Archivio del Tag ‘risorse’
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Niente preservativo: e la Chiesa fabbrica migranti e orrori
Verrà il giorno in cui, finalmente, l’ipocrita Chiesa romana oserà pretendere una soluzione per abolirla, la povertà? Anziché predicare l’aiuto ai poveri, nascerà un Papa capace di imporre alla politica di eliminarla dalla faccia della Terra, la miseria? Se lo domanda Paolo Barnard, nell’esprimere un giudizio impietoso sulla situazione di oggi, con l’Africa che si prepara a inondare l’Europa di migranti. E non è che l’inizio dell’esodo, visto il boom demografico in corso nel continente nero. Nessun impegno, dal Vaticano, per limitare la natalità mediante l’uso dei contraccettivi. Anzi: il pontefice è intervenuto per censurare l’Ordine di Malta, che aveva tentato di promuovere gli anticoncezionali in Africa. Così i barconi continuano a solcare il Mediterraneo, dando poi modo allo sceriffo Salvini di fare il “signor no”. Tutto teatro, dice Barnard: facendosi fotografare mentre agita la croce e il rosario, il capo della Lega chiarisce che non si permetterebbe mai di contestare il potere religioso, che secondo Barnard è il vero motore dell’emigrazione. «Il tasso di natalità africano – scrive il giornalista sul suo blog – è una macchina di disperazione e di morte di proporzioni infernali: non esiste guerra, sfruttamento neo-coloniale, franco Cfa o malapolitica africana che gli possa stare vicino, come causa nella monumentale tragedia della loro povertà oggi».Secondo Barnard, nel 2019, «il vero anti-razzista e umanitarista deve guardare in faccia l’africano e l’africana e dirgli di smetterla di figliare come pazzi». Il giornalista punta il dito contro «la perversione mentale chiamata fede cristiana che noi abbiamo esportato e che continuiamo a esportare là, e che fisicamente impedisce ai metodi contraccettivi e all’educazione ai diritti riproduttivi di raggiungere le donne del continente, anche quando sono laiche e consapevoli». In Africa una donna negli anni di fertilità partorisce dai 5 ai 7 figli, in media. L’Onu prevede che, fra 30 anni, più di un miliardo di umani si aggiungerà alla già stipata Africa. «Nonostante i cosiddetti aiuti umanitari – con missionari laici o religiosi, con l’industria delle donazioni e della “caritas cristiana” – il numero totale di poveri estremi nell’Africa Sub-Sahariana è oggi più alto che nel 1981. E di nuovo: l’abnorme tasso di natalità gioca, in questo, un ruolo infernale». Le cause storiche della povertà africana le conosciamo, e sono «il nostro furto delle loro risorse ma anche la loro corruzione». Ma figliare a questo ritmo scriteriato, aggiunge Barnard, «creerebbe disperazione economica anche nella Svizzera delle banche, disintegrerebbe il potere di spesa sociale della Fed degli Stati Uniti».Insiste Barnard: il flusso dei profughi economici che vediamo oggi è solo la minuscola frazione dei fuggitivi africani che riescono ad arrivare in Libia. Ma il 99% dei futuri migranti stanno appena più a Sud, «e sono quelli che arriveranno quando la vera crisi dei migranti esploderà: sono gli africani dell’immenso bacino cattolico». Che fare? Tanto per cominciare, bisognerebbe «distribuire su scala intensiva preservativi agli africani», attraverso «programmi di educazione ai diritti riproduttivi (come evitare gravidanze non volute), in un accordo non solo con i politici, ma con le due maggiori religioni africane, cattolicesimo e Islam». Significherebbe «aiutare a prevenire almeno una notevole fetta di sofferenze umane che negli ultimi 40 anni hanno di molto superato in numeri quelle dell’Olocausto nazista». E di conseguenza, «prevenire la crisi dei migranti». Al contrario, ostacolare la contraccezione in un’Africa già irresponsabilmente riproduttiva «significa pianificare a tavolino uno sterminio, con tragedie incalcolabili, con la destabilizzazione peggiore mai vissuta dall’Europa moderna». Un fenomeno che, fra l’altro, «alimenta la proliferazione dei nuovi fascismi europei».In un’intervista del 1952, ricorda Barnard, il filosofo della scienza Bertrand Russell «non solo predisse il globale dramma delle migrazioni per povertà, ma dettò la ricetta per fermarle, auspicando allo stesso tempo equità economica nell’intero pianeta». Barnard considera Russell «la mente forse più lucida, autorevole e umanitarista del XX secolo». Nodo irrisolto, da allora: il problema demografico e la proibizione cristiana della contraccezione. «Sarà impossibile ridurre la diseguaglianza globale – disse Russell – se non raggiungeremo popolazioni numericamente stabili». Altro pericolo: i poveri oggi possono vedere come vivono i ricchi, cioè noi. «La consapevolezza, da parte di immense masse di poveri, della disparità di ricchezza fra loro e noi, ci porterà pericoli alla pace e calamità», aggiunse Russell. «E’ assolutamente giusto che Africa e Asia ottengano eguaglianza nella ricchezza con l’Occidente. Ma se si vuole evitare che l’Africa e l’Asia travolgano il mondo con immense popolazioni in estrema povertà – concluse il filosofo – esse dovranno però imparare a mantenere popolazioni numericamente stabili. E se non impareranno a controllare questo, allora inevitabilmente perderanno la loro rivendicazione di eguaglianza economica».Cosa si deve aggiungere – dice Barnard – a parole del genere? Furono pronunciate «cinquant’anni prima che chiunque, qui da noi, sentisse parlare di barconi, crisi migranti, neo-razzismo e di Salvini». Profezia lampante: «Il controllo delle nascite, quindi la contraccezione, sono vitali per l’economia e la giustizia globali». La soluzione è proprio la contraccezione, «non la demente astinenza predicata dalla Chiesa». E chi si oppone a questa politica salva-pianeta che mitigherebbe guerre, migrazioni e drammi incalcolabili? «Due fanatici della croce vaticana, Bergoglio e Salvini», scrive Barnard. Per il Vaticano «la contraccezione, in ogni sua forma, è dannazione divina, è perdizione: equivale al peggior sudiciume morale, addirittura all’infanticidio». Non importa se poi la mancata contraccezione miete milioni di vittime: «Conta la croce vaticana, che purtroppo proprio nell’Africa più disperata ha una presa pandemica sui suoi abitanti». Per Barnard, il pontefice romano e il capo leghista «sono disgustosi entrambi», per ipocrisia: il primo contribuisce direttamente alla strage, l’altro campa politicamente sull’esodo. Bergoglio? «Nell’encefalo di milioni di fessi passa come un “francescano” riformatore», come il volto nuovo (decente) della «vomitevole Chiesa storica», cioè «quella dell’opzione per i ricchi e morte ai poveri».Ma per fortuna esiste Wikileaks, continua Barnard: il network di Julian Assange rivela che Papa Francesco intervenne «in un mefitico guazzabuglio di potere» con il cattolico Ordine di Malta, il quale «per un errore di un tal Gran Cancelliere» dell’ordine religioso vaticano, di nome Albrecht Freiherr von Boeselager, «aveva osato finanziare l’uso di contraccettivi per non sovrappopolare l’Africa, e quindi per evitare non solo le infezioni da Aids ma anche per diminuire le crisi dei migranti che finiscono sui barconi». Dai documenti pubblicati da Wikileaks, il Papa si sarebbe «prodigato nel suo decennale doppiogiochismo». Barnard ricorda che Bergoglio «fu pro/anti torturatori argentini, fu pro/anti teologi della liberazione, fu pro/anti-preti pedofili, fu pro/anti Fondo Monetario Internazionale alla gola dei poveri latinoamericani, infatti aiutava una manciata di poveracci ma ostacolava la “socialista” Kirchner». Secondo Wikileaks, se da un lato ha messo sotto scacco la parte più conservatrice del vaticanissimo Ordine di Malta («dopotutto deve figurare come Francesco il progressista, no?»), dall’altro avrebbe imposto «con feroce autoritarismo» la proibizione dei contraccettivi e dei diritti riproduttivi su tutta l’Africa, «con morti per Aids, sovrappopolazione e povertà disperata come conseguenze».Ipocrisia su ipocrisia: non sono certo «i miliardi vaticani investiti in hedge funds o immobili miliardari a pagare per l’accoglienza». Per Barnard, siamo di fronte a «oggettivi crimini contro l’umanità, dettati da una fede religiosa da sempre genocida». Crimini che però «farebbero poca strada, se poi non esistessero vaste masse di complici». Fra queste, «il “popolo del capro espiatorio” in drammatica espansione in Ue, cioè le destre populiste, quelli che “tutto è colpa del migrante, anche il deficit strutturale”». Peggio di loro si comportano le “anime belle”: «Sono l’altro popolo, cioè il “popolo della caritas”, quello che in nome della propria auto-santificazione alimenta l’orrore, abbracciando la croce del genocidio anti-contraccettivo». In patria, i buonisti «lavorano per l’inutile e controproducente industria della “caritas” verso i dannati della Terra», ma spesso «vanno anche a far danni diretti nelle ormai secolari scorribande missionarie vaticane».Si indigna, Barnard: «Se questo “popolo della caritas” dedicasse quella montagna di energie a pretendere dalla politica occidentale soluzioni sistemiche alla povertà e alla sovrappopolazione del mondo, senza neppure spostarsi da casa, se questo avessero fatto da anni invece di sentirsi “buoni” e dare l’obolo o fare il viaggetto santo, noi nel 2019 non avremmo mai sentito parlare di un trionfante Salvini, di barconi, di cadaveri sul fondo del Mediterraneo, di neofascismi in tutto l’Occidente e, soprattutto, la tragedia del Terzo Mondo sarebbe ora solo un brutto ricordo». E invece ecco ogni giorno in televisione «il Santo Signore di tutti gli Ipocriti, con al seguito il vostro beniamino padano che sbraita contro l’invasione dei disperati ma bacia la croce che l’alimenta a tutta forza». Però «mica se la prende con le gabbane, il Matteo: no, solo coi disperati». Ribadisce Barnard: «Priorità per la tragedia migranti: contraccettivi e educazione ai diritti riproduttivi. Ora. Perché mentre ne respingete uno, là se ne creano 10.000».Verrà il giorno in cui, finalmente, l’ipocrita Chiesa romana oserà pretendere una soluzione per abolirla, la povertà? Anziché predicare l’aiuto ai poveri, nascerà un Papa capace di imporre alla politica di eliminarla dalla faccia della Terra, la miseria? Se lo domanda Paolo Barnard, nell’esprimere un giudizio impietoso sulla situazione di oggi, con l’Africa che si prepara a inondare l’Europa di migranti. E non è che l’inizio dell’esodo, visto il boom demografico in corso nel continente nero. Nessun impegno, dal Vaticano, per limitare la natalità mediante l’uso dei contraccettivi. Anzi: il pontefice è intervenuto per censurare l’Ordine di Malta, che aveva tentato di promuovere gli anticoncezionali in Africa. Così i barconi continuano a solcare il Mediterraneo, dando poi modo allo sceriffo Salvini di fare il “signor no”. Tutto teatro, dice Barnard: facendosi fotografare mentre agita la croce e il rosario, il capo della Lega chiarisce che non si permetterebbe mai di contestare il potere religioso, che secondo Barnard è il vero motore dell’emigrazione. «Il tasso di natalità africano – scrive il giornalista sul suo blog – è una macchina di disperazione e di morte di proporzioni infernali: non esiste guerra, sfruttamento neo-coloniale, franco Cfa o malapolitica africana che gli possa stare vicino, come causa nella monumentale tragedia della loro povertà oggi».
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Gas, l’Eni sfratta il Belgio dal Venezuela: perciò ci odiano
Non so se qualcun altro l’ha già scritto. La ragione del rabbioso attacco di Verhofstadt a Conte sta esattamente nelle sue parole dal minuto 0:34 al minuto 1:04 qui, ed è un embolo di gas Lng, piuttosto raro fra gli umani, ma non fra quelli come lui. Roba da tanti, ma tanti soldi. Al belga sono rimasti piantati a metà trachea il Venezuela e Putin, e soprattutto la mite posizione italiana su di essi. Per questo ci odia, e, ancor più di lui, ci odia la Exmar, che come avrete di certo letto sui giornali è la corporation navale belga che gli paga le parcelle mentre ’sto lobbista siede a fare il parlamentare europeo. Una storia multimiliardaria di Lng (gas naturale liquefatto), le cui maggiori comparse sono: un incontro dell’ottobre 2017 fra Putin e l’iraniano colosso petrolifero Nioc; un contratto andato in malora l’anno precedente fra la Exmar e la canadese Pacific Exploration & Production Corporation in Colombia; la Carribean Flng, che è la mega-chiatta per la lavorazione e il trasporto del Lng strapagata dalla Exmar, che oltretutto se la fece recapitare dalla Cina con l’ambizione di farci una montagna di soldi, ma rimasta piantata ad arrugginirsi per via dei sopraccitato contratto andato a vuoto e anche di un secondo contratto andato a puttane, poi graziata all’ultimo dall’odierno arcinemico latino americano del Venezuela, cioè il presidente argentino Macri; l’Eni che si lavora il Lng di Maduro mentre i belgi della Exmar schiumano alla bocca per vederlo morto.Il Belgio è un paese di sfigati, che dopo aver ammazzato 11 milioni di congolesi, per rimanere poi a mani vuote, circa 130 anni fa (il cobalto e il coltan, che oggi nell’It e nella Smart Tv-Smart Phones Industry valgono più dei diamanti, se li sono presi i Kabila, l’americana Glencore e gli israeliani), si sono distinti di recente per aver avvelenato i maiali di tutt’Europa con la diossina, e poi sono rimasti sfigati. Possono vantare solo quella cloaca di politica autocratica e infestata di lobbies che è Bruxelles, ma mica tanto altro. La loro Exmar è dal 1981 che si è fatta un nome nel mondo per i servizi di trasporto navale e di rigassificazione soprattutto di gas naturale, che viene trasformato in Lng. Ne vanno fieri, e che ci sia un paese in Ue che non solo gli piscia in testa sugli idrocarburi con l’Eni, ma che è pure ‘amico’ di due giganti odiosi per la Exmar nel business Lng come Russia e Venezuela, be’, questo per Verhofstadt e per le ambizioni smisurate di chi ce l’ha a busta paga, la Exmar appunto, è stato troppo. Fra poche righe capirete il perché. Tutto il resto della sua sparata su Italia vs Ue, immigrazione, gran valori di Spinelli, Ciampi e Bonino, la recessione, i populismi, sono stati pretesti. Contano i soldi, follow the money, eh?Un po’ di background in breve. Dunque, nel luglio 2017 i padroni di ’sto Verhofstadt, la Exmar, si fa recapitare dall’altra parte del pianeta questa mega-chiatta chiamata Carribean Flng che avevano costruito a costi stratosferici nella speranza di concludere un accordo multi-milionario con l’Iran. Ma nel novembre successivo la Gazprom di Putin arriva a Tehran, incontra la Nioc (la regina degli idrocarburi iraniana) e di colpo tutto per la Exmar va storto. L’Iran, si disse allora, avrebbe usato altri vascelli per il Lng, quelli norvegesi, e gli oleodotti russi dell’amico Vladimir. Questo aprì ulcere gastriche in Belgio dove ci passava un pallone da calcio, soprattutto perché era la seconda volta che la super-chiatta della Exmar veniva cestinata con milioni di dollari di perdite: era successo nel 2016 nel sopraccitato flop in Colombia in associazione con la fallita canadese Pacific Exploration & Production Corporation. I padroni di Verhofstadt ora hanno buchi contabili che si vedono dalla Luna con ’sta mega-chiatta Carribean Flng piantata sul gozzo mentre altri si stanno spartendo l’immane mercato del gas Lng.Putin è il target N.1 dell’odio della Exmar, e non solo per la faccenda dell’Iran del 2017, ma anche perché in tutto l’affare Nord Stream 2 (il super-gasdotto dalla Russia alla Germania) le mega-chiatte della Exmar e tutti i suoi servizi aggiunti per il trasporto del gas Lng sono ovviamente tagliati fuori. La corporation belga e il suo scagnozzo lobbista Verhofstadt sono impotenti contro Mosca in Ue. Per ovvi motivi, “l’amico del tuo nemico è il tuo nemico”, cioè tradotto: l’Italia di Salvini che è di casa in Russia diventa oggetto d’odio alla Exmar-Verhofstadt. Ma non solo. C’è il Venezuela. Caracas, come si sa, è un colosso di idrocarburi, ora ingabbiato dalle sanzioni Obama-Trump, ma lo stesso una miniera d’infinite ricchezze anche di gas Lng. Infatti si sappia che, sorprendentemente, uno del 10 maggiori esportatori al mondo di Lng è Trinidad & Tobago nei Caraibi, ma la sua vera fonte è la compagnia petrolifera di Stato di Caracas, la Pdvsa. A Bruxelles gli ulcerati della Exmar stanno solo a guardare tutto quel ben di Dio in mano al “socialista” Maduro, a cui loro non hanno significativi accessi, mentre l’Eni sì, eccome. ‘Sti italiani, di nuovo in mezzo alle palle, eh? Allora che si fa?Be’, com’è noto, nell’America Latina esiste oggi un gruppo di nazioni totalmente baciapile di Washington che si chiama il Gruppo di Lima, e chi le capeggia? L’Argentina del presidente Macri. E allora, si dicono gli ulcerati della Exmar a Bruxelles, dove la piazziamo ’sta emorragia di milioni di dollari che si chiama super-chiatta Carribean Flng? Eh, da un signor nessuno mondiale del gas Lng, cioè proprio da Macri, ma la rinominiamo Tango Flng, giusto per smussare un po’ le figurette di cacca del passato. E giù a ingoiare magoni, loro e il loro servetto Verhofstadt. Insomma, quello che doveva essere per i padroni di Verhofstadt l’inizio di un business multi-milionario nel 2016, finisce a far da carretta per il mediocre business dell’Lng in Argentina, mentre è proprio l’Italia che ostacola l’appoggio dell’infame Ue al golpe americano in Venezuela che avrebbe aperto ogni singolo rubinetto di petrolio e gas Lng agli Usa e ai Verhofstadt-Exmar-Bruxelles per mano del cagnolino di Washington, Juan Guaidò. Poi Salvini che strizza l’occhio a Putin, quello dei due mega-calci in culo alla Exmar e al suo prezzolato Verhofstadt… dai, le ulcere di sti belgi non hanno retto. Non so se serve sapere altro. Non credo. Ora sapete che significava il bau-bau di ’sto cane da guinzaglio. Poi, lo ribadisco, Conte non Conta in effetti una mazza, ma con ’sta storia i burattini non c’entrano proprio per nulla.(Paolo Barnard, “A Verhofstadt è partito l’embolo di Lng, il ‘burattino’ Conte non c’entra”, dal blog di Barnard del 15 febbraio 2019).Non so se qualcun altro l’ha già scritto. La ragione del rabbioso attacco di Verhofstadt a Conte sta esattamente nelle sue parole dal minuto 0:34 al minuto 1:04 qui, ed è un embolo di gas Lng, piuttosto raro fra gli umani, ma non fra quelli come lui. Roba da tanti, ma tanti soldi. Al belga sono rimasti piantati a metà trachea il Venezuela e Putin, e soprattutto la mite posizione italiana su di essi. Per questo ci odia, e, ancor più di lui, ci odia la Exmar, che come avrete di certo letto sui giornali è la corporation navale belga che gli paga le parcelle mentre ’sto lobbista siede a fare il parlamentare europeo. Una storia multimiliardaria di Lng (gas naturale liquefatto), le cui maggiori comparse sono: un incontro dell’ottobre 2017 fra Putin e l’iraniano colosso petrolifero Nioc; un contratto andato in malora l’anno precedente fra la Exmar e la canadese Pacific Exploration & Production Corporation in Colombia; la Carribean Flng, che è la mega-chiatta per la lavorazione e il trasporto del Lng strapagata dalla Exmar, che oltretutto se la fece recapitare dalla Cina con l’ambizione di farci una montagna di soldi, ma rimasta piantata ad arrugginirsi per via dei sopraccitato contratto andato a vuoto e anche di un secondo contratto andato a puttane, poi graziata all’ultimo dall’odierno arcinemico latino americano del Venezuela, cioè il presidente argentino Macri; l’Eni che si lavora il Lng di Maduro mentre i belgi della Exmar schiumano alla bocca per vederlo morto.
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Della Luna: l’umanità ormai ridotta a merce da sostituire
Negli ultimi decenni si è accreditata e affermata l’idea che i fattori economico-finanziari siano la vera e ultima causa degli eventi, e che la scienza economico-finanziaria sia quella più di tutte in grado di spiegarli, di dettare le riforme e di individuare errori e rimedi. Questo convincimento deriva dal fatto che si è capito che, soprattutto nel mondo contemporaneo e globalizzato, la moneta (e non le ideologie e le religioni), è il motivatore universale, ossia il fattore che – nella sua forma positiva di profitto, di pagamento, e in quella negativa di indebitamento e downrating – induce la quasi totalità dei comportamenti e delle scelte sia dei singoli che delle organizzazioni (società commerciali, enti pubblici, governi). Quindi l’analisi, la comprensione e la previsione dei processi finanziari sembrano in grado di spiegare praticamente la totalità del divenire, e che nessun valore o risorsa possa prevalere o aggirare la finanza e i suoi mercati e sostituirsi ad essi nella direzione anche della politica, sicché a guidare le scelte pratiche del potere saranno sempre, ultimamente, obiettivi economici.Ma qui sta un errore di fondo: si perde di vista che la stessa struttura costante delle società – cioè la forma oligarchica – è superiore alla dimensione economica (palesemente deriva dal fatto che ogni nota organizzazione politica stabile si sostanzia in una distribuzione piramidale e specialistica del potere); inoltre, ci si dimentica che la moneta (la ricchezza finanziaria) è non il fine dei detentori del potere, bensì un mezzo che essi usano: il fine è il dominio di quanto più possibile della realtà, della società, delle sue risorse, del mondo, e il controllo del loro divenire (onde non sfugga di mano, non metta in pericolo la loro posizione dominante). Essendo l’economia-finanza un mezzo per un fine, quando un mezzo alternativo e più efficiente per assicurare quel fine diviene disponibile, essa viene sostituita con quest‘ultimo, come i cavalli come mezzo di trasporto sono stati sostituiti dai veicoli a motore.Ed è ciò che sta avvenendo, da quando per il fine della gestione della popolazione ora sono disponibili strumenti biofisici e informatici più efficienti di quelli finanziari: strumenti di controllo dei singoli, delle masse, dell’informazione, della stessa atmosfera e del clima, che fino a pochi decenni fa erano immaginabili soltanto nella fantascienza. Per giunta l’utilità della stessa popolazione, della società da controllare, è venuta ampiamente meno, siccome, come si spiegherà sotto, i popoli, dopo essere divenuti superflui come masse di combattenti e di cives, ora sono divenuti superflui anche come massa di lavoratori-consumatori – non hanno più un uso, sono obsoleti. Per queste ragioni, sbagliano coloro che credono di poter comprendere e risolvere i mali attuali (recessione, disoccupazione, svuotamento della politica, concentrazione della ricchezza e del potere con diffusione della povertà e dell’impotenza, esaurimento delle risorse planetarie) elaborando e proponendo rimedi e riforme sul piano economico, politico, giuridico.Sbagliano perché non tengono conto di quanto sopra. I loro sforzi sono fallaci e impotenti. Nella ormai esaurita fase storica dell’economia incentrata sulla produzione e sul consumo di beni e sul profitto come principalmente derivante da tale ciclo, all’uomo e al popolo è stata fatta in modo molto graduale assumere pienamente la forma-merce, ossia diventare pienamente produttore e consumatore (e non più civis, polites), togliendogli ogni reale forza, funzione, indipendenza, dignità sociopolitica e culturale rispetto al capitalismo; e lo Stato, la polis o respublica, sul finire di questa fase, è stato sostituito dal mercato. Ciò affinché né il singolo, nella forma-civis, né lo Stato, nella forma-respublica interferissero, disturbandole, con le riforme utili per il capitalismo alla massimizzazione del profitto attraverso la continua espansione e razionalizzazione quel ciclo di produzione-consumo, in ambito nazionale e internazionale. Questa fase storica dell’economia è stata gradita e accettata dalle miopi masse opportunamente stimolate perché, con la sua espansione dei consumi, nel breve, termine comportava un ampliamento del loro benessere materiale, delle loro gratificazioni.Dopo aver perfezionato la riduzione del civis a forma-merce e della respublica a forma-mercato, l’attuale fase storica, quella dell’economia finanziarizzata, oramai vede il grosso dei profitti venire da processi finanziari in cui la componente ‘produzione’ richiede pochissimi addetti e la componente ‘consumo’ è modesta e immateriale (non vi è bisogno di produrre e vendere beni reali, se ci si può arricchire producendo e collocando simboli di valori, e facendo correre dietro di essi sia i privati che le imprese che i governi). Perciò le grandi masse di lavoratori e consumatori non servono più, come non serve più la crescita dell’economia reale e del benessere della popolazione generale; e su questo punto, sulla gestione delle quantità di esseri umani che non servono ormai più nemmeno come forma-merce, anche perché soppiantati dall’automazione e dell’intelligenza artificiale, questa fase è già da tempo entrata in un processo di trasformazione globale dell’ordine delle cose. Il famigerato Nwo parte dal dato di fatto che la finanziarizzazione dell’economia (assieme alle tecnologie) ha reso superflue le masse e intercambiabili i popoli. E che quindi bisogna trovare una ‘sistemazione’ per loro.(Marco Della Luna, “L’obsolescenza degli uomini-merce”, dal blog di Della Luna del 10 febbraio 2019. L’articolo – precisa l’autore – è in continuazione col tema del precedente, “Progresso zootecnico e falsi vaccini”, ossia col dato di fatto che per le oligarchie dominanti la popolazione generale è un mezzo (come il bestiame per l’allevatore) e non un fine (come i figli per i genitori), e che tener presente questo fatto è indispensabile per capire l’ordinamento, il funzionamento e il divenire della società).Negli ultimi decenni si è accreditata e affermata l’idea che i fattori economico-finanziari siano la vera e ultima causa degli eventi, e che la scienza economico-finanziaria sia quella più di tutte in grado di spiegarli, di dettare le riforme e di individuare errori e rimedi. Questo convincimento deriva dal fatto che si è capito che, soprattutto nel mondo contemporaneo e globalizzato, la moneta (e non le ideologie e le religioni), è il motivatore universale, ossia il fattore che – nella sua forma positiva di profitto, di pagamento, e in quella negativa di indebitamento e downrating – induce la quasi totalità dei comportamenti e delle scelte sia dei singoli che delle organizzazioni (società commerciali, enti pubblici, governi). Quindi l’analisi, la comprensione e la previsione dei processi finanziari sembrano in grado di spiegare praticamente la totalità del divenire, e che nessun valore o risorsa possa prevalere o aggirare la finanza e i suoi mercati e sostituirsi ad essi nella direzione anche della politica, sicché a guidare le scelte pratiche del potere saranno sempre, ultimamente, obiettivi economici.
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Gli Usa vogliono il Venezuela, ma il popolo (86%) si oppone
La Guerra Fredda 2.0 ha fatto scalo in Sudamerica. Gli Stati Uniti e i loro soliti vassalli si trovano di fronte ai quattro pilastri dell’integrazione eurasiatica in corso: Cina, Iran, Russia e Turchia. È sì una questione di petrolio, ma non solo. Caracas ha commesso un peccato capitale agli occhi dei neocon; scambiare petrolio bypassando il dollaro Usa e i mercati controllati dagli Stati Uniti. Ricordate cos’è successo in Iraq? Ricordate cos’è successo in Libia? Eppure anche l’Iran sta facendo lo stesso. E così la Turchia. La Russia – perlomeno in parte – è sulla strada. E la Cina finirà per scambiare tutte le proprie fonti energetiche in petroyuan. Già lo scorso anno l’amministrazione Trump aveva sanzionato Caracas, dopo che il Venezuela aveva adottato la petro cripto-valuta ed il bolivar sovrano, escludendola dal sistema finanziario internazionale. Non c’è da stupirsi che Caracas sia sostenuta da Cina, Iran e Russia. Sono loro la vera Troika – e non la ridicola “troika tirannica”, così definita da John Bolton – che combatte contro la strategia di dominio energetico del governo Usa , che essenzialmente consiste nel continuare per sempre a scambiare petrolio in petrodollari.Il Venezuela è un ingranaggio-chiave nella macchina. Lo psico-assassino Bolton l’ha pubblicamente ammesso: «Farebbe tutta la differenza del mondo se le nostre compagnie potessero investire in Venezuela e sfruttarne le capacità petrolifere». Non si tratta solo di lasciare che la Exxon prenda il controllo delle enormi riserve di petrolio venezuelane, le più grandi del pianeta. La chiave è monopolizzare il loro sfruttamento in dollari Usa, a beneficio dei miliardari del cartello Big Oil. Ancora una volta, quel che è in gioco è la maledizione delle risorse naturali. Il Venezuela non deve poter trarre profitto dalla propria ricchezza alle condizioni che vuole; i promotori dell’eccezionalismo americano hanno quindi stabilito che lo Stato venezuelano debba essere distrutto. Alla fine, è tutta una questione di guerra economica. Vedasi l’imposizione da parte del Dipartimento del Tesoro di nuove sanzioni alla Pdvsa, che de facto equivalgono a un embargo petrolifero contro il Venezuela.È oramai appurato che quanto accaduto a Caracas non sia stata una rivoluzione colorata, ma un “regime change” promosso dagli Usa. Si è tentato di sfruttare le locali élite di “comprador” per installare come “presidente ad interim” un personaggio sconosciuto, Juan Guaidó, col suo look mansueto che, un po’ come Obama, in realtà maschera un animo da estrema destra. Tutti ricordano “Assad deve andarsene”. Il primo stadio della rivoluzione colorata siriana fu l’istigazione alla guerra civile, seguita da una guerra per procura tramite mercenari jihadisti da tutto il mondo. Come notato da Thierry Meyssan, il ruolo della Lega Araba viene ora recitato dall’Oas. E quello di Friends of Syria – ora gettato nella spazzatura della storia – dal Gruppo di Lima, il club dei vassalli di Washington. Al posto dei “ribelli moderati” di al-Nusra, potremmo avere mercenari “ribelli moderati” colombiani – o di varia estrazione ma addestrati negli Emirati.Contrariamente a quanto dicono i media mainstream occidentali, le ultime elezioni in Venezuela sono state assolutamente legittime. Non c’era modo di manomettere le macchine per il voto elettronico, made in Taiwan. Il Partito Socialista salito al potere ha ottenuto il 70% dei voti. Una rigorosa delegazione del Consiglio degli Esperti Elettorali dell’America Latina (Ceela) è stata chiara: l’elezione ha rispecchiato «in modo trasparente la volontà dei cittadini venezuelani». L’embargo americano è sicuramente maligno. Bisogna però anche ammettere che il governo Maduro è stato abbastanza incompetente nel non diversificare l’economia e nel non investire nell’autosufficienza alimentare. Rilevanti importatori di cibo, speculando come se non ci fosse un domani, stanno facendo una fortuna. Fonti attendibili a Caracas dicono tuttavia che i barrios – i quartieri popolari – al momento rimangono in gran parte pacifici.In un paese dove un pieno di benzina costa meno di una lattina di Coca-Cola, non v’è dubbio alcuno che sia stata la cronica penuria di cibo e medicinali ad aver costretto almeno due milioni di persone a lasciare il Venezuela. Il fattore chiave dell’offensiva è stato però l’embargo statunitense. Alfred de Zayas, l’inviato Onu in Venezuela, esperto di diritto internazionale ed ex segretario del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, va dritto al punto: più che attaccare Maduro, Washington sta conducendo una “guerra economica” contro un’intera nazione. È illuminante vedere come il “popolo venezuelano” consideri la situazione. In un sondaggio condotto da Hinterlaces ancor prima del golpe, l’86% dei cittadini aveva dichiarato di essere contrario a qualsiasi tipo di intervento Usa, militare o di altro tipo. E l’81% dei venezuelani ha dichiarato di essere contrario alle sanzioni statunitensi. Ne hanno abbastanza di “benigne” interferenze straniere a favore di “democrazia” e “diritti umani”.Le analisi di acuti osservatori come Eva Golinger, e soprattutto il collettivo Mision Verdad, sono estremamente utili. Quel che è certo, in puro stile Impero del Caos, è che il fine americano, al di là di embargo e sabotaggio, è quello di fomentare la guerra civile. Instabili “gruppi armati” sono stati attivati nei barrios di Caracas, agendo nel cuore della notte ed amplificando i “disordini” sui social media. Eppure Guaidó non ha assolutamente alcun tipo di potere all’interno del paese. La sua unica possibilità di successo è riuscire a installare un governo parallelo – incassando le entrate petrolifere e facendo in modo che Washington arresti i membri del governo con pretestuose accuse. Indipendentemente dai sogni bagnati dei neocon, i tipi al Pentagono dovrebbero sapere che un’invasione del Venezuela potrebbe sfociare in un pantano in stile Vietnam. L’uomo forte brasiliano in attesa, il vicepresidente e generale in pensione Hamilton Mourao, ha già detto che non ci sarà alcun intervento militare.L’ormai famigerato foglietto dello psicopatico assassino Bolton con su scritto “5.000 truppe in Colombia” è uno scherzo; non avrebbero alcuna chance contro i 15.000 cubani responsabili della sicurezza del governo Maduro; i cubani nel corso della storia hanno dimostrato che non sono molto inclini a cedere il potere. Dipende tutto da cosa faranno Cina e Russia. La prima è la maggior creditrice del Venezuela. Maduro è stato ricevuto lo scorso anno da Xi Jinping a Pechino, dal quale ha ricevuto ulteriori 5 miliardi di prestiti, in dollari, e col quale ha firmato almeno 20 accordi bilaterali. Putin gli ha invece offerto il proprio pieno sostegno al telefono, sottolineando che «le distruttive interferenze dall’estero violano palesemente le norme basilari del diritto internazionale». A gennaio 2016, il petrolio si attestava a 35 dollari al barile, un disastro per le casse del Venezuela. Maduro ha allora deciso di trasferire alla russa Rosneft il 49,9% della partecipazione statale in Citgo, sussidiaria americana di Pdvsa, per un semplice prestito di 1,5 miliardi.Non ci poteva essere notizia peggiore per Washington: i “cattivi” russi erano ora entrati in possesso di parte del principale asset del Venezuela. Alla fine dello scorso anno, bisognoso di ulteriori fondi, Maduro ha aperto alle compagnie minerarie russe l’estrazione dell’oro nel proprio paese. E non solo oro; alluminio, bauxite, diamanti, minerale di ferro, nichel, tutti ambìti da Russia, Cina e Stati Uniti. Per quanto riguarda l’oro venezuelano in mano alla Banca d’Inghilterra (1,3 miliardi di dollari) le possibilità di rimpatriarlo sono zero. E poi, lo scorso dicembre, è arrivata la goccia che ha fatto traboccare il vaso del Deep State; il volo amichevole di due bombardieri russi Tu-160 con capacità nucleari. Come osano? Nel nostro cortile?La strategia energetica dell’amministrazione Trump potrebbe implicare l’annessione del Venezuela ad un cartello parallelo di “Paesi Nord-Sud Americani per l’Esportazione di Petrolio” (Nasapec), in grado di rivaleggiare con l’alleanza Russia-Casa di Saud. Se anche ciò si realizzasse, e aggiungendo una possibile alleanza congiunta tra Stati Uniti e Qatar (basata su gas naturale liquefatto), non vi è però alcuna garanzia che sarebbe sufficiente ad assicurare ai petrodollari – e al petrogas – preminenza nel lungo periodo. L’integrazione energetica dell’Eurasia aggirerà il petrodollaro; questo il cuore della strategia di Brics e Sco. Da Nord Stream 2 a Turk Stream, la Russia vuole siglare una partnership energetica a lungo termine con l’Europa. E il dominio petroyuan è solo una questione di tempo. Mosca lo sa. Anche Ankara, Riyadh, Tehran lo sanno. Che ne dite allora del piano B, cari neocon? Siete pronti per il vostro Vietnam in salsa tropicale?(Pepe Escobar, “Venezuela, come stanno realmente le cose”, da “Information Clearing House” del 5 febbraio 2019; articolo tradotto da “Hmg” per “Come Don Chisciotte”).La Guerra Fredda 2.0 ha fatto scalo in Sudamerica. Gli Stati Uniti e i loro soliti vassalli si trovano di fronte ai quattro pilastri dell’integrazione eurasiatica in corso: Cina, Iran, Russia e Turchia. È sì una questione di petrolio, ma non solo. Caracas ha commesso un peccato capitale agli occhi dei neocon; scambiare petrolio bypassando il dollaro Usa e i mercati controllati dagli Stati Uniti. Ricordate cos’è successo in Iraq? Ricordate cos’è successo in Libia? Eppure anche l’Iran sta facendo lo stesso. E così la Turchia. La Russia – perlomeno in parte – è sulla strada. E la Cina finirà per scambiare tutte le proprie fonti energetiche in petroyuan. Già lo scorso anno l’amministrazione Trump aveva sanzionato Caracas, dopo che il Venezuela aveva adottato la petro cripto-valuta ed il bolivar sovrano, escludendola dal sistema finanziario internazionale. Non c’è da stupirsi che Caracas sia sostenuta da Cina, Iran e Russia. Sono loro la vera Troika – e non la ridicola “troika tirannica”, così definita da John Bolton – che combatte contro la strategia di dominio energetico del governo Usa , che essenzialmente consiste nel continuare per sempre a scambiare petrolio in petrodollari.
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Galloni: follia, invadere il Venezuela. Come salvare il paese
Scortatevi che sia ammissibile o in qualche modo giustificabile un intervento armato, da parte degli Usa o dei suoi satelliti, per abbattere il regime venezuelano di Nicolas Maduro. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale esamina la catastrofica situazione del paese caraibico, disegnando però anche una via d’uscita. «Dal punto di vista politico – premette Galloni – nessuna ingerenza negli affari interni di un paese risulta giustificata o foriera di miglioramenti». Ammesso che nel peggiore dei casi, a Caracas, si possa arrivare al bagno di sangue della guerra civile, si sa che quest’ultima «risulterà ben più lunga e sanguinosa, in funzione degli interventi esterni». Se il governo venezuelano venisse rovesciato la milizie straniere, il costo umano dello scontro sarebbe infinitamente più drammatico. «Il caso Libia docet: Gheddafi era un dittatore, ma gli eventi connessi alla sua caduta ce lo hanno fatto rimpiangere non poco». Perché dunque ritentare, in Venezuela, un’analoga follia sanguinosa?In generale, sintetizza Galloni, gli Stati forti – importatori di materie prime – si sono spesso avvalsi della destabilizzazione dei paesi esportatori. E’ comodo, scatenare il caos negli Stati da cui provengono materie prime e semilavorati: serve a ottenere prezzi più bassi. «Il caso emblematico è la Repubblica Democratica del Congo, ma gli esempi abbondano anche nel corso della storia “post-coloniale”». Un copione che si ripete: l’instabilità politica colpisce sempre i paesi ricchi di risorse. Finiscono immancabilmente nei guai, e così vengono costretti a svendere i loro tesori. E’ quanto potrebbe accadere anche alla repubblica “bolivariana” di Chavez e Maduro: «Dal punto di vista economico – chiarisce Galloni – il Venezuela dovrebbe pensare alla raffinazione del suo petrolio, allo scopo di trattenere valore aggiunto». La vera ricchezza delle nazioni, infatti, «consiste nella trasformazione, non nella presenza di oro, argento e materie prime». E’ evidente: il prodotto grezzo costa meno, ed espone il paese detentore al prevedibile ricatto degli acquirenti-trasformatori.Un paese che deve importare tutto (a parte qualche materia prima alimentare), non può emettere moneta statale “non a debito”, neppure se basata sulla garanzia delle materie prime di cui dispone, le sue immense ricchezze naturali. Al contrario, sostiene Galloni, occorre stimolare assolutamente la produzione locale di beni, per ridurre drasticamente le importazioni di prodotti finiti, generalmente troppo costosi in rapporto ai salari locali. Vale anche per il Venezuela: se rimettesse in piedi la propria economia, potrebbe ricominciare a produrre in proprio i beni essenziali, a costi accettabili (dati i salari venezuelani). E in questo modo metterebbe fine all’autentico salasso rappresentato ormai dalla necessità di importare dall’estero praticamente tutto, fuorché il greggio. Se esistesse una vera comunità internazionale non predatoria, la soluzione sarebbe perfettamente alla portata. Basterebbero due semplici passi: il supporto diretto all’industria locale e il ricorso a una moneta parallela, fiduciaria, emessa dallo Stato ma non convertibile in altre valute.Questa exit-strategy, secondo Galloni, si agevola in due modi. Intanto, attraverso una vera cooperazione internazionale «finalizzata al miglioramento delle condizioni di vita dei paesi deboli affinchè si dotino di industrie adeguate». E nel frattempo, mediante «la emissione di moneta “povera”». Esempio: «In cambio di nuovi beni, ai produttori lo Stato fornisce mezzi monetari di tipo fiduciario». Aziende e lavoratori possono così usare la “moneta di Stato” per acquistare beni primari, sempre prodotti nel paese. Riducendo le importazioni, continua Galloni, l’economia comincerebbe a riprendersi in modo automatico. «Quando il doppio effetto del maggior valore aggiunto derivante dall’approntamento di prodotti industriali finiti e di adeguata produzione di base avrà cominciato a cambiare le cose – conclude – lo Stato potrà cominciare ad emettere la moneta sovrana non a debito, con cui si pagheranno le tasse (ovvero gli stipendi dei funzionari pubblici)». Questo, aggiunge Galloni, sarebbe possibile appena la produzione di base avrà raggiunto un livello minimo. Prima, invece, «la moneta sovrana non varrebbe nulla», di fronte ad attività produttive inconsistenti. Esiste qualcuno, al mondo, con in mente un piano simile per salvare il Venezuela?Scordatevi che sia ammissibile o in qualche modo giustificabile un intervento armato, da parte degli Usa o dei suoi satelliti, per abbattere il regime venezuelano di Nicolas Maduro. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale esamina la catastrofica situazione del paese caraibico, disegnando però anche una via d’uscita. «Dal punto di vista politico – premette Galloni – nessuna ingerenza negli affari interni di un paese risulta giustificata o foriera di miglioramenti». Ammesso che nel peggiore dei casi, a Caracas, si possa arrivare al bagno di sangue della guerra civile, si sa che quest’ultima «risulterà ben più lunga e sanguinosa, in funzione degli interventi esterni». Se il governo venezuelano venisse rovesciato la milizie straniere, il costo umano dello scontro sarebbe infinitamente più drammatico. «Il caso Libia docet: Gheddafi era un dittatore, ma gli eventi connessi alla sua caduta ce lo hanno fatto rimpiangere non poco». Perché dunque ritentare, in Venezuela, un’analoga follia sanguinosa?
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Odiare lo straniero? Vecchi errori: Hitler lavora per l’élite
La globalizzazione ha travolto l’equilibrio del mondo. E non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello politico e morale. Lo sviluppo della scienza e della tecnica ha portato a così profondi mutamenti che, nel giro di pochi anni, le abitudini di vita e i rapporti fra le persone sono profondamente cambiati. Mestieri che da secoli venivano tramandati di padre in figlio sono spariti. I grandi centri commerciali fagocitano i negozi, scalzano i bottegai, e le grandi industrie scalzano i piccoli imprenditori, ridotti ormai quasi alla miseria dalle nuove macchine robotiche. Anche per i contadini questo sviluppo si è rivelato un boomerang: infatti questa agricoltura fortemente specializzata, e spesso addirittura in regime di monocultura, è totalmente dipendente dal fabbisogno dei pesticidi. Sì, proprio perché è cresciuta e si è modernizzata, ha portato alla perdita di posti di lavoro, mentre i guadagni sono quasi inesistenti. Per non parlare poi, ovviamente, dei danni che questo tipo di coltivazione produce all’ambiente. La verità è che questo modello economico, questo neoliberismo selvaggio, ha trasformato ogni manifestazione vitale in una sorta di parodia dell’incubo contabile. Con lavoratori che, ridotti a merci in concorrenza fra loro, sono costretti ad accettare spesso dei lavori disumanizzanti.Se si continua su questa strada, il tramonto dell’Occidente appare imminente. E non solo a causa della degenerazione interna: basta vedere in quali difficoltà si trovano oggi i nostri giovani. E come non vederlo, ad esempio, nel crollo demografico o nella degenerazione della nostra identità, della nostra civiltà europea, generata proprio da questa globalizzazione irresponsabile e predatoria. E non ci si accusi di catastrofismo, perché basta vedere e leggere cosa dicono e scrivono filosofi, sociologi, storici, medici, letterati e artisti. Ormai questo grido di dolore sale da ogni parte. Il denaro è divenuto il segno principale che classifica e distingue gli uomini. Il desiderio di arricchirsi ad ogni costo, la passione per gli affari, la verità del guadagno, la ricerca del benessere ad ogni costo paiono oggi, purtroppo, le passioni più comuni. Davanti a tanta alienazione, molti cercano rifugio nella natura, che vive spontanea e in qualche modo è in grado di farci ritrovare la strada, di farci riscoprire i veri valori. È in grado probabilmente di strapparci a questa follia, da cui siamo stati travolti. Una follia che corrompe e annienta.Perché la realtà è che questa grande trasformazione, questa globalizzazione, ha trovato le classi dirigenti assolutamente impreparate a fronteggiare le immense ineguaglianze che il nuovo modello economico sta causando nella popolazione. Con la conseguenza che la maggior parte delle misure prese in materia economica o finanziaria si sono rivelate delle vere e proprie catastrofi. Ad esempio, alla finanza – in mano a un gruppo di avidi, cinici e irresponsabili cosiddetti uomini d’affari – è stato permesso di lasciare sul lastrico migliaia di persone o di appropriarsi dei loro beni, lasciandole nella disperazione più totale o, molto più tragicamente, con la sola libertà di potersi suicidare. E tutto questo, guardate, è avvenuto con la complicità di un diritto astratto, freddo, distante dall’uomo e dalla società, dai problemi della società – in cui le norme, senza tenere in alcuna considerazione l’uomo, paiono piegate più alla volontà di pochi, e alla volontà di profitto di quei pochi. E se il diritto interno, nazionale, presenta evidenti criticità, il diritto internazionale, se vogliamo, è anche peggio: perché non è riuscito a limitare la violenza e l’avidità delle grandi potenze (che lo, lo vediamo, armate fino ai denti e sempre più impegnate a sviluppare armi micidiali e distruttive, si lanciano in guerra illegittime e si sfidano continuamente in azione di forza, in provocazioni).Questa è la situazione. E allora non ci si meravigli se, sopraffatto da queste forze, l’individuo, sentendosi impotente, reagisce. E reagisce in vari modi: molti purtroppo si suicidano, altri si lanciano in comportamenti eccentrici e stravaganti. Altri ancora rifiutano la globalizzazione, rifugiandosi in atteggiamenti nazional-patriottici, e altri ancora scelgono la via della violenza e del terrore. Infatti, uno dei tratti caratteristici di questa epoca è la paura dei terroristi: implacabili nemici della civiltà occidentale, già pronti e in agguato sul nostro territorio. Nessuno sa in realtà quanti terroristi siano attivi e quanto diffuse siano le loro reti. L’unica certezza è che purtroppo torneranno a colpire a loro discrezione, e la polizia pare non possa fare molto, per fermarli. Una situazione disastrosa, dunque, la nostra. Perché questa globalizzazione irresponsabile e predatoria ha fatto sì che i paesi deboli diventassero sempre più deboli e quelli più forti si rafforzassero ulteriormente. E guardate, non poteva essere altrimenti: perché alcune nazioni continuano ad appropriarsi delle risorse dei paesi del terzo mondo, e lo fanno nei modi più disparati, ad esempio avvalendosi di compagnie private, che predispongono in questi paesi contratti profondamente ingiusti, e si avvalgono dei mercenari (pardon, “sicurezza privata”), per garantire l’efficienza del mercato.Davanti a questo disastro, dunque, come sorprendersi se alcune nazioni, non trovando alcuna solidarietà da parte degli altri Stati, decidono di risolvere in proprio i problemi interni? E come? Ora inserendo i dazi, o chiudendo le frontiere. E non si parli di disumanità, per questo: sono le disastrose condizioni economiche a non permettere l’accoglienza. Sono i numeri, che non consentono l’accoglienza. Come poter integrare milioni di persone pronte ad arrivare nel nostro territorio? E poi, diciamocelo chiaramente: come poter integrare persone così differenti, per cultura e religione? Davanti a tante ingiustizie, davanti a tanta incertezza, la reazione era inevitabile. E l’Europa oggi si trova divisa in due schieramenti, tra loro opposti: l’alleanza dei popoli sfida apertamente quella dell’elite – quella élite “colta e preparata” sì, così preparata che non è stata in grado di porre un freno a questo disastro. E allora, forse, meglio il popolo: genuino, onesto, che conserva ancora quell’umanità che la finanza tanto irride e sfrutta. Meglio la nazione, quella per cui i nostri nonni sono morti. La nazione tradita e venduta da politici corrotti, da organismi sovranazionali ciechi, cinici e spietati. È finito il tempo dei mezzi termini, delle restrizioni mentali, di tutto ciò che è servilismo, di tutto ciò che è equivoco. Anche l’Italia deve pensare al proprio interesse, perché questo non è solo un diritto. È molto di più, è un dovere: il dovere di difendere la patria. Difenderla dai tecnici, e da tutti coloro che l’hanno trascinata in questo disastro.Bene. Tutto quello che vi ho detto sino ad ora riguarda l’oggi? Ho parlato della situazione odierna? No. Tutto quello che ho narrato sinora è avvenuto (e soprattutto, è stato detto) tra la fine del 1800 e la prima metà del 1900. Sorprendente, vero? Eppure, la globalizzazione – che alla fine dell’800 aveva travolto tutti i paesi europei – presenta profonde analogie con la situazione odierna. Infatti il balzo in avanti compiuto dalla globalizzazione del pianeta negli anni che precedettero il 1914 è paragonabile soltanto ai nuovi scenari mondiali che si sono aperti con la fine della guerra fredda. Perché dunque ho fatto questo video-intervento? Perché la storia insegna. E se la si conosce veramente, non a livello solo nozionistico, insegna a non ripetere gli stessi errori del passato, e soprattutto ci avverte dei pericoli. Nel secolo scorso, la politica interna e internazionale attuata dagli Stati per reagire alla globalizzazione a fine Ottocento, e quella straordinaria adesione popolare alla irresponsabile propaganda portata avanti da molti Stati, ha usato le stesse identiche parole. Quel tipo di politica attuata dagli Stati, e quel tipo di feroce propaganda, ci hanno portato due guerre mondiali.E allora, davanti a tutto ciò, davanti a questa consapevolezza, una domanda sorge spontanea: ma è mai possibile che noi si debba sempre commettere gli stessi errori? È mai possibile che si cada sempre nelle stesse identiche manipolazioni di una propaganda feroce e irresponsabile? Ma ancora di più: è possibile che gli errori commessi dai nostri nonni, e soprattutto il prezzo pagato in termini di dolore, di sangue, non ci abbiano insegnato nulla No, non è servito proprio a nulla. Non è servito, ad esempio, a non farci più ingannare da chi ha bisogno di nemici, dentro e fuori il paese, per accollare loro la responsabilità della propria incompetenza. Da chi evoca invasioni inesistenti e attacca i deboli perché è troppo debole per attaccare i forti. Da chi, come in passato, deve fare leva sulla propria frustrazione, sul risentimento della popolazione, per ottenere il consenso. È possibile che tutto quello che è accaduto non sia servito a comprendere tutto questo? Possibile che non sia servito a farci capire i meccanismi che usa la propaganda? E’ una propaganda feroce, che è sempre portata avanti da persone irresponsabili. E sempre nei periodi di caos, di confusione, di grande crisi. Le crisi economiche sono terreno estremamente fertile per questo tipo di propaganda. Perché è efficace. Perché quando gli individui tendono a perdere i loro punti di riferimento, una delle risposte più frequenti consiste nel ripiegarsi su quella che credono essere una identità comune, così da far fronte a una situazione che li disorienta.Guardate, è un meccanismo psicologico comune a tutti noi (e sfruttato infinite volte, nel passato). Questa pressione identitaria può diventare tanto più potente quando coloro che la incoraggiano, coloro che la usano per ottenere il potere, dispongono effettivamente di strumenti di potere. Perché a quel punto diviene azione politica da imporre alla società, alla società civile. Ma si tratta, ripeto – e su questo voglio essere molto chiara – di azioni irresponsabili, di persone irresponsabili che si servono del potere emozionale della identità per suscitare l’adesione del popolo. E dunque, conservare il potere (prima conquistarlo, e poi conservarlo). E’ una carta per manipolare le emozioni. E la usano indipendentemente dal fatto che si chiami nazionalismo, razzismo o appartenenza etnica. Queste persone ci sono sempre state – e sempre ci saranno: in ogni Stato e in ogni tempo. Ciò che però noi possiamo fare è impedire a questi irresponsabili – ripeto, sempre presenti in ogni Stato – di trascinarci in una marcia della follia. Basta, quindi, cadere sempre negli stessi inganni. Basta, commettere sempre gli stessi errori.Vi ho mostrato chiaramente come sia facile manipolare le emozioni, come sia facile alimentare la parte peggiore di noi con argomenti credibili ma non veri. E, sempre nella prima parte del mio intervento, vi ho mostrato come chi usa questo tipo di propaganda utilizzi sempre gli stessi meccanismi. È sempre dal caos, dei grandi periodi di crisi, che i manipolatori traggono la loro legittimità diventando i protettori del “noi”. Lo vediamo: noi italiani, noi francesi, noi ungheresi. Tutti fanno leva sulle stesse corde psico-affettive, che sono paura, risentimento e frustrazione. Sempre. Quando, poco fa, vi ho parlato degli immigrati, ho usato le stesse identiche argomentazioni che venivano usate contro gli ebrei – le stesse identiche: per rendervene conto, basta leggere il libro “Le origini culturali del Terzo Reich”. Ho ripetuto gli stessi slogan e, in alcuni punti, addirittura le stesse parole usate da Mussolini. È così che funziona la propaganda: ci illude e ci manipola fino alla fine, fino alle estreme conseguenze. Ora però sta a noi, conosciuti i meccanismi di condizionamento, evitare di venire ancora una volta trascinati nel sospetto, nell’odio, nella violenza. Perché, ricordiamocelo sempre, esiste sempre una soglia: superata la quale, va preso atto che è il nostro stesso agire, e non solo quello altrui, che ci minaccia.(Solange Manfredi, “Gli stessi errori”, video-editoriale pubblicato sul blog “Petali di Loto” il 3 febbraio 2019. Bibliografia: “Discorsi di Benito Mussolini dal 1914 al 1945” edizione Kindle; Wilhelm Reich, “Psicologia di massa del fascismo”, Kkien Pub. Int.; George Mosse, “Le origini culturali del Terzo Reich”, Il Saggiatore; Margaret MacMillan, “1914: come la luce si spense sul mondo di ieri”, Rizzoli; Emile Durkheim, “Il suicidio. Studio di sociologia”, Rizzoli; Simona Colarizi, “Novecento d’Europa: l’illusione, l’odio, la speranza, l’incertezza”, Laterza; Jacques Semelin, “Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi”, Einaudi).La globalizzazione ha travolto l’equilibrio del mondo. E non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello politico e morale. Lo sviluppo della scienza e della tecnica ha portato a così profondi mutamenti che, nel giro di pochi anni, le abitudini di vita e i rapporti fra le persone sono profondamente cambiati. Mestieri che da secoli venivano tramandati di padre in figlio sono spariti. I grandi centri commerciali fagocitano i negozi, scalzano i bottegai, e le grandi industrie scalzano i piccoli imprenditori, ridotti ormai quasi alla miseria dalle nuove macchine robotiche. Anche per i contadini questo sviluppo si è rivelato un boomerang: infatti questa agricoltura fortemente specializzata, e spesso addirittura in regime di monocultura, è totalmente dipendente dal fabbisogno dei pesticidi. Sì, proprio perché è cresciuta e si è modernizzata, ha portato alla perdita di posti di lavoro, mentre i guadagni sono quasi inesistenti. Per non parlare poi, ovviamente, dei danni che questo tipo di coltivazione produce all’ambiente. La verità è che questo modello economico, questo neoliberismo selvaggio, ha trasformato ogni manifestazione vitale in una sorta di parodia dell’incubo contabile. Con lavoratori che, ridotti a merci in concorrenza fra loro, sono costretti ad accettare spesso dei lavori disumanizzanti.
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Chavez fu ucciso, ma ora è Maduro a uccidere il Venezuela
Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il Pil è franato, togliendo al paese la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.Rifiutarsi di leggere con lucidità la storia recente del Venezuela, scrive Angiuli nella sua accurata ricostruzione, significa innanzitutto fare un torto ai venezuelani, oggi alla fame. Un affronto alla memoria dello stesso Chavez, strenuo difensore del suo popolo. E’ stato grande, Chavez, ma inevitabilmente imperfetto: proprio i suoi errori ottici, secondo Angiuli, hanno creato le premesse di una crisi spaventosa, che oggi – senza più il carisma e l’onestà di fondo del leader – stanno mettendo in pericolo il Venezuela. Il paese perde milioni di cittadini, ridotti a profughi. Mancano cibo e medicinali, e c’è anche il rischio concreto che le sue frontiere vengano violate da un intervento militare ispirato dagli Usa e condotto da paesi come la Colombia e l’inquietante Brasile di Bolsonaro. La domanda che sfugge, nel derby delle opposte tifoserie italiane ed europee, è la seguente: com’è possibile che sia finito nella disperazione di massa uno dei paesi virtualmente più ricchi del mondo? Quella del Venezuela è considerata la prima riserva petrolifera del pianeta: e da parte degli Usa, certamente ostili al regime chiavista, non c’è però mai stato nessun embargo del greggio venezuelano. Al contrario: proprio grazie all’export dell’oro nero, a Caracas negli ultimi vent’anni sono circolati fiumi di petrodollari. Che fine hanno fatto?All’inizio, miliardi di dollari sono serviti a finanziare il grandioso welfare ideato da Chavez per allievare le storiche sofferenze dei poveri. Ma non un soldo è stato investito nell’economia non-petrolifera. In compenso, grazie al controllo centralizzato della gestione dei cambi, è fiorito il contrabbando di valuta estera. E oggi si mangia acquistando alla borsa nera i generi alimentari che i gerarchi di Maduro – che controllano i petrodollari – fanno sparire all’ingresso del paese, prima che possano raggiungere i supermercati, dove i prezzi sarebbero calmierati per legge. Ma l’attuale tragedia del Venezuela – umanitaria, sociale, politica – non può impedire di guardare col necessario distacco (e col rispetto che merita) a quello che è stato il più clamoroso fenomeno sudamericano degli ultimi decenni: la “rivoluzione bolivariana” di Chavez, per 14 anni alla guida del paese caraibico. Un quasi-capolavoro, fondato su una scommessa di tipo socialista: nazionalizzare il petrolio per finanziare grandiosi programmi di assistenza e liberare la popolazione della piaga cronica della povertà, generata dallo spietato sfruttamento delle multinazionali occidentali.Nella sua meticolosa ricostruzione sulla crisi venezuelana pubblicata da “L’Intellettuale Dissidente”, Angiuli scrive che la morte di Chavez, nel marzo 2013, è «quasi certamente avvenuta per avvelenamento radioattivo, messo in atto da non ben identificati servizi segreti di qualche paese nemico». Magari gli Usa, che a Chavez non avevano mai perdonato il coraggio e l’indipendenza politica. O qualche entità sudamericana allineata alla Dottrina Monroe, secondo cui l’America Latina deve restare sottomessa a Washington. Il Venezuela di Chavez – poi letteralmente tradito da Maduro – ha rappresentato una grande speranza per tutto il Sud del mondo. Ma sarebbe sbagliato trasformarlo in un culto, osserva Angiuli: perché Chavez ha commesso l’errore (fatale) di basare il riscatto economico nazionale solo sul petrolio, mortificando l’industria e l’agricoltura. Ancora oggi, ridotto alla fame, il Venezuela continua a dividere: da una parte le destre neoliberiste che hanno sempre criminalizzato il chavismo fin dall’inizio, e dall’altra la vecchia sinistra terzomondista, che arriva a perdonare un dittatore come Maduro pur di non ammettere i gravi errori della politica venezuelana, che hanno messo nei guai il paese ben prima che scattasse l’accerchiamento geopolitico neoliberista che ha isolato il governo di Caracas.Il pensiero unico mainstream «tende a demonizzare alla radice l’intera vicenda del socialismo venezuelano, relegandola nell’ambito del caudillismo alla sudamericana». Per contro, gli epigoni delle residuali correnti marxiste-leniniste si erano illusi di poter finalmente riscattare, in Venezuela, «la tragica sconfitta del comunismo novecentesco», seppellito dalle macerie del Muro di Berlino. All’intera vicenda del “socialismo bolivariano” inaugurato da Hugo Chavez, Angiuli ammette di essersi accostato con emozione, sperando di trovarvi «un nuovo laboratorio politico capace di ripensare l’idea stessa e la pratica del socialismo». Angiuli è stato spesso in Venezuela, a stretto contatto con la società e con gli ambienti filogovernativi. Dopo l’entusiasmo, però, è subentrata l’amara disillusione. Beninteso: a prescindere dall’orrendo regime militare di Maduro, «resta in ogni caso intangibile – precisa Angiuli, a scanso di equivoci – il diritto del popolo venezuelano di costruire il suo futuro in condizioni di libertà, sovranità e autonomia rispetto a qualsiasi intervento di destabilizzazione esterna, a cominciare dalle esplicite minacce di invasione che ultimamente provengono dai governi dell’ultradestra insediatisi al potere delle nazioni vicine, con lo scontato supporto degli Usa che da sempre considerano quella parte del mondo come il proprio cortile di casa».Detto questo, ammette Angiuli, «è triste giungere alla conclusione di dover affermare che il socialismo venezuelano ha purtroppo tradito una buona parte dei suoi propositi, e oggi non può più costituire un modello positivo di giustizia e di benessere per i popoli oppressi di tutto il mondo». Cionondimeno, il “bolivarismo” di Chavez era partito con le migliori intenzioni. Analizzarne i difetti è indispensabile: provare a capire «cosa non ha funzionato in Venezuela» è fondamentale, per tentare di spiegarsi la drammatica situazione in cui oggi versa il paese che dette i natali al “libertador” Simon Bolivar, «un personaggio passato alla storia quale nemico giurato del colonialismo ispanico». Anche Hugo Chavez ha fatto la storia: la sua presa del potere a Caracas, a cavallo tra il 1998 e il 1999, ha simboleggiato per l’intero continente di Neruda e Garcia Marquez «la più grande sfida di discontinuità storico-politica rispetto alla lunga notte neoliberista, vissuta per alcuni decenni dall’America Latina». Micidiali le dittature militari filo-Usa degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Per questo, è naturale che il chavismo abbia suscitato «una grande ondata di legittime speranze fra tutti i popoli».Ex ufficiale paracadutista dell’esercito venezuelano, tradizionalmente “popolare” anche nei suoi ranghi più alti, Hugo Chavez – autore di un fallito tentativo di colpo di Stato del 1992 ai danni dell’allora presidente in carica Carlos Andres Perez – era riuscito in pochi anni a far coagulare attorno a sé «i migliori sentimenti e le aspirazioni di riscatto delle fasce sociali medio-basse del suo paese, fino a quel momento escluse dal godimento dei profitti della “Venezuela Saudita”». L’ideologia di Chavez? Un mix originale e composito, «che attinge tanto al panamericanismo di Simon Bolivar quanto all’umanesimo socialista di ispirazione massonica caro a Giuseppe Garibaldi e a Salvador Allende». Innegabili le influenze esercitate dal pensiero di Antonio Gramsci e dalla prassi rivoluzionaria di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro. «Cuba rivoluzionaria, la piccola isola che da decenni resiste ad un crudele embargo degli Usa, per Chavez costituiva un esempio di dignità e un prototipo da emulare, soprattutto sotto il profilo dell’indipendenza nazionale e della lotta all’imperialismo a stelle e strisce». E proprio a partire dagli accordi di mutua assistenza con la Cuba di Fidel – petrolio in cambio di medici – Hugo Chavez, appena insediatosi alla presidenza, iniziò a «costruire sapientemente il suo modello di integrazione politica latinoamericana attorno ai principi generali di cooperazione, equità e solidarietà».Lo stesso Che Guevara, nei suoi scritti, aveva ben individuato la “maledizione” dei paesi dell’America Latina, «storicamente condannati a programmare le loro economie non in base ai propri bisogni interni, bensì in rapporto agli appetiti famelici dei loro paesi dominanti». Fin dall’epoca del colonialismo ispano-portoghese, gli europei avevano imposto a quei territori un modello “rentista” o monoculturale, «tutto basato sull’estrazione a costo zero di materie prime»: un “prelievo forzoso” grazie a cui sarebbero state edificate le basi dell’impero industriale e capitalistico dell’Occidente. A partire dal suo esordio, ricorda Angiuli, «uno dei principali meriti politici di Hugo Chavez è stato quello di sottrarre il controllo dell’oro nero del Venezuela a quella ristretta borghesia “compradora” fortemente compromessa col capitalismo a stelle e strisce». Una borghesia che «per decenni, dopo essersi appropriata della rendita petrolifera, era stata abituata a delocalizzare sistematicamente i suoi profitti a Miami, umiliando il paese estrattore con delle infime royalties e con dei contratti-capestro». Fino a quel momento, gli immensi giacimenti petroliferi non avevano mai consentito al Venezuela di trarre risorse per investimenti sociali. A questo ha provveduto proprio Chavez, all’inizio del suo mandato, con una nossa clamorosa: nazionalizzare la compagnia petrolifera Pdvsa, per poi tenere alto il prezzo del greggio premendo sull’Opec – insieme all’Iraq di Saddam e alla Libia di Gheddafi – al fine di contenere i volumi di estrazione.Destinare la rendita petrolifera alla spesa assistenziale finalizzata ad appianare le gravi diseguaglianze sociali del suo popolo – prosegue Angiuli – ha costituito indubbiamente l’atto più rivoluzionario compiuto da Hugo Chavez. Interventi imponenti, per garantire servizi sanitari anche nei “barrios” più poveri e alfabetizzare milioni di venezuelani, compresi i gruppi indigeni. Diritti: la nuova Costituzione varata da Chavez nel 1999 «contiene sulla carta alcuni principi inediti che possono fare da insegnamento anche alle democrazie più avanzate». E’ fondata su una netta separazione fra i poteri e contempla molteplici strumenti di democrazia diretta: c’è anche l’istituto del “referendum revocatorio”, che consente perfino di far dimettere il presidente a metà mandato, mediante una consultazione popolare indetta dal basso. La nuova Carta, poi, decreta l’intangibilità di Madre Natura quale soggetto titolare di diritti. E in più tutela l’identità etnoculturale delle comunità dei nativi amerindi, «facendosi così portatrice di un generale messaggio di rinascita dell’orgoglio indigeno», dopo secoli di sottomissione ai “conquistadores” e ai “gringos”.Il primo decennio del chavismo, riconosce Giuseppe Angiuli, è stato contrassegnato «da un risveglio delle coscienze del popolo venezuelano e da una straordinaria voglia di partecipare a riscrivere la storia del proprio paese da parte di milioni di persone, fino ad allora del tutto escluse dalla scena politica e incapaci perfino di intendere lo stesso concetto di cittadinanza». Solo gli osservatori più prevenuti, sottolinea l’analista, possono avere finto di non accorgersi della reale genuinità che ha connotato i primi anni del processo politico “bolivariano”, contraddistinti da un fermento rivoluzionario autentico, addirittura emozionante. E contro l’imperialismo mercantile “yankee”, Chavez s’è mosso anche a livello geopolitico: ha dato vita all’Alba (Alianza Bolivariana para los pueblos de nuestra America), reclutando Cuba, la Bolivia del leader sindacale Evo Morales, l’Ecuador dell’economista Rafael Correa, il Nicaragua sandinista, l’Honduras di Manuel Zelaya e vari piccoli Stati insulari caraibici. Checché ne dicessero i media occidentali, sottolinea Angiuli, il governo di Chavez – fino alla sua rielezione nel 2012 – è sempre stato largamente supportato dal popolo venezuelano. Ma oggi, ribadisce, il Venezuela non sarebbe in crisi nera, se lo stesso Chavez non avesse commesso clamorose ingenuità sul piano economico.Dopo aver distribuito soldi a pioggia per «contrastare la povertà più estrema di una parte significativa della popolazione», il chavismo ha mancato l’appuntamento con lo sviluppo, nonostante la felice congiuntura petrolifera, col prezzo del barile rimasto sopra gli 80 dollari fino al novembre 2014. Nonostante il fiume di valuta forte, piovuto su Caracas per almeno un decennio, il governo «non ha mai messo in campo alcuna seria misura per provare a debellare il vero cancro comune a tutti quei paesi la cui economia, come quella del Venezuela, si basa su un modello “rentista”», ovvero: «La dipendenza dalla estrazione della materia prima quale unica risorsa del proprio modello di sviluppo». Nonostante i tanti proclami, non è mai riuscito a diversificare le attività produttive: anzi, i governi chavisti hanno attuato «una massiccia politica di disincentivo al lavoro delle piccole e medie imprese», determinando così una contrazione drammatica del Pil, in quei settori, «con la conseguenza che la classe media è progressivamente scomparsa». Paradossale: «Oggi i venezuelani conducono in media un tenore di vita clamorosamente più basso di quello che si ricordi anche negli anni più bui della notte neoliberista dell’America Latina». E scontano «una diffusa scarsità di prodotti di prima necessità che oggi forse non si riscontra nemmeno a Cuba, paese ininterrottamente sotto embargo da più di mezzo secolo».Pessimo il bilancio dall’agricoltura: buona l’idea di una riforma agraria per smantellare i latifondi improduttivi. Ma poi è subentrata «una deriva ideologica di tipo estremistico velleitario, che ha condotto ad una espropriazione generalizzata delle terre anche di media dimensione». Terre assegnate «a improvvisate cooperative di lavoratori che non si sono mai realmente dimostrate all’altezza del loro compito», e con incarichi direzionali «troppo spesso affidati obbedendo unicamente a meri criteri di fedeltà politica». Risultato: la produzione agricola è crollata, ricorda Angiuli, persino per i più tipici prodotti alla base della dieta venezuelana: riso e farina di mais, frutta e verdura, polli d’allevamento, uova e caffè. Stessa sorte ha colpito l’industria: «Una analoga degenerazione demagogica del chavismo, nel segno del collettivismo spinto – scrive Angiuli – ha condotto negli anni a una diffusa e capillare occupazione delle fabbriche», da parte di «settori disinvolti delle forze armate». I militari, «arrogandosi il diritto di agire sempre e comunque nell’interesse del “pueblo” e contro l’odiata borghesia nazionale», si sono spesso impadroniti «con modalità arbitrarie e violente» dei mezzi di produzione, «lasciandoli cadere quasi sempre e molto presto in malora e facendo così crollare la produzione anche in quei settori nei quali – prima del chavismo – il Venezuela riusciva tranquillamente a soddisfare il suo fabbisogno interno, raggiungendo perfino l’obiettivo di esportare una discreta quantità di merci all’estero: ferro, acciaio, automobili, caffè».L’aspetto più inquietante di questo fallimento economico di dimensioni catastrofiche, scrive Angiuli, non risiede neppure nella pianificazione centralistica stile Urss e Cina maoista: il paradosso sta nella pessima gestione dell’oceano di petrodollari. Fino al 2013, il petrolio rappresentava ancora il 95% dell’export. Anziché sfruttare quell’enorme massa di denaro per rendere il Venezuela più autonomo economicamente, i governi socialisti «hanno finito per accentuare oltre ogni limite il tradizionale carattere “rentista” dell’economia venezuelana, legandone le sorti in modo irreversibile alla ciclicità dell’andamento del prezzo degli idrocarburi». Gli effetti di questa politica sono esplosi a partire dal 2015, con il crollo della quotazione del greggio: di colpo, il Venezuela ha incassato meno soldi, sia per il welfare che per pagare l’enorme volume di importazioni, cresciuto negli anni col progressivo calo della produzione interna di beni primari. Risultato: «La scarsità di prodotti sugli scaffali dei supermercati si è manifestata in modo crescente e irrimediabile». Ecco perché, osserva Angiuli, sta semplicemente mentendo, Maduro, quando si sforza ogni giorno di attribuire l’odierna crisi alla guerra economica orchestrata dall’odiato imperialismo yankee. Le sanzioni americane – varate da Obama e inasprite da Trump – non bastano a spiegare la catastrofica penuria di generi di prima necessità.Le stesse sanzioni, peraltro, non hanno impedito alle grandi banche d’affari statunitensi, prima fra tutte la Goldman Sachs, di investire copiose somme nell’acquisto di buoni obbligazionari emessi dalla compagnia petrolifera Pdvsa: «Un elemento che smaschera tanto l’ipocrisia del capitalismo a stelle e strisce quanto quella della retorica antimperialista così tanto sbandierata dal governo di Caracas». Inoltre, sebbene Trump abbia proibito nel 2018 l’acquisto di titoli del colosso petrolifero venezuelano, «nessun embargo commerciale petrolifero è mai stato decretato da Washington verso Caracas». Lo confermano i numeri delle esportazioni, che ora – non a caso – Maduro ha addirittura proibito di diffondere, roprio per non compromettere il suo vittimismo retorico che attribuisce al nemico imperialista la causa di ogni male. L’altra verità che Maduro nasconde, continua Angiuli, è che il suo Venezuela ha affidato a una ristretta oligarchia – società riconducibili all’establishment militare – l’intera gestione del cambio dei dollari necessari per accedere al mercato delle importazioni di beni dall’estero. Sono questi privilegiati ad accedere ai dollari, e in modo truffaldino, cioè con un cambio alterato sopravvalutando il bolivar: se la moneta venezuelana era stimata 1.000 a 1, rispetto al dollaro, l’élite governativa monopolista ha invece intascato 10 bolivar per ogni dollaro destinato ad acquistare beni dall’estero.Una volta che gli importatori della ristretta cerchia governativa hanno acquisito i dollari ad un cambio preferenziale e privilegiato, quella valuta forte, «ufficialmente necessaria per pagare le merci che si dovrebbero importare dall’estero», ha finito in realtà per alimentare «un circuito vorticoso e perverso, con cui gli stessi importatori filogovernativi sono troppo spesso riusciti ad occultare clandestinamente sia la valuta che le stesse merci importate». Una colossale frode valutaria, insomma, «che ogni giorno sottrae ricchezza al paese caraibico», e oggi costringe i venezuelani a lasciare le loro case. Elementare: «Se la moneta venezuelana viene scambiata sui mercati ad un valore reale spesso anche di 100 volte inferiore a quello con cui viene scambiata dagli organismi governativi, tutti coloro i quali sono nelle condizioni di mettere le mani sulla rendita petrolifera, una volta ottenuti i dollari col sistema del cambio preferenziale, ne investono effettivamente solo una parte nell’attività di importazione». E al contempo, aiutandosi con sovrafatturazioni fittizie (di merci mai effettivamente acquistate) occultano facilmente grandi quantità di valuta forte, trasferendole dei paradisi fiscali, «ovvero alimentando il mercato nero del dollaro all’interno degli stessi confini del Venezuela». Lo si capisce già all’aeroporto, appena si sbarca a Caracas: si viene assaliti da “agenti del cambio in nero” che offrono disinvoltamente i bolivar in cambio di dollari (o euro) secondo un rapporto di cambio molto distante da quello ufficiale.Per questo, aggiunge Angiuli, da quando si è diffusa la pratica governativa di sopravvalutare artificiosamente il bolivar, «il traffico di valuta è diventato di gran lunga il business più redditizio per chiunque riesca a venire in possesso di una certa quota della rendita petrolifera incamerata dal Venezuela». Negli anni, il fenomeno ha acquisito dimensioni impressionanti e incontrollabili. E il suo principale effetto nefasto sull’economia del paese è il generale disincentivo verso l’avvio di qualsiasi genere di attività produttiva. L’ex ministro per la pianificazione economica Jorge Giordani, grande amico di Chavez (dimessosi nel 2014 da ogni incarico governativo in polemica con Maduro) ha pubblicamente denunciato il furto, attraverso questo meccanismo fraudolento, di qualcosa come 25 miliardi di dollari dall’organismo governativo addetto alle operazioni di cambio su larga scala. E oltre al mercato nero di valuta, c’è anche la piaga che colpisce gli approvvigionamenti: il cibo, i medicinali e i prodotti manifatturieri che dovrebbero entrare in Venezuela a prezzo calmierato vengono in gran parte intercettati e rivenduti clandestinamente. Borsa nera: «Un formidabile, gigantesco contrabbando di merci vendute al mercato nero a prezzi molto più alti di quelli che il governo si sforza inutilmente di imporre nelle catene dei supermercati popolari», nei quali ormai scarseggia di tutto, dallo shampoo al dentifricio, dal sapone alla carta igienica.Giuseppe Angiuli lo descrive come «il disastro di una economia nazionale ormai strutturalmente e capillarmente fondata sul malaffare, sulla frode valutaria e sulla speculazione parassitaria, con un sistema di complicità e protezioni che purtroppo investe anche le sfere più alte del potere centrale». A questo si aggiunge l’iper-inflazione scatenata irresponsabilmente dalla banca centrale del Venezuela, «ricorsa in questi anni in misura sempre più massiccia alla stampa di cartamoneta priva di ogni copertura e valore reale». Tra il 1999 e il 2016, la massa monetaria circolante nel paese è cresciuta di circa il 33.000%. Inflazione folle: nel 2017 si è attestata al’830%, per poi raggiungere l’anno seguente il 4.684,3 percento, vero e proprio record mondiale. Secondo il Fmi, si viaggia ormai verso il “milione per cento” su base annua. Una catastrofe: paralisi economico-produttiva, l’iper-inflazione, crollo del valore reale dei salari. Generale impossibilità di procurarsi da vivere lavorando. Collasso del sistema sanitario nazionale, scarsità di viveri e medicinali, drammatico aumento della mortalità neonatale e della denutrizione infantile. Tutto questo sta oggi facendo vivere al Venezuela «un esodo di proporzioni bibliche dei suoi cittadini verso l’estero, come non si era mai visto nella storia recente del paese».Un fallimento così apocalittico, osserva Angiuli, avrebbe dovuto obbligare da tempo il governo Maduro ad adottare misure radicali, in forte discontinuità rispetto alle politiche suicide fin qui condotte. Di fronte all’esperazione popolare, sfociata in drammatiche proteste, Maduro ha risposto violando la Costituzione, truccando le elezioni e ordinando all’esercito di sparare sulla folla. Hugo Chavez non l’avrebbe mai fatto. Anzi: il “comandante” accettò lealmente il verdetto del referendum perduto, attraverso cui i venezuelani avevano bocciato la sua proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista. Maduro è solo, spelleggiato esclusivamente dai militari. Diversi dirigenti chavisti storici della prima ora – come l’ex ministro dell’ambiente Ana Elisa Osorio, l’ex ministro dell’economia Jorge Giordani, lo storico presidente della Pdvsa Rafael Ramirez e l’ex procuratrice generale Luisa Ortega Diaz – sono stati delegittimati ed emarginati. Qualcuno è riparato all’estero «per sottrarsi alla furia vendicatrice della cricca di potere vicina a Maduro».Non sappiamo quale futuro attende il Venezuela, conclude Angiuli, ma dopo vent’anni di chavismo «i risultati dell’economia del paese parlano un linguaggio implacabile, che non ammette repliche». Un fallimento di dimensioni così catastrofiche dimostra «l’evidente sconfitta politica del gruppo dirigente cresciuto all’ombra di Chavez, che non si è dimostrato all’altezza dei propri compiti storici». I meriti dell’azione ispiratrice dei primi anni del chavismo «andrebbero rivalorizzati e recuperati», ripensando le radici dottrinali del socialismo “bolivariano”, «che andrebbero rinforzate e vivificate». Attenzione: a livello geopolitico, il Venezuela resta «un attore decisivo per la possibile formazione di un nuovo mondo multipolare». E infatti, sottolinea Angiuli, «attorno alla tenuta dell’indipendenza del paese da eventuali aggressioni militari esterne si gioca gran parte del suo futuro». Certo, la catastrofe sociale potrebbe sfociare in esiti terribili. E se il Venezuela «dovesse progressivamente subire delle aggressioni militari da parte degli Usa o di paesi vicini governati dall’ultradestra, come la Colombia o il Brasile», secondo Angiuli occorrerà battersi «a difesa della sacrosanta intangibilità dei suoi confini e della sua legittima sovranità». Quello che non serve, per aiutare il Venezuela a uscire dall’incubo, è continuare a «fornire un sostegno acritico e fideistico al governo di Maduro». Meglio rileggere con onestà la grande storia di Hugo Chavez e anche i suoi limiti, onde avviare al più presto «quegli interventi indifferibili e vitali che il popolo venezuelano si attende, e di cui oggi non può più fare a meno».Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il paese ha perso la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.
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La storia proibita: Bizzi e l’Aurora Boreale della conoscenza
Sempre meno persone oggi, purtroppo, leggono i libri, soprattutto la saggistica storica. E sono sempre più le persone che, vivendo la propria quotidianità in quest’epoca di profonda crisi economica e sociale, tendono a dimenticare le proprie radici, le proprie origini culturali, perdendo così la propria identità ed i propri valori. Le Edizioni Aurora Boreale sono un marchio editoriale libero e indipendente, creato per dare spazio e voce ad un’editoria fuori dagli schemi e per molti versi scomoda. Sappiamo tutti quanto sia difficile al giorno d’oggi fare cultura e informazione in una società in costante involuzione culturale, ottenebrata da una televisione spazzatura ed alle prese con continue crisi economiche più o meno pilotate dagli speculatori e dai grandi burattinai della finanza internazionale; una società in cui l’informazione mainstream appare sempre più come falsata e addomesticata da chi ci governa e in cui ogni tentativo di andare controcorrente viene inesorabilmente e ipocritamente bollato come “non politicamente corretto”, o unpolitically correct, per dirlo all’inglese.Troppe cose vengono taciute all’opinione pubblica, troppe informazioni distorte vengono inoculate alla massa e troppe realtà vengono ignorate perché la conoscenza di esse non si rivelerebbe un profitto, ma anzi un danno, per il potere costituito. Lo dimostrano i continui tagli alla cultura e all’editoria, nel tentativo chiaro ed evidente di imbavagliare ogni tipo di informazione non allineata con il sistema. Noi ci proponiamo di fare cultura e di fare informazione, anche a costo di essere scomodi, di non omologarci con il gregge e, per quanto privi di risorse economiche e di finanziatori “altolocati”, dedicare tutto il nostro tempo e tutte le nostre energie al servizio di un’informazione libera, nella quale, nonostante tutto, ancora crediamo. Il nostro progetto editoriale può essere riassunto in tre termini molto forti, ma efficaci: Identità, Tradizione, Rivoluzione, termini che riteniamo abbiano ancora un grande carattere di attualità in un’epoca come la nostra, contraddistinta da una forzata e artificiosa globalizzazione, dal mondialismo e dal relativismo culturale.Identità perché siamo e ci consideriamo identitari, credendo nell’essenza dell’uomo integrale e nelle potenzialità che i popoli hanno di riconoscersi come tali, di autodeterminarsi nel rispetto reciproco e di rifiutare ciò che non si confà con il proprio destino, la propria natura e la propria cultura. Crediamo nella Tradizione, perché abbiamo delle radici e veniamo da lontano, perché abbiamo la consapevolezza che millenni di storia, di idee e di civiltà ci rendano forti e capaci di sopportare e superare a testa alta le avversità della vita. E crediamo nella Rivoluzione, soprattutto quella delle coscienze. La Tradizione afferma che l’evoluzione della civiltà non procede per graduale costanza ma con cicli di evoluzione e involuzione che sono spesso motivo di sconcerto e sofferenza per l’umanità, vere e proprie rivoluzioni analoghe a quelle astronomiche.Rivoluzione sta così ad indicare il movimento, l’azione, il dinamismo necessario perché ogni tradizione si trasformi in innovazione e cambiamento. La Tradizione diviene così il vero fondamento di ogni autentica rivoluzione, ed è il seme, la radice, la base di ogni innovazione. La nostra casa editrice ritiene quindi giusto offrire a quei lettori caparbi e mai stanchi di conoscere cosa accade realmente nel mondo dei prodotti di qualità che sappiano andare oltre le notizie addomesticate e confezionate che ci propinano quotidianamente i giornali e i telegiornali. Un’editoria, quindi, senza dubbio e orgogliosamente “politicamente scorretta”, un’editoria per pensare, per reagire e, soprattutto, per acquisire consapevolezza.(“Chi siamo”, introduzione al sito dell’editrice Aurora Boreale, fondata e diretta da Nicola Bizzi. Storico indipendente e originalissimo, Bizzi ha firmato volumi di estremo interesse, come il recentissimo “Atlantide e altre pagine di storia proibita”, e “Ipazia di Alessandria e l’enigma di Santa Caterina”, usciti nel 2018. All’anno precedente risale il saggio-denuncia “La crisi della Repubblica dei partiti. Dal crollo del Muro di Berlino a Tangentopoli”. Sempre nel 2017, Bizzi ha pubblicato il primo volume della spettacolare ricerca “Da Eleusi a Firenze”, nella quale rivela la sopravvivenza “clandestina”, fino ai nostri giorni – e con epicentro nel Rinascimento italiano – dell’antichissima tradizione dei Misteri Eleusini. In quella che Bizzi chiama “eleusinità”, espressione risalente al II millennio avanti Cristo, si riverbera la mitica creazione di un’umanità primigenia, quella degli Egei cretesi, la cui origine è attribuita ai Titani, divinità benevole che si opposero ai successivi dèi dell’Olimpo, fino allo “scontro di civiltà” simboleggiato dalla Guerra di Troia, da cui poi anche la fondazione di Roma per opera del profugo troiano Enea).Sempre meno persone oggi, purtroppo, leggono i libri, soprattutto la saggistica storica. E sono sempre più le persone che, vivendo la propria quotidianità in quest’epoca di profonda crisi economica e sociale, tendono a dimenticare le proprie radici, le proprie origini culturali, perdendo così la propria identità ed i propri valori. Le Edizioni Aurora Boreale sono un marchio editoriale libero e indipendente, creato per dare spazio e voce ad un’editoria fuori dagli schemi e per molti versi scomoda. Sappiamo tutti quanto sia difficile al giorno d’oggi fare cultura e informazione in una società in costante involuzione culturale, ottenebrata da una televisione spazzatura ed alle prese con continue crisi economiche più o meno pilotate dagli speculatori e dai grandi burattinai della finanza internazionale; una società in cui l’informazione mainstream appare sempre più come falsata e addomesticata da chi ci governa e in cui ogni tentativo di andare controcorrente viene inesorabilmente e ipocritamente bollato come “non politicamente corretto”, o unpolitically correct, per dirlo all’inglese.
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Sechi: il governo è finito, ma durerà. Mancano alternative
«Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».Dunque Di Maio e Salvini non possono aprire una crisi? «Per andare dove e con chi? Il governo – sostiene Sechi – dal punto di vista della coesione delle forze che lo compongono, è finito. Questo non significa che sia morto». Coabitazione forzata: «Una coabitazione necessaria», secondo Sechi. «In questo quadro, M5S e Lega possono litigare su cose molto serie, ma sapendo che alla fine conviene ad entrambi trovare un accordo». Eppure, sottolinea Ferraù, sul progetto Tav Torino-Lione la tensione è alta. «Se la Lega non porta a casa la Tav è un problema. Per il M5S invece è un problema se la Tav si fa. Però sarebbe un problema ancora maggiore, per entrambi, aprire una crisi di governo». Stallo completo, dunque. Eppure, si domanda Ferraù, perché i sondaggi continuano a premiare l’esecutivo? «La gente non è soddisfatta della politica economica di M5S e Lega, ma li voterebbe ancora – secondo Sechi – perché hanno mantenuto intatta la capacità di alimentare la speranza di cambiamento. Le due cose non sono in contraddizione».Che rischio corrono i pentastellati? «Che il reddito di cittadinanza non funzioni e che alla fine siano assunti soltanto i “navigator”». E la Lega? Il pericolo, per Sechi, è che salti l’autonomia: «La “constituency” del M5S sono gli italiani in cerca di reddito e protezione, quella della Lega sono le imprese del Nord. Autonomia, nei fatti, significa secessione dolce». Lombardia e Veneto, dopo un referendum dirompente che tutti hanno sottovalutato, secondo Sechi vogliono l’autonomia differenziata per avere il controllo delle risorse. «Questo fa ancora parte dell’immaginario del Nord ed è anche il patto fondativo della prima Lega di Bossi con il suo elettorato di riferimento. Salvini lo sa e deve fare presto». Ma quella Lega non s’era pensato che non esistesse più? «Al Nord esiste, eccome. Alle imprese di Lombardia e Veneto non importa nulla o molto poco del partito nazionale che ha in mente Salvini». La nuova Lega sembra importare a Salvini, «ma per altre ragioni, che non interessano i ceti produttivi». E cioè: «Salvini prende i voti del Sud sulla sicurezza e sull’idea di una leadership forte. Per il Nord l’autonomia differenziata è un’assicurazione sulla vita in tempo di recessione, una salvaguardia contro lo spreco di soldi al Sud».L’eventuale statuto autonomo del Nord-Est spaccherebbe l’Italia? «Ma l’Italia è già spaccata», risponde Sechi: «Basta scendere sotto Firenze per vedere un altro paese. Anzi, la vera riuscita del governo gialloverde sarebbe proprio quella di tenere insieme il Sud in cerca di occupazione e il Nord produttivo. La novità, semmai, è un’altra ed è lo scontro generato dalla gestione condominiale». Dovuto a che cosa? «A un imprevisto che ha cambiato i piani iniziali: i voti di Salvini sono destinati a crescere anche al Sud». E sono cifre importanti, sottolinea Sechi. «Ma siccome il voto ravvicinato Salvini non lo avrà, e forse segretamente nemmeno lo vuole perché è troppo rischioso, si tratterà di vedere se e come il suo consenso al Sud si consolida nel tempo». E poi, ricorda Ferraù, per andare al voto occorre un capo dello Stato disposto a sciogliere le Camere. Infatti: «Senza il sì del Quirinale è da pazzi lanciarsi in una crisi al buio». Quindi, conclude Sechi, in queste condizioni «a Salvini resta solo una cosa da fare, perdere tempo per prendere tempo. Il tempo che gli serve per dare l’autonomia al Nord».E con le europee, si domanda Ferraù, cosa potrà cambiare? Il voto di maggio, dice Sechi, «può essere lo spartiacque se le cose vanno molto male ai 5 Stelle, anche se – aggiunge – non credo che accadrà». I grillini potrebbero avere una flessione, «ma non eccessiva, perché tutto il Sud sta aspettando il reddito». Altra mina, l’autorizzazione a procedere contro Salvini per lo sbarco ritardato dei migranti della Diciotti. «Mi auguro che venga respinta», dichiara Sechi, perché «per i pentastellati, votarla sarebbe un suicidio politico». Però, aggiunge, «è vero che sono capaci di tutto». E la Tav valsusina? Alla fine si farà o resterà nel congelatore? Dipende, ragiona Sechi: «I grillini avevano detto che avrebbero chiuso l’Ilva e l’Ilva è aperta; il Tap non si doveva fare e si fa». Insomma, «non mi sorprenderei se anche sulla Tav si trovasse un compromesso». Da parte sua, «Salvini ci starebbe». E con la Francia si può sempre trattare. «Il tema vero – insiste Sechi – è cosa succede nella base a 5 Stelle con il sì alla Tav e nel voto pro-Lega al Nord con il no all’opera. Il rischio del cortocircuito è molto grande, ma torniamo all’inizio: nessuno apre una crisi se non è certo di poterla condurre».«Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».
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Bifarini: saremo invasi dagli africani “rapinati” dalla Francia
Sicuramente l’Africa è un continente strategico per le proprie ricchezze e per il proprio patrimonio di risorse naturali. È il continente più ricco al mondo, nonostante continui ad essere il più povero e destinato al sottosviluppo endemico. Tuttavia il problema che è stato scoperchiato proprio in questi giorni, attraverso le dichiarazioni di Di Maio e di Di Battista, è quello del neocolonialismo che viene esercitato in questo continente, in primis dalla Francia. Si tratta di un fenomeno molto complesso e articolato, che è alla base del sottosviluppo di questo territorio. Tutto ciò è quindi collegabile al fenomeno dell’esplosione migratoria a cui stiamo assistendo. Il problema dei flussi migratori va risolto attraverso gli accordi con i singoli Stati, così come era stato fatto in passato. Tuttavia, torno a ripetere, se non capiamo i motivi per i quali stiamo assistendo a questo fenomeno migratorio di massa, non interveniamo sui problemi reali del continente africano e ci limitiamo alla sola gestione difficoltosa dei flussi in ingresso.L’accusa di Di Maio e di Di Battista è assolutamente fondata: la Francia ruba ricchezze all’Africa, e questo avviene da sempre. Attraverso il progetto della Francafrique si è avviato un continuum del colonialismo della Francia, senza alcuna interruzione. La Francia perciò depaupera effettivamente il territorio africano imponendo il dominio delle proprie multinazionali e da sempre agisce alimentando disordini e tensioni locali. L’ingerenza della Francia in Africa è davvero importante e finalmente se ne parla. Se l’Italia viene lasciata sola dagli altri Stati europei non riusciremo a risolvere il problema, anche perché il continente africano sta vivendo un’esplosione demografica: al momento conta 1,2 miliardi di abitanti e nel 2050 è previsto un aumento fino a due miliardi e mezzo. Quindi bisogna risalire all’origine del problema che spinge questi flussi migratori e capire una volta per tutte, scoperchiando il vaso di Pandora del neocolonialismo: perché questi paesi non sono riusciti a svilupparsi, perché non hanno uno sviluppo della propria economia locale, quali sono gli ostacoli che l’hanno impedito e che fine hanno fatto i fiumi di miliardi di dollari che sono stati inviati come aiuti umanitari.Finalmente il problema è stato sollevato e va analizzato in tutta la sua complessità, anziché continuare ad agire secondo direttive e metodi che non hanno funzionato. Smettiamola di stanziare fondi che poi non sappiamo come vengono spartiti. Nel mio libro, che in questi giorni è stato aggiornato con un focus sul neocolonialismo francese in Africa, spiego come il neocolonialismo agisca dalla fase di decolonizzazione ai giorni nostri e soffochi il continente africano, fenomeno che però si continua ad ignorare. Si continua a reagire con il solito finto buonismo di chi parla di accoglienza, di colpe da parte dell’Italia per un passato coloniale che ormai appartiene alla storia. Nessuno si è mai preoccupato di analizzare cosa succeda in Africa, chi sfrutti l’Africa. La Francia deve assumersi le proprie responsabilità, è ora di porre fine a questa ipocrisia. Tra l’altro pochi giorni fa è stata rafforzata questa egemonia ad Aquisgrana con l’asse franco-tedesco. Per cui l’Italia si trova ad essere sempre criticata e tenuta a rispettare le regole e i parametri che le vengono imposti, mentre si chiudono gli occhi di fronte allo scandaloso fenomeno neocolonialista che operano i francesi in Africa.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Tatiana Santi per l’intervista “L’Italia e il neocolonialismo francese”, pubblicata su “Sputnik News” il 25 gennaio 2019. Economista e scrittrice, la Bifarini è autrice del saggio “I coloni dell’austerity” (Altaforte Edizioni): è stata la prima, in Italia, ad aver sollevato il caso del neocolonialismo francese in Africa nel contesto delle migrazioni di massa).Sicuramente l’Africa è un continente strategico per le proprie ricchezze e per il proprio patrimonio di risorse naturali. È il continente più ricco al mondo, nonostante continui ad essere il più povero e destinato al sottosviluppo endemico. Tuttavia il problema che è stato scoperchiato proprio in questi giorni, attraverso le dichiarazioni di Di Maio e di Di Battista, è quello del neocolonialismo che viene esercitato in questo continente, in primis dalla Francia. Si tratta di un fenomeno molto complesso e articolato, che è alla base del sottosviluppo di questo territorio. Tutto ciò è quindi collegabile al fenomeno dell’esplosione migratoria a cui stiamo assistendo. Il problema dei flussi migratori va risolto attraverso gli accordi con i singoli Stati, così come era stato fatto in passato. Tuttavia, torno a ripetere, se non capiamo i motivi per i quali stiamo assistendo a questo fenomeno migratorio di massa, non interveniamo sui problemi reali del continente africano e ci limitiamo alla sola gestione difficoltosa dei flussi in ingresso.
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Solo il Papa Buono si oppose all’orrore Usa in America Latina
Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usa devono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?Prima domanda: “Ma se Pompeo fa questo, allora perché Putin non avrebbe potuto telefonare a Trump 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura?”. Poi, la risposta alla domanda “cosa si saranno detti?” la si può fare a una scatoletta di tonno, fiduciosi di avere la risposta giusta. E siccome è noto che – da Kennedy, finanziatore dell’orrendo golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari – siccome è noto che, dicevo, Washington ci tiene così tanto agli ideali democratici che vanno esportati nel suo “giardino di casa”, è notizia di oggi che Mike Pompeo ha nominato il “neocon” Elliot Abrams come suo inviato speciale in Venezuela, giusto per dar l’impressione di essere equidistanti. Abrams è un neo-nazista, un pregiudicato (graziato da Bush I), che ha finanziato il genocidio in Guatemala del generale Rios Montt, che ha passato le bustarelle dello scandalo Iran-Contras sotto Reagan e che organizzò il fallito golpe contro Chavez nel 2002. E’ “the Monroe doctrine on steroids”, si direbbe in slang.Ma vedete, l’articolo N. 231 di oggi sul Venezuela e tutti i dettagli da Google-journalism non vi servono a molto. Piuttosto va dato ancora un po’ di retroterra per capire Maduro e come uscirne. In un indicibile paradosso, le tragedie dell’America Latina iniziarono nel XVI secolo con la conquista nel nome del Vaticano, ma ebbero la loro unica speranza di terminare proprio grazie al Vaticano, quello del Concilio Secondo di Papa Giovanni XXIII nel 1959. Fra le maggiori istanze che esso annunciò, ve n’era una di portata rivoluzionaria scioccante: l’opzione della Chiesa dei Poveri. Dall’infame Costantino, nel IV secolo, la Chiesa aveva scelto senza ombra di dubbio l’opzione per i ricchi e per i potenti e il tripudio per lo sterminio dei poveri e dei dissidenti, non stop per i 1.700 anni successivi anni fino al grande Papa Giovanni XXIII (poi ci è ricascata, ahimè). Questo pontefice, invece, di colpo invertì gli ordini di squadra: no, disse, la Chiesa ora sceglie i poveri. Quasi nessuno qui da noi ci fece molto caso; ovvio, eravamo italiani in pieno boom economico. Ma nell’America Latina invece il messaggio del Concilio Secondo prese piede in modo sorprendente sotto forma della Teologia della Liberazione. Cos’era?In due parole: si trattò di ampi numeri di preti e suore, e qualche rarissimo caso nei ranghi ecclesiastici superiori, che proprio ispirati dal Concilio Vaticano Secondo si spogliarono di ogni bene e semplicemente fecero quello che fece Cristo, cioè lottarono nelle bidonville dei poverissimi, morirono per e accanto a loro, e ovviamente entrarono in aperto conflitto con i superiori, cioè i loro vescovi, arcivescovi e cardinali, fra cui anche il buon Bergoglio. Nota: lunga e fetente storia per questo mistificatore, che sempre tenne i piedi in 3 staffe. Un minino stette coi suoi gesuiti teologi della liberazione (ne tradì due in circostanze orribili e silenziò molti altri), ma poi in maggioranza stette invece zitto con le dittature, e alla fine fu un fedele facilitatore del Fondo Monetario Internazionale di Washington fino al Papato. Ma torniamo alla storia. Nel 1962, il venerato (da voi…) presidente Usa J.F. Kennedy notò questi clamorosi fatti e scosse il capo. Ma scherziamo? Adesso ’sti quattro preti straccioni si mettono a fare i “socialisti” contro gli interessi degli investitori americani? Ma che crepino (non poté “prepensionare” Giovanni XXIII perché era troppo popolare).Quindi Kennedy per primo (ma nel mezzo fu assassinato) e poi il suo successore Lyndon B. Johnson diedero il semaforo verde (per usare un’espressione tutta americana) al peggior terrore neonazista della storia del Brasile, quando con la cacciata del democratico Goulart i militari ripresero il potere nel paese (1964) inaugurando la notoria stagione del National Security States, quella cioè dei golpe fascisti latinoamericani per tre decadi successive. Nei files segreti dell’epoca, oggi desecretati e disponibili presso i National Security Archives di Washington, si possono leggere le euforiche parole dell’ambasciatore statunitense in Brasile Lincoln Gordon, un uomo del “democratico” Kennedy, che definì il golpe dei torturatori «una grande vittoria per il mondo libero» e «un punto di svolta per la storia» (un intero capitolo del mio “Perché ci odiano” della Rizzoli è dedicato a questi abomini). Spiacenti, caro Papa Giovanni XXIII, la tua Opzione per i Poveri deve morire, disse Jfk. E fu olocausto di massacri, torture, campi di concentramento, furti di risorse per trilioni di dollari, tutto di fila in America Latina fino alla fine anni ’90 e proprio a partire dalla nascita della Teologia della Liberazione laggiù.Fra l’altro quest’anno ricorre il 30esimo anniversario di uno degli ultimi atti di macellazione post-Jfk della giustizia in America Latina, cioè la strage di sei accademici gesuiti teologi della liberazione e di due loro domestiche da parte degli squadroni della morte Atlacatl in Salvador nel 1989. Nota: col benestare evidente e più volte espresso nei fatti dell’infame Papa Wojtyla, l’uomo piantato a Roma da Washington non solo per abbattere l’Urss ma proprio per disintegrare l’Opzione per i Poveri in America Latina, visto che rodeva nelle tasche delle corporations, degli hedge funds e degli asset manager americani (e nostri). E arriviamo a Maduro oggi, passando, come già scritto sopra, per tutti i presidenti Usa di fila che mai hanno smesso di finanziare e armare ogni porcheria antidemocratica a sud del Texas (ripeto: da Kennedy, finanziatore del golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari).Washington non molla, e oggi col naufragio delle rivoluzioni “bolivariane” in America Latina, siamo a questa realtà: l’85% del continente è tornato nelle mani delle destre-stuoini del Fondo Monetario. Ma qui l’onestà intellettuale impone un “ma”… Verissimo che la guerra di sanzioni americane contro Cuba e Venezuela è un abominio della legalità internazionale e ruba miliardi all’anno a quei due paesi. Verissimo che la fetente lustrascarpe del Fmi, cioè la Ue, non è capace di un belato di giustizia internazionale da nessuna parte (Palestina, Siria, Egitto, Yemen, America Latina) mentre ruggisce contro le pecorelle Piigs. Verissimo che quella che fu la culla della democrazia, la Gran Bretagna, ha di nuovo sputato sulla propria storia bloccando l’oro di Maduro in un momento drammatico per il Venezuela. Ma… è altrettanto verissimo che l’America Latina, almeno nella leadership (ma non solo), non ce la può fare, come si dice gergalmente. E inizio da questo: sono “cattolici dentro”, anche quando sono comunisti. Dal 2001/2 fino a ieri, le sinistre latinoamericane hanno avuto in mano quasi tutto per salvare il continente e per finalmente usare le loro immani risorse e le loro monete sovrane sganciate dal dollaro per rafforzare la base sociale povera, cioè il 90% degli elettori.Gli Usa erano in ritirata ormai decennale sia economica che militare, e in affanno, anzi, panico, proprio mentre dall’altra parte esplodeva il potere degli “astri benevoli” dell’America Latina di sinistra, cioè Cina e Russia a far da contraltare. Ma cosa è successo invece? Siamo minimamente onesti, per favore: i leader latinoamericani hanno sbagliato economie nel 100% dei casi, e con una pervicacia sbalorditiva, limitandosi a programmi-elemosina per la base sociale povera, cioè il 90% (vi ricorda qualcuno? RdC?). Hanno fatto parrocchie a sinistra come a destra nel 100% dei casi. Come ogni bravo “cattolico dentro” sono stati ipocriti da vomitare, corrotti da barzellette, e alla fine (in Brasile in modo cosmico) hanno rubato il rubabile. Chiunque non sia un partigiano in malafede si è accorto che sia in Brasile ma soprattutto in Venezuela l’elettorato di maggioranza detesta la sinistra come la destra, derubato e tradito da entrambi, oggi. Nomi come Maduro e Guaidò non rappresentano più nulla, sono screditati alla morte, e figurano solo nei media per via di quel 10% a testa di esagitati che riescono ancora a far comparire davanti alle telecamere in piazza, mentre l’80% sta a casa a sbattere la testa contro il muro. Quindi?Quindi di certo nel mondo dei sogni andrebbe messo uno stop immediato ai 196 anni d’illegalità della dottrina Monroe (con la pietosa Ue al seguito); di certo l’unica via è oggi il negoziato, visto che laggiù la scelta realistica per quella povera gente è fra lo schifo di Maduro e lo schifo di Guaidò. Ma come sempre dico in quasi totale isolamento da decenni (come nel caso dei paesi africani), finché le sinistre, intese come base di popolo, non accetteranno di guardarsi dentro e di capire come hanno fatto a diventare ovunque nel mondo delle tali schifezze, mafie, parrocchie e traditrici di lotte centenarie, possiamo pure continuare a gridare “yankee go home!”, ma in America Latina le maggioranze continueranno a sbattere la testa contro il muro. O le sinistre imitano l’immenso atto di autocritica di Giovanni XXIII e anch’esse ritornano a una vera storica Opzione per i Poveri (si spera con maggior successo oggi), oppure non si andrà da nessuna parte (neppure qui da noi).(Paolo Barnard, “Da Monroe a Papa Giovanni XXIII a Kennedy, fino a Obama, e allora si capisce il disastroso Maduro”, dal blog di Barnard del 29 gennaio 2019).Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usa devono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?
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Tutte le altre stragi, senza nessuna Giornata della Memoria
E’ possibile celebrare la Giornata della Memoria per ricordare, tra tutti i genocidi della storia recente, solo quello nazista ai danni degli ebrei? Se lo domanda implicitamente un ex giornalista della Rai come Fulvio Grimaldi, nell’elencare – il 27 gennaio, sulla sua pagina Facebook – moltissime altre pagine atroci che hanno costellato il Novecento. «Il maresciallo Rodolfo Graziani massacra la Libia, occupata e seviziata dal 1911, e uccide seicentomila libici, tra civili e partigiani della resistenza, un terzo della popolazione», e poi «brucia centinaia di villaggi, bombarda centri abitati e carovane, avvelena i pozzi, impicca centinaia di libici, tra cui l’ottantenne leader della Resistenza, Omar al Mukhtar». Gli Stati Uniti, dal 1945 ad oggi, «iniziando con l’invasione della Corea e poi del Vietnam e poi proseguendo con la storica media di una guerra d’aggressione all’anno, con colpi di Stato, guerre civili innescate ad arte, sanzioni genocide», di fatto «uccidono 50 milioni di persone nel mondo». Nel solo Vietnam sono uccisi 3 milioni di civili, mentre gli effetti del napalm e dell’agente Orange continuano a far nascere e morire decine di migliaia di bambini deformi. Dagli Usa all’Europa: «Re Leopoldo del Belgio, occupante colonialista del Congo, provoca la morte di 20 milioni di congolesi».Il genocidio africano prosegue nel ‘900 «per opera di fantocci dell’Occidente e delle multinazionali che controllano i territori delle risorse minerarie attraverso l’intervento del protettorato franco-statunitense del Ruanda e l’uso di milizie tribali». Ma l’Italia non è da meno, ricorda Grimaldi: «Mussolini, nella guerra d’Etiopia, fa uccidere da Graziani e Badoglio 280mila abissini, 5 milioni di buoi, 7 milioni di ovini, 1 milione di cavalli, 700mila cammelli». Vengono bruciate 2.000 chiese e distrutte 525.000 case e capanne. L’Italia perde 4.350 militari, coscritti o volontari. Per «colonizzare il Sud Tirolo» e assicurare all’Italia Trento e Trieste, «che l’Austria è pronta a cedere se l’Italia non dovesse entrare in guerra», il potere industriale e bancario italiano «commissiona al governo Salandra e al re Vittorio Emanuele III l’ingresso in guerra». Nel primo conflitto mondiale «cadono 600mila italiani, perlopiù contadini e operai, molti fucilati dai propri ufficiali». Di fatto, annota Grimaldi, «scompare una generazione». Poi c’è la pagina nera della decolonizzazione del Nordafrica, cui la Francia si oppone strenuamente all’indomani della Seconda Guerra Mondiale: «Nella guerra d’Algeria il regime colonialista francese rinchiude 3 milioni di algerini in campi di concentramento, della tortura e dello stupro».Il bilancio della carneficina algerina è terrificante: «Un milione di algerini, su 10 milioni scarsi di abitanti, viene ucciso». Grimaldi calcola che un altro milione di persone, composto da «tedeschi antinazisti», fosse stato ucciso dal regime di Hitler tra il 1933 e il 1940. Aggiunge: «Vogliamo parlare di Palestina 1945-2019?». Di tutte le stragi divenute croniche, quella ai danni dei palestinesi è la più “invisibile”, sui media che celebrano il ricordo della Shoah. L’argomento resta controverso: se da una parte si contesta il fatto che la memoria sia “obbligatoria” solo per l’ecatombe di Auschwitz, dall’altro vale ricordare che soltanto lo sterminio nazista degli ebrei sia stato così meticolosamente progettato e realizzato, e per motivi dichiaratamente “razziali”: tutte le altre stragi, sostengono gli storici, hanno avuto motivazioni diverse, più tristemente “convenzionali” (geopolitica, imperialismo, economia, nazionalismo). Solo nel caso del nazismo, si sottolinea, il motore del genocidio fu l’odio, alimentato dal fanatismo ideologico della “purezza razziale”. A Grimaldi non basta: lo indigna il fatto che non si celebri nessuna “giornata della memoria” per tutte gli altri abissi di abominio. «Ci fermiamo qui – conclude – con un pensiero al bambino che, oggi, ogni 3 secondi muore di fame e malattia nel mondo per il modo di gestire l’umanità da parte dell’Occidente (il primo servizio su questo infanticidio planetario del capitalismo lo feci nel 1992 per il Tg3)».E’ possibile celebrare la Giornata della Memoria per ricordare, tra tutti i genocidi della storia recente, solo quello nazista ai danni degli ebrei? Se lo domanda implicitamente un ex giornalista della Rai come Fulvio Grimaldi, nell’elencare – il 27 gennaio, sulla sua pagina Facebook – moltissime altre pagine atroci che hanno costellato il Novecento. «Il maresciallo Rodolfo Graziani massacra la Libia, occupata e seviziata dal 1911, e uccide seicentomila libici, tra civili e partigiani della resistenza, un terzo della popolazione», e poi «brucia centinaia di villaggi, bombarda centri abitati e carovane, avvelena i pozzi, impicca centinaia di libici, tra cui l’ottantenne leader della Resistenza, Omar al Mukhtar». Gli Stati Uniti, dal 1945 ad oggi, «iniziando con l’invasione della Corea e poi del Vietnam e poi proseguendo con la storica media di una guerra d’aggressione all’anno, con colpi di Stato, guerre civili innescate ad arte, sanzioni genocide», di fatto «uccidono 50 milioni di persone nel mondo». Nel solo Vietnam sono uccisi 3 milioni di civili, mentre gli effetti del napalm e dell’agente Orange continuano a far nascere e morire decine di migliaia di bambini deformi. Dagli Usa all’Europa: «Re Leopoldo del Belgio, occupante colonialista del Congo, provoca la morte di 20 milioni di congolesi».