Archivio del Tag ‘rispetto’
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Koenig: vergogna, Soleimani invitato a Baghdad da Trump
Immagina, il cosiddetto leader mondiale ti invita in un paese straniero per aiutarti a mediare tra diverse fazioni; tu accetti, e quando arrivi all’aeroporto lui ti uccide. Quindi sorride e si vanta, con assoluta soddisfazione, di aver dato l’ordine di uccidere – uccidere con il telecomando, con il drone. Molto peggio dell’omicidio extragiudiziale, perché in quel caso non c’erano mai state accuse contro di te, tranne che per le bugie. È esattamente quello che è successo con l’amato, geniale e carismatico generale iraniano Qassem Soleimani. Ed è quello che i miseri servi di Trump, come il segretario agli esteri Mike Pompeo e il ministro della guerra, Mark Esper, negano spudoratamente: vale a dire che lo avevano invitato, per intermediazione del primo ministro iracheno. Davanti a una conferenza stampa della Casa Bianca, ridendo cinicamente, Pompeo ha chiesto ai giornalisti: credereste a queste sciocchezze? E ovviamente, nessuno dei giornalisti del sistema mediatico mainstream oserebbe dire di sì, anche se ci credessero. Invece ridono convenientemente, per esprimere il loro accordo con l’orribile assassino, in piena complicità con l’uomo che hanno di fronte, per così dire il più alto diplomatico degli Stati barbari.I giornalisti del sistema mainstream media sono troppo codardi per temere di rischiare il lavoro o di perdere l’accesso alla sala stampa della Casa Bianca. Tuttavia, questo è esattamente ciò che il primo ministro iracheno, Adil Abdul-Mahdi, ha detto, incredulo per l’accaduto: «Trump prima mi chiede di mediare con l’Iran, e poi uccide il mio invitato». Abdul-Mahdi ha sicuramente più credibilità di Trump o di uno dei suoi compari, dello stesso Pompeo che, non molto tempo fa, disse a “Rt”: «Quando ero il direttore della Cia, mentivamo, tradivamo, rubavamo. Abbiamo avuto interi corsi di formazione. Ti ricorda la gloria dell’esperimento americano». Il generale Soleimani è stato prelevato all’aeroporto di Baghdad da Abu Mahdi al-Muhandis, comandante militare iracheno e leader delle forze di mobilitazione popolare. Sono partiti con un Suv, quando i missili-drone statunitensi li hanno colpiti e polverizzati, insieme ad altri 10 militari di alto rango di entrambi i paesi. Soleimani aveva l’immunità diplomatica – e gli Stati Uniti lo sapevano. Ma nessuna regola, nessuna legge e nessuno standard etico è rispettato da Washington. Un comportamento molto simile a quello dei barbari.Il generale Soleimani, che era molto più che un generale, era anche un grande diplomatico, fu richiesto dal primo ministro Abdul-Mahdi per conto di Trump di venire a Bagdad per far parte di un processo di mediazione che Trump aveva chiesto a Mahdi di guidare, per allentare le tensioni tra Iran e Arabia Saudita, nonché tra Stati Uniti e Iran. Era uno stratagemma vile e codardo per assassinare Qassem Soleimani. Quanto in profondità puoi affondare? Non ci sono parole per descrivere un crimine così orribile. Pompeo, rotto a ogni menzogna, ha trovato immediatamente una formula di copertura: Soleimani era un terrorista e un pericolo per la sicurezza nazionale Usa. Attenzione, caro lettore: nessun iraniano, né il generale Soleimani né nessun altro, ha mai minacciato gli Stati Uniti, né con le parole, né con le armi. Invece, il capo-barbaro ha avuto l’audacia di minacciare l’Iran di colpire 52 siti del suo patrimonio culturale, nel caso in cui l’Iran avesse osato vendicarsi. Come ulteriore atto immediato contro la legge, Trump ha vietato al ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, di andare alle Nazioni Unite a New York per rivolgersi al Consiglio di Sicurezza, semplicemente rifiutando il visto d’ingresso negli Stati Uniti.Ciò è contrario alla Carta delle Nazioni Unite firmata dagli Stati Uniti nel 1947, in base alla quale ai rappresentanti stranieri deve essere sempre consentito l’accesso al territorio delle Nazioni Unite a New York (lo stesso vale per le Nazioni Unite a Ginevra). E dov’è il signor António Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, quando ne hai bisogno? Che cosa ha da dire? Nulla, un grande nulla. Non ha nemmeno condannato l’omicidio del generale Soleimani. Ecco cos’è diventato l’Onu: un corpo senza denti e senza valore, pronto a eseguire le disposizioni dell’Impero Barbarico. Che triste eredità. Quand’è che la maggioranza degli Stati membri chiederanno l’espulsione degli Stati Uniti dall’Onu? Ci sono 120 Stati non allineati che si trovano dietro paesi che sono molestati, oppressi e sanzionati dagli Stati Uniti, come Venezuela, Cuba, Iran, Afghanistan, Siria, Corea del Nord. Perché non alzarsi all’unisono e fare dell’Onu – senza più il tiranno barbarico – ciò che la sua carta dice di essere?(Peter Koenig, estratto dal post “L’Occidente è gestito da barbari”, pubblicato su “Global Research” il 13 gennaio 2020. Economista e analista geopolitico, specialista in ecologia e risorse idriche, Koenig ha lavorato per oltre 30 anni con la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità in tutto il mondo).Immagina, il cosiddetto leader mondiale ti invita in un paese straniero per aiutarti a mediare tra diverse fazioni; tu accetti, e quando arrivi all’aeroporto lui ti uccide. Quindi sorride e si vanta, con assoluta soddisfazione, di aver dato l’ordine di uccidere – uccidere con il telecomando, con il drone. Molto peggio dell’omicidio extragiudiziale, perché in quel caso non c’erano mai state accuse contro di te, tranne che per le bugie. È esattamente quello che è successo con l’amato, geniale e carismatico generale iraniano Qassem Soleimani. Ed è quello che i miseri servi di Trump, come il segretario agli esteri Mike Pompeo e il ministro della guerra, Mark Esper, negano spudoratamente: vale a dire che lo avevano invitato, per intermediazione del primo ministro iracheno. Davanti a una conferenza stampa della Casa Bianca, ridendo cinicamente, Pompeo ha chiesto ai giornalisti: credereste a queste sciocchezze? E ovviamente, nessuno dei giornalisti del sistema mediatico mainstream oserebbe dire di sì, anche se ci credessero. Invece ridono convenientemente, per esprimere il loro accordo con l’orribile assassino, in piena complicità con l’uomo che hanno di fronte, per così dire il più alto diplomatico degli Stati barbari.
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Onore a Paragone, espulso. Ma che ci faceva tra i 5 Stelle?
Gianluigi Paragone in rotta coi 5 Stelle? Ovvio, data la caratura politica del personaggio. E’ stato l’unico giornalista italiano (televisivo, per giunta) ad aver osato dare spazio a un ultra-eretico come Paolo Barnard, il primo a denunciare l’euro come strumento di dominazione finanziaria post-democratica, dopo essersi speso – con larghissimo anticipo su chiunque altro – nel divulgare in termini popolari, per i non addetti, i fondamentali della materia oscura (economica, finanziaria) che si è impossessata della politica, trasformando i partiti in semplici passacarte, meri esecutori – per lo più ignoranti – di decisioni altrui. Fa decisamente onore, a Paragone, il fatto di venir finalmente espulso dalla congrega grillina che fa da stampella al Pd e tiene in vita l’orrendo governo Conte, protetto dalle cancellerie europee anti-italiane e mantenuto insieme solo dal terrore delle elezioni anticipate, cioè la fine dei privilegi per le centinaia di signori-nessuno che Beppe Grillo ha miracolato, trasformandoli provvisoriamente in parlamentari. A sconcertare, semmai, è la scelta compiuta da Paragone due anni fa, quando decise di candidarsi proprio con loro, i grillini, che avevano già cominciato a gettare la maschera: risale infatti al 2016 il tentato trasloco, a Strasburgo, tra le file dell’Alde iper-eurista, fierissimo dell’infame austerity imposta agli europei.Stupisce che un sincero democratico come Paragone abbia potuto accettare di subire, fin dall’inizio del suo mandato, il ménage finto-democratico che domina l’impostura politica grillina, scandita dal più vuoto degli slogan – uno vale uno – e smentita ogni giorno dalla prassi di bottega, il movimento “detenuto” privatamente da Casaleggio e rappresentato altrettanto privatamente, nei momenti decisivi, dal solo Grillo. Che ci faceva, l’ottimo Paragone, in così pessima compagnia? Cosa sperava di ottenere, impuntandosi nel denunciare gli scempi e i tradimenti del Conte-bis? Come immaginare di ottenere un rigurgito di coscienza dai grillini imbullonati alle poltrone, pronti a smentire oggi e domani quello che solo ieri promettevano? E’ sterminato l’elenco delle vergogne che giustamente Paragone richiama, con l’unico effetto di riscuotere la stima, il rispetto e il consenso dei milioni di elettori che ancora si domandano come abbiano potuto gettare il loro voto nella spazzatura, nel 2018, dando fiducia a Di Maio e soci, credendo davvero che dicessero sul serio quando assicuravano la svolta democratica che il paese attende da trent’anni. Come si può sperare che il riscatto democratico venga da un gregge sottomesso, che in dieci anni non si è mai confrontato democraticamente nemmeno per sbaglio, in un regolare congresso?Proprio l’illustre ospite di Paragone – Paolo Barnard – fu il primo a lanciare l’allarme, in tempi non sospetti: che razza di democrazia ci si può aspettare da una setta politica fanatizzata a comando da due privati cittadini, Grillo e Casaleggio, con potere di vita e di morte su chiunque osi esprimere il benché minimo dissenso? Oggi, gli ometti parcheggiati in Parlamento sanno perfettamente di perdere la faccia, oltre che i voti ingiustamente ottenuti, ma restano dove sono – incollati allo scranno – ben consapevoli del fatto che, alla prossima tornata elettorale, di loro non resterà più nulla. In compenso, ai sommi poteri hanno offerto uno spettacolo memorabile: la rabbia degli italiani elusa e tradita, gli elettori raggirati, gli impegni disattesi. Una colossale presa in giro: all’amo hanno abboccato milioni di elettori, nel paese che più di ogni altro aveva motivo per reclamare una radicale inversione di rotta nella governance europea. Gli eurocrati si saranno divertiti in mondo, nel vedere che un grande paese come l’Italia si è lasciato buggerare dal signor Grillo e dai suoi rivoluzionari all’amatriciana. Non ci voleva molto a capire, fin dall’inizio, che la partita era truccata: il Movimento 5 Stelle non ha mai proposto niente di serio. Zero: non un’idea per cambiare le regole. Solo fumo: le auto blu, i vitalizi e altre stupidaggini. Possibile che non se ne fosse accorto, un giornalista coraggioso e acuto come Gianluigi Paragone?(Giorgio Cattaneo, “Onore a Paragone, espulso: ma che ci faceva, uno come lui, nei 5 Stelle?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 3 gennaio 2019).Gianluigi Paragone in rotta coi 5 Stelle? Ovvio, data la caratura politica del personaggio. E’ stato l’unico giornalista italiano (televisivo, per giunta) ad aver osato dare spazio a un ultra-eretico come Paolo Barnard, il primo a denunciare l’euro come strumento di dominazione finanziaria post-democratica, dopo essersi speso – con larghissimo anticipo su chiunque altro – nel divulgare in termini popolari, per i non addetti, i fondamentali della materia oscura (economica, finanziaria) che si è impossessata della politica, trasformando i partiti in semplici passacarte, meri esecutori – per lo più ignoranti – di decisioni altrui. Fa decisamente onore, a Paragone, il fatto di venir finalmente espulso dalla congrega grillina che fa da stampella al Pd e tiene in vita l’orrendo governo Conte, protetto dalle cancellerie europee anti-italiane e mantenuto insieme solo dal terrore delle elezioni anticipate, cioè la fine dei privilegi per le centinaia di signori-nessuno che Beppe Grillo ha miracolato, trasformandoli provvisoriamente in parlamentari. A sconcertare, semmai, è la scelta compiuta da Paragone due anni fa, quando decise di candidarsi proprio con loro, i grillini, che avevano già cominciato a gettare la maschera: risale infatti al 2016 il tentato trasloco, a Strasburgo, tra le file dell’Alde iper-eurista, fierissimo dell’infame austerity imposta agli europei.
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Un manuale di democrazia, contro l’odio politico quotidiano
Il Mes? Una tenzone tra «servi di Berlino» e «agenti di Putin». I migranti? Tutti da accogliere o tutti da rispedire in Libia. L’Ilva? Futuro parco giochi o eterna distilleria di veleni… Ma quanto sappiamo davvero del meccanismo europeo di stabilità? Chi conosce il tasso di criminalità e l’apporto alla previdenza sociale determinati dalla presenza degli stranieri in Italia? Qual è il livello di produzione e di occupazione entro il quale la grande acciaieria di Taranto è sostenibile? Bisognerebbe parlarne, magari senza strillare, in modo da ascoltare (anche) le ragioni degli altri: perché non è detto siano peggiori delle nostre. Lo scrive Goffredo Buccini sul “Corriere della Sera”, secondo cui – in questi tempi di reciproche scomuniche – sul comodino di ogni politico dovrebbe stare un libro, “Good economics for hard times” (buona economia per tempi duri, in uscita da Laterza). Una specie di “manuale di democrazia”, scritto dai coniugi Esther Duflo e Abhijit Banerjee, lei francese e lui indiano, entrambi docenti al Mit di Boston (e incidentalmente anche Premi Nobel per l’Economia). Il libro, avverte Buccini, affronta la decadenza della nostra vita pubblica. Meglio: l’eclissi di quell’elemento che di ogni democrazia è il sale, e cioè il dialogo.Il discorso pubblico, scrivono i due professori, è «sempre più polarizzato», tra sinistra e destra è sempre più «un match di insulti» con «pochissimo spazio per una marcia indietro». Non vi sembra di vedere scene da talk show nostrano? Non ritrovate la trincea dei famosi valori non negoziabili? «Se in Italia ci si picchia a Montecitorio sotto gli occhi delle scolaresche in visita – continua Buccini – in America il 61% dei democratici vede i repubblicani come razzisti, sessisti o bigotti e il 54% dei repubblicani chiama i democratici “maligni”. Un terzo degli americani sarebbe deluso se un membro stretto della famiglia sposasse un sostenitore dell’altro partito». Ciò che ci interessa, delle grandi questioni, è riaffermare «specifici valori personali» («Io sono a favore dell’immigrazione perché sono generoso», «Io sono contro l’immigrazione perché i migranti minacciano la nostra identità»). E per supporto, continua Buccini, ricorriamo a numeri fasulli e letture semplicistiche dei fatti. «La sinistra “illuminata” parla in termini “millenaristici” dell’ascesa mondiale della nuova destra, la quale ricambia i pregiudizi».I punti di vista sono «tribalizzati», non solo sulla politica ma anche sui problemi sociali: tutte questioni, annota Buccini, che richiederebbero qualcosa più di un tweet. Scrivono Duflo e Banerjee: «La democrazia può vivere con il dissenso finché c’è rispetto da entrambe le parti». Infatti, scrive il giornalista del “Corriere”, il virus discende aggressivo dai politici ai loro supporter. «Lo scrittore Gery Palazzotto ha di recente tracciato per “Il Foglio” una fenomenologia dell’hater nostrano, l’odiatore da social, riportando i verbali di interrogatorio di una nonna (nonna!) di 68 anni, appartenente alla pattuglia che vomitò oscenità web contro Sergio Mattarella quando il capo dello Stato, nel maggio 2018, fermò la nomina del professor Savona a ministro dell’economia». Se non ci fosse questa «forsennata tammurriata collettiva», scrive Buccini, «sarebbe assai improbabile che un dentista bergamasco (Roberto Calderoli) desse dell’orango a una dottoressa di origine congolese (Cécile Kyenge)». L’eccesso di intemperanza dei politici «ha un effetto esponenziale, produce legioni di odiatori che, specie in un paese segnato dall’analfabetismo funzionale quale è il nostro, odiano senza sapere bene perché».La risposta, dicono Duflo e Abhijit Banerjee nel loro libro, sta nello spacchettare il fenomeno, «scoprendo così che dentro, quasi sempre, non c’è nulla». Da scienziati sociali, i due Nobel avvertono: meglio che ciascuna parte capisca, prima di tutto, ciò che l’altra parte sta dicendo, e quindi «arrivi a qualche ragionato disaccordo, se non al consenso». Un’ottica, per tornare ai nostri casi, in cui – secondo Buccini – potrebbe stonare, una chiusura irridente alla pur inattesa proposta di dialogo di Matteo Salvini su un tavolo di “salvezza nazionale” per regole condivise. Quella del leghista «sarà anche tattica, per sfuggire a un certo isolamento». Per giunta «suonerà persino bizzarra, venendo da chi ieri si appellava alla Madonna di Medjugorje contro il premier Conte, e ancora oggi tiene due profeti dell’Italexit a capo delle commissioni economiche del Parlamento». Eppure, conclude Buccini, «sedersi a quel tavolo non sarebbe inutile», per esempio «se servisse solo a svelenire il clima, mostrando innanzitutto agli odiatori di ciascuna fazione che esiste una strada diversa».Il Mes? Una tenzone tra «servi di Berlino» e «agenti di Putin». I migranti? Tutti da accogliere o tutti da rispedire in Libia. L’Ilva? Futuro parco giochi o eterna distilleria di veleni… Ma quanto sappiamo davvero del meccanismo europeo di stabilità? Chi conosce il tasso di criminalità e l’apporto alla previdenza sociale determinati dalla presenza degli stranieri in Italia? Qual è il livello di produzione e di occupazione entro il quale la grande acciaieria di Taranto è sostenibile? Bisognerebbe parlarne, magari senza strillare, in modo da ascoltare (anche) le ragioni degli altri: perché non è detto siano peggiori delle nostre. Lo scrive Goffredo Buccini sul “Corriere della Sera“, secondo cui – in questi tempi di reciproche scomuniche – sul comodino di ogni politico dovrebbe stare un libro, “Good economics for hard times” (buona economia per tempi duri, in uscita da Laterza). Una specie di “manuale di democrazia”, scritto dai coniugi Esther Duflo e Abhijit Banerjee, lei francese e lui indiano, entrambi docenti al Mit di Boston (e incidentalmente anche Premi Nobel per l’Economia). Il libro, avverte Buccini, affronta la decadenza della nostra vita pubblica. Meglio: l’eclissi di quell’elemento che di ogni democrazia è il sale, e cioè il dialogo.
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Attori “antifascisti”: impedite a Veneziani di salire sul palco
Il due novembre scorso il Teatro Verdi di Padova ha aperto la sua stagione con Marcello Veneziani portando in scena “1919. I rivoluzionari”, dedicato a quell’anno in cui nascque il fascismo, il partito popolare, l’italo-comunismo e ci fu l’impresa fiumana di D’Annunzio. Attori che recitavano testi di Marinetti, don Sturzo, Mussolini, Gramsci e D’Annunzio, musiche d’epoca e Veneziani che raccontava quegli eventi. Gran successo, «dieci minuti d’applausi» fa notare il presidente del Teatro Stabile Veneto, Giampiero Beltotto. Ma il Collettivo Attori Antifascisti, non sappiamo come altro definire il gruppo di attori che fa capo alla compagnia Anagoor, guidata da tale Simone Derai, ha avviato una raccolta di firme per contestare il teatro di aver chiamato «un controverso personaggio come Veneziani». Il Collettivo premette che non ha visto lo spettacolo; non giudica i contenuti, dunque l’attacco è alla persona, a priori, e a prescindere da quel che ha detto e fatto. Per loro è inconcepibile che «un’istituzione di rilevanza nazionale finanziata con soldi pubblici» affidi un argomento così delicato a Veneziani che «non festeggia il 25 aprile» perché a suo dire «non è una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse e del fossato d’odio tra due Italie». Dunque un presunto reato d’opinione interdirebbe a Veneziani il diritto di andare in scena.Veneziani non è solo un giornalista “controverso”, ha scritto più di una trentina di opere, e anche sul tema ha dedicato libri pubblicati dai principali editori e curato antologie (come “Anni incendiari 1909-1911″). Ma a sinistra ignorano le tue idee, non discutono le tue opere ma censurano la tua esistenza e reputano che il semplice fatto di esprimerti a teatro sia un segno del “clima” preoccupante che viviamo (fascismo dappertutto, schizzi di sangue e merda ovunque…). Veneziani è stato chiamato dal Teatro e ha raccontato un anno in un modo che è apparso al pubblico appassionato quanto onesto, rispettoso dei fatti e dei personaggi, non partigiano. Ma il Collettivo Attori Antifascisti decreta che uno come lui va condannato a priori senza leggerlo né ascoltarlo. Gli va impedita la libera espressione, e soprattutto non può accedere in luoghi e teatri che hanno un finanziamento pubblico. Come dire, il Teatro è Cosa Nostra, giù le mani dar valoroso palcoscenico dei compagni pagato coi soldi pubblici. Polemica tardiva? Ma no, semmai preventiva: serve a intimidire chiunque voglia replicare o l’invito. Interpellato da “Il Gazzettino”, Massimo Cacciari dice: «Non mi pare proprio che Veneziani possa essere una persona non affidabile, non mi pare che gli si possa imputare una sorta di apologia. Veneziani svolge con coerenza, secondo la sua impostazione di storico, le sue tesi». Veneziani «non è CasaPound», e comunque «ha altro a cui pensare» rispetto a questi attacchi.Su “La Verità”, Adriano Scianca fa notare che, non entrando nel merito dei contenuti, «non ti censurano per quello che dici, ma per quello che sei», o meglio, che appari ai loro occhi miopi di faziosità ideologica. Anche l’assessore regionale Elena Donazzan fa notare che non si può stroncare senza vederlo uno spettacolo che è piaciuto al pubblico anche di altro orientamento, per la sua efficacia e leggerezza. Il presidente del Teatro Beltotto, che già chiamò Veneziani lo scorso anno al Teatro Goldoni di Venezia per parlare di Ezra Pound, fa notare che non ci sono stati dissensi né fischi a teatro: Veneziani «è un intellettuale di vaglia», e l’anno precedente aveva aperto la stagione teatrale con un altro personaggio “divisivo” come Cacciari, e nessuno lo ha contestato. A parti rovesciate, infatti, nessuno a “destra” e dintorni condanna a priori l’idea di chiamare sul palcoscenico non un terrorista o un pregiudicato, ma un intellettuale di sinistra. Al più critica sui contenuti, dopo aver visto lo spettacolo. Ma questa è la sinistra antifascista, condannata a ripetersi e a contrastare col giudizio della gente. Poi si chiedono perché si è ridotta a una setta, a una mafia, una casa d’intolleranza. Il teatro è Cosa Nostra. Scrive Marco Gervasoni: «Saranno una minoranze di zecche rosse, il Veneto è sano, ci sono pochi comunisti; comunque, viva @VenezianiMar, mandare ai matti il fegato della sinistra è sempre una grande soddisfazione».(”Impedite a Veneziani di andare in palcoscenico”, dal blog di Veneziani, novembre 2019).Il due novembre scorso il Teatro Verdi di Padova ha aperto la sua stagione con Marcello Veneziani portando in scena “1919. I rivoluzionari”, dedicato a quell’anno in cui nascque il fascismo, il partito popolare, l’italo-comunismo e ci fu l’impresa fiumana di D’Annunzio. Attori che recitavano testi di Marinetti, don Sturzo, Mussolini, Gramsci e D’Annunzio, musiche d’epoca e Veneziani che raccontava quegli eventi. Gran successo, «dieci minuti d’applausi» fa notare il presidente del Teatro Stabile Veneto, Giampiero Beltotto. Ma il Collettivo Attori Antifascisti, non sappiamo come altro definire il gruppo di attori che fa capo alla compagnia Anagoor, guidata da tale Simone Derai, ha avviato una raccolta di firme per contestare il teatro di aver chiamato «un controverso personaggio come Veneziani». Il Collettivo premette che non ha visto lo spettacolo; non giudica i contenuti, dunque l’attacco è alla persona, a priori, e a prescindere da quel che ha detto e fatto. Per loro è inconcepibile che «un’istituzione di rilevanza nazionale finanziata con soldi pubblici» affidi un argomento così delicato a Veneziani che «non festeggia il 25 aprile» perché a suo dire «non è una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse e del fossato d’odio tra due Italie». Dunque un presunto reato d’opinione interdirebbe a Veneziani il diritto di andare in scena.
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Ilva: quel regalo di Prodi all’Ue che piegò l’industria italiana
Un’antologia di Spoon River della politica industriale: il paragone tra gli ultimi decenni dell’economia italiana e il celebre “cimitero” letterario rischia di diventare ancora più calzante se ad aggiungersi alla grande massa di settori strategici, centri produttivi di vitale importanza e campioni nazionali smantellati da scelte politiche scriteriate (specie le privatizzazioni selvagge), carenze nella definizione delle priorità strategiche e disastri dei gestori privati dovesse aggiungersi l’Ilva. La corsa frenetica a demolire l’economia mista imperniata nell’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri) è stata devastante. Lo ha fatto notare con durezza e nitida chiarezza il direttore del “Quotidiano del Sud” Roberto Napoletano in un recente editoriale: «La vecchia Stet dell’Iri ha ricostruito l’impero romano regalando all’Italia il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale. (…) La vecchia Italstat dell’Iri regala all’Italia un player globale delle costruzioni e delle grandi opere. Apre e chiude i cantieri, si percepisce il progetto paese dello Stato imprenditore, le due Italie sono riunificate con l’Autostrada del Sole costruita e inaugurata prima della scadenza prevista». Entrambe finiranno poi per naufragare dopo la fine dell’epoca d’oro dello Stato-imprenditore.Destino analogo a quello dell’acciaio: «La vecchia Finsider dell’Iri ha regalato all’Italia l’impianto che garantiva a tutti i paesi europei l’indipendenza nella disponibilità di una materia cruciale (l’acciaio) per lo sviluppo industriale. L’uscita dall’orbita pubblica è stata fatale». Il susseguirsi di caos giudiziari, problematiche amministrative e incertezze politiche, dai Riva a Arcelor Mittal, ha fatto il resto. E ora l’Italia rischia di ritrovarsi di fronte a una Caporetto industriale. La chiusura dell’Ilva, la perdita dell’1,5% del Pil legato all’acciaio, la distruzione di 10.700 posti di lavoro diretti e decine di migliaia indiretti per il contenzioso tra il governo Conte II e Arcelor-Mittal, compratore in ritiro dello stabilimento, per il problema dello “scudo penale” previsto dal piano firmato da Luigi Di Maio e ipotizzato prima di lui da Carlo Calenda, certificherebbe il fallimento della (non) strategia italiana dell’acciaio. Iniziata quando Romano Prodi decise di mettere in liquidazione Italsider e Finsider, nel corso del suo mandato da direttore dell’Iri e presidente del Consiglio, perché…ce lo chiedeva l’Europa. Perché l’Ue chiedeva che l’Italia, svenandosi, pagasse il prezzo dell’entrata nell’euro privandosi dei gioielli di famiglia. E iniziando una spirale decrescente che ha fatto venire meno la compatta integrazione di filiera e portato al degrado delle condizioni ambientali e lavorative in Ilva.I lavoratori dell’Ilva di Taranto, per troppo tempo, hanno dovuto scegliere tra due alternative: la trappola della povertà, ovvero l’abbandono di un posto di lavoro che tra standard ambientali insani e tumori dilaganti rappresentava comunque una delle poche opportunità occupazionali dell’area, o l’accettazione di una precarietà di condizioni disarmante e degradante. Un governo desideroso di fare davvero politica industriale dovrebbe in primo luogo vincolare la vendita dell’Ilva alla risoluzione di questa asimmetria. Tante sono le questioni su cui ci dovremmo interrogare: perché introdurre lo scudo penale per Arcelor Mittal senza condizionarlo a una sorta di “golden power” pubblico, ovvero monitorando strettamente il compratore imponendogli il rispetto di un serio piano ambientale, la transizione operativa e la tutela di standard definiti? Perché non proporre altro che un cambio repentino di legislazione che Arcelor ha potuto cogliere come palla al balzo per svincolarsi? Perché non aver fatto chiarezza sui contratti di affitto dell’ex Ilva stipulati anche dai commissari straordinari? Perché il Conte II ha questa smania di smantellare ciò che, pur confusamente, il Conte I aveva concluso senza proporre un piano di lungo periodo alternativo?La verità è che manca la politica, la vera visione strategica delle priorità del paese. Manca la volontà di indirizzare lo sviluppo dello Stato nei settori strategici, di tutelare l’occupazione e il futuro produttivo del paese. Lo vediamo in questi giorni: Fca e Peugeot vanno verso la conclusione di un’alleanza strategica in cui il governo italiano non ha saputo intervenire con il potere di persuasione morale, pensando che i cambi di residenza fiscale neghino la realtà, che impone di preservare il futuro del settore auto. Lo vediamo sui gasdotti, sulle trivelle, sui porti, su Alitalia, sui cantieri navali, sulle telecomunicazioni. Lo vediamo quando 10.700 persone rischiano il posto di lavoro e un polo tanto importante di evaporare come neve al sole: non sarebbe riduttivo pensare all’ipotesi di dimissioni del governo Conte in caso di chiusura dell’Ilva. È il deserto della politica. Di un sistema paese che ha smesso di pensarsi tale. E di una politica che pensa alla supremazia dei mercati e non a come intervenire, laddove necessario, per tutelare lavoro e produzione. Il padre della grande stagione dell’acciaio italiano, Oscar Sinigaglia, partì ragionando da un assunto semplice: senza acciaio non c’è industria. Sarebbe meglio che anche a Roma si iniziasse a capire un pensiero tanto basilare quanto vitale per un comparto chiave e, a cascata, per l’economia.(Andrea Muratore, “Quel regalo di Prodi all’Europa che piegò l’industria dell’Italia, dietro il disastro Ilva il vuoto si una seria politica industriale”, dall’inserto “InsideOver” de “Il Giornale” del 10 novembre 2019).Un’antologia di Spoon River della politica industriale: il paragone tra gli ultimi decenni dell’economia italiana e il celebre “cimitero” letterario rischia di diventare ancora più calzante se ad aggiungersi alla grande massa di settori strategici, centri produttivi di vitale importanza e campioni nazionali smantellati da scelte politiche scriteriate (specie le privatizzazioni selvagge), carenze nella definizione delle priorità strategiche e disastri dei gestori privati dovesse aggiungersi l’Ilva. La corsa frenetica a demolire l’economia mista imperniata nell’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri) è stata devastante. Lo ha fatto notare con durezza e nitida chiarezza il direttore del “Quotidiano del Sud” Roberto Napoletano in un recente editoriale: «La vecchia Stet dell’Iri ha ricostruito l’impero romano regalando all’Italia il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale. (…) La vecchia Italstat dell’Iri regala all’Italia un player globale delle costruzioni e delle grandi opere. Apre e chiude i cantieri, si percepisce il progetto paese dello Stato imprenditore, le due Italie sono riunificate con l’Autostrada del Sole costruita e inaugurata prima della scadenza prevista». Entrambe finiranno poi per naufragare dopo la fine dell’epoca d’oro dello Stato-imprenditore.
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Russia derubata: l’imbroglio americano del Muro di Berlino
Torgau, 25 aprile 1945: si abbracciavano commossi, su un ponte dell’Elba, i soldati russi e americani che avevano combattuto insieme per liberare l’Europa dal nazismo. Ma la storia li avrebbe traditi: la pace sarebbe svanita, perché l’Occidente non sarebbe stato ai patti. Altre lacrime, stavolta in mondovisione, il 9 novembre 1989. Cadeva il Muro di Berlino, che aveva diviso in due l’ex capitale di Hitler per 28 anni. Altro tradimento: gli Usa non avrebbero rispettato la solenne promessa fatta a Gorbaciov di non estendere la Nato verso l’Est Europa. Da allora, finita la guerra fredda e franato l’argine geopolitico dell’Urss, è svanita la pace vagheggiata dall’uomo della Perestrojka: e il mondo è precipitato nel feroce caos della guerra asimmetrica universale, terroristica e senza più frontiere, scatenata dall’élite occidentale globalista e neoliberista contro il resto del mondo. Doveva essere una festa della riconciliazione, il crollo del Muro, e invece è stato l’inizio di un trennennio buio per moltissimi popoli, travolti dalle “guerre americane” (e in Europa, dall’austerity). Ma il destino del pianeta era segnato, da quando scomparve Franklin Delano Roosevelt il 12 aprile 1945. A differenza di Truman, che ne prese il posto, il presidente del New Deal non avrebbe ingannato l’Unione Sovietica, riconoscendole anzi il merito storico di aver stroncato il nazismo a Stalingrado, invertendo il corso della storia oltre un anno prima dello Sbarco in Normandia.E’ la tesi che Giulietto Chiesa espone del provocatorio saggio “Chi ha costruito il muro di Berlino?”, che esplora i decisivi albori del dopoguerra – da Hiroshima alla guerra fredda – frugando, carte alla mano, tra i segreti della nostra storia più recente. Al punto in cui erano, chiusi nell’angolo – sostiene Chiesa – nel 1961 i sovietici non potevano far altro che innalzare quell’odioso, maledetto muro: non avevano i soldi per rispondere ad armi pari alla micidiale offensiva statunitense in Germania Est, realizzata violando tutti gli accordi tra le superpotenze. Per esempio, la decisione (condivisa da Roosevelt e Stalin) di progettare insieme il futuro della Germania, in modo bilaterale. Via Roosevelt, il voltafaccia americano si fece palese. E Berlino, insieme alla Germania Ovest, divenne il perno su cui investire per puntare all’unico crollo che interessasse davvero a Washington: quello di Mosca. Se a Yalta i vincitori si erano accordati lealmente per co-gestire l’imminente dopoguerra, a Potsdam nell’estate del ‘45 gli americani decisero di cambiare passo: le atomiche sul Giappone sarebbero state una minaccia diretta all’Unione Sovietica. Un anno prima, del resto, a Bretton Woods il sistema capitalista (”miracolato” dal New Deal ma pronto a emarginare lo stratega progressista Keynes) aveva stabilito il gold standard, la supremazia del dollaro come valuta internazionale e il ruolo “imperiale” del Fmi rispetto alle banche centrali, tranne quella americana.Non c’è bisogno di dichiararsi anticomunisti per ammettere che, ovunque abbia conquistato il potere, quell’ideologia abbia sistematicamente deluso, tradito e represso il popolo, imponendo un’oligarchia dittatoriale capace di macchiarsi dei peggiori crimini. Preoccupa, semmai, che il Parlamento Europeo abbia appena votato una mozione che equipara il comunismo al nazismo: in 150 anni, ricorda lo storico Alessandro Barbero, la parola “comunismo” ha unito milioni di persone che speravano in un modo migliore, più giusto e solidale, mentre – com’è noto – il nazismo aveva come primo obiettivo il primato “razziale” germanico e lo sterminio degli ebrei. L’aspetto più inquietante, nel caotico dopoguerra (secondo Giulietto Chiesa, e non solo) riguarda lo strano feeling tra l’élite statunitense e la Germania nazista sconfitta: subito dopo lo spettacolare Processo di Norimberga, scrive Chiesa, furono almeno 20.000 i criminali nazisti reclutati da Washington per dar vita ai propri apparati di sicurezza come la Cia, ma anche la Nato e lo stesso esercito della Germania Occidentale, paese scelto – almeno dal 1947, a quanto pare – come leva strategica per scardinare la presa sovietica sull’Est Europa, fino poi a far crollare il regime di Mosca.Eterogenesi dei fini: paradossalmente, osserva Chiesa, è proprio “grazie a Hitler” (aiutato sottobanco dalla finanza facente capo a Rockefeller e Allen Dulles, poi capo della Cia) che l’America ha potuto diventare la superpotenza “imperiale”, unica padrona dei destini europei. «L’Europa che abbiamo ereditato – sostiene Giulietto Chiesa, già militante comunista e a lungo corrispondente da Mosca per “L’Unità” – è il risultato della sottrazione della vittoria alla Russia, dell’impossessarsi della vittoria da parte degli Usa e della fine dell’impero britannico, sostituito dall’impero americano». La sua ricostruzione della crisi di Berlino – culminata con la costruzione del Muro – è decisamente inconsueta. Nel 1946, subito dopo Norimberga, gli Usa decidono di rivalutare il marco della Germania Occidentale di quasi 5 volte il suo valore, nonostante gli accordi iniziali sulla co-gestione, con i russi, del futuro del paese. Tra parentesi: la battaglia di Berlino, culminata il 2 maggio del ‘45, aveva messo l’Armata Rossa nelle condizioni di dilagare in gran parte del territorio tedesco. «Stalin invece si fermò a Berlino, fedele al patto siglato a Yalta con Roosevelt». Salito Truman alla Casa Bianca, «di colpo l’Occidente vuole mezza Germania per sé, inclusa la parte occidentale di Berlino». E cosa fa? Rivaluta la moneta. «Risultato: a Berlino Ovest, da un giorno all’altro, si guadagna 4 volte tanto».Chiesa parla di «banconote preparate segretamente già dal 1947». A Berlino, alla vigilia della costruzione del Muro, 50-60.000 lavoratori dell’Est fanno i pendolari: lavorano nella zona Ovest, passando liberamente da un settore all’altro. All’improvviso, con l’impennata valutaria del marco occidentale, succede questo: all’Est, pane e benzina costano 4 volte meno, quindi i berlinesi dell’Ovest corrono a svuotare i negozi dell’Est. In parallelo, comincia l’esodo: 200.000 tedeschi lasciano Berlino Est per trasferirsi a Berlino Ovest. «In due anni e mezzo, traslocarono quasi 2 milioni di persone». L’Urss, ancora devastata dall’invasione nazista, non aveva i soldi per reagire sul piano economico-finanziario: «Nella Germania Orientale, Mosca aveva promosso infrastrutture avanzate: ospedali, università, centri di ricerca. Ma il livello di vita era quello socialista, come in Urss». Conclusione: «Il Muro di Berlino fu un atto elementare difensivo, al quale non ci si poteva sottrarre (se non arrendendosi)». Si dirà: ha stravinto, in ultima analisi, il modello economico più convincente. L’unico (dei due) capace di motivare gli individui, lasciandoli liberi di parlare, pensare ed esprimersi democraticamente, e soprattutto di conquistare in tempi brevi una condizione di notevole benessere.Giulietto Chiesa non si nasconde, ovviamente, le aberrazioni dello stalinismo: «C’erano stati milioni di arresti, le deportazioni in Siberia, l’industrializzazione mediante lavoro forzato». Eppure, aggiunge, «in quel momento la dirigenza sovietica aveva un enorme consenso popolare: finita la guerra, i russi pensavano che sarebbe cessata anche la repressione, e che si sarebbe cominciato finalmente a vivere, anche in Russia, in condizioni diverse». Attenzione: «La Russia aveva vinto la guerra, sul suo territorio. Aveva avuto 20 milioni di morti: non voleva, né poteva, considerarsi battuta». Orgoglio, e non solo: l’Unione Sovietica aveva sconfitto il nazismo, ereditando solo macerie. Città distrutte, industrie rase al suolo: un sacrificio immenso. L’America? Intatta. Nello Sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944, gli alleati ebbero 4.400 morti e quasi 8.000 feriti. Cifre che impallidiscono di fronte a Stalingrado, battaglia decisiva per le sorti della Seconda Guerra Mondiale, protrattasi dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio dell’anno seguente. Bilancio: mezzo milione di soldati sovietici uccisi e 650.000 feriti, oltre un milione di perdite inflitte ai tedeschi e ai loro alleati. L’attuale demonizzazione del comunismo pretesa (per legge) dall’Unione Europea finisce per mettere in ombra la storia, scippando un’altra volta la Russia: che, secondo Chiesa, quel dannato Muro fu costretta a erigerlo, dopo esser stata ingannata dall’ex alleato americano.(Il libro: Giulietto Chiesa, “Chi ha costruito il muro di Berlino? Dalla guerra fredda alla nascita della bomba atomica sovietica, i segreti della nostra storia più recente”, Uno Editori, 160 pagine, euro 13,90).Torgau, 25 aprile 1945: si abbracciavano commossi, su un ponte dell’Elba, i soldati russi e americani che avevano combattuto insieme per liberare l’Europa dal nazismo. Ma la storia li avrebbe traditi: la pace sarebbe svanita, perché l’Occidente non sarebbe stato ai patti. Altre lacrime, stavolta in mondovisione, il 9 novembre 1989. Cadeva il Muro di Berlino, che aveva diviso in due l’ex capitale di Hitler per 28 anni. Altro tradimento: gli Usa non avrebbero rispettato la solenne promessa fatta a Gorbaciov di non estendere la Nato verso l’Est Europa. Da allora, finita la guerra fredda e franato l’argine geopolitico dell’Urss, è svanita la pacificazione vagheggiata dall’uomo della Perestrojka: siamo precipitati nel feroce caos della guerra asimmetrica universale, terroristica e senza più frontiere, scatenata dall’élite occidentale globalista e neoliberista contro il resto del mondo e contro le stesse democrazie. Doveva essere una festa della riconciliazione, il crollo del Muro, e invece è stato l’inizio di un trentennio buio per moltissimi popoli, travolti dalle “guerre americane” (e in Europa, dall’austerity). Ma il destino del pianeta era segnato, da quando scomparve Franklin Delano Roosevelt il 12 aprile 1945. A differenza di Truman, che ne prese il posto, il presidente del New Deal non avrebbe ingannato l’Unione Sovietica, riconoscendole anzi il merito storico di aver stroncato il nazismo a Stalingrado, invertendo il corso della storia oltre un anno prima dello Sbarco in Normandia.
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Veneziani: dementi, credete che Nero sia meglio di Negro?
Ieri mi ha fermato un africano per vendermi qualcosa e mi ha detto “Fratello bianco”. Io gli ho risposto: «Ma come ti permetti?». Lui è rimasto allibito, pensando che ce l’avessi col fratello, invece ho proseguito: «A me, bianco non me l’ha mai detto nessuno», alludendo alla mia carnagione scura. Lui ha sorriso e mi ha detto: «Io però sono n., tu sei solo scuro». Non posso pronunciare la parola perché è vietata dalla polizia culturale e l’algoritmo la censura e l’inquisizione poi sospende il blog. Detesto la retorica di dire nero anziché n., sapendo che l’insulto è nell’aggettivo che può accompagnarlo o nel tono, non certo nella parola n. E mi piace che sia stato lui a dirlo. Ma si rendono conto, i retori dell’integrazione, che nero è sempre stata – salvo per i fascisti, i preti e la nobiltà nera – una connotazione negativa? Nera è la morte, il lutto e la sfortuna. Nero anzi noir è l’horror, nera è la cronaca dei delitti, nero è il lavoro sfruttato e l’evasione (ma il rosso in bilancio è peggio). Nero è il buio, nero è l’uomo cattivo dell’infanzia, nera è la giornata disastrosa. Nero è il tempo brutto, il gatto che porta male, il corvo funesto e l’abito dello iettatore.Nero è il futuro negativo, nera è la maglia della vergogna, nero è il volto dell’incazzatura, nera è la minaccia: ti faccio nero. Nera è l’anima del malvagio. Possibile che con questi precedenti si celebri come un progresso la promozione del n. a nero? Peggio di nero, c’è solo la definizione di uomo di colore, come se lui fosse un pagliaccio variopinto e noi degli esseri incolori. Due offese in un colpo solo. Più rispetto per i n., i chiari e i chiaroscuri. Quanto al calcio, io ricordo da bambino i cori e le battute degli spalti. Si accanivano contro qualunque calciatore della squadra opposta avesse uno spiccato tratto distintivo: se era pelato, se era troppo alto o troppo basso, se aveva la barba o era grassottello, se parlava in campo o se si agitava, se era nero, mulatto o rosso di capelli. Di quei cori puerili e di quelle frasi cretine non se ne faceva però un titolo di telegiornale, una campagna antirazzismo, non si istituiva una commissione o un processo, non si denunciava allarmati il ritorno di Hitler…Un crimine, un furto, un’aggressione, lo spaccio di droga non destano reazioni così decise, sanzioni così drastiche e pubblico raccapriccio come una parola scema fuori posto pronunciata in tema di colore della pelle. Se fai un commento, una battuta sul tema ti giochi il lavoro, la tua reputazione, il tuo posto in squadra, molto più che se hai compiuto veri reatiBisogna saper distinguere le cose gravi dalle cose sciocche; è molto più nociva l’abitudine di criminalizzare chiunque dica una parola sconveniente adottando la teoria demente che si comincia così e poi si finisce ai campi di sterminio. Chi prende sul serio una stupidaggine è più stupido di chi la pronuncia, o peggio è in malafede perché vuole speculare sull’incidente per criminalizzare l’intera area di chi non la pensa come lui. Salvateci dal politicamente corretto, fa più danni dell’idiozia episodica di una battuta, che viene reiterata proprio perché ha una risonanza immeritata che la moltiplica e la rende importante, quando era solo una stupida battuta.(Marcello Veneziani, “Più rispetto per i n.”, da “La Verità” del 5 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ieri mi ha fermato un africano per vendermi qualcosa e mi ha detto: «Fratello bianco». Io gli ho risposto: «Ma come ti permetti?». Lui è rimasto allibito, pensando che ce l’avessi col fratello, invece ho proseguito: «A me, bianco non me l’ha mai detto nessuno», alludendo alla mia carnagione scura. Lui ha sorriso e mi ha detto: «Io però sono n., tu sei solo scuro». Non posso pronunciare la parola perché è vietata dalla polizia culturale e l’algoritmo la censura e l’inquisizione poi sospende il blog. Detesto la retorica di dire nero anziché n., sapendo che l’insulto è nell’aggettivo che può accompagnarlo o nel tono, non certo nella parola n. E mi piace che sia stato lui a dirlo. Ma si rendono conto, i retori dell’integrazione, che nero è sempre stata – salvo per i fascisti, i preti e la nobiltà nera – una connotazione negativa? Nera è la morte, il lutto e la sfortuna. Nero anzi noir è l’horror, nera è la cronaca dei delitti, nero è il lavoro sfruttato e l’evasione (ma il rosso in bilancio è peggio). Nero è il buio, nero è l’uomo cattivo dell’infanzia, nera è la giornata disastrosa. Nero è il tempo brutto, il gatto che porta male, il corvo funesto e l’abito dello iettatore.
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Toghe e 007: perché condizionano l’agenda politica italiana
Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).Richiedere a un partito 49 milioni di euro, oggi, significa esporlo al rischio di non poter più svolgere l’attività politica (restringendo in tal modo la libertà costituzionale relativa all’offerta democratica garantita dalle elezioni). Ad Agrigento invece il pm sembra aver trattato Salvini – contrario agli sbarchi – alla stregua un bandito dell’anonima sarda, imputandogli addirittura l’ipotetico “sequestro di persona” a danno dei migranti, come se i profughi fossero stati tenuti prigionieri della nave che li aveva raccolti (e non fossero invece liberissimi di salpare, per poi sbarcare altrove). Ma il colpo più duro, alla Lega, lo hanno assestato i servizi segreti – non si sa di quale paese – che hanno intercettato e registrato a Mosca il famoso colloquio tra l’esponente leghista Gianluca Savoini e alcuni emissari di secondo piano del potere russo. Tema della conversazione: una ipotetica fornitura di petrolio e gas, sulla quale – hanno riferito giornali come “L’Espresso” – lo stesso Savoini (a che titolo, non si sa) avrebbe discusso la possibilità ipotetica di ricevere una percentuale sull’eventuale affare, peraltro non andato in porto e mai neppure avviato. Salvini si è difeso dichiarandosi più che tranquillo, evitando però di rispondere nel merito: del caso si sta occupando la magistratura milanese, a cui qualcuno (chi?) ha inviato l’audio della conversazione all’Hotel Metropol.Infastidito per l’insistenza dei giornalisti italiani che hanno seguito la vicenda (testate che contro l’ex Carroccio hanno condotto una vera e propria crociata politica), il leader lehista è apparso evasivo: ha detto di non essere stato messo al corrente di quell’incontro. In ogni caso, Savoini non rappresentava in alcun modo il governo italiano (all’epoca, ottobre 2018, Salvini era vicepremier, oltre che ministro dell’interno). Peraltro è noto a tutti che la Lega, alla luce del sole, ha sempre avuto ottimi rapporti politici con Mosca e col partito “Russia Unita”, fondato da Putin. Salvini giudica l’uomo del Cremlino uno statista di prima grandezza, e ritiene che l’Italia possa e debba riavvicinare la Russia all’orbita Nato, per ragioni geopolitiche e commerciali, dato anche il valore dell’export italiano verso Mosca. Non solo: dai tempi di Bossi, il Carroccio non è mai stato pregiudiziale nei confronti del mondo slavo. Durante la guerra civile nei Balcani, la Lega Nord fu l’unico partito italiano ad allacciare un dialogo anche con la Serbia filo-russa di Milosevic, bombardata dalla Nato e criminalizzata dalla disinformazione occidentale come unico “cattivo soggetto” dell’area balcanica. Una regione devastata dagli opposti nazionalismi e dal cinismo dei vari leader, come svelato nel memorabile saggio “Maschere per un massacro”, di Paolo Rumiz. Sullo sfondo, il ruolo occulto delle potenze egemoni (Occidente cristiano e Turchia islamica) nella “guerra per procura”, dopo la caduta dell’Urss, contro la residua influenza russa, attraverso il regime serbo, ai confini occidentali dell’Europa.Tornando a Salvini, è evidente lo stato di imbarazzo generato – a torto o a ragione – dal cosiddetto Russiagate. E’ pensabile che l’incidente non abbia inciso, nella scelta di “staccare la spina” dal governo gialloverde nel fatidico agosto 2018? Certo, a Bruxelles la Lega aveva appena incassato il “tradimento” di Conte e dei 5 Stelle, decisivi per l’elezione alla guida della Commissione Europea di Ursula von der Leyen, simbolo del rigore più estremo, di marca tedesca. Un vero e proprio affronto, per l’alleato leghista dichiaratamente impegnato (come un tempo anche i grillini) a pretendere un cambio di paradigma nella governance europea. Va aggiunto che Salvini aveva più di una ragione per pretendere il divorzio dai pentastellati: Conte, il misterioso premier indicato dai grillini ma teoricamente “venuto dal nulla”, aveva sostanzialmente insabbiato i referendum di Lombardia e Veneto per le autonomie regionali differenziate. Ma era stato ancora una volta uno dei consueti player istituzionali (la magistratura, in questo caso) a speronare indirettamente il progetto di Flat Tax, facendo piovere un avviso di garanzia sul suo ispiratore, il sottosegretario leghista Armando Siri. Effetti politici collaterali, certo. Ma intanto, una volta di più, è stato un soggetto terzo – non elettivo – a condizionare l’agenda politica italiana, esattamente come ai tempi di Mani Pulite e poi di Berlusconi.Se qualche potere sovrastante, non istituzionale, ha voluto provare a “togliere di mezzo” Salvini pensando di “utilizzare” apparati statali magari per fare un favore a Conte, oggi è lo stesso premier ad essere costretto (da altri poteri sovrastanti?) a rendere conto del suo operato, presso analoghi organi statali, in merito alla vicenda dell’ipotetico impegno “irrituale” dei servizi segreti italiani in favore di settori dell’intelligence statunitense. Si sospetta cioè che Conte, in modo indebito, abbia messo i servizi italiani a disposizione di quelli di Trump, a sua volta impegnato a difendersi dai vari Russiagate che gli sono stati addebitati: in questo caso, la Casa Bianca avrebbe richiesto l’aiuto italiano per “incastrare” il rivale Joe Biden, accusato di malversazioni in Ucraina. Qualcosa del genere aveva coinvolto anche Renzi: quando era primo ministro, Barack Obama gli avrebbe chiesto di mobilitare gli 007 italiani per aiutare Hillary Clinton ad azzoppare Trump, sempre attraverso indiscrezioni provenienti dalla sfera russa. In attesa che i fatti possano eventualmente chiarirsi (dopo le prime vaghe rassicurazioni rese dal premier al Copasir, ora presieduto dal leghista Raffaele Volpi) resta il fatto che Conte oggi è al governo proprio con Renzi, mentre a Salvini non resta che fare da spettatore.Sarebbe il colmo se lo stesso Conte, domani, fosse costretto a farsi da parte proprio a causa del suo ruolo nella gestione dell’intelligence, che stranamente ha voluto tenere per sé. Per coincidenza, negli ultimi giorni si rincorrono voci di corridoio proprio sull’eventuale sfratto dell’inquilino di Palazzo Chigi. Non durerà a lungo, profetizza Paolo Mieli. Potrebbe venir sostituito da Draghi, ipotizza Augusto Minzolini, interpretando i desiderata del redivivo Renzi. Secondo il saggista Gianfranco Carpeoro, a Renzi i “sovragestori” avevano dato un’ultima chance: rientrare in gioco, se fosse riuscito a silurare Salvini. Detto fatto: d’intesa con Grillo, il fiorentino è stato capace di digerire all’istante persino gli odiati 5 Stelle. In cambio di cosa? Il premio, pare, sarebbe il sospirato accesso al gotha supermassonico, quello da cui proviene il Draghi che oggi prova a dipingere se stesso come una specie di Robin Hood (evocando il ritorno alla sovranità monetaria) dopo aver interpretato per decenni il ruolo spietato dello Sceriffo di Nottingham.A Palazzo Chigi sta davvero per arrivare Super-Mario, che in realtà sarebbe propenso a puntare direttamente al Quirinale evitando la fatale impopolarità che attende chiunque si metta alla guida di un governo? Difficile dirlo. Certo, è impossibile non osservare il basso profilo ora adottato da Salvini: cauto e attendista, più moderato nei toni, concentrato sull’agevole partita tattica delle regionali. Come se sapesse che, a monte, restano da sciogliere nodi assai più grandi della Lega, fuori dalla portata dei comuni elettori. Svolte, scossoni e colpi di scena verranno, ancora una volta, da poteri non elettivi e organi istituzionali non politici? Un certo complottismo indiscriminato tende a mettere in cattiva luce sia i magistrati che gli 007, accusando gli uni di faziosità e gli altri di doppiogiochismo, come se non si trattasse di organismi che (salvo eccezioni) fanno semplicemente rispettare le leggi e vigilano sulla sicurezza del sistema-paese. Semmai, la lente andrebbe puntata su poteri elusivi e superiori, non solo italiani, che ne sfruttassero le prerogative per deviarne l’azione su obiettivi contingenti, condizionando – di fatto – l’agenda nazionale e le sue dinamiche politiche, al di sopra della volontà popolare espressa dai risultati elettorali.Secondo lo stesso Carpeoro, questa particolare fragilità italica ha radici antiche: già in epoca medievale e rinascimentale, Comuni e signorie ricorrevano regolarmente all’aiuto straniero (pagandone poi il prezzo in termini “coloniali”) per sbarazzarsi dei vicini di casa. L’Italia non è riuscita a proteggere né Enrico Mattei dai suoi sicari, né Adriano Olivetti dalla concorrenza industriale, di marca Fiat e statunitense. Travolta giudiziariamente la leadership dei vari Craxi e Andreotti, e scomparso un politico della caratura di Enrico Berlinguer, il Belpaese si è sorbito Berlusconi, Prodi, Grillo e Renzi. Così, Germania e Francia hanno fatto quello che hanno voluto, nella Penisola: Macron ha persino reclutato un esponente del Pd, Sandro Gozi, per farne una sorta di alfiere anti-italiano in sede europea, quand’era ancora in carica il governo gialloverde. Del resto, ormai, da noi vota solo un elettore su due. E quelli che tornano alle urne – nella maggior parte dei casi – lo fanno per votare contro qualcuno, più che per qualcosa. Se questo è il quadro, il meno che ci si possa aspettare è che poteri esterni cerchino di sfruttare le nostre istituzioni, con ogni mezzo, per insediare a Roma il governo più comodo per loro, non certo progettato per il benessere degli italiani. Non ci sarebbe da stupirsi, quindi, se fossero ancora le sentenze, gli avvisi di garanzia e le imprese degli 007 a scegliere tempi, modi e personaggi della politica italiana.Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).
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Toscani condannato per vilipendio della religione cattolica
Libertà d’opinione: ma se di mezzo c’è la Chiesa cattolica, si rischia? Il fotografo Oliviero Toscani s’è appena buscato una multa da 4.000 euro: condanna inflittagli dal tribunale di Milano su richiesta del pm Stefano Civardi per “vilipendio della religione cattolica”. Durante la trasmissione “La Zanzara” su “Radio24” del 2 maggio del 2014, rispondendo alle domande dei conduttori – Giuseppe Cruciani e David Parenzo – l’artista milanese aveva pronunciato frasi ritenute offensive da due associazioni cattoliche, “Giuristi per la vita” e “Pro vita”, che avevano presentato una denuncia. Pensando di essere un marziano piovuto improvvisamente in una chiesa, ricorda il “Fatto Quotidiano”, Toscani aveva detto: «Vedi uno inchiodato alla croce, un altare con bambini nudi che volano… Poi quell’altro sanguinante… la Chiesa sembra un club sadomaso». Nella conversazione radiofonica aveva poi aggiunto che «Papa Bergoglio dice cose banali», proseguendo: «Fanno santo Wojtyla che era contro il preservativo in Africa, un assassino». La richiesta di risarcimento delle associazioni era di 100.000 euro di danni, ma il giudice Ambrogio Moccia ha fissato la somma in soli 500 euro.In quella medesima intervista radiofonica, ricorda Salvatore Santoru su “Blasting News”, Toscani aveva lanciato anche altre pesanti provocazioni nei confronti della Chiesa, definita «la più grande organizzazione maschilista mondiale», nonché «la più grande associazione omosessuale». Lo stesso Toscani aveva anche esortato le donne a indignarsi nei confronti del clero e a chiedere maggiori diritti e parità di trattamento all’interno dell’istituzione religiosa. Quanto agli omosessuali, Papa Francesco ha detto, testualmente: «I gay devono essere rispettati», per poi aggiungere: «Come cristiani dobbiamo chiedere scusa», riferendosi alla storica discriminazione dei gay. Appena eletto Papa, aveva stupito per la sua prima affermazione sul tema («chi sono io, per giudicare?»), precisando in modo esplicito: «Il problema non è avere tendenze gay, ma fare lobby». Secondo il cardinale newyorkese Timothy Dolan, «Papa Francesco studia le unioni gay, vuole capire». Titola l’Huffinton Post: “Papa Francesco su aborto, gay e contraccettivi: i principi non negoziabili di Ratzinger passano in secondo piano”.Oliviero Toscani ha definito la Chiesa “organizzazione omosessuale”, come se l’intero clero fosse gay, ma non ha usato l’espressione “organizzazione pedofila”. Quello, semmai – oltre che un reato – è anche il vero dramma su cui lo stesso Bergoglio ha attirato l’attenzione pubblica, denunciando il fenomeno. Una piaga talmente vasta, nella Chiesa, che il 9 maggio lo stesso Bergoglio ha istituito l’obbligo di denunciare immediatamente qualsiasi abuso sessuale venga commesso in ambito ecclesiastico. Ricorda il “Messaggero”: «Sono migliaia i casi di abusi sessuali su minori commessi in tutto il mondo da uomini di Chiesa». Statistiche complessive e aggiornate non ne esistono, ma monsignor Charles Scicluna, già “promotore di giustizia” della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha annunciato l’arrivo di un dossier accurato e completo. Anche se non a tutti una chiesa può ricordare “un club sadomaso”, come sostiene Toscani, resta il fatto che, entrando in un tempio cattolico, ci si imbatte regolarmente nel crocifisso sanguinante, attorniato da “bambini nudi che volano”. Quanto a Wojtyla, il suo volto campeggiava nel documentario “Abc Africa” girato nel 2001 dal grande regista iraniano Abbas Kyarostami in Uganda per monitorare i lazzaretti dove madri e figli malati di Aids attendevano la morte. Nelle piazze della capitale, Kampala, le gigantografie del pontefice raccomandavano ai fedeli di non usare contraccettivi.Libertà d’opinione: ma se di mezzo c’è la Chiesa cattolica, si rischia di violare la legge? Il fotografo Oliviero Toscani s’è appena buscato una multa da 4.000 euro: condanna inflittagli dal tribunale di Milano su richiesta del pm Stefano Civardi per “vilipendio della religione cattolica”. Durante la trasmissione “La Zanzara” su “Radio24” del 2 maggio del 2014, rispondendo alle domande dei conduttori – Giuseppe Cruciani e David Parenzo – l’artista milanese aveva pronunciato frasi ritenute offensive da due associazioni cattoliche, “Giuristi per la vita” e “Pro vita”, che avevano presentato una denuncia. Pensando di essere un marziano piovuto improvvisamente in una chiesa, ricorda il “Fatto Quotidiano”, Toscani aveva detto: «Vedi uno inchiodato alla croce, un altare con bambini nudi che volano… Poi quell’altro sanguinante… la Chiesa sembra un club sadomaso». Nella conversazione radiofonica aveva poi aggiunto che «Papa Bergoglio dice cose banali», proseguendo: «Fanno santo Wojtyla che era contro il preservativo in Africa, un assassino». La richiesta di risarcimento delle associazioni era di 100.000 euro di danni, ma il giudice Ambrogio Moccia ha ridotto la somma a soli 500 euro.
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Feltri: rimpiango Sandro Pertini, il coraggio della coerenza
Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull’evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest’uomo che ha segnato la storia del nostro Paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d’animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente “senza peli sulla lingua”. Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all’ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell’elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l’unica persona seria della compagnia romana. Un’esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l’era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori.Quando egli entrò al Quirinale sulle ali del trionfo (832 voti su 995 votanti: un primato) circolò una battuta: finalmente ci tocca un evaso e non un evasore. Il riferimento era duplice. Al passato del nuovo inquilino, che tra carcere e confino, durante il fascismo, fu prigioniero del regime per 15 anni; e alla sua proverbiale onestà. Quest’ultima qualità non è considerata sufficiente per reggere uno Stato, però non guasta. Pertini aveva una forma maniacale di rispetto per il denaro non suo. «Andai a trovarlo – racconta Enzo Biagi – alla Camera, di cui era presidente. Bevemmo un caffè, e lui accennò a pagare. Ma gli uscieri glielo impedirono. Un finimondo. Lui si offese a morte, protestò. E alla fine riuscì a saldare il conto. Non si può dire che a quel tempo gli premeva che si sapesse in giro dei suoi scrupoli: non era ancora capo dello Stato, e nessuno avrebbe scritto l’episodio sui giornali. No, sulla sua correttezza non vi sono dubbi in assoluto». Aneddoti simili si sprecano. Forse vale la pena di rammentare solo l’ultimo, o almeno il più clamoroso. Il Parlamento propose di aumentare l’appannaggio del Quirinale, che era veramente ridicolo: poco più di cento milioni. La legge sarebbe stata approvata in cinque minuti e all’unanimità. Ma Pertini, come ne venne a conoscenza, si inalberò: «Finché qui rimango io, non verrà dentro una lira in aggiunta. Quel che piglio, mi basta e avanza». Mentiva. Era in bolletta nera.Se non ci fosse stato Maccanico, che si faceva anticipare di un biennio gli stipendi del personale, e depositandoli in banca usufruiva degli interessi, i quattrini per pagare tutti ogni mese non ci sarebbero stati. Onestà non soltanto in senso generale, ma anche intellettuale. Pertini non è mai venuto meno agli ideali, neanche a quelli che considerava doveri. Fin da giovanissimo. Era contrario all’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, essendo già simpatizzante socialista, ma al primo tonare di cannone era già in prima linea: allievo ufficiale nei mitraglieri. Aveva poco più di 19 anni e appena terminato il liceo. Non riteneva nemici coloro che erano al di là della linea, ma compagni di sventura; tuttavia, benché pacifista e convinto che sotto il sole nascente non vi fossero divisioni nazionali, combatté senza mai risparmiarsi. Aveva il senso dello Stato, e sapeva che “imboscarsi” avrebbe danneggiato i suoi compagni di trincea. Fu proposto addirittura per una medaglia d’argento, che non ebbe mai per “disguidi burocratici”. Questo il motivo agli atti. In realtà, non gliela diedero perché era “rosso”.Dopo il conflitto, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Genova. E alla sezione socialista del suo paese, Stella (Savona), dov’era nato nel ‘96. Il padre, piccolo proprietario terriero, morto giovane; la madre, Maria Muzio, ebbe altri tre figli, due maschi e una femmina. Una famiglia borghese, tradizionalista, né ricca né povera. Sandro si laureò in fretta, e bene. Ma aveva altri orizzonti oltre quelli del diritto. E si trasferì a Ca’ Foscari, a Venezia, dove – sempre a gran velocità – ottenne il secondo dottorato: scienze sociali. Non era soltanto un uomo d’azione come è apparso a noi negli ultimi anni e si evince dal suo curriculum nella Resistenza: aveva una inclinazione piuttosto schietta per gli studi. Nei quali, però, non esauriva tutta la carica che aveva dentro. Ecco perché, nel partito, si buttò con ardore. Conobbe Treves e Turati e stabilì con loro una collaborazione intensa. Non si limitava ad arringare le folle; in piazza, ci andava anche a fare i volantinaggi, da umile attivista. E fu in una di queste circostanze, nel 1925, che esordì in galera.Era di maggio. Lo sorpresero nei pressi di casa sua, a Stella, mentre distribuiva una rudimentale pubblicazione intitolata: “Sotto il barbaro dominio fascista”, stampata in proprio. Scattarono le manette. Processo al tribunale di Savona: otto mesi di reclusione. Comincia per lui il “dentro e fuori”. Un dettaglio rivelatore dal carattere dell’uomo: durante l’udienza, egli non si difende affatto. Anzi, con un tono quasi di sfida, ammette di essere socialista e sottoscrive ogni responsabilità che gli viene addebitata. Accanto, c’è un colonnello dei carabinieri che strabilia. È ammirato da quel giovane col «pelo sullo stomaco», e si mette sugli attenti in segno di deferenza. Se non nei riguardi dell’imputato, almeno del suo coraggio. Nel ‘26 Pertini è a Milano, ospite di Carlo Rosselli. E insieme con Adriano Olivetti e Ferruccio Parri organizza la fuga di Filippo Turati. Un’impresa da matti. Partono in motoscafo da Savona e arrivano in Corsica per miracolo: il mare è grosso, l’imbarcazione sta insieme con lo spago. Turati scende. I “complici” si sparpagliano. Parri, Olivetti e Rosselli rientrano, e come mettono piede dalle nostre parti sono prelevati e condotti in cella. Sandro, che è rimasto in Francia per tenere i collegamenti con gli esuli, è condannato in contumacia.Sono anni tremendi. Gli tocca fare di tutto: lavamacchine, muratore. Cose di cui si è già scritto molto. Ma un particolare forse, se non inedito, è poco noto. Pertini, a un certo punto, decide che è ora di svegliare gli italiani. Come? La stampa clandestina è un fiasco perché non riesce a penetrare nelle maglie della censura; di fare riunioni carbonare, non se ne parla neanche. La circolazione delle idee, anche se affidata alle chiacchiere, è pericolosa: ogni persona può essere una spia. La soluzione ci sarebbe, la radio. Ma i costi sono pazzeschi. Lui, il “ribelle”, fa presto: vende la sua quota di eredità – podere e fattoria – e investe il ricavato in un impianto adatto all’alfabeto morse. Il “bip” del dissenso valica il confine e giunge in Liguria. L’autore dei messaggi si firma con lo pseudonimo Jaques Gauvin, ma suscita subito sospetti nelle autorità del fascismo che fanno una soffiata alla polizia d’oltralpe. L’emittente è costretta a tacere, sequestrata. E il proprietario rischia cinque anni di galera e l’espulsione.Ma gli va bene che i francesi colgano l’occasione del processo per svergognare la dittatura del Duce; la magistratura lo condanna a un mese con la condizionale e gli consente di rimanere sulla Costa Azzurra. Chiunque altro si sarebbe calmato, almeno per un periodo. Pertini non molla un secondo: con passaporto falso intestato a Luigi Roncaglia, va in Svizzera ampliando i reticoli dell’opposizione al regime. Poi si stufa di stare all’estero ed eccolo a Milano. Non si contenta, gira al Centro e al Meridione, su e giù in treno: nella borsa, solito materiale sovversivo. Fatale che lo becchino. Ancora prigioni, in una delle quali incontra Gramsci e diventano amici, per quanto, ogni tanto non manchino di litigare. Il leader sardo un giorno esprime un giudizio pesantuccio su Turati e Treves. Apriti cielo. L’altro gli risponde malamente e si imbroncia: non c’è verso di rasserenarlo. E soltanto quando Gramsci si scuserà, affermando che si trattava esclusivamente di una valutazione politica, Sandro sorriderà e gli stringerà la mano.La madre, che da anni non lo vede, preoccupata per la sua salute, di sua iniziativa chiede la grazia e lui non ne vuol sapere, scrive questa lettera al presidente del tribunale speciale: «Non mi associo a simile domanda perché sento che mancherei alla mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme». E rimprovera la povera donna che aveva agito per amore: «Mamma, con quale animo hai potuto fare questo». Anche a lei terrà a lungo il broncio. Intanto, fra un’amnistizia e nuovi arresti, condoni e libertà provvisorie, Pertini compie 40 anni: in pratica è sempre stato detenuto. Ovvio che il suo livore per le camicie nere sia incontenibile, e si traduca col tempo, specialmente durante il secondo conflitto mondiale, in un piano per toglierle di mezzo. Nella guerra partigiana, dal 1943, alla Liberazione, il suo ruolo sarà determinante insieme con quelli di Saragat e Nenni e di molti altri. Due capitone fondamentali: le insurrezioni di Firenze nel ‘44 e di Milano nel ‘45 furono capeggiate da lui. Fece di tutto: lo stratega e il manovale, l’ideologo e la sentinella, a seconda del bisogno.E a Liberazione avvenuta, nonostante la medaglia d’oro (stavolta arrivò), i meriti acquisiti sul piano politico e militare, e per la solidificazione del socialismo, nel partito gli riservano sistematicamente posti senza potere, benché di prestigio: direttore dell’“Avanti!” e del “Lavoro”, per esempio. È naturale, non aveva correnti, aborriva gli intrighi di corridoio, le cordate, le scalate; nessuna vocazione ai patteggiamenti, alle mediazioni, alle spartizioni, alle lottizzazioni. Mai entrato nella stanza dei bottoni dal 1946 al 1968, quando fu eletto presidente della Camera, seggiola che abbandonò nel 1976, l’indomani dell’avanzata comunista, e qualcuno pensò che alla falce e martello spettasse la guida di un ramo del Parlamento, a scopo di legittimazione democratica. Pertini, che negli otto anni aveva avuto esclusivamente consensi per aver retto la carica alla grande, mai guardando in faccia a nessuno se occorreva far osservare le regole, abbozzò: salutò il nuovo presidente, Pietro Ingrao, e non accese polemiche, per quanto non gli mancassero le ragioni.Il salto al Quirinale, due anni più tardi, fu casuale. Leone era stato costretto a dimettersi su pressioni del Pci, che era nella maggioranza e contava. Ma non esisteva un’alternativa accettabile a tutti i partiti della famosa ammucchiata, eufemisticamente definita “solidarietà nazionale”. Ogni candidato si bruciava in tre minuti. Inutile, trascorsero 10 giorni; quindici scrutini vani. Il paese non ne poteva più. Ci fu del panico nelle segreterie della Dc, del Psi e dello stesso Pci: che figura facciamo? Craxi tirò fuori dal cilindro la vecchia bandiera: Pertini. Sul quale – al punto in cui si era – piovvero i voti del cosiddetto arco costituzionale al completo. Alla gente il vecchio fu subito simpatico: immaginiamo che le ispirasse tenerezza, almeno all’inizio; poi venne la venerazione. Fu una conquista lenta e graduale, la sua; il pubblico cominciò ad apprezzare. E ora lo rimpiangiamo.(Vittorio Feltri, ritratto di Sandro Petrini pubblicato su “Libero” il 9 ottobre 2019).Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull’evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest’uomo che ha segnato la storia del nostro paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d’animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente “senza peli sulla lingua”. Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all’ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell’elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l’unica persona seria della compagnia romana. Un’esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l’era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori.
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Petizione: Sos curdi, via subito i missili italiani dalla Turchia
«Le forze di invasione turche possono contare su missili italiani: chiediamo che il governo li ritiri». Di fronte alla devastante avanzata della Turchia nel nord della Siria, dopo il tacito via libera di Trump, soccombono le milizie curde che per prime si erano battute per fermare l’Isis, la formazione terroristica appoggiata sottobanco da Erdogan. E mentre l’Europa sta a guardare, l’Italia «mantiene ancora nel Sud della Turchia una batteria di missili contraerei Aster 30, con 130 militari italiani assegnati». Lo ricorda il Movimento Roosevelt, che in una petizione su “Change.org” chiede al governo di ritirare il contingente. «Gli Aster 30 sono tra i missili più sofisticati in dotazione alla Nato», si legge nel testo dell’appello. «Questi missili sono stati posizionati durante il conflitto siriano per difendere la Turchia da eventuali attacchi aerei esterni». Oggi, spiega il Movimento Roosevelt, gli Aster «potrebbero attivarsi in caso di intervento siriano a difesa delle truppe curde», tenendo conto anche del fatto che accanto a Damasco è schierata la Russia, con l’appoggio dell’Iran e delle milizie libanesi di Hezbollah. Per il presidente del Movimento Roosevelt, Gioele Magaldi, «è vergognosa l’offensiva di Erdogan contro i curdi, ed è altrettanto ignobile la decisione degli Usa di abbandonare i curdi al loro destino».Secondo Magaldi, Trump sta giocando sporco: il tradimento inflitto ai curdi è un ricatto «nei confronti della massoneria progressista che l’aveva appoggiato alle presidenziali contro la Clinton». Temendo di non essere più sostenuto in vista delle prossime elezioni, ora mostra di cosa sarebbe capace se quel sostegno non gli venisse più confermato, «ben sapendo che il massone reazionario Erdogan, membro della superloggia “Hathor Pentalpha”, è uno dei massimi artefici della nascita dell’Isis, contro cui i curdi si sono battuti eroicamente». Nella petizione su “Change.org” si afferma che l’Italia «non deve appoggiare le mire espansionistiche turche nei confronti del popolo curdo in nessun modo». L’invasione delle aree curde nel nord della Siria «è un attacco proditorio a una popolazione che ha sconfitto il terrorismo dell’Isis con un grandissimo costo di vite umane e con un eroismo che ricorda i combattenti democratici durante la guerra di Spagna». Secondo il Movimento Roosevelt, i curdi «sono il più grande popolo rimasto ancora senza una propria nazione», e in quel territorio «intendono proporre un confederalismo democratico, autonomo e rispettoso dei diritti di genere: una eccezione nella deriva integralista ed autocratica della regione».Le recenti e timide critiche che il ministero degli esteri Luigi Di Maio ha espresso all’ambasciatore turco in Italia «non sono assolutamente sufficienti per rimarcare la netta contrarietà del governo e del popolo italiano a questa invasione». Il Movimento Roosevelt chiede al governo italiano di fare «il minimo e simbolico indispensabile per rimarcare la distanza dell’Italia dall’aggressione turca», ovvero: «Rtirare con effetto immediato la batteria di missili Aster 30 e riportarla in patria insieme al personale italiano». Al dramma che si sta consumando in Siria si aggiunge anche l’imbarazzo atlantico: la Turchia è a tutti gli effetti un paese Nato, e sta invadendo – senza motivo – il territorio di un paese non in guerra con Ankara, la Siria. «Ci aspettiamo anche sanzioni economiche da parte dei paesi della Nato nei confronti della Turchia», sostengono i promotori della petizione. Per parte sua, Magaldi augura a Erdogan di uscire di scena al più presto, visto che ha trasformato la Turchia in una dittatura. E nei confronti dei curdi si fa ambasciatore di una promessa: «Il network internazionale della massoneria progressista, cui appartengo – dice, in un video su YouTube – si adopererà per favorire sviluppi geopolitici che portino, in tempi celeri, a creare finalmente lo Stato autonomo che i curdi meritano di avere».(Su “Change.org” la petizione promossa dal Movimento Roosevelt).«Le forze di invasione turche possono contare su missili italiani: chiediamo che il governo li ritiri». Di fronte alla devastante avanzata della Turchia nel nord della Siria, dopo il tacito via libera di Trump, soccombono le milizie curde che per prime si erano battute per fermare l’Isis, la formazione terroristica appoggiata sottobanco da Erdogan. E mentre l’Europa sta a guardare, l’Italia «mantiene ancora nel Sud della Turchia una batteria di missili contraerei Aster 30, con 130 militari italiani assegnati». Lo ricorda il Movimento Roosevelt, che in una petizione su “Change.org” chiede al governo di ritirare il contingente. «Gli Aster 30 sono tra i missili più sofisticati in dotazione alla Nato», si legge nel testo dell’appello. «Questi missili sono stati posizionati durante il conflitto siriano per difendere la Turchia da eventuali attacchi aerei esterni». Oggi, spiega il Movimento Roosevelt, gli Aster «potrebbero attivarsi in caso di intervento siriano a difesa delle truppe curde», tenendo conto anche del fatto che accanto a Damasco è schierata la Russia, con l’appoggio dell’Iran e delle milizie libanesi di Hezbollah. Per il presidente del Movimento Roosevelt, Gioele Magaldi, «è vergognosa l’offensiva di Erdogan contro i curdi, ed è altrettanto ignobile la decisione degli Usa di abbandonare i curdi al loro destino».
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I 5 Stelle contro Di Maio e Rousseau: vogliamo democrazia
Altro che festa: nel decimo compleanno del Movimento 5 Stelle, scrive Elisa Calessi su “Libero”, i malumori di tanti attivisti e portavoce prendono forma in un documento che è un atto di accusa agli attuali vertici. È la Carta di Firenze 2019, pubblicata a mezzanotte, allo scadere del giorno che segna l’anniversario della nascita del Movimento. «Si chiede maggiore trasparenza e democrazia interna, coerenza e rispetto dei principi non trattabili, una riorganizzazione che parta dal basso, una rivisitazione dei processi partecipativi, e una riformulazione dei metodi di selezione delle candidature, delle nomine e di valutazione dei portavoce». Fa male, aggiunge la Calessi, perché a scriverla è chi sta ancora dentro il Movimento e non vuole andarsene: «Sono quelli che lamentano un tradimento delle origini. E sono tanti. Molto più dei firmatari della Carta». A dieci anni dal giorno in cui la creatura di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio ha preso vita, scrivono, «il nostro cuore batte ancora per il Movimento 5 Stelle», definito «un modello concreto, un profondo cambiamento culturale, una rivoluzione pacifica e non violenta, un grande esempio mondiale di democrazia dal basso». Eppure, aggiungono, «da tempo assistiamo al dissolversi di questo progetto politico».«In nome di una fraintesa responsabilità di governo – si legge, nella Carta di Firenze – il Movimento ha rinunciato ai propri principi identitari: dalla lotta per la ricostruzione di uno stato sociale massacrato da trent’anni di neoliberismo fino alla battaglia per la conquista della piena sovranità nazionale». Aggiungono i firmatari: «Riceviamo sia per strada che sul web accuse sempre più sferzanti sulle promesse non mantenute e sui compromessi al ribasso». E ne soffrono: «La nostra coscienza di attivisti si ribella e ci impone di riportare il M5S al pieno rispetto dei suoi valori con perseveranza e soprattutto coerenza». I dissidenti sono convinti che «in questo momento così delicato per il futuro del M5S» si debba «ristabilire un rapporto paritetico» tra la base e gli eletti, a ogni livello, «poi aprire un confronto trasparente e partecipato sugli obiettivi politici e sulle forme organizzative del Movimento stesso». Secondo loro «si tratta di una necessità impellente, assolutamente essenziale» per continuare insieme quello che definiscono «questo progetto meraviglioso», e quindi «ritrovare quell’identità che oggi appare sbiadita».Gli aspiranti riformatori grillini avanzano alcune proposte, come riassume Elisa Calessi: vorrebbero convocare un’assemblea nazionale (la prima, nella storia storia) per avviare «un processo di riforma dello Statuto». In altre parole, democrazia: vorrebbero infatti «attribuire all’assemblea il potere di esprimersi sulle cariche interne, tutte elettive». Premono inoltre per «la revisione dello Statuto e il superamento della figura del capo politico», cioè Luigi Di Maio, «con l’introduzione di organi elettivi e collegiali a livello nazionale, regionale e provinciale». Infine, chiedono «piena proprietà e gestione del sistema operativo Rousseau», da togliere alla Casaleggio Associati e consegnare al Movimento 5 Stelle. Per quanto riguarda il rispetto dei principi non trattabili spunta la «libertà di autodeterminazione al trattamento sanitario», quindi contro l’obbligo vaccinale introdotto da Beatrice Lorenzin e confermato da Giulia Grillo. Il bersaglio evidentemente è Luigi Di Maio, insieme al gruppo dirigente a lui vicino, annota Calessi. L’ex vicepremier gialloverde, ora impalpabile ministro degli esteri, è accusato di «aver accentrato troppi poteri, tradendo la natura del Movimento». Critiche che, sia pure senza essere espresse con piena chiarezza, «vengono condivise anche da tanti portavoce eletti in Parlamento».Altro che festa: nel decimo compleanno del Movimento 5 Stelle, scrive Elisa Calessi su “Libero”, i malumori di tanti attivisti e portavoce prendono forma in un documento che è un atto di accusa agli attuali vertici. È la Carta di Firenze 2019, pubblicata a mezzanotte, allo scadere del giorno che segna l’anniversario della nascita del Movimento. «Si chiede maggiore trasparenza e democrazia interna, coerenza e rispetto dei principi non trattabili, una riorganizzazione che parta dal basso, una rivisitazione dei processi partecipativi, e una riformulazione dei metodi di selezione delle candidature, delle nomine e di valutazione dei portavoce». Fa male, aggiunge la Calessi, perché a scriverla è chi sta ancora dentro il Movimento e non vuole andarsene: «Sono quelli che lamentano un tradimento delle origini. E sono tanti. Molto più dei firmatari della Carta». A dieci anni dal giorno in cui la creatura di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio ha preso vita, scrivono, «il nostro cuore batte ancora per il Movimento 5 Stelle», definito «un modello concreto, un profondo cambiamento culturale, una rivoluzione pacifica e non violenta, un grande esempio mondiale di democrazia dal basso». Eppure, aggiungono, «da tempo assistiamo al dissolversi di questo progetto politico».