Archivio del Tag ‘rivolta’
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L’inizio della fine: dittature ko, tutti gli autogol dell’Impero
Le rivolte popolari in Tunisia, Egitto, Libia, Algeria, Marocco, Bahrein segnano l’inizio della fine dell’Impero americano, e occidentale, in quelle regioni. Da quando hanno vinto la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti, nonostante tutte le loro belle parole di democrazia, hanno sostenuto i dittatori più infami, corrotti e sanguinari, purché gli facessero comodo, quando non hanno fomentato direttamente dei golpe militari. E questa realpolitik imperialista gli si è sempre ritorta contro o li ha messi in situazioni insostenibili.
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Raid Nato in Libia per stroncare la resistenza di Gheddafi?
La Nato si prepara a intervenire in Libia per dare manforte ai ribelli anti-Gheddafi che stanno liberando il paese. Missione militare umanitaria: questa la formula dell’intervento armato che sembra si stia preparando in tutta fretta. Forse anche un raid aereo sui bunker di Tripoli per liquidare il Colonnello e stroncarne la sanguinosa resistenza a oltranza. La notizia trapela il 25 febbraio, di prima mattina: il segretario generale dell’Alleanza Altantica, Anders Fogh Rasmussen, ha convocato una riunione d’emergenza. In prima linea, inglesi e francesi: il premier britannico Cameron si è detto pronto anche all’impiego di forze speciali: per una possibile missione “chirurgica”?
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Gheddafi è spacciato: ora le sue tribù gli muovono guerra
Gheddafi non ha scampo: potrà solo prolungare l’agonia e far dilagare la strage fino al genocidio, ma la sua sorte è segnata. Lo hanno decretato gli anziani delle “tribù della montagna”, i cui giovani miliziani stanno ora cingendo d’assedio il dittatore furente. Lo afferma lo storico Angelo Del Boca, grande studioso del colonialismo italiano. Facendo sparare sulla folla, Gheddafi ha commesso l’ultimo errore fatale, spingendo anche i veterani del regime ad abbandonarlo, come dimostrano le defezioni a valanga, a tutti i livelli: politici, militari e diplomatici. E’ questione di ore o di giorni, ma il Colonnello è finito: tutti i maggiori clan libici si stanno armando per l’assalto finale al bunker di Tripoli.
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Martirio Libia, esercito diviso dal genocidio: è guerra civile
Mille morti nelle strade, migliaia di feriti, sangue e terrore: gli ultimi giorni di Muhammar Gheddafi assediato nel bunker di Tripoli e protetto da miliziani e mercenari si trasformano in un incubo, con almeno 200.000 profughi che cercano scampo via mare. Mentre l’Onu condanna la spaventosa brutalità della repressione – raid aerei con bombe sulla folla – il Colonnello lancia l’estremo, terribile avvertimento: lotterà fino alla morte, seminando strage. Si profila una guerra civile, tra diversi reparti dell’esercito, nel caos più assoluto. E’ il quadro che tutti gli analisti prefigurano: frammentate e divise, senza un riferimento politico dopo 40 anni di black out, le forze armate libiche non sono in grado di risolvere rapidamente la situazione. Si annuncia una vera e propria catastrofe umanitaria.
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Rivolta, il riscatto degli ex schiavi: la profezia di Sankara
Tra i preziosi servigi che nel corso della sua lunghissima e controversa carriera Muhammar Gheddafi avrebbe reso all’Occidente, c’è chi aggiunge un omicidio particolarmente eccellente: quello del capitano Thomas Sankara, presidente rivoluzionario del Burkina Faso, assassinato a freddo il 15 ottobre 1987 nel suo ufficio nella capitale Ouagadougu dopo che tre mesi prima aveva coraggiosamente ribadito, alla Conferenza panafricana di Addis Abeba, la volontà di guidare la lotta nonviolenta dell’Africa per la cancellazione del debito. «Non dobbiamo restituire proprio niente», disse Sankara: «Abbiamo già dato tutto, anche il sangue». Mancava, appunto, il suo. «Se resterò solo in questa richiesta – aggiunse, con una battuta tragicamente profetica – l’anno prossimo non sarò più qui a questa conferenza».
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Perché l’Occidente non ferma il Macellaio di Tripoli
Quando il Colonnello era il «cane rabbioso del Medio Oriente» (Ronald Reagan, aprile 1986), in molti sognavano un regime change a Tripoli. La Libia era uno stato canaglia ante litteram. Americani e britannici ci hanno anche provato. Ma adesso che Gheddafi ha (quasi) compiuto il percorso di riabilitazione, l’occidente assiste a malincuore alla sua caduta. E la richiesta della delegazione libica all’Onu di «intervenire per fermare il genocidio» per ora cade nel vuoto. L’Italia è un caso limite. Solo Silvio Berlusconi in questi giorni ha avuto la delicatezza di non «disturbare» il Colonnello.
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Sanguinosa battaglia in Libia per rovesciare Gheddafi
Terrore in Libia: almeno 80 morti in poche ore, un bagno di sangue. Ma la violentissima repressione della rivolta non sarebbe riuscita a piegare la Cirenaica, la regione di Bengasi, dove da giorni migliaia di manifestanti – sull’onda delle rivolte di Tunisi e del Cairo – sono in piazza per chiedere la testa di Muhammar Gheddafi. Il regime ha impiegato anche mercenari per stroncare i ribelli, ma la Libia – dove Internet è oscurato e solo poche notizie riescono ad aggirare la censura – sembra essere sull’orlo di una guerra civile. Obiettivo, la destituzione di Gheddafi dopo 42 anni di dittatura. «Assordante il silenzio del governo italiano», accusa Walter Veltroni: Roma non ha ancora preso posizione.
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Massacro in Libia, Gheddafi fa sparare sulla protesta
Cresce di ora in ora la tensione in Libia: almeno quattro persone sono rimaste uccise negli scontri scoppiati tra forze dell’ordine e manifestanti nella città orientale di Al-Bayda, nelle prime ore della cruciale “giornata della collera” proclamata dalle opposizioni il 17 febbraio per contrastare il regime di Gheddafi. Le notizie fluiscono frammentarie, attraverso siti di opposizione e Ong libiche. Gli scontri di Al-Bayda fanno seguito alla protesta di Bengasi, ferocemente repressa nella notte tra il 15 e il 16 febbraio. Il Colonnello teme che anche la Libia possa sollevarsi contro il regime: per questo, secondo i servizi segreti italiani, ha agevolato l’esodo verso Lampedusa attraverso la Tunisia facilitando l’espatrio di oppositori.
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Gheddafi trema: scontri a Bengasi, s’incendia anche la Libia
Il contagio della rivolta nel mondo arabo e islamico è arrivato anche in Libia, paese che confina con sia con Egitto che con la Tunisia. È di almeno 38 feriti il bilancio degli scontri fra manifestanti e polizia appoggiata dai sostenitori del leader libico Muhammar Gheddafi, scoppiati a Bengasi nella notte fra il 15 e il 16 febbraio. Mentre a Lampedusa – dove è stato dichiarato lo stato d’emergenza – si ammassano migliaia di profughi tunisini, a tremare è ora il regime di Tripoli, al quale il governo Berlusconi ha affidato il controllo della frontiera mediterranea. Dopo aver fatto il tifo per Ben Alì e Mubarak – i presidenti-dittatori rovesciati dalla furia popolare tunisina ed egiziana – ora Gheddafi deve fare i conti con il popolo libico galvanizzato dall’ondata democratica maghrebina.
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Silvio ormai è cotto, ma resiste ancora: come Mubarak
Silvio Berlusconi, fatte le debite proporzioni, è nella stessa situazione di Mubarak. Dopo sedici anni di regime personale mascherato da democrazia c’è quasi un intero Paese che non ne può più di lui, di questo energumeno che ha monopolizzato per tre lustri la vita politica, e non solo la vita politica, italiana. Importanti pezzi della sua coalizione lo hanno abbandonato, prima l’Udc di Casini, poi il “cofondatore” Fini con Futuro e libertà. Anche giornali, “Libero”, e uomini, Feltri e Belpietro, che lo hanno sempre sostenuto a spada tratta cominciano a prenderne le distanze. Solo tre o quattro anni fa Libero non m’avrebbe mai chiesto di scrivere un articolo, cui è stato dato il posto dell’editoriale, sul tema “Perché sono antiberlusconiano da sempre” (Libero, 29/1).
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Egitto, l’ipocrita Blair auspica un «cambiamento stabile»
Quel che salta subito all’occhio nelle rivolte di Tunisia e d’Egitto è la massiccia assenza del fondamentalismo islamico: secondo la migliore tradizione laica e democratica la gente si è limitata a rivoltarsi contro un regime oppressivo, la sua corruzione e la sua povertà, chiedendo libertà e speranza economica. La cinica convinzione occidentale secondo cui nei paesi arabi la coscienza genuinamente democratica si limiterebbe a piccole élite liberal, mentre le grandi masse possono essere mobilitate solo dal fondamentalismo religioso o dal nazionalismo si è dimostrata erronea. Il grosso interrogativo è naturalmente: che succederà il giorno dopo? Chi ne uscirà vincitore?
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La Cia, il boia Suleiman e la spazzatura della storia
Quattro morti e 1.500 feriti, museo egizio in fiamme, giornalisti picchiati a sangue: a far precipitare nel caos la protesta rivoluzionaria del Cairo, la comparsa di miliziani pro-Mubarak ora condannata da Obama, che si affretta a chiedere una «transizione immediata» fra il regime assediato – che non si rassegna a cedere il potere – e la vasta ondata popolare che ha portato in piazza milioni di persone, in nome della svolta democratica promossa dalle opposizioni coordinate da Mohammed El Baradei. Una situazione esplosiva, che sembra fatta apposta per esasperare la folla e rianimare così il fantasma dell’estremismo islamico, finora assente dalla contesa egiziana. E mentre Washington getta l’ex alleato Mubarak nella spazzatura della storia, la stampa americana riscopre – in ritardo – il “passato nero” di Omar Suleiman, formidabile aguzzino per conto della Cia durante l’era Bush.