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Crisi e terrore, ma il Nuovo Ordine Mondiale lo farà la Cina
Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.«Il destino profetizzato dai consulenti del Club di Roma è stato previsto anche da altri ricercatori, che hanno puntato in particolare sulla forza economica e finanziaria della Cina che negli ultimi anni si sta accaparrando le risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole, insidiando così le zone d’influenza che appartenevano all’Occidente», afferma Enrica Perucchietti in un’intervista su “Letture.org” in occasione dell’uscita dell’edizione aggiornata dal saggio “Governo globale, la storia segreta del nuovo ordine mondiale” (Arianna), scritto insime a Gianluca Marletta. «Credo che nonostante gli sforzi dell’imperialismo mondialista di portare avanti i propri progetti, nel giro di qualche anno lo scettro passerà di mano e probabilmente il centro del potere si sposterà in Cina», ribadisce la Perucchietti, pur ammettendo che le variabili imprevedibili sono comunque molte, «così come sono da prendere in considerazione delle anomalie che si sono registrate come l’elezione Trump e la Brexit, che sono state evidentemente sottostimate». Tuttavia, come segnala lo stesso Paolo Barnard, colpisce l’arma segreta di Pechino: il suo “capitalismo di Stato” con moneta sovrana mette il governo al riparo dallo strapotere della finanza mondialista non allineata agli oligarchi del partito unico.La riflessione sul futuro “cinese” del mondo conclude un’analisi che la giornalista affronta partendo dallo studio del Nwo, inizialmente liquidato come fiaba cospirazionista. «Oggi la sensazione che sia in atto un progetto di mondialismo (seguente alla globalizzazione delle merci) è comunemente accettato: pensiamo per esempio a Henry Kissinger che ha dato un’opera dal titolo altisonante come “World Order”». Sempre più politici, ministri, capi di Stato e pontefici, aggiunge Perucchietti, negli ultimi decenni hanno parlato pubblicamente dell’esigenza di costituire un “nuovo ordine mondiale”. Lei e Marletta, nel libro, ricostruiscono la storia (documentata) di questo progetto, e le tappe che arrivano fino a noi. «Al di là delle confusioni generate dalla cultura web, lungi dall’essere il delirio di una manciata di paranoici, il nuovo ordine mondiale è al contrario un argomento serissimo, che merita di essere indagato». L’elezione di Trump? «Ha illuso alcuni di poter condurre a una battuta d’arresto del progetto mondialista, ma nei mesi abbiamo assistito a una “normalizzazione” del neo-presidente e l’anacronistico ritorno alla guerra fredda, che ha portato anche alla comparsa di un nuovo nemico sullo scacchiere geopolitico, la Corea del Nord».Se Pyongyang è solo l’ultimo apparente “nemico pubblico” da gettare in pasto alla società per distrarla dalla crisi e «compattarla rispetto a una emergenza esterna», visto che ormai «la Russia non poteva più rispecchiare quel ruolo, dato che la figura di Putin desta sempre maggior consenso o comunque meno diffidenza», posto che un conflitto contro la Corea del Nord «sarebbe non solo inutile, ma svantaggioso e pericoloso», dato che «non apporterebbe nemmeno benefici da un punto di vista geopolitico», vale la pena inquadrare anche questo capitolo («solo teatrale», anche secondo Gioele Magaldi) come parte dello stesso copione mondialista che sta tenendo in scacco il pianeta da ormai moltissimo tempo. Per comprendere che cosa sia il nuovo ordine mondiale, secondo Enrica Perucchietti, è necessario ricostruire le tappe storiche che hanno portato, attraverso i secoli, allo sviluppo dell’ideologia globalista, riscoprendone le radici e i presupposti filosofici, spirituali e teologici. «L’ideologia del Nwo, infatti, attinge la sua linfa vitale da un preciso contesto storico, identificabile con il mondo protestante dei secoli XVII e XVIII. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità trova adesione, sostegno e suoi primi “profeti”».Un progetto, rileva la giornalista, che è nato inizialmente come contraltare all’universalismo della nemica Chiesa cattolica e dell’Impero Asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo in Nord Europa. L’ideologia mondialista ha recepito e rielaborato nei secoli anche altri tipi di influssi: sull’originario substrato protestante-anglosassone, infatti, si innestano successivamente almeno altre due correnti politico-spirituali: l’ideologia universalistica di matrice massonica (su cui si innestano alcune derive occultistiche) e un certo neo-messianismo di matrice sionista. «Queste correnti così diverse tra loro troveranno una convergenza fondata sull’elitismo di chi (gli Usa in primis) si sente in diritto e in dovere di promuovere anche con la forza il proprio imperialismo e assoggettare il resto del mondo ai propri interessi». L’autrice respinge la tesi del Grande Complotto Universale: è storicamente indimostrabile e serve solo a screditare chi indaga seriamente sul mondialismo. Però, «se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del Nwo, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale che lega, attraverso i decenni e persino i secoli, una serie di “forze” e “poteri” in una complicità di interessi e di azioni».Non esiste un Grande Complotto unico, monolitico? «Esiste però una dottrina di base e una “confluenza di interessi” che spingono verso la costituzione del mondialismo, così come esistono i suoi profeti e “architetti” che ne hanno scritto e parlato anche pubblicamente». Ovvero: «Dalla rete inestricabile dei poteri occulti, delle logge e delle sette, dei potentati economici e dei gruppi di pressione impegnati da tempo a promuovere il progetto del nuovo ordine mondiale, emergono con una frequenza non casuale, nomi, realtà e concreti gruppi di potere che nel nostro “Governo Globale” definivamo il “volto visibile del Nwo” di cui trattiamo ampiamente nella prima parte del saggio». Il progetto mondialista? «Nasce in ambito anglosassone ed è quindi naturale che esso abbia avuto, nella potenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il perno della sua potenza (a cui si è aggiunto, a partire dal secondo dopoguerra, il fattore geopolitico costituito dallo Stato di Israele). Quando parliamo del potere di queste nazioni, tuttavia, ci riferiamo a certe strutture di potere che rimangono invariate nel tempo». Nel suo saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi le chiama Ur-Lodges, superlogge: sarebbero la chiave segreta del back-office del potere mondiale, ormai esteso anche alla Cina nel disegno condiviso della globalizzazione autoritaria.Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, osserva Perucchietti, esistono alcune costanti fondamentali alla base del progetto mondialista, e alcuni interessi specifici: per esempio, l’aspirazione a costituire una res-pubblica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite. «Quindi la creazione di un governo elitario, di pochi». Inoltre, si registra «la diffusione o imposizione di un pensiero omologato, tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di pensiero unico globale». Il progetto di costituzione di un mondo nuovo, infatti, richiede anche «un uomo nuovo, che sia omologato e omologabile, facilmente controllabile», magari anche attraverso l’ideologia gender, di cui la Perucchietti ha parlato in libri come “La fabbrica della manipolazione” e “Unisex”. A cascata, pesano «la conseguente lotta contro le “identità forti” difficilmente omologabili alla cultura mondialista e l’abbattimento dei valori tradizionali». Non solo: ci sono anche «censura e psicoreato, ossia il controllo della comunicazione, dei mass media ma anche delle menti e dell’espressione dei cittadini, di cui la recente battaglia contro le “fake news” è un lampante esempio».E’ all’opera una strategia d’azione che privilegia «l’utilizzo strumentale della politica (una sorta di vera e propria criptopolitica basata su ricatti e complotti per lo più sotterranei)», di cui – come vetta dell’iceberg – abbiamo vaghe notizie, attraverso sigle come la Trilaterale o il Bilderberg, cenacoli «i cui membri si riuniscono a porte chiuse per discutere del destino dell’umanità». Alcuni aspetti ideologici restano imprescindibili, «come il neomalthusianesimo che considera l’eccesso delle nascite nelle classi povere come un problema per la qualità di vita». E infatti «gli architetti del Nwo sono ossessionati dal contenimento/riduzione della popolazione». Nell’immaginario collettivo, il Nwo «ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali che ne sono, per certi versi, l’espressione più visibile». E non è tutto: c’è anche «una visione prometeica e luciferina che convoglia nel Transumanesimo e nelle sue applicazioni cibernetiche, virtuali e tecnologiche: l’idea di fondo è che l’uomo può farsi Dio e abbattere la natura, arrivando a derive post-umane finora impensabili». Nel frattempo, le masse occidentali (e mediorientali, manipolate anch’esse) possono “godersi” l’orrore del terrorismo, una macchina infernale che genera paura, «e la paura è un potente strumento di controllo».Riflette Enrica Perucchietti: «Manipolando le persone in fase di shock, sull’ondata emotiva degli eventi, è possibile introdurre misure liberticide fino a quel momento impensabili, lasciando credere ai cittadini che i provvedimenti scelti siano per il loro bene e la loro sicurezza». Terrorismo ed estremismo «vengono sfruttati abilmente, evocati quotidianamente, politicizzati per poterne sfruttare l’ondata d’urto emotiva». Citando Orwell, la sensazione è che la “guerra al terrore” sia stata concepita come perenne per «poter mantenere intatta la struttura della società» e introdurre uno Stato di polizia. «La guerra non deve cioè aver fine, ma deve servire per poter legittimare misure estreme». Per questo, aggiunge l’analista, «non si può distruggere Al-Qaeda senza pensare che spunti un altro pericolo, Isis o altra organizzazione terroristica che sia». E il terrore «doveva finire per divampare anche in Europa», perché «si stava affievolendo la tolleranza del popolo ad accettare sacrifici per “esportare” la democrazia in paesi lontani». Sicché, «l’unico modo per poterlo spingere a continuare a oliare la macchina da guerra era far assaggiare all’Occidente quel genere di “paura” che noi italiani conosciamo bene: gli anni di piombo».Gli artefici del mondialismo, conclude Perucchietti, «hanno sfruttato con cura occasioni tragiche e non si sono fatti problemi a inscenare od ordire attentati, o comunque a strumentalizzarli per creare i presupposti per poi poter raccogliere e sfruttare delle opportunità calcolate con cura». In questo contesto «rientrano anche le cosiddette “false flag”», ovvero le operazioni “sotto falsa bandiera” come quelle che hanno funestato la Francia con sinistra, cronometrica precisione. Lo rileva Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, secondo cui – nella Francia che ha imposto il silenzio alle indagini su Charlie Hebdo (segreto militare, dopo la scoperta del possibile ruolo dell’intelligence nell’armamento del commando), l’opaco neo-terrorismo ha colpito Nizza il 14 luglio, giorno “sacro” per i massoni progressisti anti-oligarchici, e Parigi il 13 novembre (Bataclan), nell’anniversario di una giornata infausta per i Templari perseguitati nel ‘300, a cui evidentemente i mandanti dell’Isis, mondialisti e atlantici, vorrebbero richiamarsi, firmando il loro sanguinoso delirio. Dove finiremo, di questo passo? A Pechino, risponde Enrica Perucchietti: sarà probabilmente a Cina a mandare in fumo i giochi “illuminati” dell’élite nera, insediando sul trono del pianeta – diversamente mondializzato, ma sempre senza democrazia – da una futura élite “gialla”.Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.
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Ma senza ideologie (oneste) subiamo l’unica rimasta, la loro
Sono ormai decenni che in rete vi parliamo del fatto che questo liberismo sfrenato, ammantato del portato positivo di un concetto di cui tutti si appropriano per i fini più disparati, la “libertà”, era solo un modo per togliervi i diritti faticosamente accumulati dalle generazioni dei nostri padri e dei nostri nonni, dalla rivoluzione industriale in poi. Un modo di rimettervi le catene e legarle nuovamente ai neo schiavisti che tutto hanno a cuore tranne il rispetto della vita, soprattutto di quella umana. Sono decenni che ve lo si dice in tutti i modi, ma voi niente. Volete cambiare lo smartphone ogni sei mesi, volete andarvi a comperare le bottiglie di vino anche alle due di notte, volete (anzi dovete) fare la spesa la domenica perché gli altri giorni siete sequestrati dal caposquadra della nave negriera a remare fino allo stremo delle forze, volete le fragole e le more a gennaio e le arance a luglio, rinunciate all’essenziale ma non al superfluo che vi pagate a rate. Rinunciate persino alla vostra vita, pur di vivere quella degli altri, la sera, a pagamento (si intende).Lo sapevate, ma alla fine vi siete fatti convincere lo stesso che la famiglia è un vincolo, che le tradizioni sono un ostacolo, che la religione è per gli ignoranti, che i confini sono inutili, che le razze sono un’illusione, che le ideologie sono pericolose, che i sessi non esistono, che studiare non serve, che imparare a memoria è sterile, che l’edonismo, il protagonismo e il voyuerismo sono valori, che competere è un dovere, che è perfettamente normale ricomprarvi la salute che vi tolgono assumendo medicinali a vita. Vi siete fatti togliere tutto quello che faceva di voi esseri umani, e avete continuato a votare sempre le stesse persone che vi stavano lentamente consegnando alla casta predatoria, come lotti di schiavi ceduti all’ingrosso: qualche milione di italiani all’asta della Fornero, qualche altro milione all’asta con il Job Act di Renzi, mentre le scudisciate di Monti sfessavano la vostra capacità di opporvi (loro la chiamano “distruzione della domanda interna”).E adesso siete soli. La famiglia non c’è più, è un disvalore. Avete permesso che venisse svilita e spezzata, e ora che al posto dell’acqua avete solo un atomo di ossigeno e due di idrogeno, vagate nel nulla alla ricerca di un legame qualunque, per poi lamentarvene. Eppure era proprio il legame familiare la prima roccaforte che vi difendeva dall’assalto dei barbari invasori. Perché le famiglie si difendono, al loro interno. E per meglio riuscirvi, si alleano con altre famiglie, creano gruppi di interesse, associazioni di quartiere, si uniscono nel nome di un bene superiore, quell’anelito alla trascendenza senza il quale tutto perde di significato. L’amore che le unisce vuole essere rivendicato e pretende di avere il tempo di esprimersi compiutamente. Sì, la famiglia era la più grande minaccia per i proprietari degli allevamenti intensivi di esseri umani.E così, con la celebrazione del rito quotidiano individualistico, e con la riduzione dell’esistenza, operata dallo scientismo, a mera relazione di causa effetto misurabile con il microscopio, tutti i valori, i simboli, i principi, le idee superiori, cioè il carburante di cui brucia ogni scatto di orgoglio, ogni anelito di dignità, si sono progressivamente inariditi, fino a restare un pallido riflesso, una leggenda metropolitana che rivive nei colossal storici alla Spartaco, che non a caso da un lato ci emozionano, dall’altro ci appagano, come se tenessimo di più al destino di qualche centinaia di schiavi vissuti duemila anni fa, piuttosto che al nostro e a quello dei nostri figli.E dopo avervi tolto ogni scudo, ogni difesa, ogni faro cui guardare, nella speranza di riceverne un’indicazione, un conforto che rinvigorisse il desiderio di combattere, dopo avere cioè distrutto ogni riferimento culturale che potesse dare un senso alla ribellione, ora stanno scassinando l’ultima serratura che ancora, in maniera pur dubbia e riformabile, si frappone tra i lupi e gli agnelli, cioè tra le sfrenate élite di capitalisti del globalismo finanziario-speculativo e voi, piccoli lavoratori, il cui ideale più elevato che vi è concesso coltivare è cercare di far quadrare i conti a fine mese, mentre il famoso 1% che ora vuole tenervi in coma farmacologico con il reddito di cittadinanza si gode una vita dal tenore per voi inimmaginabile, disponendo di risorse illimitate al punto da poter essere sprecate infinite volte. Vi stanno cioè togliendo anche le ultime protezioni che potevano garantirvi i sindacati, entrati nel mirino delle marionette della politica ormai da qualche anno.Smantellare i sindacati, senza sostituirli con fortificazioni più efficienti, è l’ultimo passo per avervi totalmente alla loro mercé, come miliardi di formiche impazzite sotto alla percussione pianificata delle possenti zampe dell’elefante globale. E così, mentre le pecore inneggiano all’uccisione del cane pastore, su istigazione dei lupi che nel frattempo si apparecchiano ad un luculliano banchetto, sotto ai nostri occhi ormai accadono cose che avrebbero fatto inorridire i nostri padri, prima ancora dei nostri nonni, ma che a noi sembrano quasi normali, perché il valore della vita è stato completamente svuotato e sostituito con il concetto vuoto della produttività. Non si lavora più per vivere, si vive per lavorare, affinché altri possano vivere senza lavorare. E se osi metterlo in discussione, vieni immediatamente calpestato dalle zampe dell’elefante. Tanto possono farlo, perché sei rimasto solo. Sei stato talmente stupido da farti convincere che “soli” era meglio.È quello che accade ormai dappertutto, e se non ci credete leggete quello che sta succedendo adesso all’Outlet Mc Arthur Glen di Castel Romano, nel servizio del “Manifesto”. Ci sono mamme costrette a lavorare sempre, domeniche comprese. Tutte le domeniche. E siccome osano accordarsi per fare una turnazione in modo che, almeno una domenica sì e quattro no, possano stare a casa con i loro bambini, con la loro famiglia, vengono trasferite a 50 chilometri di distanza o sono costrette ad andarsene, mentre capi senza scrupoli, senza cuore e forse ancora meno consapevoli della loro condizione, rispondono alle mamme imploranti che «bisogna scegliere tra lavoro e famiglia», e ai responsabili aziendali della Calvin Klein è concesso dire impunemente che «la linea dell’azienda è questa. La domenica si lavora, sempre. E basta. E non mi parlate di sindacati perché io non li considero neanche».Questo è il progresso che volevate? Questa è la libertà che desideravate? Essere liberi di scegliere se farvi sfruttare come africani nelle piantagioni di cotone dei secoli scorsi, oppure restare senza lavoro e senza il latte per i vostri figli? E tutto per cosa? Perché qualche ricco turista cinese e russo possa spruzzarsi le ascelle sudate con l’ultimo profumo Calvin Klein? Altro che “le ideologie sono superate“! Qui vanno recuperate, e anche in fretta, perché con la storiella del sogno americano, che tutti possono diventare miliardari e dunque se non lo diventano è solo colpa loro, abbiamo partorito mamme che non importa quanto siano brave sul lavoro: non potranno mai, mai e poi mai andare a vedere i loro bambini tirare calci ad un pallone la domenica mattina. Guardate l’orologio: che ora è? Quanto manca prima che li mandiate tutti affanculo?(Claudio Messora, “Quanto manca prima che li mandiamo tutti affanculo?”, dal blog “ByoBlu” del 20 ottobre 2017).Sono ormai decenni che in rete vi parliamo del fatto che questo liberismo sfrenato, ammantato del portato positivo di un concetto di cui tutti si appropriano per i fini più disparati, la “libertà”, era solo un modo per togliervi i diritti faticosamente accumulati dalle generazioni dei nostri padri e dei nostri nonni, dalla rivoluzione industriale in poi. Un modo di rimettervi le catene e legarle nuovamente ai neo schiavisti che tutto hanno a cuore tranne il rispetto della vita, soprattutto di quella umana. Sono decenni che ve lo si dice in tutti i modi, ma voi niente. Volete cambiare lo smartphone ogni sei mesi, volete andarvi a comperare le bottiglie di vino anche alle due di notte, volete (anzi dovete) fare la spesa la domenica perché gli altri giorni siete sequestrati dal caposquadra della nave negriera a remare fino allo stremo delle forze, volete le fragole e le more a gennaio e le arance a luglio, rinunciate all’essenziale ma non al superfluo che vi pagate a rate. Rinunciate persino alla vostra vita, pur di vivere quella degli altri, la sera, a pagamento (si intende).
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Cangiani: odiano la democrazia, e la chiamano socialismo
Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».Solo in seguito, continua Cangiani nell’anticipazione del suo saggio, pubblicata su “Sbilanciamoci”, si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico”, denunciato dallo scrittore spagnolo Ignacio Ramonet nel 1995, aveva tolto l’ossigeno vitale all’interesse pubblico, alle nostre comunità nazionali. La finanza, privata e pubblica («dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà») ha continuato a «provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria». Anziché un metodo efficiente di finanziamento delle imprese, Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali, fino a denunciare il dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Caffè «sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito». Le rendite – che a suo parere, ricalcando Keynes, sono la prova di una «inefficienza sociale» – gli appaiono connaturate con «la struttura oligopolistica del sistema creditizio-finanziario».Spiega Cangiani: «I paesi periferici non petroliferi, indotti a indebitarsi rovinosamente, hanno subito una crisi senza precedenti, come effetto delle misure di “aggiustamento strutturale” imposte dal Fmi negli anni Ottanta e, in generale, di un’economia “usuraia”». La stessa politica, cioè «la cosiddetta austerità e le cosiddette riforme strutturali», è continuata negli anni Novanta, con gli stessi disastrosi risultati. Intanto gli Usa, con il presidente Clinton, continuavano a indicare la stessa rotta, «riducendo la spesa per il welfare e portando a termine la deregolamentazione delle attività finanziarie». Il piano per salvare il Messico dal fallimento alla fine del 1994, ricorda Cangiani, fu elaborato da Fmi e Usa «per proteggere gli investitori stranieri, in maggioranza nordamericani, ma comportò la limitazione della sovranità del Messico, con il controllo del suo bilancio e un’ipoteca sull’esportazione del suo petrolio». I paesi del Sudest asiatico e la Corea furono colpiti dalla crisi finanziaria del 1997 e dalla conseguente recessione, mentre la pressione del debito estero (insieme con la decisione di stabilire un cambio alla pari tra peso e dollaro) portarono alla rovina l’economia dell’Argentina, «predisponendo la svalutazione e il saccheggio delle sue risorse, in particolare delle attività possedute dallo Stato».Il debito e il cambio alla pari fra le rispettive monete, aggiunge Cangiani, erano stati fattori decisivi nel processo di riunificazione del 1990 delle due Germanie – ovvero di annessione dell’una da parte dell’altra – e per la ex Ddr ebbero conseguenze simili a quelle subite in seguito dall’Argentina. «Questi precedenti avrebbero dovuto suscitare almeno qualche dubbio sul progetto di unificazione europea e in particolare sulla moneta unica», osserva Cangiani. In un articolo del 1985, Federico Caffè aveva indicato alcuni punti critici, fondamentali e sottovalutati. A suo avviso, l’integrazione europea avrebbe dovuto adottare «idonee e coordinate misure di politica economica» contro la disoccupazione e la disuguaglianza. La futura Ue avrebbe dovuto controllare la domanda globale e amministrare l’offerta complessiva, disciplinare i prezzi e i consumi energetici. Inoltre, aggiungeva Caffè, se ogni paese aderente alla zona di libero scambio potesse decidere la propria tariffa nei confronti di paesi terzi, sarebbe più facile limitare il dominio di uno degli Stati membri sugli altri. Il problema, diceva, è se si realizzerà «un’intesa tra uguali o un rapporto tra potenze egemoni e potenze soggette». Ora, rileva Cangiani, «sappiamo che anche l’unione monetaria, con le norme che la regolano, ha contribuito al prevalere della seconda fra queste due ipotesi».Caffè denunciava la tendenza verso un’Europa «strumentalizzata in funzione di remora all’introduzione di riforme essenziali alle strutture differenziali dei paesi membri», contraria al permanere di «settori pubblici dell’economia», soggetta al modello neoliberista e incapace di assumere «un atteggiamento coerente rispetto alle società multinazionali», le quali, anzi, contano di rafforzare il proprio potere monopolistico, anche rispetto ai governi. La tendenza dalla quale Caffè metteva in guardia è divenuta più forte e incontrastata, scrive Cangiani. La sinergia tra le imposizioni Ue e la trasformazione neoliberista si è fatta profonda ed efficace, e la moneta è stata resa autonoma dallo Stato. Ecco «una conferma delle antiche radici dell’odierno neoliberismo», commentava Caffè, segnalando l’impronta “ottocentesca” del pensiero economico neo-feudale dell’ultraliberista austriaco Friedrich Von Hayek. Un analista come Claus Thomasberger oggi dimostra che la situazione attuale corrisponde a quella disegnata dal reazionario Hayek nel 1937, «che prevedeva un’unione monetaria e dunque una moneta immune da interferenze dei governi nazionali». Secondo quel progetto, ricorda Cangiani, «i governi avrebbero dovuto ridurre drasticamente gl’interventi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente naturale, le politiche sociali, le barriere doganali, i controlli sui movimenti dei capitali e sui prezzi».Il libero mercato e la concorrenza fra paesi sarebbero stati sia l’effetto sia la causa di tale riduzione. Per Hajek, infatti, le istituzioni democratiche devono avere semplicemente la funzione di mettere in pratica i principi liberisti, e l’Unione Europea quella di impedire l’interferenza dei singoli Stati nell’attività economica. Le idee di Hayek e quelle dell’inglese Lionel Robbins hanno avuto infine successo. L’ideologia liberista si spiega con il vincolo del profitto, «caratteristica essenziale dell’organizzazione della società moderna e fattore che determina la sua dinamica», e la sua persistenza secolare deriva da «fattori storici, quali le difficoltà periodiche dell’accumulazione capitalistica, le diverse forme da essa assunte e i rapporti di forza tra le classi sociali». Inoltre, continua Cangiani, il neoliberismo rappresenta «un successo paradossale», perché predica «l’autoregolazione di un mercato che si suppone concorrenziale, e una più ampia e robusta libertà degli individui», i quali invece «restano esclusi, anzi rovesciati nel contrario».Ne è uno specchio l’Ue, dove è stata imposta la libera circolazione di merci, attività finanziarie e movimenti dei capitali, mentre «le politiche dei singoli Stati rimangono non solo frammentate, ma concorrenziali riguardo al livello dei salari, alle norme sul lavoro, all’occupazione, all’imposizione fiscale, alle strategie industriali e alla spesa sociale». Anzi: «Si consente che singoli paesi pratichino il dumping fiscale, normativo e salariale per attirare capitali e addirittura fungano da “paradisi fiscali”». Capita che persino la stesura di rapporti sui “beni comuni” sia affidata a grandi società private, «per la buona ragione che se ne intendono, essendo stakeholders – cioè interessate al business». In Europa oggi «viene raccomandata la privatizzazione delle aziende statali, attuata con zelo in Italia specialmente negli anni Novanta, e tuttora in corso». La privatizzazione investe anche attività vitali: acqua e altri beni comuni, le “public utilities”, la formazione, la sanità e l’assistenza sociale. Si tagliano le pensioni, crescono tasse e imposte mentre cala la loro progressività rispetto ai redditi delle famiglie. «Il principio dell’universalismo riguardo a servizi come la sanità e l’istruzione, che ovviamente presuppone la loro gestione pubblica, è stato messo in questione».E i numeri parlano da soli: nel 2014, la spesa sanitaria (pubblica) è stata, in Francia, equivalente a 4.950 dollari pro capite, mentre negli Usa (sanità privatizzata) si è speso il doppio, 9.403 dollari. «La spesa totale corrisponde rispettivamente all’11,5% e al 17,1% del Pil dei due paesi», annota Cangiani. «La quota della spesa governativa sul totale è del 78,2% in Francia e del 48,3% negli Stati Uniti. La speranza di vita alla nascita risulta di 82,4 anni in Francia e di 79,3 negli Usa», secondo dati Oms aggiornati al 2016. «Dunque, negli Usa, rispetto alla Francia, profitti e rendite di privati che operano a vario titolo nel settore sanitario assorbono una quota molto maggiore del Pil, mentre l’assistenza sanitaria non è migliore nel suo complesso e, soprattutto, esiste una grande disuguaglianza fra i cittadini ben assicurati e i circa 80 milioni di persone non assicurate o sotto-assicurate. I tre anni di speranza di vita in meno rispetto alla Francia gravano soprattutto su queste ultime, e per loro devono essere ovviamente più di tre».Quanto alla disoccupazione, che è «un problema sistemico» che riguarda «almeno 30 milioni di persone nell’Ue», tende a venir affrontata con politiche di “attivazione” e di “workfare” rivolte ai singoli individui, in concorrenza l’uno con l’altro, osserva Cangiani. «La contrattazione collettiva va scomparendo. La “flessibilizzazione” del mercato del lavoro – che vuol dire precarietà, paghe più basse, dequalificazione, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori – viene presentata, contro ogni evidenza empirica, come la soluzione per aumentare gli occupati e uscire dalla crisi». Tutto ciò, aggiunge l’analista, corrisponde al credo neoliberale, «cioè, di fatto, alla convenienza del potere economico e soprattutto delle grandi istituzioni finanziarie in cui esso tende a concentrarsi». L’esito è sotto i nostri occhi: tendenza depressiva e aumento delle disuguaglianze, smantellamento delle riforme sociali conquistate dai lavoratori e crescita della struttura gerarchica sia del mercato sia fra gli Stati membri dell’Unione. «Le politiche neoliberali finiscono per erodere i diritti di cittadinanza, non solo quelli economici e sociali, ma anche quelli politici e civili: e con i diritti, la libertà degli individui».La sovranità popolare attraverso il Parlamento, conquistata dalle rivoluzioni borghesi, «viene seriamente compromessa, sia dai governi “tecnici” e di “grande coalizione” sia dalle burocrazie nazionali e internazionali, che rispondono ai grandi interessi economici e finanziari piuttosto che agli elettori, denuncia Cangiani. «Il Fiscal Compact concordato il 30 gennaio 2012, e in particolare l’inserimento nella Costituzione dell’obbligo del bilancio in pareggio, riducono la sovranità popolare, oltre allo spazio di manovra della politica economica, che i paesi esterni all’area dell’euro mantengono». Di fatto, questa dinamica (spacciata per tecnico-ecomomica) è invece squisitamente ideologica, politica, egemonica: di fronte alla crisi iniziata negli anni Settanta, «il neoliberismo è stato il modo in cui la classe dominante ha cercato una soluzione corrispondente ai propri interessi», scrive Cangiani. «Ha riconquistato tutto il potere, a scapito della democrazia», e poi «ha risolto, per un’élite ristretta, le difficoltà dovute alla sovra-accumulazione, le quali, però, tendono di per sé a ripresentarsi, e ad aggravarsi a causa delle politiche adottate». La nuova economia imposta all’Occidente, specie in Europa, «si basa sulla svalutazione della forza lavoro e l’intensificazione del suo sfruttamento, e su costi sociali crescenti a carico dell’ambiente naturale e umano».A questo si aggiunge la ricerca di nuovi campi d’investimento: accanto a quelli storicamente sottratti alla gestione pubblica ci sono «l’immane sviluppo dell’attività finanziaria e l’accaparramento di territori e di risorse naturali». Investimenti di questo tipo consentono a una frazione del capitale di mantenere un livello soddisfacente di accumulazione, ma contrastano la sovra-accumulazione solo in parte o provvisoriamente, «dato che producono piuttosto rendita che profitto, nella misura in cui occupano posizioni di monopolio o si limitano a prendere possesso di risorse esistenti o, come la speculazione finanziaria, si appropriano di valore che è prodotto da altre attività». Come scrive David Harvey, il principale risultato del neoliberismo è stato di «trasferire, più che creare reddito e ricchezza». In altre parole, è stata «un’accumulazione mediante espropriazione». Rimedi? L’indebitamento (pubblico e privato) serve a sostenere la domanda e un certo livello di attività, «ma questa soluzione si rivela vana o almeno provvisoria», secondo Cangiani, visto che genera «rendita finanziaria ed esigenza di “austerità”, origine a loro volta di sovrabbondanza di capitale».Nel 2015, un economista come Wolfram Elsner ha dimostrato che, inserendo nel computo il “capitale fittizio” – cioè il capitale monetario, spesso creato dal credito, in cerca di interessi e guadagni speculativi piuttosto che di impieghi produttivi – il saggio di profitto resta basso, almeno cinque volte inferiore a quel 20-25% che pretenderebbero le grandi società finanziarie. «Queste ultime, comunque, incamerano la maggior parte dell’aumento della massa del profitto ottenuto con le politiche neoliberali (privatizzazioni delle attività pubbliche e del welfare, saccheggio di risorse, crescente disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza)». Anche per questo, secondo Cangiani, sono politiche «controproducenti rispetto al problema della sovraccumulazione, per risolvere il quale erano state predisposte». Per Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, la crescita patologica dell’attività finanziaria e dell’indebitamento pubblico e privato sono sintomi di una crisi sistemica, che rivela l’obsolescenza del capitalismo. «Quando l’investimento finanziario, cioè il fare denaro direttamente dal denaro, diviene dominante rispetto all’investimento per produrre ricchezza reale, si rivela il rovesciamento paradossale del rapporto tra fini e mezzi», dal momento che, con il capitalismo, le “attività pecuniarie” divengono il “fattore di controllo” del sistema economico.Inoltre, osservano Lohoff e Trenkle, la posta necessaria per sostenere una simile scommessa sul futuro dev’essere sempre aumentata, ma non può esserlo all’infinito: prima o poi «deve avvenire una gigantesca svalutazione del capitale fittizio». James O’Connor ritiene che la crescita del sistema economico venga sostenuta a spese del suo ambiente, nella misura in cui quest’ultimo è sfruttato in modo eccessivo e guastato senza rimedio. «Questo modo di procedere porta all’aumento dei costi per l’attività economica stessa e quindi al tentativo di trasferirli in misura crescente nell’ambiente. Si ha dunque un processo cumulativo, di cui si rischia di perdere il controllo». In effetti, continua Cangiani, questa tendenza a spese dell’ambiente si è rafforzata dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello sviluppo e della diffusione dell’attività industriale. «La questione delle risorse naturali e dei “limiti dello sviluppo” si presenta, in generale, come fattore della crisi strutturale dell’accumulazione». Esiste una via d’uscita? Nel 2013, Colin Crouch ha immaginato una possibile socialdemocrazia, vista come «la forma più alta del liberalismo», mediante la quale il capitalismo verrebbe reso «adatto alla società». Ma c’è un problema politico, che si chiama élite: «La minoranza che trae vantaggio dalla situazione attuale ha il potere di indirizzare il cambiamento economico e politico nel verso opposto a quello auspicato da Crouch».Il sociologo Luciano Gallino la chiamava “lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, e finora è risultata vincente. Per Elsner, lo smantellamento progressivo della democrazia è “necessario”, nell’ambito delle politiche neoliberiste, ai fini dell’aumento del profitto. Il capitalismo ha bisogno di nuove strutture regolative, ha spiegato nel 2014 Wolfgang Streek: bloccando e invertendo la tendenza all’assoluta mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, le nuove strutture di controllo consentirebbero di combattere i «cinque disordini sistemici dell’attuale capitalismo avanzato», e cioè «la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio dei beni e delle attività pubbliche, la corruzione e l’anarchia globale». E se la domanda iniziale di Streek è se il capitalismo sia giunto alla fine dei suoi giorni, la sua conclusione è che, comunque, si prospetta «un lungo e doloroso periodo di degrado cumulativo». Il problema, riassume Cangiani, è che riforme tipicamente keynesiane – il finanziamento in deficit di investimenti pubblici e l’aumento della domanda mediante redistribuzione del reddito – sono, attualmente, «non semplicemente invise all’ideologia dominante, ma praticamente irrealizzabili».O meglio, riforme classicamente keynesiane, sociali e proggresiste non sono realizzabili «nel quadro di un capitalismo che riesce a sopravvivere solo aumentando lo sfruttamento del lavoro, risucchiando i risparmi delle classi medie, contenendo al massimo la regolazione pubblica e il welfare state, favorendo i grandi evasori ed elusori fiscali e condannando interi paesi al fallimento». Sono ormai cadute le passate illusioni di un’economia “mista” o di una “terza via”, a metà strada tra capitalismo e socialismo, conclude Cangiani: «Le istituzioni politiche sono occupate dal potere economico, che non solo le indirizza, ma le deforma». E in più, «mancano forze politiche capaci di imporre, oltre che di concepire, riforme incisive». Che direbbe oggi del sistema finanziario il professor Federico Caffè? Di fronte a una situazione «incomparabilmente meno ingombrante, complessa, problematica e fraudolenta», Caffè osservava che «l’ingegnosità giuridica non è ancora riuscita a imbrigliare la complessità destabilizzante delle strutture finanziarie del capitalismo maturo», strutture «spesso favorite in ossequio alla salvaguardia dei diritti proprietari di tipo paleocapitalistico».Paleocapitalismo da età della pietra: neoliberismo. Nelle osservazioni di Caffè traspariva già «l’immagine di una classe dominante che oscilla tra egoismo e panico», con «paesi dominanti che tendono alla prepotenza», in mezzo a «una politica segnata da servilismo e inefficienza». E dagli economisti «una ricerca teorica conformista, orgogliosa della sua pochezza». Secondo Cangiani, servirebbe il coraggio di una ricerca indipendente, insieme a «un titanico lavoro di organizzazione politica», per capire cosa potrebbe «salvare il capitalismo da se stesso e l’umanità da una deriva entropica». Ma poi – era il cruccio di Caffè – il riformista autentico viene lasciato in solitudine, per quanto le sue proposte possano essere fattibili e convenienti anche per migliorare e allungare la vita del capitalismo. Benché sia chiaro che ci troviamo «a un punto di svolta globale», come scrivono John Bellamy Foster e Fred Magdoff, riforme efficaci risultano, almeno in pratica, inagibili. La dura realtà è che «un’organizzazione sociale più razionale» implicherebbe «una vera democrazia politica ed economica: ciò che gli attuali padroni del mondo chiamano “socialismo” e massimamente temono e denigrano».(Il libro: Michele Cangiani, “Stato sociale, politica economica e democrazia. Riflessioni sullo spazio e il ruolo dell’intervento pubblico oggi”, Asterios editore, 288 pagine, 29 euro).Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».
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Elezioni irrilevanti: dopo, avremo il solito Governo dei Proci
Prepariamoci: non cambierà niente, in Italia, dopo le elezioni. L’ultima volta s’è votato nell’ormai remoto 2013. Un match concluso con la “non vittoria” di Bersani, la flessione del Cavaliere (bombardato dalla filiera mediatica Nato-Ue) e la squillante ma pletorica affermazione dei 5 Stelle. Risultato: governicchi di compromesso (da Letta a Gentiloni) intervallati dalla meteora Renzi, il finto rivoluzionario rottamatore, ben attento a non disturbare il vero manovratore finanziario, atlantico, europeo. Ora siamo alla parità perfetta di tre blocchi elettorali, ma sempre in assenza in proposta politica: nessuno si candida a sbloccare la situazione di crisi, innanzitutto economica e democratica. «Dato che abbiamo tre poli politici – Pd, M5S, Centrodestra – ciascuno vicino al 30%, consegue che, probabilmente, col sistema elettorale attuale (e non vi è impegno di mutarlo), frutto del lavoro della Corte Costituzionale su leggi elettorali incostituzionali, dopo le imminenti elezioni politiche semplicemente non ci potrà essere una maggioranza uscita dalle urne, un governo che sia espressione democratica», scrive l’avvocato e saggista Marco Della Luna, che teme l’avvento del “governo dei Proci”, i saccheggiatori di Itaca.«Un governo dovrà però esser formato in ogni caso, perché lo esigono i “mercati”(=lobby bancaria) come condizione per continuare a comperare i buoni del Tesoro», scrive Della Luna sul suo blog. Quindi, aggiunge, questo nuovo governo post-elettorale «lo si formerà grazie all’intervento dei soliti “responsabili” – forse mediante un’alleanza tra Berlusconi e Pd (=lobby bancaria), col sostegno di Mattarella, dell’“Europa” (=lobby bancaria), dell’Eurogruppo (=lobby bancaria), del Fmi (=lobby bancaria)». Morale: «E’ il trionfo dei Proci, che saccheggiano Itaca e il palazzo di Odisseo approfittando della sua assenza e tramando affinché non tornasse più sul trono». Tradotto: sarebbe «la cuccagna della partitocrazia italiana, di questi partiti consistenti in coalizioni di comitati di affari per il saccheggio delle risorse pubbliche». Mano libera, ai “Proci”, grazie a «due leggi elettorali incostituzionali di fila», nonché «un Parlamento eletto incostituzionalmente». Fattori che «garantiscono che il popolo non possa scegliere chi governa». E così, «la partitocrazia si ritrova in una situazione che neutralizza gli elettori e lascia pertanto le segreterie partitocratiche (=coordinamenti dei comitati di affari) padrone di negoziare tra loro stesse le più opportune e redditizie lottizzazioni».Tutto questo, aggiunge Della Luna, avverrà «sopra la testa della gente, creando governi servili agli interessi non-italiani dominanti in Europa e in generale in Occidente». Interessi, dice, a cui la palude italiana «continuerà ad appoggiarsi», per ottenere «sostegno e legittimazione», aspetti necessari a «portare avanti le sue pratiche ladresche e di svendita degli interessi nazionali». Se Della Luna non usa toni diplomatici, è difficile non convenire sulla serietà dei rischi che paventa: la Germania è alle prese con i primi incubi (il malessere incarnato da Afd per un’economia asimmetrica, votata all’export e basata sulla compressione di salari e consumi) ma per ora continua a dormire tra due guanciali, la Cdu e l’Spd, così come la Francia che – dopo il sedativo Hollande, strattonato dal super-potere oligarchico – ha scelto direttamente l’originale: Macron è un prodotto fabbricato in vitro e orgogliosamente rivendicato come tale dal suo padrino Jacques Attali, eminente supermassone reazionario, tra i massimi guru ispiratori dell’architettura neo-artistocratica, antipopolare e antidemocratica chiamata Unione Europea. E in questa situazione, con l’economia appesa ai diktat della Bce e della Bundesbank, l’Italia schiera Di Maio e Berlusconi, Salvini e Renzi, Bersani e D’Alema. Chi di loro arriverà a Palazzo Chigi? Non importa, è del tutto indifferente, sostiene Della Luna: per l’Italia non cambierà niente.Prepariamoci: non cambierà niente, in Italia, dopo le elezioni. L’ultima volta s’è votato nell’ormai remoto 2013. Un match concluso con la “non vittoria” di Bersani, la flessione del Cavaliere (bombardato dalla filiera mediatica Nato-Ue) e la squillante ma pletorica affermazione dei 5 Stelle. Risultato: governicchi di compromesso (da Letta a Gentiloni) intervallati dalla meteora Renzi, il finto rivoluzionario rottamatore, ben attento a non disturbare il vero manovratore finanziario, atlantico, europeo. Ora siamo alla parità perfetta di tre blocchi elettorali, ma sempre in assenza in proposta politica: nessuno si candida a sbloccare la situazione di crisi, innanzitutto economica e democratica. «Dato che abbiamo tre poli politici – Pd, M5S, Centrodestra – ciascuno vicino al 30%, consegue che, probabilmente, col sistema elettorale attuale (e non vi è impegno di mutarlo), frutto del lavoro della Corte Costituzionale su leggi elettorali incostituzionali, dopo le imminenti elezioni politiche semplicemente non ci potrà essere una maggioranza uscita dalle urne, un governo che sia espressione democratica», scrive l’avvocato e saggista Marco Della Luna, che teme l’avvento del “governo dei Proci”, i saccheggiatori di Itaca.
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Magaldi: oligarchi, da Pechino all’Ue. Tutto il resto è teatro
«Arricchirsi è glorioso», proclamò l’anziano Deng Xiaoping, aprendo alla Cina l’autostrada mondiale dei tassi di crescita a due zeri che ne hanno fatto oggi la prima potenza commerciale del pianeta, al punto da spaventare gli Usa. In particolare i neocon, ancora prima del duemila, avevano avvertito che il gigante asiatico sarebbe diventato il principale avversario strategico degli Stati Uniti entro il 2017. «Perciò non stupitevi dell’escalation teatrale inscenata dalla Corea del Nord», avverte Gioele Magaldi: «Il regime di Pyongyang è solo il cane da guardia di Pechino: i suoi missili sono semplici avvertimenti che la Cina, per interposta persona, sta lanciando a Donald Trump», dopo che la Casa Bianca ha manifestato insofferenza per la “concorrenza sleale” rappresentata dal turbo-capitalismo del regime cinese, senza diritti per i lavoratori. Lo stesso Trump nel frattempo sconta «stucchevoli e pretestuosi attengiamenti di protesta, che ricordano la delegittimazione a priori riservata in Italia a Berlusconi», ma intanto i veri giochi sono ben altri: la Cina fa “abbaiare” la Corea del Nord per dissuadere gli Usa dal cambiare le regole del gioco mettendo fine alla cuccagna. Regole però progettate proprio da quell’Occidente che oggi svuota la sua stessa democrazia, distraendo l’opinione pubblica anche attraverso la demonizzazione di Putin.«Non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda il topo», disse Deng, il rifondatore della Cina capital-comunista. Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi sintetizza: non contano le bandiere, ma le azioni. Americani ed europei, russi e cinesi: non è questione di frontiere, ma di democrazia. Tutti d’accordo, finora, su questa globalizzazione dal volto disumano: gli oligarchi di Pechino sono perfettamente in linea con quelli occidentali che permisero alla Cina di entrare nel Wto scatenando la loro potenza industriale priva di protezioni sociali e diritti sindacali. Non a caso Trump si lamenta, denunciando il “dumping” cinese: già in campagna elettorale aveva puntato il doto contro la deindustrializzazione degli Usa, accelerata dalle delocalizzazioni delle multinazionali, attratte dal lavoro a basso costo garantito dall’Asia. «La Cina è uno dei pilastri di questa globalizzazione, e non per caso è in polemica con Trump», dice Magaldi, autore del bestseller “Massoni”, nel quale rivela la sottoscrizione del patto segreto “United freemasons for globalization” in base al quale, all’inizio degli anni Ottanta, le 36 superlogge internazionali del massimo potere mondiale progettarono esattamente questo tipo di mondializzazione, cinicamente affaristica.«Se la globalizzazione non è stata democratica – ragiona Magaldi – è dovuto anche al fatto che un grande attore delle reti commerciali globali, la Cina, si è rivelato un cattivo esempio anche per l’Occidente, dove ormai si tende a “cinesizzare” i rapporti di lavoro, instaurando una sorta di neo-schiavitù e di gioco al ribasso nell’impiego della manodopera». A questo corrisponde una crescente “cinesizzazione” delle nostre strutture di governance: «Sempre di più assistiamo al prepotere di strutture oligarchiche, sempre più simili alle strutture di potere e di governo della Cina». Il gigante asiatico resta gestito da «un regime fascio-comunista, dirigista», pur avendo una sua specificità, con «sacche di libertà crescente e di apertura modernizzante». Ma il problema, aggiunge Magaldi, non è della Cina, quanto «di chi l’ha ammessa nel Wto senza richiedere garanzie di natura democratica e liberale», diritti economici, tutele del lavoro, reale libertà del mercato interno: «Gran parte degli oligarchi di partito sono diventati grandi magnati, grandi imprenditori privati, con un piede nelle leve del potere pubblico e l’altro piede nel privato, dove si costruiscono fortune».Attenzione: «Non ne usciamo, se non ci diciamo che questa globalizzazione non è nemmeno imperniata sulla tanto sbandierata libertà del mercato, ma è viziata in Europa dal mercantilismo della Germania e altrove dalle carte truccate della Cina», distribuite sul tavolo da gioco grazie alla totale complicità del super-potere economico occidentale. Di questo passo, continua Magaldi, non si aiuta nemmeno la Cina ad evolvere, «il giorno in cui un tale colosso economico e sociale si trovasse di fronte al bivio: doversi adeguare, abbracciando democrazia e libertà interna, o rinunciare all’accesso dei mercati internazionali». Qualcosa sta per cambiare? «Credo che oggi i tempi siamo maturi perché la Cina ripensi se stessa», sostiene Magaldi. «Ma dipende da noi, dall’Occidente, da chi ha costruito culturalmente la democrazia e oggi pare essersi dimenticato di come dovrebbe funzionare – e anzi, la erode anche all’interno delle nostre stesse società». In altre parole: oligarchi al potere, all’Est come all’Ovest, dove l’Europa è finita sotto le grinfie di banchieri e tecnocrati, e anche per questo forse non rinuncia a distrarre l’opinione pubblica attaccando a testa bassa il capo del Cremlino.«Devo dire che Putin comincia a starmi simpatico», ammette Magaldi, che pure si definisce solidamente atlantista. Certo il regime di Mosca non risponde agli standard della democrazia liberale. Ma è al centro di una ignobile campagna mediatica, alimentata da una martellante propaganda faziosa: «Dov’erano, i media occidentali oggi così severi con Putin, quando la Russia era in sfacelo sotto il regno corrotto di Eltsin?». Quella post-sovietica era «una società comunque spietata, spesso gangsteristica, egemonizzata dai famosi oligarchi, stuprata da privatizzazioni selvagge». Creazione di miseria, risorse pubbliche destinate all’arricchimento personale improvviso di personaggi corrotti: in quegli anni «penetravano in Russia interessi sovranazionali che hanno fatto carne di porco, della società russa». Ma dall’Occidente, aggiunge Magaldi, «non venivano gli stessi atteggiamenti di malevolenza che invece sono costanti nei confronti di Putin». Un consiglio? La video-intervista di Oliver Stone all’uomo del Cremlino: emerge un ritratto complesso, da valutare con attenzione. Forse Putin «sta cambiando, si sta muovendo su una nuova prospettiva: potrebbe recitare un ruolo costruttivo e interessante, negli svolgimenti globali dei prossimi anni». Sbaglia, chi lo vede come alternativa all’involuzione oligarchica dell’Occidente: «O lo si odia o lo si ama, Putin, come fosse il messia di chissà quale nuovo sistema». Non è un messia, ma merita rispetto, in un mondo di missili veri e peresunti, democrazie apparenti e oligarchie reali: «La storia di Putin va riconsiderata con serenità, perché quell’uomo ha reso la Russia un paese migliore».«Arricchirsi è glorioso», proclamò l’anziano Deng Xiaoping, aprendo alla Cina l’autostrada mondiale dei tassi di crescita a due zeri che ne hanno fatto oggi la prima potenza commerciale del pianeta, al punto da spaventare gli Usa. In particolare i neocon, ancora prima del duemila, avevano avvertito che il gigante asiatico sarebbe diventato il principale avversario strategico degli Stati Uniti entro il 2017. «Perciò non stupitevi dell’escalation teatrale inscenata dalla Corea del Nord», avverte Gioele Magaldi: «Il regime di Pyongyang è solo il cane da guardia di Pechino: i suoi missili sono semplici avvertimenti che la Cina, per interposta persona, sta lanciando a Donald Trump», dopo che la Casa Bianca ha manifestato insofferenza per la “concorrenza sleale” rappresentata dal turbo-capitalismo del regime cinese, senza diritti per i lavoratori. Lo stesso Trump nel frattempo sconta «stucchevoli e pretestuosi attengiamenti di protesta, che ricordano la delegittimazione a priori riservata in Italia a Berlusconi», ma intanto i veri giochi sono ben altri: la Cina fa “abbaiare” la Corea del Nord per dissuadere gli Usa dal cambiare le regole del gioco mettendo fine alla cuccagna. Regole però progettate proprio da quell’Occidente che oggi svuota la sua stessa democrazia, distraendo l’opinione pubblica anche attraverso la demonizzazione di Putin.
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Tasse e tagli: arriva il Fiscal Compact, e nessuno ne parla
Alzi la mano chi nelle ultime settimane ha visto anche solo un trafiletto o un qualche servizio televisivo menzionare il Fiscal Compact. In un clima già da campagna elettorale inoltrata, non passa giorno senza leggere di alleanze che si creano e si disfano, di questo o quell’esponente politico che passa da uno schieramento all’altro, di sondaggi e intenzioni di voto. Questo per non parlare delle infinite discussioni intorno alla possibile legge elettorale con la quale dovremmo andare a votare il prossimo anno. Peccato che qualsiasi futura maggioranza parlamentare e qualsiasi governo dovesse insediarsi all’indomani del voto rischia di essere, se non commissariato, per lo meno fortemente limitato nelle proprie scelte. Se lo scopo principale di un governo è infatti quello di gestire e indirizzare le risorse disponibili per attuare determinate politiche, il futuro sembra verrà deciso altrove. Entro la fine dell’anno, il Parlamento dovrà ratificare il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, meglio noto come Fiscal Compact.Tra le diverse disposizioni, questo trattato prevede l’obbligo di riportare entro 20 anni il rapporto tra debito pubblico e Pil alla fatidica soglia del 60%, uno dei parametri degli accordi siglati a Maastricht all’inizio degli anni ’90. Parametri fortemente criticati per la loro arbitrarietà, a maggior ragione perché da applicarsi indistintamente, senza considerare le specificità di un paese, la fase economica o la situazione sociale e occupazionale. L’Italia ha oggi un rapporto tra debito e Pil superiore al 130%. Sarebbe lungo il discorso su come si è arrivati a tale percentuale. Basti ricordare che da oltre il 120% della metà degli anni ’90, si è scesi al 103% nel 2008, per poi registrare un’esplosione che è seguita, in Italia come nella maggior parte delle economie occidentali, allo scoppio della bolla dei mutui subprime. In altre parole una crisi della finanza privata il cui conto è stato scaricato su quella pubblica. Al culmine del paradosso, la prima è ripartita a pieno ritmo, inondata di soldi tramite quantitative easing e altre politiche monetarie, mentre alle finanze pubbliche vengono imposti tagli e controlli durissimi. Ancora peggio, con un ribaltamento dell’immaginario collettivo le responsabilità delle attuali difficoltà vengono addossate ai debiti pubblici.Tale ribaltamento di cause e conseguenze della crisi è la giustificazione per volere introdurre un trattato con forza superiore alle legislazioni nazionali che ci imporrà di scendere dal 130% al 60% in venti anni. Secondo i suoi difensori, il Fiscal Compact più o meno “si pagherà da solo”. Crescita dell’economia e inflazione dovrebbero garantire un aumento del Pil che porterebbe a ridursi il rapporto debito/Pil. “Basterebbe” quindi un avanzo di bilancio non troppo gravoso per rispettare i dettami del Fiscal Compact. Dovremmo quindi imporci di rinunciare a qualsiasi margine di manovra dei prossimi governi per realizzare avanzi primari, ovvero sempre più tasse e sempre meno servizi erogati. Questo nella migliore delle ipotesi. Non è chiaro chi abbia la sfera di cristallo per potere prevedere crescita dell’economia e inflazione su un periodo di venti anni. I risultati del recente passato – per non parlare di possibili nuove crisi in un mondo sempre più dominato dalla finanza speculativa – non invitano certo all’ottimismo. In caso di una nuova, probabile, flessione dell’economia, rispettare il Fiscal Compact significherebbe un disastro sociale ed economico. Quello che però colpisce di più è l’affermazione definitiva della tecnocrazia sulla democrazia.Qualsiasi futuro governo dovrà operare entro margini strettissimi e imposti da una visione dell’economia come una scienza esatta, guidata da regole matematiche dove il benessere dei cittadini o l’ambiente diventano le variabili su cui giocare, mentre i parametri macroeconomici sono immutabili. Indipendentemente da cosa ci riserva il futuro, il debito va ridotto a marce forzate e questo va garantito a ogni costo. Che il costo sia disoccupazione, perdita di diritti, impossibilità di investire per una trasformazione ecologica dell’economia, non è un problema, non può essere nemmeno materia di discussione. Attac Italia ha provato a rompere il silenzio lanciando una campagna di informazione e una petizione da firmare on-line. Perché è a dire poco incredibile assistere al livello di un dibattito concentrato sulle presunte responsabilità dei migranti, mentre in un Paese con 4,8 milioni di persone in povertà assoluta stiamo affermando che ci imponiamo vent’anni di alta pressione fiscale e tagli alla spesa pubblica e ai diritti fondamentali. Il problema non è e non può essere “prima gli italiani”. Il problema è se sia possibile sancire che la vita delle persone – di tutti noi – sia sacrificabile nel nome di una percentuale decisa decenni fa da qualche burocrate.(Andrea Baranes, “Fiscal cosa?”, da “Sbilanciamoci” del 10 ottobre 2017. Per informazioni e per firmare la petizione: http://www.stopfiscalcompact.it).Alzi la mano chi nelle ultime settimane ha visto anche solo un trafiletto o un qualche servizio televisivo menzionare il Fiscal Compact. In un clima già da campagna elettorale inoltrata, non passa giorno senza leggere di alleanze che si creano e si disfano, di questo o quell’esponente politico che passa da uno schieramento all’altro, di sondaggi e intenzioni di voto. Questo per non parlare delle infinite discussioni intorno alla possibile legge elettorale con la quale dovremmo andare a votare il prossimo anno. Peccato che qualsiasi futura maggioranza parlamentare e qualsiasi governo dovesse insediarsi all’indomani del voto rischia di essere, se non commissariato, per lo meno fortemente limitato nelle proprie scelte. Se lo scopo principale di un governo è infatti quello di gestire e indirizzare le risorse disponibili per attuare determinate politiche, il futuro sembra verrà deciso altrove. Entro la fine dell’anno, il Parlamento dovrà ratificare il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, meglio noto come Fiscal Compact.
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Scienza express: tutto pubblicabile, su riviste a pagamento
Quanto è semplice pubblicare un articolo su una rivista poco prestigiosa? È semplicissimo, purché venga corrisposta la giusta cifra. La rincorsa alle pubblicazioni da parte dei giovani ricercatori ha favorito lo sviluppo di riviste piratesche disposte a tutto pur di essere pagate, tanto da illudere i vari autori di aver superato controlli rigidissimi e di poter aver accesso a un palcoscenico luminoso all’interno del mondo delle pubblicazioni scientifiche. Un medico statunitense ha voluto saggiare la serietà di una di queste riviste e ha escogitato un’esilarante presa in giro, andata a buon fine. I fan più sfegatati della vecchia sitcom “Seinfeld” saranno sorpresi nel ricevere la notizia che la sindrome da “avvelenamento da uromisite”, tradotto dall’originale “uromycitisis poisoning”, è diventata una malattia “ufficiale” tanto da meritare una pubblicazione su una rivista “scientifica” dedicata all’urologia. La storia della pubblicazione dell’articolo “Uromycitisis Poisoning Results in Lower Urinary Tract Infection and Acute Renal Failure: Case Report” è esilarante e come molti episodi delle sitcom americane racchiude un messaggio finale. La storia inizia con una mail ricevuta dal dottor John H. McCool, inviatagli da un nuovo giornale: “Urology and Nephrology Open Access Journal”.La mail invitava il medico a inviare un articolo per contribuire alla pubblicazione di un nuovo numero. McCool, il quale ha fondato un sito dedicato a coloro che desiderano ricevere un aiuto per la costruzione di un articolo scientifico da pubblicare in inglese, ha da subito sentito puzza di imbroglio, l’invito gli è sembrato inopportuno non essendo un esperto di urologia o nefrologia, e ha deciso di verificare la qualità del giornale provando a proporre un articolo totalmente inventato. Essendo un grande fan della serie “Seinfeld”, l’autore ha preso spunto da un vecchio episodio della serie per inventarsi il caso di studio: durante una puntata il protagonista si trova costretto da varie disavventure a dover urinare all’interno di un parcheggio pubblico; sorpreso dalla guardia si inventa una malattia rarissima che lo costringe a dover urinare forzatamente ogniqualvolta ne abbia necessità, pena un possibile avvelenamento da “uromisite” e una morte atroce. L’articolo contenente la descrizione di questo caso a dir poco peculiare è stato condito con varie citazioni inventate e da una serie di nomi sempre ripresi dalla medesima sitcom.L’articolo è stato dunque inviato alla rivista affinché potesse essere sottoposto al processo di peer-review: il processo di revisione del contenuto dell’articolo da parte di esperti del settore. Si tratta di una pratica fondamentale all’interno della comunità scientifica, perché questo passaggio dovrebbe essere il momento del controllo imparziale della plausibilità, della ripetibilità e dell’utilità conoscitiva dello studio. Per essere pubblicato l’articolo deve essere accettato dalla totalità o dalla maggior parte dei revisori. In questo caso, con non troppa sorpresa dell’autore, l’articolo è stato accettato in tempi brevissimi, sono bastati tre giorni: i recensori hanno indicando solamente qualche correzione da aggiungere nell’abstract e altre sottigliezze di poco conto. L’articolo sarebbe stato dunque pubblicato, ma a una condizione: che venissero pagati 799 dollari più tasse. Ed ecco svelato l’imbroglio. Quello che interessa ai fantomatici editori della rivista sono i soldi che possono sottrarre a ricercatori alla disperata ricerca di pubblicazioni.Per chi è del settore questo genere di riviste ha un nome: “predatory journals”. Si tratta di “riviste” fittizie, che si propongono come open access, nella maggior parte dei casi senza una vera redazione, senza un comitato scientifico reale. Si presentano spesso come nuove risorse emergenti alla ricerca di giovani talenti da mettere in luce e offrono opportunità di pubblicazione a coloro che bramano espandere il proprio curriculum. Le loro strategie sono stereotipate: solitamente si riceve una mail dove si viene invitati a scrivere un articolo per un nuovo numero (in altri casi si chiede di diventare membri dell’editorial board), viene presentato un sito dedicato apparentemente regolare dove si troveranno nomi di sconosciuti o di persone che inconsapevolmente fanno parte della redazione, ma per chiunque abbia tempo per approfondire la qualità di questi siti essi risulteranno irrimediabilmente vuoti. Il loro fine è riuscire a farsi pagare per la pubblicazione dell’articolo, che si può star sicuri non verrà rifiutato dai revisori. Coloro che decidono di pagare possono veder scomparire la rivista non appena effettuato il bonifico, oppure rimangono delusi dal veder pubblicato il proprio articolo su un qualche sito vuoto, delegittimato e screditato.McCool ha voluto prendersi gioco in maniera esemplare di uno di questi approfittatori per riportare ancora una volta l’attenzione su un fenomeno in aumento. Sono state contate circa 10.000 riviste del genere sulle quali sono stati pubblicati nel 2015 circa mezzo milione di articoli. Nell’epoca del “publish or perish”, o si pubblicano tanti articoli oppure si muore affogati nel mare della competizione spietata. Essendo i ricercatori valutati soprattutto per il peso e la quantità delle loro pubblicazioni, trovare una rivista dove pubblicare è una necessità vitale. Le possibilità di fare carriera o di ricevere sostanziosi finanziamenti ruotano tutte attorno alle proprie pubblicazioni. Per molti scendere a compromessi con riviste dall’impact factor nullo o dalla dubbia reputazione è una via di fuga disperata. Si è così innescato questo circolo vizioso che spinge i ricercatori a trovare qualsivoglia piattaforme sulle quali pubblicare i propri articoli, dall’altra parte molti furbi hanno trovato un modo semplice per fare danari. Recentemente ha suscitato altrettanta ilarità una denuncia simile a quella di McCool: la rivista “International Journal of Comprehensive Research in Biological Sciences” ha pubblicato senza troppe remore un articolo scritto da un bambino di sette anni incentrato su quanto fossero “cool” i pipistrelli.Navigando sul web si possono trovare altri simpatici esperimenti del medesimo tipo e come ultimo esempio non si può non menzionare l’articolo “Get me off your fucking mailing list”, il cui titolo e il lungo contenuto coincidono pedissequamente e in modo ossessivo. Questo memorabile sunto di scienza è stato accettato da una rivista ed è divenuto tanto famoso da meritarsi una pagina su Wikipedia. Tutti questi esempi mettono in luce l’intreccio dannoso di certe caratteristiche del mondo della ricerca scientifica che si sono ormai consolidate. Le modalità di pubblicazione in seguito al pagamento di una sorta di tassa sono divenute una pratica sempre più frequente con il crescere delle riviste open access. È oggi difficile discriminare quando si debba o meno pagare la giusta cifra, e più in generale quanto sia etica questa forma di pagamento. Purtroppo le denunce non hanno fino ad oggi sortito un reale effetto positivo, gli sciacalli continuano a proliferare e i ricercatori ad essere turlupinati. Sul web esistono però programmi e liste in grado di rintracciare e scovare i predatory journals, utili a non far cadere in trappola i più sprovveduti. L’intreccio di interessi economici ed esigenze di carriera genera ancora una volta effetti perversi nel mondo della ricerca scientifica, anche se talvolta questi effetti riescono a regalarci qualche risata.(Olmo Viola, “Tutto è pubblicabile, purché si paghi?”, da “Micromega” del 22 agosto 2017).Quanto è semplice pubblicare un articolo su una rivista poco prestigiosa? È semplicissimo, purché venga corrisposta la giusta cifra. La rincorsa alle pubblicazioni da parte dei giovani ricercatori ha favorito lo sviluppo di riviste piratesche disposte a tutto pur di essere pagate, tanto da illudere i vari autori di aver superato controlli rigidissimi e di poter aver accesso a un palcoscenico luminoso all’interno del mondo delle pubblicazioni scientifiche. Un medico statunitense ha voluto saggiare la serietà di una di queste riviste e ha escogitato un’esilarante presa in giro, andata a buon fine. I fan più sfegatati della vecchia sitcom “Seinfeld” saranno sorpresi nel ricevere la notizia che la sindrome da “avvelenamento da uromisite”, tradotto dall’originale “uromycitisis poisoning”, è diventata una malattia “ufficiale” tanto da meritare una pubblicazione su una rivista “scientifica” dedicata all’urologia. La storia della pubblicazione dell’articolo “Uromycitisis Poisoning Results in Lower Urinary Tract Infection and Acute Renal Failure: Case Report” è esilarante e come molti episodi delle sitcom americane racchiude un messaggio finale. La storia inizia con una mail ricevuta dal dottor John H. McCool, inviatagli da un nuovo giornale: “Urology and Nephrology Open Access Journal”.
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Suicidio demografico: l’Europa perderà 1/3 dei suoi abitanti
Civiltà fantasma globalizzata. In Giappone le scuole elementari chiudono, dato che il numero dei bambini è sceso a meno del 10% della popolazione. Il governo sta convertendo queste strutture in ospizi: il 40% della popolazione è di età superiore ai 65 anni. In Giappone, «la nazione più vecchia e più sterile del mondo», l’espressione “civiltà fantasma” è diventata ormai di uso comune, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Secondo stime ufficiali, entro il 2040 la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un drammatico calo della popolazione, dal 30 al 50%. I consigli dei villaggi spariscono, insieme ai ristoranti: nel ‘90 erano 850.000, ora si sono ridotti a 350.000. «Le previsioni suggeriscono che in 15 anni il Giappone avrà 20 milioni di case vuote. È forse anche questo il futuro dell’Europa? Probabile, perché tra gli esperti di demografia c’è una tendenza a definire l’Europa il nuovo Giappone». Da parte sua, il paese del Sol Levante sta affrontando questa catastrofe demografica con le proprie risorse e vietando l’immigrazione musulmana. Ma «anche l’Europa sta subendo una sorta di suicidio demografico», che lo storico britannico Niail Ferguson definisce «la più grande riduzione sostenuta della popolazione europea dopo la peste nera del XIV secolo».Un segnale sintomatico del nuovo trend socioculturale, per esempio, secondo Spadini sta nel fatto che gli esponenti europei del grande esclusivo club globale, il G7, sono privi di figli: Angela Merkel, Theresa May, Paolo Gentiloni e Emmanuel Macron, cui aggiungiamo il primo ministro olandese Mark Rutte e il primo ministro gay del Lussemburgo, Xavier Bettel. I musulmani europei sembrano sognare di colmare questo vuoto? L’arcivescovo di Strasburgo, Luc Ravel, nominato da Papa Francesco lo scorso febbraio, ha di recente dichiarato che i fedeli musulmani sono ben consapevoli del fatto che la loro fertilità è tale che oggi chiamano “Grand Remplacement” il loro inserimento nella società europea. Quanto all’Italia, il Centro Machiavelli rileva che, se l’attuale tendenza dovesse continuare, «entro il 2065 la quota di immigrati di prima e seconda generazione supererà i 22 milioni di persone, ossia sarà più del 40% della popolazione totale». Il tasso di fertilità dell’Italia è inferiore della metà di quello che era nel 1964, spiega il centro studi, attraverso un dossier firmato da Daniele Scalea (“Come l’immigrazione sta cambiando la demografia italiana”).L’Europa (e l’Italia in particolare) stanno affrontando un periodo di flussi migratori in entrata senza precedenti, osserva Rosanna Spadini. «Ciò dipende in primis dalla concomitanza tra declino demografico europeo (dal 22% della popolazione mondiale nel 1950 al 7% nel 2050) ed esplosione demografica africana (dal 9% al 25% della popolazione mondiale in cento anni). Il tasso di natalità è sceso da 2,7 bambini per donna a appena 1,5 bambini per donna, un tasso ben al di sotto del minimo consentito per una rigenerazione sana della popolazione». Inoltre, aggiunge l’analista di “Come Don Chisciotte” citando una recente relazione di “Zerohedge”, si assiste a una maggiore omogeneità dell’immigrazione: le prime dieci nazionalità rappresentano oggi il 64% degli immigrati totali, mentre negli anni ‘70 erano appena il 13%. Tutto ciò non si discosta da quanto sta accadendo in diversi paesi dell’Europa occidentale. «Intorno al 2065 in Gran Bretagna l’etnia britannica dovrebbe perdere la maggioranza assoluta nel proprio paese. Oggi in Germania i minori di 5 anni sono al 36% figli di immigrati, lasciando presagire un grande mutamento nella composizione etnica della prossima generazione».A partire dal 2017, l’Italia ha registrato oltre 5 milioni di stranieri che vivono come residenti: «Una crescita del 25% rispetto al 2012 e un enorme 270% rispetto al 2002. All’epoca, gli stranieri costituivano solo il 2,38% della popolazione. Quindici anni dopo la percentuale è quasi triplicata fino all’8,33% della popolazione». Inoltre, la natalità degli immigrati è notevolmente superiore a quella degli italiani nativi: «Non è quindi sorprendente che le regioni italiane con i tassi di fertilità più alti non siano più nel sud, come è sempre accaduto, ma nel nord italiano e nella regione del Lazio, dove c’è una concentrazione maggiore di immigrati». In confronto, solo nel 2001 la percentuale degli stranieri che vivevano in Italia aveva attraversato la soglia dell’1%, cosa che rivela la velocità e l’entità delle trasformazioni demografiche che si stanno verificando in Italia, un fenomeno senza precedenti. Un’ulteriore preoccupazione avanzata dalla relazione di Scalea è «l’elevata concentrazione delle popolazioni immigrate da pochi paesi d’origine, che spesso produce fenomeni di ghettizzazione».Lo scorso anno, in 13 dei 28 paesi membri dell’Unione Europea, il saldo tra nascite e decessi è stato negativo: senza i flussi migratori, le popolazioni di Germania e Italia dovrebbero diminuire rispettivamente del 18% e del 16%. «L’impatto della situazione demografica in caduta libera è più visibile nei paesi dell’ex blocco sovietico, come Polonia, Ungheria e Slovacchia, per distinguerli da quelli della cosiddetta “vecchia Europa”, come Francia e Germania». Questi paesi dell’Est, continua Spadini, sono ora quelli più esposti al fenomeno dello spopolamento e al «devastante crollo del tasso di natalità» che il giornalista e scrittore Mark Steym ha definito «il principale problema del nostro tempo». Alla fine del secolo, «l’Europa potrebbe ritrovarsi come colpita da una bomba al neutrone: gli edifici in piedi, ma senza bambini», si legge in “America Alone”, un pamphlet su crollo demografico, islamismo, sindrome di Stoccolma, solitudine americana e disastri del multiculturalismo. «Se gli occidentali vogliono godere delle benedizioni della vita in una società libera devono capire che la vita che abbiamo vissuto dal 1945 è stato un momento rarissimo nella storia dell’umanità».La distanza fra Usa ed Europa sta crescendo: «L’America è l’ultima nazione a sostenere un tasso di crescita riproduttivo, l’ultima grande società religiosa in Occidente, l’ultima a mantenere un esercito in grado di difenderla in qualunque parte del mondo e l’ultima a conservare una tradizione attiva di libertà individuale, incluso il diritto di portare armi». Per una popolazione stabile, si calcola che serva un tasso di crescita del 2,1%, cioè il tasso dell’America, contro l’1,38 dell’Europa, l’1,32 del Giappone e l’1,14 del Canada. A preoccupare sono, ancora, i giapponesi: «Non c’è precedente nella storia per questa crescita economica e crollo del capitale umano: per la prima volta, nel 2005 in Giappone ci sono state più morti che nascite». E’ un paese «di geriatri, senza immigrazione, né minoranze e senza desiderio di niente: solo invecchiare e affievolirsi». Per Steym, anche l’Europa alla fine del secolo sarà come un continente dopo lo scoppio di una bomba al neutrone: «Ci saranno ancora edifici in piedi, ma la popolazione sarà scomparsa. Il tedesco sarà parlato giusto da Hitler, Himmler e Göring durante la seratina di poker all’inferno».«Una parte del pianeta sta optando per il suicidio di fronte al surriscaldamento», aggiunge Steym. «L’Europa sarà semi-islamica nel carattere politico e culturale entro due generazioni, forse una. Nel XV secolo la Morte Nera fece fuori un terzo della popolazione. Nel XXI scomparirà per scelta. Stiamo assistendo alla lenta estinzione della civiltà in cui viviamo». Il “New York Times” si è chiesto perché «nonostante la popolazione diminuisca, i paesi dell’Europa orientale non vogliono accettare i migranti». Inoltre, gran parte dell’Europa orientale ha già vissuto l’esperienza dell’occupazione musulmana per centinaia di anni sotto l’Impero Ottomano, «e questi paesi sono tutti consapevoli che ciò potrebbe accadere di nuovo». Ma anche l’Africa sta esercitando pressioni sull’Europa, «come una bomba demografica a tempo». Per il nazionalista olandese Geert Wilders, «nei prossimi trent’anni l’Africa avrà un miliardo di persone in più, cioè il doppio della popolazione dell’intera Unione Europea». Al che, la pressione demografica sarà enorme: «Un terzo degli africani vuole spostarsi all’estero e molti vogliono venire in Europa. Lo scorso anno più di 180.000 persone sono partite dalla Libia a bordo di imbarcazioni fatiscenti. E questo è solo l’inizio».Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, solo al 2,65% dei migranti arrivati in Italia (4.808) è stato riconosciuto il diritto di asilo, «mentre 90.334 migranti non hanno chiesto l’asilo ma sono scomparsi nell’economia del mercato nero». Secondo il greco Dimitris Avramopoulos, responsabile per le migrazioni in seno alla Commissione Europea, «in questo periodo tre milioni di africani pianificano di entrare in Europa». Michael Moller, direttore dell’ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra, avverte che il processo di migrazione «sta accelerando». I giovani hanno tutti i cellulari e possono vedere sul web che cosa sta succedendo in altre parti del mondo. «Infatti – annota Rosanna Spadini – possono vedere sui loro telefoni che, mentre meno del 3% degli immigrati dello scorso anno erano legittimi richiedenti asilo, quasi nessuno viene rispedito indietro», dal momento che i migranti «sono accolti con generosi benefici sociali, alloggi sovvenzionati e sistemi sanitari pubblici».Anche l’Europa orientale si sta assottigliando sempre più, e la demografia è diventata un problema per la sicurezza, aggiunge “Come Don Chisciotte”. «Diminuisce il numero delle persone che prestano servizio nell’esercito e operano nell’assistenza sociale: un tempo i paesi dell’Europa orientale temevano i carri armati sovietici, ora temono le culle vuote». Le Nazioni Unite stimano che nel 2016 l’Est Europa fosse abitata da circa 292 milioni di persone, 18 milioni in meno rispetto agli inizi degli anni Novanta. «Questa cifra equivale alla scomparsa dell’intera popolazione dei Paesi Bassi». Il “Financial Times” definisce la situazione est-europea come «la perdita più importante di popolazione della storia moderna». Neppure la Seconda Guerra Mondiale, con i suoi massacri, le deportazioni e i suoi esodi di massa, era giunta a tanto. Entro il 2050, la Romania perderà il 22% della sua popolazione, seguita da Moldavia (20%), Lettonia (19%), Lituania (17%), Croazia (16%) e Ungheria (16%). «Romania, Bulgaria e Ucraina sono i paesi in cui il calo demografico sarà più drastico. Si stima che nel 2050 la popolazione della Polonia conterà 32 milioni di abitanti rispetto ai 38 milioni attuali. Circa 200 scuole sono state chiuse».In Europa centrale, la proporzione della popolazione “over 65” è aumentata di un terzo tra il 1990 e il 2010, continua Spadini. La popolazione ungherese ha toccato il punto più basso degli ultimi cinquant’anni. Il numero degli abitanti è sceso dai 10 milioni e 709.000 del 1980 agli attuali 9 milioni e 986.000. «Nel 2050, in Ungheria, ci saranno 8 milioni di abitanti e uno su tre avrà più di 65 anni. L’Ungheria oggi ha un tasso di fecondità di 1,5 figli per donna. Se si esclude la popolazione Rom, questa cifra scende a 0,8, la più bassa del mondo, il motivo per il quale il premier Orbán ha annunciato nuove misure per risolvere la crisi demografica». In Bulgaria, addirittura, «tra il 2015 e il 2050 si registrerà il più veloce calo demografico del mondo». La popolazione bulgara è tra quelle che dovrebbero diminuire di oltre il 15%, insieme a Bosnia Erzegovina, Croazia, Ungheria, Giappone, Lettonia e Lituania, imsieme a Moldavia, Romania, Serbia e Ucraina. «Si stima che la popolazione bulgara, che ammonta a circa 7,15 milioni di abitanti, scenderà a 5,15 milioni entro 30 anni – un calo del 27,9% per cento».Secondo dati ufficiali, in Romania sono nati 178.000 bambini. «A titolo di confronto, nel 1990, il primo anno dopo la caduta del regime comunista, ci furono 315.000 nascite. Lo scorso anno in Croazia si sono registrate 32.000 nascite, un calo del 20% rispetto al 2015. Lo spopolamento della Croazia potrebbe portare alla perdita di 50.000 abitanti l’anno». Quando la Repubblica Ceca faceva ancora parte del blocco sovietico (come Cecoslovacchia), il suo tasso di fecondità era opportunamente prossimo al tasso di sostituzione (2,1%). «Oggi è il quinto paese più sterile del mondo». Analoga la situazione della Slovenia: ha il Pil pro capite più alto dell’Europa orientale, ma un tasso di fecondità molto basso. «Alla fine – conclude Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte” – l’immigrazione di massa probabilmente riempirà le culle vuote, ma poi anche l’Europa diventerà una “civiltà fantasma”». Sembra sia solo questione di tempo: «Uno strano tipo di suicidio programmato».Civiltà fantasma globalizzata. In Giappone le scuole elementari chiudono, dato che il numero dei bambini è sceso a meno del 10% della popolazione. Il governo sta convertendo queste strutture in ospizi: il 40% della popolazione è di età superiore ai 65 anni. In Giappone, «la nazione più vecchia e più sterile del mondo», l’espressione “civiltà fantasma” è diventata ormai di uso comune, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Secondo stime ufficiali, entro il 2040 la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un drammatico calo della popolazione, dal 30 al 50%. I consigli dei villaggi spariscono, insieme ai ristoranti: nel ‘90 erano 850.000, ora si sono ridotti a 350.000. «Le previsioni suggeriscono che in 15 anni il Giappone avrà 20 milioni di case vuote. È forse anche questo il futuro dell’Europa? Probabile, perché tra gli esperti di demografia c’è una tendenza a definire l’Europa il nuovo Giappone». Da parte sua, il paese del Sol Levante sta affrontando questa catastrofe demografica con le proprie risorse e vietando l’immigrazione musulmana. Ma «anche l’Europa sta subendo una sorta di suicidio demografico», che lo storico britannico Niall Ferguson definisce «la più grande riduzione sostenuta della popolazione europea dopo la peste nera del XIV secolo».
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Difendersi lontano da casa: la Russia investe sulla marina
Una nuova marina militare, capace di neutralizzare la minaccia Usa rappresentata dal “Prompt Global Strike”, sistema d’arma convenzionale (in fase di sviluppo) in grado di mettere Washington nella possibilità di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora, con precisione micidiale, attraverso asset ipersonici rivolti contro la deterrenza nucleare russa. La risposta di Mosca: sviluppare la flotta con potenti navi leggere per avvicinare i missili all’attaccante e scoraggiare il “Prompt Global Strike”, pensando innanzitutto a proteggere le coste da cui dipende la sicurezza russa. L’altro grande obiettivo strategico del futuro è l’Artico, sul quale la marina della Russia – la seconda forza navale più potente al mondo – è in netto vantaggio. Questa l’analisi che, sul “Giornale”, Franco Iacch propone, presentando i nuovi piani che la marina russa ha presentato a Putin. Punto di forza, il nuovissimo “vettore portaerei leggero” classe Shtorm, a propulsione nucleare, capace di trasportare 40 velivoli. Le nuove mini-portarei si affiancheranno alla gigantesca Admiral Kuznetsov, risalente agli anni ‘80, tuttora l’unica portaerei al mondo in grado di operare nell’Artico, oggi destinata a tre anni di cantiere per ammodernamenti, dopo le 420 missioni compiute in Siria, centrando oltre 1.250 obiettivi dell’Isis.La Russia sta perfezionando una nuova “dottrina strategica” per le sue forze navali. Il documento della marina – scrive Iacch – afferma che le flotte russe dovranno «essere in grado di impedire qualsiasi pressione e aggressione contro la Russia ed i suoi alleati sia lungo le rotte oceaniche che marittime, e di schierare truppe nelle zone più remote». In caso di guerra, la marina «dovrà essere in grado di infliggere danni inaccettabili a un avversario allo scopo di costringerlo a porre fine alle ostilità». La flotta di Mosca sfrutterà il potenziale tecnologico in suo possesso, «comprese le armi di precisione a lungo raggio». Il contenuto del progetto del 2015 corrisponde a una ripresa della pianificazione strategica, forte anche di una crescita economica sostanziale, in settori chiave della politica nazionale ed estera. Da rilevare, aggiunge l’analista, che nel 2010 la Russia ha avviato un ambizioso piano di riarmo, ancora in corso, che si dovrebbe concludere nel 2020. Il nuovo documento definisce i compiti fondamentali della marina per la prevenzione dei conflitti e la dissuasione strategica, al fine di «valutare costantemente e prevedere la situazione militare e politica, mantenendo le forze navali pronte contro qualsiasi potenziale nemico».«Gran parte delle minacce militari alla Russia provengono dall’Occidente», scrive Iacch, «in particolare nei pressi del Mar Nero e del Mar Mediterraneo». La regione artica è individuata come un’area in cui, afermano i russi, «il conflitto militare potrebbe diventare probabile in futuro». L’Oceano Indiano, l’Antartide e parte del Pacifico ricevono meno attenzione. Il documento strategico, sottolinea l’analista, si concentra sulla protezione delle aree costiere territoriali e sull’Artico: «E’ quindi corretto affermare che la nuova dottrina non persegue la proiezione di potenza globale come obiettivo primario, ma si concentra sugli interessi russi su una doppia flotta composta dalle grandi unità ereditate dall’Unione Sovietica e da piccole e moderne navi equipaggiate con missili a lungo raggio». Fondamentale, anche sotto questo aspetto, il significato dell’Artico: «Dal dicembre del 2012, Mosca ha avviato un’attività sistematica volta a rafforzare la propria presenza militare nella regione. Qualsiasi scenario strategico riguarderà l’Artico (considerato il principale settore strategico aerospaziale), dal momento che è il percorso di volo più breve tra Usa e Russia».La militarizzazione dell’Artico, con la costruzione di nuove basi o il riutilizzo dei vecchi impianti sovietici, «rimarrà una delle priorità della leadership russa nei prossimi anni», mentre il riscaldamento della calotta polare «rivelerà grandi risorse naturali non ancora sfruttate». Si calcola infatti che il fondo marino dell’Artico custodisca il 15% del petrolio rimanente del mondo, fino al 30% dei suoi giacimenti di gas naturale e circa il 20% del suo gas naturale liquefatto. «A causa del fenomeno dell’amplificazione artica – continua Iacch – la regione si surriscalda in tempi molto più brevi rispetto a quanto avviene in qualsiasi altra parte del globo. La scomparsa del ghiaccio marino è stimata al 2030, con rotte del Mare del Nord che diverranno percorribili per nove mesi all’anno». Ciò si traduce in una riduzione del tempo di viaggio, pari al 60%, tra Europa ed Asia orientale rispetto a quelle attuali attraverso Panama ed il Canale di Suez. La Russia è in vantaggio: «Dispone attualmente di una flotta di 40 rompighiaccio in servizio attivo mentre 11 sono in produzione».Mosca ha appena varato la nuovissima nave rompighiaccio a propulsione Arktika, la più potente al mondo (classe Lk-60Ya, Progetto 22.220). «Con i suoi 567 piedi di lunghezza ed un dislocamento di 33.500 tonnellate, l’Arktika può spezzare lastre di ghiaccio spesse tre metri». Negli ultimi trent’anni, aggiunge Iacch, Mosca ha semplicemente investito maggiori risorse finanziarie nella regione rispetto a qualsiasi altra nazione. «Sarebbe corretto rilevare che, attualmente, la flotta rompighiaccio russa è in grado di creare, incontrastata, nuove rotte commerciali nella regione artica». Ben diversa la situazione degli Usa: «I due cantieri che costruivano le rompighiaccio per gli Stati Uniti sono chiusi». Sicché, «il gap tra Russia e Stati Uniti è stimato in almeno dieci anni, a causa della miopia delle precedenti amministrazioni che hanno concentrato le principali risorse verso il Medio Oriente».Sono tre, riassume Iacch, le potenziali minacce specifiche per la Russia elencate nel documento della marina. La prima, spaventosa, «prevede un crollo improvviso della situazione politico-militare che porterà all’uso della forza militare nelle aree marittime che hanno un interesse strategico per la Russia». La seconda prescrive «lo schieramento di armi strategiche non nucleari di precisione e difese missilistiche nei territori e nelle zone marittime adiacenti alla Russia». La terza, infine, prevede «l’uso della forza militare da parte di altri Stati per minacciare gli interessi nazionali russi». Oltre all’Artico, la dottrina sottolinea l’importanza di proteggere l’accesso alle risorse energetiche del Medio Oriente e del Mar Caspio. C’è preoccupazione per l’impatto negativo dei conflitti regionali in Medio Oriente, Asia meridionale ed Africa, incluso il pericolo causato dalla crescita della pirateria nel Golfo di Guinea e negli oceani Indiano e Pacifico. «Il rafforzamento della flotta del Mar Nero e delle forze russe in Crimea, nonché il mantenimento di una presenza navale costante nel Mediterraneo, sono individuate come le priorità geografiche più critiche per il futuro sviluppo della marina russa».«La Russia – affermano gli strateghi moscoviti – dovrà rafforzare ulteriormente la capacità di proiezione con missili convenzionali e nucleari. Inoltre cercherà di migliorare la sostenibilità delle sue forze navali al fine di assicurare la presenza continua in regioni marittime strategicamente importanti, indipendentemente dalla distanza dalle basi». In caso di guerra, la dottrina rileva che la marina russa «dovrà essere in grado di difendere se stessa e il territorio da avversari equipaggiati con sistemi d’arma ad alta precisione». La leadership di Mosca, sottolinea Iacch, continua ad essere particolarmente preoccupata dal “Prompt Global Strike” americano, ritenuto «una minaccia diretta alla sicurezza internazionale e alla Russia». Nella dottrina di riferimento si rileva che la marina «è uno strumento potenzialmente efficace per dissuadere tali attacchi convenzionali di precisione di portata globale». L’efficacia della marina «dovrà essere strutturata su una combinazione di prontezza, capacità e persistenza: utilizzando le armi convenzionali a lungo raggio ad elevata precisione, la marina russa può minacciare bersagli militari dal mare».Secondo questa dottrina, la nuova capacità delle sue flotte consentirà alla Russia di dissuadere il ricorso all’asset “Prompt Global Strike”. Al fine di svolgere questa missione, la marina «dovrà costruire sottomarini nucleari e convenzionali multifunzionali, navi da combattimento, una potente aeronautica navale e sistemi di difesa costiera a lungo raggio», spiega Iacch. La marina militare russa, sostengono i suoi ammiragli, «è uno degli strumenti più efficaci per il contenimento strategico: le future armi di precisione dovranno essere in grado di distruggere il potenziale militare ed economico di un nemico colpendo le sue strutture vitali dal mare». La dottrina rileva che nel 2025 l’armamento convenzionale principale della marina russa sarà costituito da missili da crociera ad alta precisione a lungo raggio, integrati con missili ipersonici e vari sistemi automatizzati come i droni subacquei. In ogni caso, rileva Iacch, le ambizioni globali lasciano il posto al controllo delle aree territoriali russe e alla natura essenzialmente difensiva delle missioni. Le aree strategiche – Mediterraneo, Baltico, Caspio, Mar Nero e Artico – non richiedono una grande flotta. Di conseguenza, le forze navali russe «dovrebbero essere sufficienti per le finalità descritte nella dottrina navale».Una nuova marina militare, capace di neutralizzare la minaccia Usa rappresentata dal “Prompt Global Strike”, sistema d’arma convenzionale (in fase di sviluppo) in grado di mettere Washington nella possibilità di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora, con precisione micidiale, attraverso asset ipersonici rivolti contro la deterrenza nucleare russa. La risposta di Mosca: sviluppare la flotta con potenti navi leggere per avvicinare i missili all’attaccante e scoraggiare il “Prompt Global Strike”, pensando innanzitutto a proteggere le coste da cui dipende la sicurezza russa. L’altro grande obiettivo strategico del futuro è l’Artico, sul quale la marina della Russia – la seconda forza navale più potente al mondo – è in netto vantaggio. Questa l’analisi che, sul “Giornale”, Franco Iacch propone, presentando i nuovi piani che la marina russa ha presentato a Putin. Punto di forza, il nuovissimo “vettore portaerei leggero” classe Shtorm, a propulsione nucleare, capace di trasportare 40 velivoli. Le nuove mini-portaerei si affiancheranno alla gigantesca Admiral Kuznetsov, risalente agli anni ‘80, tuttora l’unica portaerei al mondo in grado di operare nell’Artico, oggi destinata a tre anni di cantiere per ammodernamenti, dopo le 420 missioni compiute in Siria, centrando oltre 1.250 obiettivi dell’Isis.
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Goya: precisa e coerente, così la Russia ha vinto in Siria
Lezioni operative di due anni di impegno russo in Siria: suona così il titolo della valutazione del colonnello francese Michel Goya, 63 anni, in forza alla fanteria di marina, docente e storico, diplomatosi alla scuola di guerra di Parigi. Piaccia o no, esordisce Goya, l’intervento russo «è stato un successo, perché ha conseguito il suo obiettivo politico primo, che era quello di salvare il regime siriano». Prima lezione: non si entra in un conflitto senza un obiettivo politico ben delineato e delimitato. Anche se la guerra non è ancora finita, «non può più essere perduta da Assad». Non restano che due poli territoriali ostili, in Siria: l’oltre-Eufrate ancora in mano a Daesh, e poi Idlib, tenuto da Al-Nusra. «Tutte le altre forze ribelli sono frammentate e spesso servono da suppletivi ad altri attori concorrenti», cioè Turchia, curdi, Giordania, Israele e Stati Uniti. La Russia «agisce come intermediario con tutti questi attori, locali o esterni», che le sono nemici. «Il che – conclude l’ufficiale francese – le attribuisce un peso diplomatico speciale sullo stesso teatro d’operazioni. Mosca tratta con gli alleati e con gli avversari. Non si ripropone l’annichilimento del nemico ma il negoziato politico. E appare di nuovo come una potenza di peso sugli affari del mondo, di cui bisogna tener conto».E quanto è costato, a Mosca, questo successo? «Risorse piuttosto limitate», sintetizza il colonnello Goya, in un post ripreso da Maurizio Blondet. Si parla di 4-5 mila uomini sul campo e 50-70 aerei, pari a un costo di circa 3 milioni di euro al giorno, ovvero «un quarto o un quinto dello sforzo americano nella regione». Visti i risultati strategici ottenuti, «i russi hanno una “produttività” operativa molto superiore agli americani o ai francesi». Come mai? Anzitutto perché «il dispositivo russo, impegnato massicciamente e di sorpresa, è stato completo fin da subito», senza clamori propagandistici. Insiste Goya: «La Russia ha dispiegato un dispositivo completo e coerente rispetto al raggiungimento di un obiettivo chiaro, ciò che non ha fatto la coalizione pro-ribelli in Siria». Un intervento «pienamente assunto, al contrario della “impronta leggera” americana». E’ diplomatico, il colonnello: non può dire che gli Usa e i loro alleati – turchi e arabi – hanno coordinato e supportato i terroristi Isis schierati contro Assad. I russi invece sono scesi in campo a viso aperto, non limitandosi al ruolo di addestratori dell’esercito siriano. Ed è questo, dice Goya, ad aver «cambiato il dato operativo», in una guerra “a mosaico” come quella siriana.Attorno a Damasco lottano svariate forze, ciascuna con i suoi sponsor e i propri obiettivi. Il che «rende il conflitto insieme complesso e stabile, in quanto le riconfigurazioni politiche spesso annullano i successi militari di una parte». I due sponsor rivali, Stati Uniti e Russia, non hanno alcuna intenzione di affrontarsi direttamente, ed evitano dunque di “incontrarsi”. Di conseguenza, l’occupazione-lampo di un territorio da parte dell’uno impedisce meccanicamente all’altro, davanti al fatto computo, di penetrarvi. «E la strategia del “pedone imprudente” che attraversa una camionabile e obbliga gli automobilisti a fermarsi: una strategia che i sovietici come i russi hanno adottato regolarmente», continua Goya. «Ciò comporta l’assunzione di un rischio. E in Siria, le esitazioni americane hanno ridotto il rischio». Sicché, ha vinto Mosca: «Dal momento in cui i russi hanno piantato apertamente la loro bandiera e occupato lo spazio – specie aereo – in Siria, per gli altri tutto è diventato più complicato. Il dispiegamento di missili S-300 e poi di S-400 ha imposto una zona di esclusione aerea agli Stati Uniti, ostacolati in tal modo su un teatro operativo per la prima volta dalla guerra fredda».Una interdizione dello spazio aereo che non è stata ermetica, riconosce Goya: i turchi hanno abbattuto un bombardiere russo Su-25 a fine novembre 2015, e gli americani hanno attaccato (a tradimento, dal cielo) i soldati regolari siriani assediati a Der Ezzor, violando un accordo coi russi di poche ore prima: hanno ucciso 62 militari, «in pratica facendo da appoggio aereo al coordinato attacco dello Stato Islamico a terra», ricorda Blondet, mentre la marina Usa su ordine del neo-eletto Trump ha lanciato missili da crociera contro la vecchia base di Shayrat (ma, prudentemente, dal mare). E infine l’armata israeliana ha attaccato il 7 settembre il sito di Mesayf (anche qui con cautela, dal cielo libanese). Poi a giugno un caccia americano ha abbattuto un Su-22 siriano «nel primo duello aereo sostenuto dagli americani dal 1999». Per Goya, se questo dimostra «l’incapacità russa di interdire totalmente, politicamente o tatticamente, il cielo», la rarità e la prudenza di questi attacchi «testimoniano che lo spazio aereo è stato comunque dominato dai russi».Da parte loro, nonostante le ripetute minacce, gli americani «hanno esitato a fornire materiale sofisticato alle forze ribelli, come missili anticarro e terra-aria, e ancor meno a impegnare apertamente loro proprie unità di combattimento». Insomma, non hanno “osato”. Commenta Goya: «La cosiddetta “impronta leggera” è spesso prova della leggerezza degli obbiettivi politici e della motivazione». Il colonello dettaglia l’impiego della brigata aerea mista russa, con una settantina di velivoli (sui 2.000 dell’aviazione di Mosca) e almeno una unità di artiglieria con lanciarazzi multipli, droni, un aereo di ricognizione elettronica, più diverse compagnie di forze speciali, «la cui missione è l’operazione in profondità e l’intelligence». La brigata aerea ha condotto decine di operazioni combinate, ad un ritmo molto elevato: mille uscite mensili. «Una tecnologia piuttosto antica, con grande uso di bombe non guidate», ha portato ad una bassa percentuale di colpi a bersaglio, rispetto agli standard occidentali, e perdite civili sensibilmente più importanti all’inizio ma poi nettamente diminuite».Nell’insieme, il sito americano “Airwars” stima le vittime civili dei russi «tra le 4.000 e 5.400 in totale», ma «da 5.300 a 8.200 quelle da imputare alla coalizione statunitense, che pure usa una percentuale molto maggiore di munizioni guidate». Le perdite russe sono valutate da 11 a 17, ufficialmente, «ma in realtà tra 36 e 48», secondo Goya; perdite «comunque molto basse rispetto alla portata delle operazioni». In più, Mosca non ha impegnato direttamente forze terrestri: si è limitata a un battaglione della fanteria di marina rafforzato da una piccola compagnia di tank T-90, una batteria di artiglieria con 15 lanciagranate multipli e 40 veicoli da combattimento», tra cui i nuovissimi tank Bmpt-72 “Terminator”, coordinati con sistemi satellitari per sincronizzare l’azione di uomini e mezzi. Una forza, quella russa, utilizzata però principalmente «per la protezione delle basi navali di Tartus e Hmeimim». Gli aspetti tecnico-militari, osserva Blondet, non devono far dimenticare il profilo politico intelligentemente adottato dai russi, come sottolinea il colonnello Goya: «La principale novità del dispositivo russo è stata, nel febbraio 2016, la creazione di un Centro di Riconciliazione volto alla diplomazia di guerra, la protezione del trasporto dei combattenti [nemici che si dichiarano sconfitti] e con le autorità civili, Ong e Nazioni Unite, l’aiuto alla popolazione».Questo Centro di Riconciliazione è anche, chiaramente, un organo di raccolta d’intelligence per le forze russe, «ma implica l’ammissione che la fine più ovvia di un conflitto è il negoziato e non la distruzione totale del nemico», osserva Goya, secondo il quale «con mezzi limitati, la Russia ha almeno per ora ottenuto risultati strategici importanti, e comunque molto superiori a quelli delle potenze occidentali, innanzitutto gli Stati Uniti ma anche la Francia, i cui effetti strategici in Siria non sono nemmeno misurabili». Questo, per il colonnello, è dovuto principalmente «a una visione politica evidentemente più chiara e ad un’azione più coerente, con una presa di rischio operativa e tattica che gli Stati Uniti o la Francia non hanno osato». La stessa presenza dei russi in prima linea, se ha causato perdite di vite umane, col suo effetto deterrente sugli attori locali, ne ha anche risparmiate, permettendo lo sblocco rapido delle situazioni tattiche congelate. «E con l’accettazione dei negoziati, gli sviluppi sono stati più rapidi a favore del regime di Damasco rispetto ai quattro anni precedenti, dimostrando ancora una volta che si ottengono più risultati attraverso azioni coerenti sul terreno che azioni da lunga distanza e senza obiettivi chiari».Lezioni operative di due anni di impegno russo in Siria: suona così il titolo della valutazione del colonnello francese Michel Goya, 63 anni, in forza alla fanteria di marina, docente e storico, diplomatosi alla scuola di guerra di Parigi. Piaccia o no, esordisce Goya, l’intervento russo «è stato un successo, perché ha conseguito il suo obiettivo politico primo, che era quello di salvare il regime siriano». Prima lezione: non si entra in un conflitto senza un obiettivo politico ben delineato e delimitato. Anche se la guerra non è ancora finita, «non può più essere perduta da Assad». Non restano che due poli territoriali ostili, in Siria: l’oltre-Eufrate ancora in mano a Daesh, e poi Idlib, tenuto da Al-Nusra. «Tutte le altre forze ribelli sono frammentate e spesso servono da suppletivi ad altri attori concorrenti», cioè Turchia, curdi, Giordania, Israele e Stati Uniti. La Russia «agisce come intermediario con tutti questi attori, locali o esterni», che le sono nemici. «Il che – conclude l’ufficiale francese – le attribuisce un peso diplomatico speciale sullo stesso teatro d’operazioni. Mosca tratta con gli alleati e con gli avversari. Non si ripropone l’annichilimento del nemico ma il negoziato politico. E appare di nuovo come una potenza di peso sugli affari del mondo, di cui bisogna tener conto».
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Inuit e Nasa: i ghiacci disciolti inclinano l’asse terrestre
Il sole allo zenit, in un cielo completamente diverso. Risultato: clima impazzito, temperature in aumento, cataclismi naturali dovuti all’inaudito sciogliemento dei ghiacci e alla “migrazione” di immense quantità d’acqua. Sta accadendo qualcosa di mai prima osservato: lo affermano gli anziani Inuit, intervistati nell’Artico dal regista e produttore canadese Zacharias Kunuk, in contatto con la Nasa. «Gli anziani parlano di come il loro mondo è cambiato, da come era decenni prima di oggi», riassume il blog “La Crepa nel Muro”. E’ un quadro preoccupante, di cui gli Inuit sono testimoni: lo scioglimento dei ghiacciai artici, la scomparsa del ghiaccio marino. «Le foche hanno bruciature sulla loro pelliccia e sono coperte di piaghe e di una pelle più sottile, la pelle è deteriorata». E mentre gli scienziati sostengono che è l’inquinamento umano a contribuire in modo decisivo al cambiamento climatico, i vecchi Inuit sono convinti qualcosa di molto molto più grande sta succedendo. L’agenzia aerospaziale americana conferma: «I ghiacci che si sciolgono ai poli e le falde idriche depauperate sulla terraferma modificano la distribuzione della risorsa idrica sul pianeta, alterando la rotazione della Terra: lo spostamento è tale da inficiare l’accuratezza di un Gps».Come noto, ricorda Filomena Fotia su “Meteoweb”, la Terra ruota sul suo asse in modo irregolare, oscillando e sobbalzando: queste variazioni naturali sono accompagnate da quelle generate dai cambiamenti climatici, spiega oggi la Nasa, confermando le inquietanti anomalie osservate dagli anziani Inuit. «L’oscillazione fa variare leggermente l’inclinazione dell’asse terrestre, provocando uno spostamento, che per tutto il XX secolo si è diretto verso la Baia di Hudson, in Canada, ma ha invertito la rotta a partire dal 2003, spostandosi di circa 17 centimetri all’anno in direzione delle Isole Britanniche». Il risultato della ricerca, pubblicato su “Science Advances”, si deve a Surendra Adhikari e la suo collega Erik Ivins, entrambi ricercatori della Nasa. Gli esperti, aggiunge Fotia, hanno analizzato i dati dal 2003 a oggi dei satelliti Grace (Center Gravity Recovery and Climate Experiment) che misurano la distribuzione delle masse d’acqua sul pianeta, e hanno fatto una scoperta clamorosa: «La natura degli spostamenti spiegava la migrazione dell’asse verso l’Europa, rilevata a partire dal duemila. Si consideri che ogni anno in Groenlandia si sciolgono 278 trilioni di chili all’anno di ghiaccio e in Antartide occidentale 172 trilioni di chili».Oltre che allo scioglimento dei ghiacci, secono i ricercatori della Nasa la “migrazione” verso l’Europa è dovuta anche «al depauperamento delle risorse idriche sulla terraferma, in particolar modo in Eurasia: 530 trilioni di chili di acqua all’anno vanno persi a causa della siccità e dell’eccessivo sfruttamento delle falde, provocando un innalzamento del livello del mare». Effetti di cui soffriamo tutti, e il cui impatto è particolarmente forte tra gli abitanti delle più estreme regioni artiche, convinti – per primi – che il “climate change” non sia solo dovuto alla Terra, cioè all’uomo, ma anche al cielo: gli anziani intervistati da Zacharias Kunuk «dicono che il Sole non sorge più come nella normalità del tempo andato: hanno la luce del giorno più a lungo, per cacciare, e il Sole è più alto di quanto non lo sia mai stato prima e riscalda più velocemente l’ambiente». Su questo sono tutti d’accordo: il sole e la luna, che sono “cambiati”, «influenzano la temperatura, il modo in cui soffia il vento». E così, a memoria d’uomo, non è mai stato così difficile prevedere il tempo. «Conosciamo i problemi correlati alla geoingegneria», cioè le “scie chimiche”, e «tutti gli effetti negativi di ricaduta sulla Terra e la salute pubblica». Ma a questi problemi ora «si aggiungono quelli scoperti dagli anziani Inuit», determinati «dallo spostamento dell’asse terrestre» confermato dalla Nasa.Il sole allo zenit, in un cielo completamente diverso. Risultato: clima impazzito, temperature in aumento, cataclismi naturali dovuti all’inaudito sciogliemento dei ghiacci e alla “migrazione” di immense quantità d’acqua. Sta accadendo qualcosa di mai prima osservato: lo affermano gli anziani Inuit, intervistati nell’Artico dal regista e produttore canadese Zacharias Kunuk, in contatto con la Nasa. «Gli anziani parlano di come il loro mondo è cambiato, da come era decenni prima di oggi», riassume il blog “La Crepa nel Muro”. E’ un quadro preoccupante, di cui gli Inuit sono testimoni: lo scioglimento dei ghiacciai artici, la scomparsa del ghiaccio marino. «Le foche hanno bruciature sulla loro pelliccia e sono coperte di piaghe e di una pelle più sottile, la pelle è deteriorata». E mentre gli scienziati sostengono che è l’inquinamento umano a contribuire in modo decisivo al cambiamento climatico, i vecchi Inuit sono convinti qualcosa di molto molto più grande sta succedendo. L’agenzia aerospaziale americana conferma: «I ghiacci che si sciolgono ai poli e le falde idriche depauperate sulla terraferma modificano la distribuzione della risorsa idrica sul pianeta, alterando la rotazione della Terra: lo spostamento è tale da inficiare l’accuratezza di un Gps».
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Conditi: moneta fiscale, e usciamo dalla crisi in 100 giorni
Molti mi chiedono: “Cosa faresti per uscire dalla crisi se tu fossi al governo?”. Bella domanda, perché è facile parlare di soluzioni finchè sai che non sarai tu a doverle attuare, altra cosa è essere lì ed avere la responsabilità della vita di 60 milioni di persone. Noi italiani. Tutti sanno che il problema dell’attuale crisi economica è la mancanza di soldi nell’economia reale, ma nessuno lo dice. Tutto il resto sono solo chiacchiere e distintivo. Ci dicono sempre che le cause sono la corruzione, l’evasione fiscale, il debito pubblico, gli sprechi, l’automatizzazione, la globalizzazione, ma noi sappiamo che non sono il problema principale. Ci distraggono in continuazione con discussioni su temi diversi come i vaccini, l’immigrazione, i cambiamenti climatici, gli attentati terroristici, gli stupri e qualsiasi altra cosa riesca a distogliere la nostra attenzione dall’unico e vero problema. La crisi economica deriva dalla mancanza di soldi nell’economia reale. Ma i problemi dovrebbero essere la scarsità di risorse umane e materiali, certamente non i soldi che si possono creare e vengono anche oggi creati in grandi quantità e senza alcun limite. Solo che finiscono nelle mani di pochi privilegiati, che si arricchiscono a scapito di tutti gli altri.Siamo una delle nazioni al mondo più ricche di risorse materiali, con un patrimonio artistico, culturale ed ambientale che tutti ci invidiano, ma soprattutto abbiamo risorse umane di qualità, perché abbiamo cultura, capacità, genio ed inventiva come nessun’altra popolazione al mondo. Tuttavia, siamo incapaci di trovare l’unica risorsa che può essere creata dal nulla senza alcun problema: i soldi. Supponiamo che ci sia un governo illuminato che voglia seguire la nostra strada, questi dovrebbero essere gli interventi legislativi nei primi cento giorni: 1) Istituire una moneta fiscale elettronica chiamata Sire, che gira su un circuito fiscale indipendente dalle banche, che fa capo al ministero dell’economia e delle finanze. Stampa anche biglietti di Stato in Sire e monete metalliche da 5 e 10 euro in Sire. Essendo materia fiscale, né la Bce né l’Ue possono dire niente; l’importante è che siano ad accettazione volontaria e utilizzabili per pagare le tasse.2) Lo Stato diventa istituto di moneta elettronica come prevede l’articolo 114/bis del Tub (Testo unico bancario), per cui con la stessa carta di credito fiscale posso anche effettuare pagamenti in euro, magari con tecnologia blockchain. 3) Riprendere il pieno controllo della Banca d’Italia da parte dello Stato, procedendo al rinnovo delle cariche direttive e riacquistando le quote di partecipazione attualmente detenute da privati, per rispettare quanto previsto dall’articolo 47 della nostra Costituzione. 4) Procedere al consolidamento dei titoli di debito pubblico dello Stato attualmente detenuto da Banca d’Italia, circa per 400 miliardi di euro, in modo che il famigerato rapporto debito/Pil possa scendere vicino al 100%. 5) Creare un sistema di banche pubbliche sul modello tedesco, nazionalizzando ed acquisendo il controllo di quelle in difficoltà, trasferendo tutte le sofferenze che gravano sul settore bancario presso la Banca d’Italia.6) Disporre il pagamento immediato di tutti i debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle aziende private e finanziare, con denaro creato direttamente dallo Stato, il sostegno ai cittadini in difficoltà, la ricostruzione del terremoto, gli investimenti produttivi ed innescare lo sviluppo economico in tutti i settori strategici dell’economia reale. Mentre diventano operativi questi 6 punti, viene contemporaneamente inoltrata, al Parlamento Europeo e alla Corte di Giustizia Europea, una denuncia per il mancato rispetto dei Trattati da parte della Bce e della Commissione Europea, citando nello specifico gli obiettivi dell’articolo 3 del Tue (Trattato sull’Unione Europea) e dell’articolo 127 del Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), oltre a tutte le altre norme a favore degli Stati che non sono state rispettate: l’accusa è di aver adottato politiche monetarie solo a favore di banche e mercati finanziari, mentre i Trattati hanno ben altri obiettivi.Nell’eventualità la Bce adottasse provvedimenti di blocco del sistema bancario, tenere pronto un decreto legge con il quale trasformare il sistema “fiscale” Sire, già utilizzato negli scambi, in un sistema monetario vero e proprio, dichiarandone la validità a corso legale e l’accettazione obbligatoria. In questo caso si usce dall’euro, ma senza traumi e con un sistema monetario pronto e già funzionante. Parleremo di questo e di molto altro a Roma il 9 ottobre 2017, presso il VII Municipio in un incontro pubblico con Nino Galloni e Paolo Tintori. Siete tutti invitati. Perchè se vogliamo davvero un cambiamento radicale e profondo delle politiche economiche e monetarie, dobbiamo aumentare la consapevolezza di tutti su questi temi fondamentali ed essere capaci di immaginare un sistema diverso, altrimenti saremo noi stessi un freno al cambiamento. Ho anche realizzato 6 video brevissimi e chiari, che potete trovare sul mio profilo pubblico su Facebook da condividere con i vostri amici.(Fabio Conditi, “Come risolvere la crisi in soli 100 giorni”, da “Come Don Chisciotte” del 17 settembre 2017. Conditi è presidente dell’associazione “Moneta Positiva”).Molti mi chiedono: “Cosa faresti per uscire dalla crisi se tu fossi al governo?”. Bella domanda, perché è facile parlare di soluzioni finchè sai che non sarai tu a doverle attuare, altra cosa è essere lì ed avere la responsabilità della vita di 60 milioni di persone. Noi italiani. Tutti sanno che il problema dell’attuale crisi economica è la mancanza di soldi nell’economia reale, ma nessuno lo dice. Tutto il resto sono solo chiacchiere e distintivo. Ci dicono sempre che le cause sono la corruzione, l’evasione fiscale, il debito pubblico, gli sprechi, l’automatizzazione, la globalizzazione, ma noi sappiamo che non sono il problema principale. Ci distraggono in continuazione con discussioni su temi diversi come i vaccini, l’immigrazione, i cambiamenti climatici, gli attentati terroristici, gli stupri e qualsiasi altra cosa riesca a distogliere la nostra attenzione dall’unico e vero problema. La crisi economica deriva dalla mancanza di soldi nell’economia reale. Ma i problemi dovrebbero essere la scarsità di risorse umane e materiali, certamente non i soldi che si possono creare e vengono anche oggi creati in grandi quantità e senza alcun limite. Solo che finiscono nelle mani di pochi privilegiati, che si arricchiscono a scapito di tutti gli altri.