come si sia potuti arrivare a fabbricare un culto che ha cambiato la storia dell’umanità, pretendendo di poggiarlo su documenti solidi ma in realtà franosi, se non inesistenti. La vicenda dell’aspirante messia ebraico? Umanissima, e affrontata dagli autori con profondo rispetto. Non senza rilevarne, però, le patetiche contraddizioni – non del messia, ma dei successivi narratori (evidentemente infedeli). Si racconta ad esempio che ad essere giustiziato sul Golgota fu un personaggio fenomenale, sovrumano, capace di ridestare i defunti. Ma chi sarebbe così pazzo – si domandano gli autori – da condannare un individuo capace davvero di resuscitare i morti? Non sarebbe meglio pregarlo, cortesemente, di resuscitare tutti? E allora dove sta l’inghippo? Nella datazione delle opere. Tutti i Vangeli – i cui reali autori restano tuttora sconosciuti – sono di gran lunga successivi alle famose lettere di Paolo, vero punto di partenza della nuova fede. A coniare quella religione, decenni dopo la crocifissione, è stato l’autoproclamatosi apostolo di Tarso, che però il messia non l’aveva mai conosciuto. Va da sé che i “gesuani”, gli autentici seguaci di Yehoshua, andassero su tutte le furie, nello scoprire che Paolo spacciava per vera una storia che s’era inventato da capo a piedi. Da quella narrazione di fantasia, purtroppo, nacquero in seguito i testi evangelici.Davvero uno strano cristiano, San Paolo: un perfetto politeista. «Sappiamo che vi sono molti dèi», scrive, «ma noi ne seguiamo uno solo». Dunque la sua era monolatria, non certo monoteismo. Ebreo colto, Paolo conosceva la Bibbia. Ma sapeva che il pubblico delle sue lettere – greco e romano – non sapeva leggere l’ebraico. E così ebbe buon gioco nell’inventare la fiaba che sarà poi Sant’Agostino a perfezionare. Si racconta infatti che Adamo ed Eva fossero addirittura immortali, prima del peccato originale. Si sa perfettamente che non è vero, e gli ebrei sanno anche che – nell’Antico Testamento – il peccato originale non esiste: la cacciata dall’Eden è preventiva, non punitiva, dopo che Adamo ed Eva hanno scoperto di poter avere una loro discendenza virtualmente autonoma dai guardiani del “giardino”. Ma peggio: Paolo di Tarso si mette a parlare del rabbi messianista (che non ha mai conosciuto) raccontando che aveva a cuore le sorti dell’intera umanità, non solo quella del suo popolo. Nasce qui il primo germe del geniale universalismo cattolico: la speranza della vita eterna offerta a tutti, indistintamente, proviene dall’esclusiva creatività letteraria di Paolo. Ed è qui che il contrasto coi “gesuani”, indignati, diventa insanabile: chi ha vissuto con Giosuè, standogli accanto fino alla fine, non può tollerare che sul suo conto vengano impunemente spacciate simili fandonie.Ma neppure Paolo arriva, da subito, all’idea della resurrezione: vi perviene in corso d’opera, per necessità, quando – con crescente impazienza – i nuovi fedeli gli chiedono come mai il famoso messia non sia ancora tornato, instaurando il nuovo regno (terreno) che aveva promesso, dandolo per imminente. Al che, il teorico del cristianesimo comincia a parlare di “regno dei cieli”, garantendo la sicura resurrezione anche dei primissimi fedeli, nel frattempo defunti insieme alla loro speranza di fare in tempo a veder ritornare, gloriosamente, il “salvatore”. La cui identità ufficiale, comunque – aggiungono sempre Biglino ed Esposito – verrà definita soltanto tre secoli dopo, al Concilio di Nicea, nel quale sarà l’imperatore Costantino a imporre un canone teologico univoco ai tanti cristianesimi dell’epoca. La religione imperiale nasce quindi politicamente, per votazione: dopo aver tentato di sbarazzarsene con le persecuzioni (4-5.000 vittime), il potere romano ha capito che è meglio farseli amici, i cristiani, dal momento che sono destinati a conquistare il popolo, essendo gli unici a promettere a tutti l’impensabile, cioè la resurrezione dalla morte.Nei primi due secoli, però, l’antico rabbi messianista ebraico – nel frattempo ribattezzato Gesù Cristo – è tante cose insieme, l’una in contraddizione con l’altra: risorto o non risorto, morto sulla croce o non morto, figlio di Dio o emanazione di Dio stesso, oppure un semplice profeta, o meglio ancora un semidio come tanti. «In passato ne furono inviati sulla terra anche 70 per volta», scrive Celso, citando i cristiani (che combatte). Un autore ultra-cristiano come il filosofo e poi martire Giustino, futuro Padre della Chiesa, spiega invece all’imperatore Antonino Pio che, in fondo, Gesù di Nazareth è fatto della stessa pasta di tutti gli altri semidei: «Non è che uno dei tanti figli di Zeus», nientemeno. Tracce evidenti, annotano Biglino ed Esposito, del lungo viaggio – da Oriente a Occidente – compiuto dalle cosiddette “sacre scritture”, incessantemente ritoccate e manipolate, fino al medioevo, per adeguarle agli umori culturali delle varie epoche. Atto d’inizio: il ritorno del popolo ebraico dall’esilio babilonese, all’alba del 500 avanti Cristo. Già allora si rompe l’integrità della tradizione mosaica, strettamente materialista, quando nutriti gruppi di ebrei – anziché tornare in Palestina – si disperdono ai quattro angoli del Mediterraneo, assorbendo gradualmente la cultura ellenistica, impregnata di filosofia greca.Il colpo più grave alla tradizione veterotestamentaria è inferto dalla Bibbia dei Settanta, redatta nel III secolo avanti Cristo dagli ebrei riparati in Egitto nella colonia ellenica di Elefantina: scritta in greco e destinata al pubblico non ebreo, la Septuaginta inaugura la consuetudine delle traduzioni più arbitrarie e spericolate, spiritualizzando il testo, in un’operazione che poi contaminerà la stessa Bibbia in latino. Ancora oggi, per molte comunità ebraiche come quelle italiane, il lavoro dei Settanta è considerato «una disgrazia, per l’umanità». E’ in quelle pagine, infatti, che il Khavod (il velivolo bellico di Yahwè) diventa “doxa”, insegnamento, mentre il Ruach (astronave?) si trasforma magicamente in “pneuma”, spirito. A suggerire l’ipotesi delle “macchine volanti”, pericolose e fragorose, Biglino arriva per deduzione, leggendo in modo coerente il contesto degli episodi narrati nell’Antico Testamento, in cui questi “oggetti misteriosi” agiscono. In ogni caso, in ebraico – alla lettera – Khavòd significa “pesante”, e Ruach “vento”. Eppure, con la Septuaginta, si dà fiato alle traduzioni di fantasia (anima, conoscenza) in omaggio alla cultura egemonica dell’ellenismo, in un paesaggio dominato da divinità olimpiche e mitologie letterarie, platonismo filosofico e spiritualità misterica e gnostica.Tutte espressioni culturali estranee all’ebraismo originario, adottate – con la riscrittura integrale della Bibbia – per indurre egiziani, romani e greci ad accettare gli ebrei della diaspora come depositari di una tradizione culturale altrettanto antica, e per di più allineata alla temperie religiosa del momento. Nulla, comunque, in confronto alla surreale distorsione teologica dell’Antico Testamento condotta per quasi un millennio, dai primi secoli fino al medioevo, dai Padri della Chiesa. Erano alle prese con una missione impossibile: far discendere “Gesù” dal presunto “Dio unico” dell’Antico Testamento. «Come ci sono riusciti? Facendo come se la Bibbia non esistesse proprio, cioè infischiandosene del contenuto ebraico e del suo significato originario», spiegano Biglino ed Esposito. Stessa sorte per Giosuè, alias Yehoshua di Gàmala, cittadina del Golan forse depennata fin dall’inizio per allontanare collegamenti indesiderati, visto che proprio Gàmala – roccaforte degli zeloti anti-romani – era stata un importante centro della resistenza militare ebraica contro l’invasione imperiale.Nessun rispetto, sottolineano gli autori di “Dei e semidei”, per il futuro protagonista dei Vangeli. E’ stato infatti impunemente trasformato, all’occorrenza, da rabbi giudeo messianista a salvatore del mondo, passando attraverso stadi intermedi: “logos” gnostico, oppure rassicurante semidio, perfettamente sovrapponibile alle altre divinità del periodo, adorate dai pagani, allora largamente maggioritari. La situazione si sarebbe invertita solo con l’Editto di Teodosio del 380 dopo Cristo, quando i neo-cristiani avrebbero potuto cominciare a perseguitare con ferocia, anche compiendo stragi efferate, i seguaci del paganesimo. I nodi, comunque, secondo Esposito e Biglino stanno venendo al pettine, sia pure con lentezza. Uno dei “cerotti” storicamente usati per tenere insieme Antico e Nuovo Testamento si è appena scollato: è il caso della presunta profezia “cristica” di Isaia, in realtà inesistente, con cui si pretendeva di sostenere che la Bibbia ebraica anticipasse l’avvento del redentore.“La vergine concepirà”, si traduceva fino a ieri, lasciando intendere che il sommo profeta ebraico alludesse a Maria e Gesù. Ora è emersa anche ufficialmente la traduzione corretta, recepita in primis dai vescovi tedeschi: “La ragazza è incinta”, si legge ora. Dunque non era vergine (si scriverebbe “betulà”, in ebraico), ma semplicemente giovinetta (“almà”, come infatti è scritto), e aveva il concepimento già alle sue spalle. Non era Maria, infatti, la donna citata da Isaia, ma una fanciulla vissuta secoli prima, di nome Abià, da cui si sperava nascesse un bambino destinato a trasformarsi in liberatore politico di Israele. Chi era, invece, il vero Yehoshua di Gàmala, meglio noto come Gesù di Nazareth? Certo non il personaggio che è stato raccontato, ovvero fabbricato. E questa è l’unica certezza di Biglino ed Esposito. Che si congedano dal lettore regalandogli un ultimo dubbio, dedicato all’arcangelo Gabriele: siamo proprio così sicuri che il futuro Cristo non fosse davvero un semidio, come tanti altri dell’antichità, discesi sulla terra “anche in numero di 70 alla volta”, come ricordava Celso? Erano tutti mezzosangue: nati in modo anomalo, con un genitore terrestre e l’altro celeste, o comunque non umano. Valoroso e sfortunato, “Gesù”, come gli eroi omerici figli di uomini e dèi, formidabili ma non immortali?(Il libro: Mauro Biglino e Francesco Esposito, “Dei e semidei. Il Pantheon dell’Antico e del Nuovo Testamento”, UnoEditori, 340 pagine, euro 16.90).Non credeva nella vita dopo la morte, come del resto nessuno dei suoi, e non si sognò mai di fondare un culto. Finì sulla croce per sedizione, ma non aveva 33 anni: era ben oltre la quarantina (probabilmente era nato 43 anni prima). Voleva il riscatto dell’umanità? Niente affatto: tutto quello che gli interessava era liberare il suo popolo dalla dominazione imperiale, ma gli è andata male. Morto e risorto? Nemmeno: fu tramortito probabilmente con la mandragora raccomandata da Ippocrate. Di quella pozione speciale, già usata come anestesia dai proto-chirurghi, doveva essere imbevuta la “spongia soporifera” con cui si dissetò, un istante prima di perdere conoscenza. Poté così essere calato dal patibolo senza che gli venissero spezzate le ginocchia, cosa che gli sarebbe costata la vita. Fu quindi curato, nel finto sepolcro, con un’overdose da 45 chili di farmaco: una potentissima mistura a base di aloe, usata non per i defunti ma per i feriti in battaglia. Dopodiché, in capo a 36 ore (non tre giorni) fu estratto dalla grotta da due individui che, per raggiungerlo, avevano spostato a fatica la pesante pietra che ne ostruiva l’ingresso. Ancora malconcio, sorretto dai due misteriosi soccorritori, sparì in una “nube” di luce: esattamente come l’eroe Prometeo nonché lo stesso Romolo (il fondatore di Roma, figlio di Marte e della comune mortale Rea Silvia). “Rapito” dalla nuvola luminosa, come tutti gli altri semidei dell’antichità?
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Lutto per l’Italia, ostaggio di Grillo. E l’Europa ci guarda
C’è qualcosa di oscuro e di atroce nel tradimento dei 5 Stelle, visibile dalla Luna. Nati come antidoto alla “casta”, pur di evitare il giudizio degli elettori ora si rifugiano tra le braccia di Matteo Renzi e soci, campioni dell’establishment nazionale asservito ai poteri marci – italiani, europei e planetari – che in trent’anni hanno ridotto la quarta potenza industriale del mondo a paese mediterraneo periferico e saccheggiato, ricattato dalla Bce, messo in ginocchio di fronte agli usurai di Bruxelles. Il ribaltone imposto al governo gialloverde, dopo aver costretto Matteo Salvini ad abbandonarlo, non è solo un colpo mortale inferto alla democrazia italiana: è un coltellata per tutti gli europei, Gilet Gialli in testa, che avevano osato guardare al caos italiano come laboratorio del possibile cambiamento, sia pure nato in modo sgangheratissimo e proseguito anche peggio, con un esecutivo subito impaurito di fronte al ricatto dello spread. E a celebrare il funerale della democrazia non è neppure un politico classico, ma un ex comico particolarmente abile, cinico e spietato, che in questi anni ha investito sull’odio e sulla rabbia per creare dal nulla un’enorme massa di manovra. E’ lui, il supremo manipolatore Beppe Grillo, a suonare le campane a morto: e non è solo italiano, il lutto per la fine del “governo del cambiamento” in cui, meno di un anno fa, credeva ancora oltre il 60% degli elettori del Belpaese.Vista da fuori, la crisi italiana è una catastrofe: a vincere sono i peggiori, che spengono sul nascere il sussulto democratico (confuso, contraddittorio) nato nel 2018 dalla rivolta dei cittadini esasperati dagli abusi dell’impero finto-europeista, mercantilista e bugiardo, squallidamente privatistico anche se ammantato di istituzionalità. E’ un complotto che viene da lontano, accusa Salvini dal Quirinale, indicando tra i mandanti le oligarchie di Parigi, Berlino e Bruxelles. Non è privo di colpe lo stesso Salvini: gli errori tattici sembrano averlo spiazzato di fronte all’incredibile disinvoltura trasformistica dei congiurati grillini e renziani, semplici manovali della cospirazione contro l’Italia. Ma il capo della Lega si è esposto a facili accuse anche infamanti, con la sua visione unilaterale della tragedia dell’immigrazione: accuse disoneste, che avrebbe potuto neutralizzare allargando l’orizzonte all’Africa, alle vere cause del malessere africano e ai suoi possibili rimedi. L’errore più grande compiuto da Salvini sta probabilmente nell’essersi rifugiato nella solitudine del cosiddetto sovranismo, falsa piattaforma di opportunismi nazionalistici che infatti hanno puntualmente isolato la Lega dopo il grande successo delle europee. Non lo si sarebbe potuto liquidare così facilmente, Salvini, se avesse combattuto, in modo dialettico e inclusivo, per reclamare una Costituzione Europea finalmente democratica.Ma gli errori ottici di Salvini, peraltro non irrimediabili, non sono nulla in confronto allo scempio di verità e di decenza di cui si sono macchiati i 5 Stelle pilotati da Grillo, pronti a voltare le spalle nel modo più spregevole ai cittadini italiani che appena 14 mesi fa li avevano eletti con un mandato chiarissimo: restituire sovranità democratica alle persone comuni. Dopo aver appaltato la politica che conta (esteri, economia) a mercenari non-eletti come Conte, Tria e Moavero, il signor Grillo ha gettato la maschera: prima silurando Salvini attraverso Angela Merkel (Ursula von der Leyen alla Commissione Europea) e ora imponendo ai parlamentari pentastellati – contro la stessa base grillina, ancora una volta costretta al silenzio – il disperato, desolante matrimonio servile con il padrone europeo tramite il suo tradizionale proconsole italiano, il detestato Pd, ancora e sempre al servizio dell’establishment che ha svenduto il paese. La scommessa di Grillo è tristemente imbarazzante: dimostra che i grillini sarebbero dei poveri idioti, raggirabili anche stavolta. In realtà, milioni di elettori stanno già abbandonando la navicella populista, che è comunque servita – al regime di cui Grillo è l’occulto, grande protagonista – a non inquadrare mai il bersaglio vero, indispensabile per cambiare realmente le regole del gioco, cioè il rapporto tra governanti e governati.E’ possibile che gli attivisti grillini aprano finalmente gli occhi di fronte a un simile spettacolo, e imparino a non fidarsi mai più dei demagoghi autoritari ed estremisti, amici del popolo solo a parole ma in realtà nemici della democrazia. Li si riconosce a distanza, da una caratteristica invariabile: ai decibel, alle urla e ai Vaffa non corrisponde mai un piano preciso, fatto di soluzioni realistiche. Di qui l’inevitabile vaghezza dei programmi, che poi si traduce regolarmente in un nulla di fatto, nella migliore delle ipotesi, dopo gli altisonanti proclami rivoluzionari. Nella peggiore delle ipotesi, invece – quella italiana, incarnata dai 5 Stelle – la finta rivoluzione (alimentata dalla passione sincera di migliaia di attivisti) – finisce nella vergogna: parlamentari ricattati dal terrore di perdere la poltrona fingono di non udire lo sdegno dei loro stessi elettori e si accasano con la cricca dei perdenti, ripetutamente bocciati dagli italiani, per tenere in piedi un esecutivo pronto a obbedire ai diktat di Bruxelles. E’ il capolavoro di Grillo: dimostrare – all’Italia, e non solo – che la politica è un sordido imbroglio, e che i maggiori imbroglioni sono proprio loro, gli ex “avvocati del popolo”.Gli europei guardano, e prendono nota: dopo la falsa partenza dell’Italia gialloverde, il terreno del possibile riscatto democratico viene ora accuratamente diserbato. L’intero Parlamento di un paese avanzato, membro del G7, è manipolato da un privato cittadino, elusivo e potentissimo: mai presentatosi alle elezioni, mai neppure sottopostosi al vaglio di un regolare congresso di partito. Ha dunque ragione, Grillo, nel mostrare che al popolo bue si può davvero far credere qualsiasi cosa? Come sempre, dal letame nascono i fiori: oggi la verità finalmente emerge, anche se in modo feroce. Se il Movimento 5 Stelle è servito essenzialmente a depistare la richiesta popolare di cambiamento, dando tempo all’establishment di prendere le sue contromisure, di fronte al declino – consenso a picco, 6 milioni di voti persi in un solo anno – il signor Grillo ha deciso di suicidare la sua creatura rendendo al potere l’ultimo servizio possibile: il governo-ignominia col Pd, fingendo di non sentire che gli italiani vorrebbero tornare alle urne, per dire la loro. Giullare di razza, l’ex comico genovese non viene mai meno al senso dello spettacolo: sul suo blog si raffigura come una specie di Mosè, di fronte alle acque del Mar Rosso che si separano per intervento divino. Peccato che nella Bibbia non ci sia nessun Mar Rosso: il popolo dell’Esodo si limitò a guadare uno Yam-Suf, un acquitrino. Una palude, come quella in cui Giuseppe Grillo, detto Beppe, ha deciso di far annegare i suoi 5 Stelle, ormai utili solo come compari provvisori dell’ex impresentabile Matteo Renzi.(Giorgio Cattaneo, “Lutto per l’Italia, ostaggio di Grillo. E l’Europa ci guarda”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 agosto 2019).C’è qualcosa di oscuro e di atroce nel tradimento dei 5 Stelle, visibile dalla Luna. Nati come antidoto alla “casta”, pur di evitare il giudizio degli elettori ora si rifugiano tra le braccia di Matteo Renzi e soci, campioni dell’establishment nazionale asservito ai poteri marci – italiani, europei e planetari – che in trent’anni hanno ridotto la quarta potenza industriale del mondo a paese mediterraneo periferico e saccheggiato, ricattato dalla Bce, messo in ginocchio di fronte agli usurai di Bruxelles. Il ribaltone imposto al governo gialloverde, dopo aver costretto Matteo Salvini ad abbandonarlo, non è solo un colpo mortale inferto alla democrazia italiana: è un coltellata per tutti gli europei, Gilet Gialli in testa, che avevano osato guardare al caos italiano come laboratorio del possibile cambiamento, sia pure nato in modo sgangheratissimo e proseguito anche peggio, con un esecutivo subito impaurito di fronte al ricatto dello spread. E a celebrare il funerale della democrazia non è neppure un politico classico, ma un ex comico particolarmente abile, cinico e spietato, che in questi anni ha investito sull’odio e sulla rabbia per creare dal nulla un’enorme massa di manovra. E’ lui, il supremo manipolatore Beppe Grillo, a suonare le campane a morto: e non è solo italiano, il lutto per la fine del “governo del cambiamento” in cui, meno di un anno fa, credeva ancora oltre il 60% degli elettori del Belpaese.
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Tav irreversibile, fermarlo costa: la madre di tutte le bufale
Non puoi ribellarti al potere dello Stato, di fronte a una decisione del governo. Ma se il governo interviene sul corpo delle persone, come nel caso dei vaccini obbligatori, ha l’obbligo di essere trasparente. E il governo italiano non lo è stato per nulla: non ha dato garanzie scientifiche sulla sicurezza dei vaccini somministrati e, soprattutto, non ha spiegato perché li ha imposti, in assenza di emergenze sanitarie. Un ragionamento impeccabile, offerto nei mesi scorsi da Gianfranco Carpeoro, saggista, autore di acute analisi sull’attualità italiana. Dai vaccini al Tav, usato come pretesto per far crollare il governo gialloverde, il problema è analogo: lo Stato impone un’infrastruttura dall’impatto devastante, ma senza spiegarne le ragioni. Ovvio che è inaccettabile opporvisi violando la legge. Ma è altrettanto inaccettabile, per il cittadino, dover subire quello che viene percepito come un sopruso. Gli abitanti della valle di Susa hanno il diritto, innanzitutto, di essere informati sulla reale utilità dell’opera. Ma questo diritto elementare viene loro negato, da vent’anni. Forse perché l’opera è completamente inutile? Lo conferma l’analisi costi-benefici fornita al governo dal professor Marco Ponti, su incarico del ministro Toninelli. Un progetto costoso, obsoleto e inutile. Ma peggio: si continua a dire che rinunciare alla Torino-Lione costerebbe più che costruirla. E qui la menzogna naufraga nel ridicolo.«In base a quanto ci hanno riferito sia fonti della Commissione Europea sia Paolo Beria, professore del Politecnico di Milano esperto di trasporti, pur nell’opacità (e complessità) dei dettagli che circondano la Tav, è vero – come sostengono i NoTav che non siano previste penali europee nel caso in cui l’Italia abbandoni il progetto», riassume l’Agi. L’agenzia di stampa ha interpellato Paolo Foietta, commissario straordinario per l’asse ferroviario Torino-Lione: Foietta conferma l’assenza di penali, a livello europeo, in caso di mancata realizzazione. Finora è stato realizzato solo il “cunicolo esplorativo” di Chiomonte, che ha funzione geognostica. Del traforo Italia-Francia, lungo 57 chilometri, non è stato scavato neppure un metro. Idem per la linea-doppione che collegherebbe il tunnel a Torino. Quanto al versante francese, Parigi ha stabilito che solo nel 2038 il governo prenderà in esame la possibilità di costruire la ferrovia, dall’uscita del traforo a Chambéry (verso Lione). Spiega Foietta: finora sono stati spesi 1,4 miliardi di euro, ma solo per le opere preliminari (700 milioni forniti dall’Ue e 350 dalla Francia). «Se l’opera non venisse completata per una decisione dell’Italia – sostiene Foietta – chi ha speso quei soldi per un’opera che poi non viene compiuta potrebbe chiederceli indietro».A questo miliardo circa possiamo poi aggiungere gli 813 milioni di finanziamento europeo per il 2014-2019, già stanziati. Quei fondi però non sarebbero una perdita, spiega il professor Beria: «Si tratta di un co-finanziamento. Cioè: oltre a quei soldi l’Italia dovrebbe spenderne altri, propri, per completare l’opera. Se l’opera viene ritenuta inutile, è vero che non ho i fondi europei per farla e dunque li devo restituire, ma non spendo nemmeno fondi italiani, e dunque di fatto ho un risparmio». Quanto costerebbe, eventualmente, chiudere il cantiere di Chiomonte? Foietta “spara” una cifra enorme – 2 miliardi – ma senza documentarla, perlomeno nell’intervista concessa all’Agi. Secondo l’agenzia di stampa, quegli ipotetici 2 due miliardi sono costituiti da “voci” con diverso grado di certezza: per metà sarebbero rimborsi che l’Italia potrebbe dover dare a Francia e Ue per il mancato completamento dell’opera, e per metà sarebbero finanziamenti già stanziati che andrebbero restituiti senza poterli spendere. «Infine, ci sono altri costi connessi ai possibili procedimenti legali intentati dalle imprese già coinvolte». Conclusione: non risultano “penali” per l’Italia nel caso in cui decida di uscire dal progetto. «Roma dovrebbe però restituire un finanziamento europeo di oltre 800 milioni di euro».Quanto costerebbe, invece, realizzare la Torino-Lione? Non meno di 26 miliardi di euro, scrive – nero su bianco – la Corte dei Conti francese. Di questi, circa 11 miliardi sarebbero destinati alla sola galleria ferroviaria italo-francese, di cui non esiste neppure il cantiere. Come si fa a dire, ancora, che “non fare la Torino-Lione costerebbe più che farla”? Si può, eccome: lo hanno ripetuto Conte e Salvini, nonché il neo-presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio. Non sanno fare i conti o, semplicemente, mentono? Sperano che, a forza di ripeterla, una bugia si trasformi in verità? I media continano a proporre le immagini del mini-cantiere di Chiomonte, come se fosse il vero tunnel ferroviario. Si vuole far credere agli italiani di essere a un passo dalla meta, mentre della Torino-Lione non esiste ancora neppure un metro di binario? Quand’anche: resta inevaso l’obbligo primario di rispettare un diritto fondamentale, democratico. Se vuole devastare un territorio imponendo una infrastruttura faraonica e inutile, che il territorio contesta, lo Stato – che è sovrano – deve impegnarsi politicamente a fornirne le motivazioni. Se continua a non farlo, la sua credibilità istituzionale si sbriciola. Ed è esattamente quello che purtroppo sta accadendo.Non puoi ribellarti al potere dello Stato, di fronte a una decisione del governo. Ma se il governo interviene sul corpo delle persone, come nel caso dei vaccini obbligatori, ha l’obbligo di essere trasparente. E il governo italiano non lo è stato per nulla: non ha dato garanzie scientifiche sulla sicurezza dei vaccini somministrati e, soprattutto, non ha spiegato perché li ha imposti, in assenza di emergenze sanitarie. Un ragionamento impeccabile, offerto nei mesi scorsi da Gianfranco Carpeoro, saggista, autore di acute analisi sull’attualità italiana. Dai vaccini al Tav, usato come pretesto per far crollare il governo gialloverde, il problema è analogo: lo Stato impone un’infrastruttura dall’impatto devastante, ma senza spiegarne le ragioni. Ovvio che è inaccettabile opporvisi violando la legge. Ma è altrettanto inaccettabile, per il cittadino, dover subire quello che viene percepito come un sopruso. Gli abitanti della valle di Susa hanno il diritto, innanzitutto, di essere informati sulla reale utilità dell’opera. Ma questo diritto elementare viene loro negato, da vent’anni. Forse perché l’opera è completamente inutile? Lo conferma l’analisi costi-benefici fornita al governo dal professor Marco Ponti, su incarico del ministro Toninelli. Un progetto costoso, obsoleto e inutile. Ma peggio: si continua a dire che rinunciare alla Torino-Lione costerebbe più che costruirla. E qui la menzogna naufraga nel ridicolo.
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Pedofilia al governo? La morte di Epstein fa comodo a tanti
Una morte stranissima e soprattutto provvidenziale, quella di Jeffrey Epstein, arrestato il 6 luglio con l’accusa di sfruttamento della prostituzione su minori e violenza carnale su oltre 30 ragazze minorenni, almeno dal 2002 al 20045, nella sua residenza di New York e nella sua tenuta in Florida. Già dieci anni fa era stato condannato per gli stessi reati, ma ora a tremare erano i pezzi da novanta dell’establishment, americano e non solo: da Trump a Clinton, dall’ex premier israeliano Ehud Barak al principe Andrea d’Inghilterra. Strana morte, scrive Zara Muradyan su “Sputnik News”, in una nota tradotta da “Come Don Chisciotte”: l’improvvisa fine di Epstein arriva poche settimane dopo «le affermazioni secondo cui il finanziere americano il 23 luglio era stato trovato ferito e inconscio sul pavimento della sua cella a Manhattan», nel Metropolitan Correctional Center. All’epoca, diversi media avevano suggerito che avrebbe potuto tentare il suicidio. Eppure, «la dinamica degli eventi non è stata chiarita». Epstein era stato trovato privo di sensi e «con segni sul collo che, apparentemente, sembravano autoinflitti». Da allora, «era stato messo sotto sorveglianza speciale anti-suicidio». Risultato: si sarebbe suicidato lo stesso, il 10 agosto. Una storia che puzza da lontano: Wayne Madsen, già dirigente della Nsa, accusa esplicitamente il Mossad israeliano.
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Bidone Gialloverde, elezioni-farsa: e ora gli oligarchi ridono
Ma non dovevano aprire il fuoco contro i padroni del rigore europeo? Quello almeno era l’impegno di Salvini, consapevole della necessità di liberarsi della camicia di forza di Bruxelles. Di Maio invece aveva spiccato un volo pindarico: avremo di tutto, aveva promesso, ma senza spiegare come, con che soldi. Frode, incapacità, destino cinico e baro? Semplice gatekeeping all’italiana? Presa per i fondelli dell’elettorato? Rivisto al ralenty, l’inglorioso tramonto gialloverde è sbrodolato di Nutella salviniana, caviale russo, vaniloquio grillino. Difficile capire chi l’abbia vinta, la gara al ribasso verso il nulla: il Salvini che a parole rivendicava la Flat Tax o il Di Maio che, aggiungendo chiacchiere a chiacchiere, elargiva il suo reddito di cittadinanza teoricamente quasi universale? Man bassa di voti, un anno fa: i leghisti al Nord, i grillini al Sud. Bifronte come Giano, il Bidone Gialloverde. Ci erano cascati, gli italiani? Eccome: l’estate scorsa, il “governo del cambiamento” volava sulle ali di un consenso mai visto, né in Italia né nel resto d’Europa.Parlavano da soli gli applausi rovesciati addosso a Salvini e Di Maio dal popolo di Genova sulle macerie del Viadotto Morandi, prima che si sapesse che i super-incassatori dei pedaggi italiani, da mungere attraverso Autostrade, non erano i Benetton ma i veri padroni di Atlantia, gli americani di BlackRock. E addio “nazionalizzazione” dannunziana dell’italica rete autostradale, infrastruttura strategica costruita grazie all’uso intelligente del debito pubblico. Poi, va da sé, “il seguito è una vergogna”, come cantava Edoardo Bennato. Il peccato originale? Il cedimento sul deficit, l’addio alla cassaforte: Paolo Savona che si defila, silurato da Mattarella per la gioia di Visco, Draghi e tutti gli altri euro-strozzini che in questi decenni hanno spolpato il Belpaese, facendolo a pezzi per svenderlo agli amici degli amici. Questo significava il “niet” della Commissione: non avrete i soldi per fare quello che avevate promesso. Reazioni: nessuna. Faremo tutto ugualmente, hanno detto (barando) i bidonisti gialloverdi, sapendo perfettamente che – da quel momento – il “governo del cambiamento” era finito, clinicamente morto.Potevano protestare, insorgere? Dovevano farlo: godevano della fiducia del paese. Un fatto che aveva del miracoloso, in sé, visto il curriculum dell’Italia. Prima l’attacco al cuore del sistema, con la Prima Repubblica messa in ginocchio per via giudiziaria di fronte alle forche caudine del Trattato di Maastricht. Poi l’avvento del finto bipolarismo tra Berlusconi e Prodi, tra le “cene eleganti” di Arcore e la presidenza della Commissione Europea, passando per la Goldman Sachs. Quindi la macelleria di Monti, l’anestesia del falso medico Renzi, il pallore dei maggiordomi Letta e Gentiloni. Un establishment esausto, ridotto a banchettare sui resti di industrie e banche largamente cedute a mani straniere, grazie a governi-fantoccio appaltati a piccoli yesman. Poi sono arrivati loro, i giustizieri. Due aziende distinte: quella grillina senza idee, ma con la fedina immacolata. L’altra, la ditta leghista, con trascorsi non esattamente esaltanti, ma rigenerata da una leadership teoricamente sovraneggiante.Da come s’erano messe le cose, in autunno, c’era da sperare che i biscazzieri gialloverdi facessero fronte comune, affondando il colpo – Davide contro Golia – in modo spettacolare, magari presentandosi uniti alle elezioni europee per spiegare che le ragioni dell’Italia non sono diverse da quelle degli altri paesi, se ci si mette dalla parte del popolo e contro l’élite abusiva, privata, che domina le istituzioni pubbliche. Ma niente da fare. I due sparring partner, il leghista e il grillino, non hanno fatto altro che allenare i muscoli dei campioni, gli oligarchi, che almeno su una cosa si erano sbagliati: per un attimo, avevano pensato che Salvini e Di Maio facessero sul serio. Poi, quando li hanno visti azzannarsi tra loro ogni giorno, hanno capito di che pasta fosse, il Bidone Gialloverde. Gli hanno rubato il portafoglio, e l’hanno passata liscia: anziché coi ladri, Salvini se l’è presa coi migranti africani e coi negozietti di cannabis light. Di Maio, al solito, l’ha superato in capacità acrobatica: prima ha lisciato il pelo ai Gilet Gialli massacrati fa Macron, poi s’è genuflesso di fronte alla socia tedesca di Macron, e infine ha contribuito in modo decisivo all’elezione di Ursula von der Leyen, candidata della Merkel alla guida della Commissione Ue.Ora il film è finito, ma l’alternativa è il vuoto. Sfidando il ridicolo, Matteo Salvini – armato di crocifisso – dopo aver azzoppato l’ex socio ora tenta di proporre se stesso come salvatore della patria, sperando che gli italiani abbiano la memoria così corta da non ricordare chi era, Salvini, un anno fa, cosa diceva, cosa prometteva e cosa non ha mai neppure lontanamente provato a fare, in questi lunghi mesi in cui, insieme all’altro sparring partner, ha perso in giro gli elettori. Crede davvero, il leghista, che fare da valletto (l’ennesimo) ai voraci squaletti del Tav gli possa valere grandiosi trionfi? Seriamente si illude che il 34% rimediato alle europee, tornata in cui ha votato solo un italiano su due, si possa trasformare in un’apoteosi, nelle elezioni anticipate che ora pretende? Matteo Renzi riuscì a cadere faccia terra dall’alto del suo 40%, e anche lui per un test elettorale non dovuto, personalmente imposto al paese. Storie sinistramente parallele, quelle dei due Matteo, nella bassa marea in cui la navicella italiana continua a languire, con le vele flosce, senza che sia in vista nessun alito di vento.La campagna elettorale prossima ventura – trita continuazione di quella in corso da mesi – vedrà i bidonisti ex gialloverdi recitare una farsa penosa e cattiva, da commedianti falliti. Ripeteranno sensazionali stupidaggini, tentando di convincere il pubblico che il problema è solo italiano – è tutta colpa di Di Maio, anzi di Salvini – come se Di Maio e Salvini avessero davvero potuto fare quello che volevano. Da loro sentiremo di tutto, tranne la verità. Il grottesco sta nel fatto che questi due signori si rivolgeranno agli italiani come se niente fosse, come se non sapessero quali poteri – nella migliore delle ipotesi – li hanno sabotati fin dall’inizio. Ma gli italiani oggi si interrogano anche sull’altra ipotesi, la peggiore: non sarà che quei poteri li hanno guidati da subito, a partire dall’esordio, prima gonfiandoli e poi sgonfiandoli, i simpatici bidonisti gialloverdi? Lega e 5 Stelle non si libereranno del marchio che ormai li squalifica: avevano impegnato l’onore dell’Italia, di fronte all’Europa, in una promessa di liberazione democratica. Se si maneggiano parole come giustizia, trasparenza e soprattutto sovranità, la gente rischia di prenderti sul serio. Quando poi scopre che era solo un bluff, ti presenta il conto. L’unica certezza, di fronte al cadavere del Bidone Gialloverde, è che la politica italiana è da ricostruire da zero. Con tanti saluti all’increscioso acrobata grillino e allo sceriffo balneare padano, travestito da poliziotto e illuminato dalla Madonna di Medjugorje.(Giorgio Cattaneo, “Bidone Gialloverde: ridono gli oligarchi ma non gli italiani, costretti a subire elezioni-farsa”, dal blog del Movimento Roosevelt del 10 agosto 2019).Ma non dovevano aprire il fuoco contro i padroni del rigore europeo? Quello almeno era l’impegno di Salvini, consapevole della necessità di liberarsi della camicia di forza di Bruxelles. Di Maio invece aveva spiccato un volo pindarico: avremo di tutto, aveva promesso, ma senza spiegare come, con che soldi. Frode, incapacità, destino cinico e baro? Semplice gatekeeping all’italiana? Presa per i fondelli dell’elettorato? Rivisto al ralenty, l’inglorioso tramonto gialloverde è sbrodolato di Nutella salviniana, caviale russo, vaniloquio grillino. Difficile capire chi l’abbia vinta, la gara al ribasso verso il nulla: il Salvini che a parole rivendicava la Flat Tax o il Di Maio che, aggiungendo chiacchiere a chiacchiere, elargiva il suo reddito di cittadinanza teoricamente quasi universale? Man bassa di voti, un anno fa: i leghisti al Nord, i grillini al Sud. Bifronte come Giano, il Bidone Gialloverde. Ci erano cascati, gli italiani? Eccome: l’estate scorsa, il “governo del cambiamento” volava sulle ali di un consenso mai visto, né in Italia né nel resto d’Europa.
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Formica: Trump e Putin mollano Di Maio e Salvini per l’Ue
Sapete chi è stato a imporre a Di Maio il voltafaccia sul Tav Torino-Lione, che probabilmente segnerà la morte politica dei 5 Stelle? Non tanto Salvini, quanto il vero padrone di casa: gli Stati Uniti. Ma non è che l’inizio: perché la testa di Luigi Di Maio, insieme a quella di Salvini, sarà servita su un piatto d’argento, sia da parte di Washington che di Mosca, per placare la voglia di vendetta dell’Europa, sfidata (solo a parole, per la verità) dal governo gialloverde. A pronosticarlo è Rino Formica, politico socialista della Prima Repubblica e osservatore smaliziato delle due incerte “repubbliche” successive. Secondo Formica neppure il voto potrebbe sanare la crisi. E nulla potrà la terza forza in campo, il fallimentare partito dei “badogliani”. «Ogni contratto ha valore a due condizioni», osserva Formica: «La prima è considerare l’oggetto del contratto, e dunque la situazione da gestire come statica e immobile. In politica è un grave errore, perché le cose si evolvono continuamente». E la seconda? «La seconda è che ad ogni inadempienza contrattuale corrisponde una sanzione». E nel contratto siglato da Lega e M5S «la clausola sanzionatoria è occulta, perché è scaricata su un terzo che non ha colpe: il popolo italiano», dice Formica, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”.«Prescindere dalla situazione in continuo movimento – spiega l’ex ministro craxiano – fa sì che il dibattito avvenga sulle clausole contrattuali prefissate. Ma queste sono continuamente superate, modificate, cancellate dal processo politico in atto. Di per sé già questo sancisce il fallimento del governo gialloverde». Poi, aggiunge Formica, c’è la crisi della clausola sanzionatoria delle inadempienze che stanno emergendo da una parte e dall’altra, dalla Flat Tax alla futura linea Tav Torino-Lione. E il conto «lo paga il paese», sostiene Formica. Andare al voto anticipato? «Avrebbe poco senso, perché non sarebbe risolutivo». Secondo l’ex ministro, «c’è una responsabilità delle forze di opposizione e dei mezzi di informazione», due “giocatori” che «non fanno emergere la crisi del contratto e la clausola occulta». Ci lasci indovinare, ipotizza Ferraù: l’Italia è incattivita e in preda al “fascismo”? Secondo Formica, chi oggi governa il paese «lo ha potato all’esasperazione, additando come cause fattori esogeni: l’immigrazione, l’incertezza sul lavoro, l’Europa, la corruzione, la mancata crescita. Il voto non risolverebbe i problemi – sostiene Formica – perché gli italiani sarebbero chiamati alle urne su argomenti che provocano lacerazioni: le stesse che vediamo nel nostro tessuto sociale».Ammettiamo che Salvini dichiari conclusa l’esperienza di governo e chieda di andare a votare, ragiona Ferraù. A quel punto, il capo dello Stato troverebbe subito un’altra maggioranza disposta a sostenere un governo di transizione? Non è questo il punto, secondo Formica: «Nel governo ci sono tre forze. M5S e Lega sono entrambi lacerati al proprio interno tra governisti e movimentisti. Due componenti interne, trasversali, che tendono alla divaricazione». E la terza forza? «È data dal gruppo dei ministri badogliani: Conte, Tria e Moavero. Hanno capito che la guerra è persa e non sanno più come evitare che l’edificio crolli loro addosso». Eppure, osserva Ferraù, hanno trovato l’accordo con l’Ue nella scorsa legge di bilancio: hanno evitato la procedura di infrazione e ora aspirano a gestire la prossima manovra. «Ma sono risultati che non hanno avuto effetti sul programma di governo», obietta Formica. I 5 Stelle e la Lega, «invece di fare un bilancio serio, trasparente, del primo anno di governo», finora «hanno enfatizzato il proprio contributo, dal contrasto all’immigrazione al reddito di cittadinanza». E adesso? «Si va verso una crisi profonda, segnata dalla rivolta dentro i 5 Stelle, che probabilmente avverrà anche all’interno della Lega, mentre i badogliani dovranno fare i conti con la propria inefficacia».Formica intravede il peggiore degli scenari possibili, per leghisti e grillini: «Sono dell’opinione che la crisi delle due formazioni passerà per la liquidazione dei due leader, Di Maio e Salvini». Motivo: i 5 Stelle e la Lega «hanno perso la battaglia con l’Unione Europea». Strategia fallimentare: «Avevano scommesso, sulla base di due alleanze (con Putin, con Trump o con entrambi), che sarebbero stati capaci di minare la stabilità dell’Europa. Ma l’instabilità dell’Europa non c’è, perché il voto europeo ha visto la vittoria delle forze europeiste. E gli europeisti regoleranno presto i conti con le forze ostili». Redde rationem: «In quel momento il realismo degli Stati Uniti e della Russia sarà favorevole all’iniziativa europea, e per dimostrarlo Washington e Mosca offriranno all’Europa le teste dei rispettivi “servitori” nei singoli paesi». Ma è così scontata l’obbedienza dei 5 Stelle a Washington? Per Formica, il movimento fondato fa Grillo «è un insieme di tante forze contraddittorie, ma la sua parte maggioritaria guardava e guarda al populismo americano».Cartina di tornasole della sottomissione grillina agli Usa, il diktat che secondo Formica i pentastellati avrebbero subito da parte dell’ambasciatore statunitense riguardo alla Torino-Lione: «Sulla Tav, Lewis Eisenberg ha chiamato Di Maio. Non si sono scambiati un cioccolatino… “Questa storia si deve chiudere, toglietevi dalle scatole”, gli ha fatto capire l’ambasciatore». Sicché, il M5S «non potrà più far finta che il contratto è in piedi e ne è solo rinviata l’attuazione. No: il contratto non c’è più». Secondo Formica, si sta avvicinando anche la fine di Salvini. Eppure – fa notare Ferraù – il leader della Lega ha il consenso di quasi il 40% degli italiani. «Per ora», precisa Formica. Ma domani? «Nenni diceva che alla fine ogni fiume risponde alla sua sorgente». E la sorgente della Lega «è il Nord». Cioè: «La vera Lega, elettoralmente parlando, è quella lombardo-veneta». Salvini? «Ha ottenuto il consenso del resto del paese solo in chiave reazionaria. Non durerà». Le prime scosse sismiche, sempre secondo Formica, arriveranno con la prossima legge di bilancio: «A dicembre, gli italiani si accorgeranno che l’inadempienza contrattuale è stata scaricata su di loro». E addio gialloverdi.Sapete chi è stato a imporre a Di Maio il voltafaccia sul Tav Torino-Lione, che probabilmente segnerà la morte politica dei 5 Stelle? Non tanto Salvini, quanto il vero padrone di casa: gli Stati Uniti. Ma non è che l’inizio: perché la testa di Luigi Di Maio, insieme a quella di Salvini, sarà servita su un piatto d’argento, sia da parte di Washington che di Mosca, per placare la voglia di vendetta dell’Europa, sfidata (solo a parole, per la verità) dal governo gialloverde. A pronosticarlo è Rino Formica, politico socialista della Prima Repubblica e osservatore smaliziato delle due incerte “repubbliche” successive. Secondo Formica neppure il voto potrebbe sanare la crisi. E nulla potrà la terza forza in campo, il fallimentare partito dei “badogliani”. «Ogni contratto ha valore a due condizioni», osserva Formica: «La prima è considerare l’oggetto del contratto, e dunque la situazione da gestire come statica e immobile. In politica è un grave errore, perché le cose si evolvono continuamente». E la seconda? «La seconda è che ad ogni inadempienza contrattuale corrisponde una sanzione». E nel contratto siglato da Lega e M5S «la clausola sanzionatoria è occulta, perché è scaricata su un terzo che non ha colpe: il popolo italiano», dice Formica, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”.
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Tav, Governo del Tradimento: sangue e bugie, addio grillini
«Non c’erano e non ci sono governi amici, l’abbiamo sempre saputo». Così il movimento NoTav reagisce al “tradimento” gialloverde sulla Torino-Lione, anticipato da Conte: «Non fare il Tav costerebbe più che farlo». Alberto Airola, parlamentare 5 Stelle, si sente raggirato da Di Maio: «Il suo – dice – è un atteggiamento pilatesco: sa benissimo che in aula saremo gli unici a votare “no”». In una video-intervista al “Fatto Quotidiano”, Airola condanna la decisione di rinunciare al potere dell’esecutivo per bloccare l’opera, ricorrendo alla farsa del voto parlamentare (più che scontato) sul destino del progetto, costosissimo e inutile. «L’ho detto più volte, a Conte: l’opera – che è appena ai preliminari – si può fermare senza danni per l’Italia». Conte però ha finto di non sentire: «E’ stato mal consigliato?», si domanda Airola. Certo, in linea con Conte appare Di Maio, che sposa in pieno la tattica dell’ipocrisia: i 5 Stelle ribadiranno la loro pletorica contrarietà alla super-ferrovia, già sapendo che Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia voteranno a favore. Un mezzuccio un po’ meschino, per tentare di salvarsi la coscienza. «Credo che il Movimento 5 Stelle abbia deciso di scrivere il proprio testamento politico», sentenzia Nilo Durbiano, sindaco di Venaus, uomo-simbolo dell’opposizione della valle di Susa alla grande opera. Addio 5 Stelle: «La loro avventura è conclusa», dice Durbiano, nel cui Comune i 5 Stelle erano il primo partito.Il cedimento gialloverde emerge anche dalle parole di Beppe Grillo, secondo cui è illusorio «credere che basti essere al governo, in tandem, per bloccare un processo demenziale come questo». Per Grillo, «significa avere dimenticato che non siamo una repubblica presidenziale oppure una dittatura». Ammette il fondatore, che della battaglia NoTav aveva fatto una sua bandiera: «Sono molto scontento della situazione che si è venuta a creare». Ma non aggiunge altro, preparandosi a “digerire” il clamoroso voltafaccia difendendo Toninelli e Conte, che avrebbero reso «meno disastroso» lo scenario, tenendo testa a Macron. Come dire: scusate, ma finora avevamo scherzato. Vi avevamo promesso che ci saremmo messi di traverso, per fermare il Tav? Erano solo parole: come quelle contro l’obbligo vaccinale, il Tap in Puglia e le trivelle nell’Adriatico. Impossibile, sembra dire Grillo tra le righe, che un governo possa fare davvero gli interessi dei cittadini, e non quelli delle lobby che dominano l’Ue. Se non ci fossimo noi – aggiunge l’ex comico – sarebbe pure peggio. Come dire: non siamo colpevoli, e in ogni caso è inutile illudersi che il sistema possa essere cambiato. Ma non era proprio per questo che erano nati, i 5 Stelle? Difatti: non a caso, il loro consenso sta franando. E il “tradimento” sul Tav, come dice Durbiano, sembra davvero l’inizio della fine: tra poco i 5 Stelle potrebbero non esistere più.Dopo la sortita di Conte, affermano i NoTav, ora tutto è finalmente chiaro: «Come abbiamo sempre sostenuto, dalle parti del governo non abbiamo mai avuto amici». Aggiungono i NoTav: «La manfrina di tutti questi mesi giunge alla parola fine, e il cambiamento tanto promesso dal governo getta anche l’ultima maschera, allineandosi a tutti i precedenti». Formule retoriche, che si ripetono dal 2001 a prescindere dal colore politico dell’esecutivo di turno. Il governo Conte? Sembra aver voluto «cambiare tutto per non cambiare niente». Tante chiacchiere, ma poi – al dunque – il governo gialloverde «è sempre stato ambiguo, negli atti concreti, e questo è il risultato». Non fare la Torino-Lione costerebbe più che farla? «E’ solo una scusa per mantenere in piedi il governo e le poltrone degli eletti, sacrificando ancora una volta il futuro di molti sull’altare degli interessi politici di pochi». Lo stesso Conte fino a poco tempo fa si era detto convinto che quest’opera non serviva all’Italia. Ora perché ha cambiato idea? E’ stato «fulminato sulla via di Damasco da promesse di finanziamenti europei o da equilibri politici da mantenere?».Recentissima la richiesta di arresto per il direttore della Cmc di Ravenna, general contractor della Torino-Lione, accusato per una storia di corruzione in Kenya. «Un piccolo esempio di cosa abbia scelto il presidente Conte», sottolineano i NoTav: «Altro che interessi degli italiani!». Del resto, aggiunge il movimento valsusino, «abbiamo sempre definito il sistema Tav il bancomat della politica». Cosa cambia, ora? «Per noi assolutamente nulla, perché sono 30 anni che ogni governo fa esattamente come quello attuale: annuncia il sì all’opera e aumenta il debito degli italiani facendo leva su un fantomatico interesse nazionale – che non c’è, e che nessuno dimostrerà mai». Opera inutile: lo dice anche la commissione speciale istituita da Toninelli e coordinata dal professor Marco Ponti. «Conte e il governo che presiede saranno gli ennesimi responsabili di questo scempio ambientale, politico ed economico: dalla Torino Lione la maggioranza del paese non trarrà nessun vantaggio, ma un danno economico e ambientale, che pagheremo tutti».E i 5 Stelle, da sempre NoTav, ora faranno finta di niente, tirando a campare? Bella sceneggiata, quella di «portare il voto in un Parlamento dove l’esito è già scontato, e dove il Movimento 5 Stelle voterebbe contro, tentando di salvarsi la faccia dicendo “siamo coerenti, abbiamo fatto tutto il possibile”». I NoTav annunciano battaglia: «Proseguiremo la nostra lotta popolare per fermare quest’opera inutile e imposta. Lo faremo come abbiamo sempre fatto, mettendoci di traverso quando serve e portando le nostre ragioni in ogni luogo di questo paese, che siamo convinti, sta con noi». Nel 2005, quando la polizia sgomberò con inaudita violenza i manifestanti dal presidio di Venaus, di colpo l’Italia scoprì che in valle di Susa c’era un problema – non locale, ma nazionale. «Non si possono imporre le opere pubbliche col manganello», disse Di Pietro. Da allora sono passati quasi 15 anni, e il governo in carica – stavolta rappresentato anche dai 5 Stelle – continua a premere per la grande opera senza la minima trasparenza, cioè evitando ancora una volta di dimostrarne l’utilità. Una storia tristemente italiana, di democrazia calpestata. Con un corollario: l’auto-rottamazione del movimento creato da Grillo.Era nell’aria: il Governo del Tradimento si sarebbe apprestato a rimangiarsi anche l’ultima delle sue promesse. Ovvero: non gettare via miliardi in valle di Susa per il Tav Torino-Lione, senza prima averne verificato l’utilità. La verifica – la prima, nella storia – era arrivata nei mesi scorsi dopo decenni di silenzio da parte dei governi romani, per merito del ministro Danilo Toninelli. Verdetto negativo, firmato dal più autorevole trasportista italiano, il professor Marco Ponti, già docente del Politecnico di Milano e consulente della Banca Mondiale: un’opera faraonica e completamente inutile, perfetto doppione della linea Italia-Francia che già attraversa la valle di Susa, collegando Torino e Lione via Traforo del Fréjus, da poco riammodernato al prezzo di quasi mezzo miliardo di euro per consentire il passaggio di treni con a bordo i Tir e i grandi container “navali”. Lo sapevano anche i sassi, peraltro: il traffico Italia-Francia è praticamente estinto. Lo chiarisce la Svizzera, delegata dall’Ue a monitorare i trasporti transalpini: l’attuale linea valsusina Torino-Modane-Lione, ormai semideserta e destinata a restare un binario morto anche nei prossimi decenni, potrebbe aumentare del 900% il suo volume di traffico, se solo esistesse almeno il miraggio di merci da trasportare, un giorno.
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Vogliono il golpe, con Draghi? Magaldi: non vinceranno più
Mario Draghi & friends? Saranno sconfitti dalla storia, perché la gente gli si rivolterà contro. Finora hanno stravinto, a mani basse, rottamando la democrazia. Ma non durerà per sempre: il loro potere sta scricchiolando. Lo dimostra il solo fatto di puntare su Draghi per Palazzo Chigi al posto di Conte, per sfrattare Salvini. «Una scelta debole, che rivela le inquietudini del superpotere europeo, in stato confusionale». Lo afferma con convinzione, Gioele Magaldi, il primo (e unico, per ora) a spiegare chi è veramente il banchiere europeo, che a differenza di Bruno Amoroso e Nino Galloni tradì la lezione keynesiana del maestro, Federico Caffè, per passare armi e bagagli alla concorrenza, svendendo il paese (con le privatizzazioni selvagge) all’oligarchia finanziaria che, dal Britannia in poi, ha imposto il globalismo neoliberista e neo-feudale. Ha ancora incredibilmente buona stampa, Draghi, presentato dai media come una specie di salvatore dell’euro e paladino dell’Italia. «Ridicolo: Draghi non ha mosso un dito, in questi anni, per impegnare la Bce nello spegnere l’incendio dello spread. Anzi: ha atteso che paesi come la Grecia e l’Italia venissero ricattati, per subire il regime di austerity, permettendo a svariati soggetti di lucrare denaro speculando sulla crisi. Solo a cose fatte è finalmente intervenuto, legittimando in tal modo il feroce commissariamento».La Grecia in ginocchio, e l’Italia affidata alle “cure” di Monti, «di cui Draghi era uno dei grandi sponsor, insieme a Napolitano». Nel libro “Massoni” uscito nel 2014, Magaldi lo chiama “il venerabile Draghi”, vero e proprio frontman europeo e internazionale delle superlogge più reazionarie, protagoniste della rivoluzione neo-conservatrice che ha piegato l’economia sociale azzoppando gli Stati e impoverendo la classe media a favore dell’élite finanziaria. Magaldi non ama la parola “complotto”, preferisce il termine “progetto”: un piano condotto alla luce del sole, per disarticolare la democrazia sostanziale e sbaraccare i diritti sociali. Ove non bastasse, si è ricorso anche alla guerra e persino al terrorismo, targato prima Al-Qaeda e poi Isis. Oggi abbiamo un’Europa dominata da burattinai come Macron e la Merkel (“socia occulta” di Putin nella superloggia “Golden Eurasia”), che possono essere visti a loro volta come burattini, manovrati dal potere-ombra ora impaurito, che si blinda con Christine Lagarde alla Bce e Ursula von del Leyen alla Commissione Europea, puntando su Draghi per mettere il guinzaglio all’Italia gialloverde.«Fa bene, Antonio Maria Rinaldi, a denunciare i preparativi di quello che chiama “golpe bianco” contro Salvini, ma non so se Draghi accetterà davvero di farsi incastrare a Palazzo Chigi, sorretto da Pd e 5 Stelle: Draghi ambisce al Quirinale, e sa benissimo che si brucerebbe, se dovesse guidare il governo che gli chiedono di fare, incaricato di firmare manovre “lacrime e sangue”». E’ uno schema che si ripete, ricorda Magaldi: riuscì col massone Ciampi, primo ministro e poi presidente della Repubblica. Ritentarono col “fratello” Monti, «ma agli italiani bastò vederlo all’opera: scoprirono presto di quali disastri era capace quello che sembrava un pensoso professore della Bocconi». Ecco perché il “venerabile” Draghi non ha nessuna voglia di essere paracadutato a Palazzo Chigi, almeno secondo Magaldi. «Peraltro, una simile sciagura sarebbe paradossalmente una fortuna: tutti finalmente capirebbero chi è davvero, Mario Draghi. Sarebbe la fine dell’quivoco, e anche delle speranze di Draghi di ascendere un giorno al Quirinale, dopo Mattarella. Il fatto è che il primo a saperlo è proprio “Super-Mario”, uomo accorto e navigatissimo».Come andrà a finire? Impossibile dirlo, perdurando la rissa quotidiana tra Conte, Salvini e Di Maio. Pessimi, i 5 Stelle: «Sono stati decisivi nel far nominare alla guida della Commissione la von der Leyen, cioè il peggior candidato possibile». Certo, aggiunge Magaldi, non ha brillato nemmeno la Lega: «I grillini accusano i leghisti di non aver posto pregiudiziali su nessun candidato, salvo poi bocciare la tedesca in extremis. Una condotta non lineare. Certo, almeno la Lega non l’ha votata, la fedelissima della Merkel. Ma il minimo che ci si poteva aspettare, da parte delle due forze gialloverdi, era che convergessero su un candidato comune, anche solo di bandiera, per rivendicare a testa alta il radicale cambiamento di cui l’Europa ha bisogno». In altre parole, restiamo in alto mare. Ma sarebbe un errore disperarsi: l’élite neoaristocratica, che ora a quanto pare si aggrappa a Mario Draghi per tentare di normalizzare l’Italia, secondo Magaldi in realtà è nei guai. «Hanno deliberatamente impoverito i popoli, con la menzogna del neoliberismo, e ora non sanno come fronteggiare il malcontento dialagante», dice il presidente del Movimento Roosevelt: «Il loro potere nefasto è destinato a tramontare: la gente sta scoprendo chi sono, davvero, gli oligarchi della post-democrazia che ha sabotato le nostre economie spegnendo il futuro».Mario Draghi & friends? Saranno sconfitti dalla storia, perché la gente gli si rivolterà contro. Finora hanno stravinto, a mani basse, rottamando la democrazia. Ma non durerà per sempre: il loro potere sta scricchiolando. Lo dimostra il solo fatto di puntare su Draghi per Palazzo Chigi al posto di Conte, per sfrattare Salvini. «Una scelta debole, che rivela le inquietudini del superpotere europeo, in stato confusionale». Lo afferma con convinzione, Gioele Magaldi, il primo (e unico, per ora) a spiegare chi è veramente il banchiere europeo, che a differenza di Bruno Amoroso e Nino Galloni tradì la lezione keynesiana del maestro, Federico Caffè, per passare armi e bagagli alla concorrenza, svendendo il paese (con le privatizzazioni selvagge) all’oligarchia finanziaria che, dal Britannia in poi, ha imposto il globalismo neoliberista e neo-feudale. Ha ancora incredibilmente buona stampa, Draghi, presentato dai media come una specie di salvatore dell’euro e paladino dell’Italia. «Ridicolo: Draghi non ha mosso un dito, in questi anni, per impegnare la Bce nello spegnere l’incendio dello spread. Anzi: ha atteso che paesi come la Grecia e l’Italia venissero ricattati, per subire il regime di austerity, permettendo a svariati soggetti di lucrare denaro speculando sulla crisi. Solo a cose fatte è finalmente intervenuto, legittimando in tal modo il feroce commissariamento».
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L’ipocrita antifascismo di Facebook “promuove” i neonazisti
Mentre in tutta Europa si lanciano alti lai contro il ritorno in pompa magna del fascismo – che quando si va a votare raccoglie però l’un per cento dei consensi – a Kiev nel cuore dell’Europa consentono raduni nazionalsocialisti con 1500 persone. Nazisti veri, non le macchiette tatuate che si vedono alle sagre. Nell’anniversario dell’invasione dell’Urss del 1941 da parte della Germania nazista – quando le truppe tedesche invasero la parte di Polonia occupata dall’Unione Sovietica (Operazione Barbarossa) – un noto club della capitale ucraina ha organizzato un concerto dichiaratamente neonazista. Come spiega “Haaretz”, sul palco del Bingo Club di Kiev sono salite una mezza dozzina di band neonaziste che propongono una musica fatta di testi estremamente violenti, razzisti e apertamente antisemiti, che inneggiano all’Olocausto.Il raduno ha assunto il pomposo nome di “Fortezza Europa”. Qualche settimana or sono, Facebook mi ha onorato di un blocco settimanale perché avevo postato un approfondimento sull’economia di Schacht sotto il cancellierato di Hitler. Economia che aveva consentito alla Germania di rialzarsi e di abbattere drasticamente la disoccupazione. Insomma, grazie al supporto analitico di Sylos Labini, mi ero permesso di parlare “bene” della ricetta di un ministro nazista, seppur limitatamente alla questione occupazionale. Vedremo se ora i social americani e la stampa mainstream denunceranno con il dovuto zelo una riunione di nazisti nel cuore dell’Europa. Siccome ancora sui media tradizionali non s’è letto nulla, c’è da giurare che tutto passerà sotto silenzio. Non ci resta allora che riportare le precise parole di Roberto Vivaldelli di “InsideOver”, l’unico sito giornalistico ad aver informato sulla gravità dell’evento.«Rispetto ad altri raduni neonazisti che si svolgono in Europa ogni anno, quello di Fortress Europe è del tutto peculiare. Innanzitutto è presente su Facebook con un evento pubblico, nel quale l’organizzatore – Arseniy Bilodub, l’anima della destra neonazista ucraina – aggiorna i futuri partecipanti con alcuni video-messaggi. La sede del concerto è nota da mesi; le vendite dei biglietti sono pubbliche; e l’esistenza dell’evento ha avuto poca o nessuna attenzione da parte del governo o dei media locali. Questo ci racconta molto di ciò che è successo in Ucraina dalla fine del 2013 in poi, quando gli Stati Uniti e i paesi europei hanno supportato le rivolte di EuroMaidan ignorando la nutrita presenza dei neonazisti in piazza e, anzi, hanno soffiato sul fuoco del pericoloso sciovinismo ucraino in funzione anti-russa».(Massimo Bordin, “Quando l’antifascismo occulta il nazismo”, da “Micidal” del 23 fiugno 2019).Mentre in tutta Europa si lanciano alti lai contro il ritorno in pompa magna del fascismo – che quando si va a votare raccoglie però l’un per cento dei consensi – a Kiev nel cuore dell’Europa consentono raduni nazionalsocialisti con 1500 persone. Nazisti veri, non le macchiette tatuate che si vedono alle sagre. Nell’anniversario dell’invasione dell’Urss del 1941 da parte della Germania nazista – quando le truppe tedesche invasero la parte di Polonia occupata dall’Unione Sovietica (Operazione Barbarossa) – un noto club della capitale ucraina ha organizzato un concerto dichiaratamente neonazista. Come spiega “Haaretz”, sul palco del Bingo Club di Kiev sono salite una mezza dozzina di band neonaziste che propongono una musica fatta di testi estremamente violenti, razzisti e apertamente antisemiti, che inneggiano all’Olocausto.
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Fassina: solo la destra sa che la politica deve proteggerci
Penso che il Ddl firmato da 5 Stelle e Lega sulla Banca d’Italia sia parte della ricostruzione del primato della politica sull’economia. La politica monetaria è uno degli strumenti politici più importanti. E ritenere che la politica debba rimanere fuori dalla politica monetaria è stato un errore, frutto di un pensiero unico che si è affermato in modo assolutamente trasversale. Il disegno di legge che hanno presentato i capigruppo di Lega e 5 Stelle al Senato è sostanzialmente un passo avanti; non è che finisca l’indipendenza di Bankitalia, c’è un richiamo esplicito ai trattati europei. Si introduce il meccanismo previsto per la Bundesbank, quindi non una misura nord-coreana. E cioè: il governo nomina presidente e direttore generale, un membro del direttorio (vicepresidente), e altri due membri del direttorio (anch’essi vicepresidenti) vengono nominati uno dalla Camera e l’altro dal Senato. E’ esattamente il modello vigente in Germania. E solo una sinistra che ha completamente smarrito un minimo di autonomia culturale può considerare eversivo e inaccettabile questa proposizione, che a mio avviso invece fa fare un passettino avanti, alla politica, nel governo di uno strumento fondamentale come quello della politica monetaria.
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Soluzione finale: le agenzie di morte che ci condannano
L’Italia mediterranea e cattolica è una fettina di terra e di civiltà minacciata dal fanatismo neo-islamico che viene dal sud e dal nichilismo libertario che viene dal nord. Entrambi nel loro estremo gradino tendono a uno stesso fine, anzi a una stessa fine, la soluzione finale. La morte nel nome di Dio e della sua Legge o nel nome della nostra assoluta libertà e totale autodeterminazione. A volte le due insidie non provengono da direzioni opposte, cioè dai flussi migratori che premono sulle nostre coste meridionali e dai modelli culturali che discendono dai paesi di provenienza protestante e calvinista. Ma provengono ambedue dall’Europa del nord, dai giovani neo-islamici di seconda o di terza generazione, nati e cresciuti in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Germania. E dai ragazzi che vivono nelle società più avanzate del nord Europa, sul piano dei diritti umani: vale a dire l’Olanda, il Belgio, i paesi scandinavi, la stessa Svizzera. Quel che colpisce in entrambi i casi è la persuasione di morte che accompagna le loro esperienze più estreme, più radicali.Gli uni uccidono per purificare il mondo e onorare il loro Dio, tener fede alla loro religione e punire gli infedeli e alla fine si dispongono a morire nel nome di Allah. E gli altri prevedono che una vera libertà, un vero diritto alla piena sovranità della propria vita, preveda che in caso di depressione, di rifiuto di vivere, di sofferenza si possa esser liberi di togliersi la vita. Insomma l’atto supremo della fede degli uni e della libertà degli altri è lo stesso: la soluzione finale. Libertà per la morte. L’abissale differenza, va detto, è che i primi coinvolgono gli altri, anzi danno la morte agli altri e in secondo tempo a se stessi, mentre i secondi danno la morte a se stessi e la garantiscono agli altri che lo decidano in autonomia. Lo spirito di morte e di distruzione è il segno che lasciano sulla terra la devozione cieca ad Allah e la volontà soggettiva degli uomini autonomi. La parabola che conduce a quest’ultima decisione/recisione suprema nasce dal primato della coscienza individuale che fu il grido di rivolta del luteranesimo e poi del calvinismo rispetto alla fides cattolica e alla religio precristiana. Quando lungo la strada perdi la fede in Dio, il senso morale del dovere di vivere, ti resta il libero arbitrio, la solitudine assoluta al cospetto del destino, e dunque il diritto alla vita e alla morte.Non si tratta più, come ben capite, di eutanasia, o di evitare l’accanimento terapeutico tenendo in vita artificialmente vite umane ridotte ormai dalla malattia allo stato semi-vegetativo. Ma si tratta di suicidi assistiti, anche se la parola suicidio va subito rimossa per non turbare i sonni dell’ipocrisia libertaria; e come l’aborto diventò un’interruzione di gravidanza, quasi per una specie di black-out della corrente elettrica, così il suicidio assistito viene ingentilito e incipriato dal più tenue lasciar andare e dalla finzione di dire che è la ragazza a spegnersi lentamente non bevendo e non mangiando. Ma la società civile, lo Stato, la sanità che glielo consente e l’agevola nel nome della predetta libertà assoluta, viene totalmente rimossa dagli orizzonti. Anzi, arcigno, autoritario, dispotico è chiunque si frapponga alla decisione di farla finita e cerchi di impedirla in tutti i modi.Non entro nel merito della vicenda Noa che ha scosso l’Europa e nemmeno nella casistica importante delle centinaia di persone, ragazzi minorenni inclusi, che prendono quella strada e molti media plaudono a questo nuovo ius aeuropeum, lo vedono un segno di modernità, di rispetto, di “più Europa”. E non entro nemmeno nel merito della campagna sentimentale-filosofica che l’accompagna, vale a dire che amare significhi “lasciar andare”, mentre la natura, la cultura, l’anima della nostra civiltà ci hanno sempre suggerito l’inverso, che amare vuol dire prendersi cura, vuol dire a chi ami – come diceva il filosofo Cristiano Gabriel Marcel – “tu non morirai”. Ma mi soffermo sul disagio di vivere in una società in cui viene reputato un segno estremo di libertà ciò che permette auto-distruzione: la droga, l’aborto, il suicidio assistito, il rigetto della natalità, la libertà di andarsene se si è depressi… Vedo in tutto questo il venir meno del senso religioso della vita, in base al quale nessuno è assoluto padrone della sua vita; non fummo noi a darci la vita, non saremo noi a darci la morte, si risponde sempre a qualcuno, comunità è condividere un destino, ogni vita è collegata alle altre e al mondo.Il senso religioso della vita dice che vivere è un diritto ma è anche un dovere, un compito. E non solo: si esce dalla disperazione e dalla depressione più acuta solo se si ha il coraggio di proiettarsi fuori da sé: di sporgersi nel mondo, nella vita, assumersi compiti, vivere anche per qualcuno, per qualcosa; amare qualcun altro fuor di noi stessi, fare un figlio e prendersi cura di lui, formare una famiglia, o tornare alla famiglia da cui si è originati; lavorare, impegnarsi in un’attività e in un’impresa, ritrovarsi in una fede… Insomma proiettarsi oltre se stessi, oltre la propria vita. Facile a dirsi, avete ragione di obiettare; ma è assurdo che una società, una famiglia, una scuola, non debbano avere questo compito primario nei confronti dei ragazzi, ancora acerbi, che decidono di togliersi la vita. Bisogna educare e se è il caso frenare, fermare. Non si può permettere a un minorenne di decidere che la sua vita non meriti di essere vissuta senza neanche provarci, è presto per tirare le somme. Rinunciare a questo compito è arrendersi nel nome della libertà alla soluzione finale. Reputo questa resa come bestiale, disumana, incivile. Difendiamo la nostra civiltà, la nostra umanità da queste agenzie di morte.(Marcello Veneziani, “Soluzione finale per l’Europa”, da “La Verità” del 9 giugno 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).L’Italia mediterranea e cattolica è una fettina di terra e di civiltà minacciata dal fanatismo neo-islamico che viene dal sud e dal nichilismo libertario che viene dal nord. Entrambi nel loro estremo gradino tendono a uno stesso fine, anzi a una stessa fine, la soluzione finale. La morte nel nome di Dio e della sua Legge o nel nome della nostra assoluta libertà e totale autodeterminazione. A volte le due insidie non provengono da direzioni opposte, cioè dai flussi migratori che premono sulle nostre coste meridionali e dai modelli culturali che discendono dai paesi di provenienza protestante e calvinista. Ma provengono ambedue dall’Europa del nord, dai giovani neo-islamici di seconda o di terza generazione, nati e cresciuti in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Germania. E dai ragazzi che vivono nelle società più avanzate del nord Europa, sul piano dei diritti umani: vale a dire l’Olanda, il Belgio, i paesi scandinavi, la stessa Svizzera. Quel che colpisce in entrambi i casi è la persuasione di morte che accompagna le loro esperienze più estreme, più radicali.