Archivio del Tag ‘rischio’
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Brzezinski: spartizione Usa-Cina o Terza Guerra Mondiale
«L’enorme instabilità a livello mondiale non ha precedenti storici», perché «grandissime fette di territori sono governate da instabilità populista, rabbia e perdita del controllo statale». Zbigniew Brzezinski, consigliere strategico di Carter e storico “cervello” dell’egemonia mondiale statunitense, lancia l’allarme: «Non stiamo declinando verso una crisi per la sopravvivenza, ma stiamo perdendo il controllo dei nostri massimi livelli di abilità nell’affrontare sfide che, sempre più, molti di noi riconoscono essere fondamentali per il nostro benessere». Dura lezione, per gli Usa, i fallimenti a catena degli ultimi vent’anni: «Non possiamo arruolare forze o creare leadership per gestirle», e questo rende gli Usa «sempre più privi di volontà strategica e senso della direzione da intraprendere». Scenario: «Siamo di fronte a un mondo pieno di tumulti, frammentazione e incertezza: nessuna minaccia diretta per nessuno, ma molte differenti minacce praticamente per chiunque».Nella polveriera del Medio Oriente, dice Brzezinski in un colloquio con David Rothkopf ripreso da “Come Don Chisciotte”, si può contare davvero soltanto su pochi Stati, dotati di relativa stabilità: sicuramente la Turchia e l’Egitto, poi l’Iran – con cui gli Usa sono in stato di crisi – e ovviamente Israele, ma solo a patto che nasca una pace stabile, con la creazione di uno Stato autonomo dei palestinesi. All’appello manca l’Iraq: tragico errore, ammette Brzezinski, la guerra di George W. Bush per eliminare Saddam, che faceva da argine contro il jihadismo di Al-Qaeda. «Siamo intervenuti in Libia senza un piano a lungo termine, lasciando campo a forze destabilizzanti», dice Rothkopf. «Non abbiamo intrapreso azioni decise in Siria e, come conseguenza di ciò e della situazione in Iraq, si è diffuso il malcontento in Siria. I rischi sono ovunque e le forze stabilizzatrici maggiori al mondo – Usa, Ue e Cina – hanno desiderio di interventi costruttivi in ben poche di queste situazioni».Per Brzezinski, gli Stati Uniti non hanno più molte chances nella regione petrolifera. Ma non sono i soli a subire danni dal caos che dilaga: «Le due nazioni che potrebbero maggiormente essere danneggiate da questi sviluppi a lungo termine sono Cina e Russia, a causa dei loro interessi regionali, la vulnerabilità al terrorismo e gli interessi strategici sul mercato globale dell’energia». Di conseguenza, Pechino e Mosca dovrebbero «lavorare insieme a noi», evitando di lasciare solo agli Usa «la responsabilità di gestire una regione che non possiamo né controllare né comprendere». Rothkopf fa presente che gli Stati Uniti sono stati «spinti dagli eventi in Iraq per lo meno a collaborare attraverso qualche sorta di tacito accordo nei riguardi dell’Isis, o Stato Islamico», e c’è chi teme negoziati con l’Iran verso un disgelo tra Washington e Teheran. «Vedo l’Iran come un vero Stato-nazione», dice Brzezinski. «Quella identità reale gli dà la coesione di cui la maggior parte del Medio Oriente è priva».I problemi: la competizione coi sunniti e la ventilata minaccia di Teheran nei confronti di Israele, a cui Brzezinski però non crede. «Il punto della questione è che Israele ha un monopolio nucleare nella regione e ce l’avrà per lungo tempo», continua l’analista. «Una cosa che gli iraniani non faranno di sicuro è intraprendere una missione suicida nel momento in cui avranno una bomba. Quindi l’idea che è stata pubblicizzata negli Usa che potrebbe scaturire una folle corsa iraniana per avere la bomba in nove mesi a mio parere è insensata», anche perché «Israele ha un esercito molto forte e circa 150-200 bombe: ciò è sufficiente per uccidere ogni iraniano». Poi ci sono i tradizionali alleati Usa nella regione. Buio pesto: Brzezinski si dichiara «confuso» dalla tragedia della guerra civile siriana. «Non mi è chiaro – dice – cosa esattamente pensassero di ottenere i sauditi e i qatarioti scatenando una guerra settaria in Siria, e sono ancora più frastornato da cosa noi pensassimo avremmo potuto ottenere sostenendoli in una maniera tanto esitante e inconsistente». Ammette Brzezinski: «E’ dalla seconda guerra in Iraq che noi americani ci siamo squalificati come protettori e promulgatori di qualsivoglia sviluppo positivo», per cui «sarebbe meglio concludere qualche sorta di tacito accordo coi cinesi e i russi», sulla gestione della geopolitica in Medio Oriente.Sulla Russia, però, la visione di Brzezinski è brutalmente unilaterale: già anni fa, la sua “dottrina” suggeriva di amputare Mosca dell’Ucraina e in particolare della Crimea, privando i russi dello sbocco strategico sul Mar Nero. Oggi non ha cambiato idea: chiama “invasione” il recupero della Crimea votato a fuori di popolo. E imputa a Mosca – anziché a Washington – l’iniziativa in Ucraina, senza alcun commento sui neonazisti appoggiati dalla Nato che hanno gestito il golpe a Kiev, dato alle fiamme il palazzo dei sindacati a Odessa e cominciato a prendere a cannonate la popolazione civile russofona, per sfrattarla dell’Est del paese “prenotato” dalle grandi compagnie, come la Shell, interessate allo “shale gas” del sottosuolo ucraino. Brzezinski sogna relazioni privilegiate Usa-Cina escludendo la Russia, di cui non sopporta la crescente influenza internazionale anche in ambito Brics, ma sa benissimo che i cinesi non gradiscono un’ipotesi G2, fondata sulla leadership di Washington e Pechino.Quanto al Giappone, passi che si avvicini all’India per bilanciare l’espansionismo cinese, ma è bene che sappia che gli Usa non sosterranno Tokyo se tenterà un braccio di ferro militare con la Cina per le contese isolette del Pacifico. Grande assente, in ogni scenario geopolitico mondiale, il vecchio continente: «Dove sono i padri dell’Europa che davvero credono nell’identità europea? Alla fine, la Ue si è dimostrata essenzialmente una serie di accordi a Bruxelles, basati sul denaro e i quid pro quo, ma con molto poco senso di obiettivi comuni». Salvo ovviamente tentare – ancora – di proteggere i propri interessi post-coloniali in paesi africani in subbuglio, come Sudan, Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria e Mali. L’anziano Brzezinski la vede così: nel futuro, ipotetico grande “condominio” americano e cinese, l’Europa resterà «un tentacolo» degli Usa, a patto che accetti accordi commerciali euro-atlantici come il Ttip: «Uniamo questi ultimi alla Nato, all’annessione dell’Ucraina all’Ue, che a sua volta dovrebbe attirare la Russia verso l’Europa, perchè l’ombra della Cina sta sempre più estendendosi sopra Mosca», e avremo un quadro che, secondo lo stratega americano, «potrebbe andare nella direzione di un beneficio collettivo».Riguardo all’ex “cortile di casa”, l’America Latina, Brzezinski è altrettanto sbrigativo: «Gli Usa stanno imparando ad essere tolleranti», sostiene. «Abbiamo imparato a convivere con Cuba, con il Nicaragua, con il Venezuela». La Cina? E’ sostanzialmente tollerante. Sicché, conclude Brzezinski, «allo stesso modo noi possiamo fare lo stesso per loro in Asia. Ovvero: tu ti risolvi i tuoi problemi nelle vicinanze, ma non spingerti oltre. Tolleriamo alcuni sprazzi di autonomia». Tolleranza “a sprazzi”, che Brzezinski definisce «bilateralmente sostenibile». Soprattutto per una ragione: «Loro», i cinesi, «non competono ideologicamente con noi». Riflessione storica: «L’assenza di un conflitto ideologico tra noi e i cinesi è la sostanziale differenza tra i conflitti con l’Unione Sovietica o con Hitler e la Germania. In entrambi i casi c’era forte antagonismo, in parte a causa di ragioni geopolitiche, ma in parte anche per profonde e conflittuali differenze ideologiche». Per Brzezinski, si tratta di «creare una sorta di intesa sulla base di come erano le relazioni tra Roma e Bisanzio: queste due città avevano molto in comune, erano estensioni dello stesso impero, ma avevano diversi centri di potere. Dobbiamo affrontare il fatto che probabilmente per il resto delle nostre vite – a meno che tutto non vada all’inferno, il che sarebbe molto peggio – gli Usa e la Cina sono destinati a cooperare se il mondo vuole avere un sistema efficace».Non sarà facile: l’esercito cinese, tanto per dire, è fortemente antiamericano. Brzezinski, al solito, semplifica: «Noi siamo una super-democrazia, loro una dittatura egocentrica». Ci sono i Brics, naturalmente, della cui crescente autonomia gli Usa hanno paura. L’Europa? Non pervenuta: «Chi sono gli europei? Se vai a Parigi o in Portogallo, o in Polonia, e chiedi “chi sei tu?” ti verrà risposto “Sono portoghese”, “Sono spagnolo”, “sono Polacco”. Quali sono le persone che sono veramente europee?». La speranza del vecchio stratega della Casa Bianca è di coltivare relazioni cooperative con la Cina, l’unica superpotenza paragonabile agli Stati Uniti, una nazione «che esiste da 5-6000 anni», sicura della propria identità e consapevole della sua forza. Una grande nazione, psicologicamente più affidabile degli Stati Uniti: «Noi possiamo facilmente venire troppo coinvolti emotivamente nei loro problemi interni, loro invece non si fanno prendere emotivamente dai nostri». Inoltre, secondo Brzezinski, «i cinesi non sono mai stati stupidi quanto i russi, che più di una volta sono venuti a dirci in faccia “Vi distruggiamo”».Sul futuro imminente, Brzezinski raccomanda prudenza. Obiettivo: evitare quella che molti chiamano Terza Guerra Mondiale. Vero, «ci sono similitudini con il 1914», ma allora «le maggiori potenze avevano una visione più ristretta del mondo», pensavano di risolvere i problemi «con l’uso della forza bruta». Non è più così. «Non vogliamo affondare nella crisi mediorientale. I russi preferirebbero di sì, ma restandone fuori. I cinesi giocano a starsene a guardare da lontano. Tutto ciò fornisce alcune rassicurazioni sul fatto che la situazione non esploderà e non andrà a finire come nel 1914». Cautela, dunque, nell’uso delle armi. Per riuscire a pacificare il Medio Oriente con l’aiuto di Turchia, Iran, Egitto e Israele, avendo «la Cina come socio paritario», fondamentale per «una sorta di stabilità globale», e perfino contando sulla Russia come alleato potenziale, «non appena avrà superato i dissidi con gli europei». Evaporata l’Onu e qualsiasi altra forma di governance istituzionale, Brzezinski propone una nuova Yalta: l’Occidente agli Usa e l’Asia alla Cina, con uno status speciale per India e Giappone. «Questo è il meglio che si possa fare e penso che dovremmo lavorare su queste basi nel corso di questo secolo. Sarà dura. Sarà pericolosa e distruttiva, ma non penso che stiamo scivolando verso una nuova guerra mondiale. Penso che stiamo invece scivolando in un’era di grande confusione e caos dominante».«L’enorme instabilità a livello mondiale non ha precedenti storici», perché «grandissime fette di territori sono governate da instabilità populista, rabbia e perdita del controllo statale». Zbigniew Brzezinski, consigliere strategico di Carter e storico “cervello” dell’egemonia mondiale statunitense, lancia l’allarme: «Non stiamo declinando verso una crisi per la sopravvivenza, ma stiamo perdendo il controllo dei nostri massimi livelli di abilità nell’affrontare sfide che, sempre più, molti di noi riconoscono essere fondamentali per il nostro benessere». Dura lezione, per gli Usa, i fallimenti a catena degli ultimi vent’anni: «Non possiamo arruolare forze o creare leadership per gestirle», e questo rende gli Usa «sempre più privi di volontà strategica e senso della direzione da intraprendere». Scenario: «Siamo di fronte a un mondo pieno di tumulti, frammentazione e incertezza: nessuna minaccia diretta per nessuno, ma molte differenti minacce praticamente per chiunque».
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Ruffolo e Sylos Labini: basta euro, o l’Italia è condannata
Nel sistema economico attuale la moneta che definiremo “pubblica” è creata da banche centrali indipendenti dal potere politico, mentre lo Stato non può stampare moneta ma può agire esclusivamente attraverso il debito, un tipo di intervento che alla lunga può diventare insostenibile. D’altra parte, le banche private per mezzo del credito hanno la possibilità di creare liberamente una moneta che si può considerare di origine “privata”. Più precisamente, quando c’è crescita le banche private tendono a concedere prestiti molto generosi amplificando l’espansione, ma quando scoppia una crisi queste banche esasperano le difficoltà poiché in presenza di aspettative negative restringono il credito e quindi riducono l’offerta di moneta all’economia reale. E’ proprio durante una crisi che diventa cruciale il ruolo della moneta pubblica per sostenere l’economia.
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L’immenso tesoro del Papa e il custode venuto da Sydney
Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.“L’Espresso” ha trovato anche spese e ricavi di decine di enti pubblicati nel 2013: dalla Segreteria di Stato alle nunziature estere, passando per Radio Vaticana e il Governatorato. E’ evidente, scrive Emiliano Fittipaldi in un reportage ripreso da “Micromega”, che «le spese della curia (case, segretari, viaggi, sicurezza, rappresentanza) sono ancora senza controllo». A Place Vendôme, nel centro di Parigi, una società francese controllata dall’Apsa possiede alcuni tra i più prestigiosi immobili della zona. «La Sopridex Sa ha avuto inquilini famosi (come François Mitterrand) e oggi ha attività iscritte a bilancio che arrivano a 46,8 milioni di euro». Tra i dipendenti, anche «la bellezza di 16 portieri». Ma l’Apsa, continua “L’Espresso”, controlla anche 10 società svizzere, «tra cui la misteriosa Diversa Sa, l’Immobiliere Sur Collonge e l’Immobiliere Florimont». Società che, insieme alla Profima Sa, «gestiscono proprietà e terreni nella confederazione elvetica e in mezza Europa». Tutte insieme «valgono 18 milioni».«Va ricordato che storicamente il bilancio dell’Apsa sottostima, per questioni fiscali, i valori dei palazzi di sua proprietà», spiega a Fittipaldi una qualificata fonte dell’istituto che ha sede nel Palazzo Apostolico. «Inoltre quelle svizzere sono società non consolidate: in pancia potrebbero avere molto più di quanto dichiarato». La Profima è stata aperta a Losanna nel 1926 e fu utilizzata da Pio XI per nascondere all’estero parte dei “risarcimenti” che la Chiesa ottenne grazie ai Patti Lateranensi stipulati con il regime fascista, mentre la holding Diversa «è praticamente sconosciuta». Fondata a Lugano nell’agosto del 1942, mentre si combatteva da Stalingrado ad El Alamein, risulta oggi presieduta da Gilles Crettol, «un avvocato svizzero che gestisce gli interessi del Papa oltralpe: il suo nome spunta in quasi tutte le altre società elvetiche». Fino a qualche tempo fa, il referente italiano era invece Paolo Mennini, ma gli uomini di Papa Francesco hanno deciso di farlo fuori: da qualche settimana, al suo posto, nei Cda delle società svizzere è comparso Franco Dalla Sega, presidente della bazoliana Mittel e «manager di fiducia del nuovo boss delle finanze vaticane, il cardinale George Pell».Il Vaticano, ricorda “L’Espresso”, possiede società immobiliari anche in Inghilterra: la British Grolux Investments Ltd, fondata nel 1933, «gestisce oggi a Londra attività per la bellezza di 38,8 milioni di euro inclusi negozi di lusso in New Bond Street». Quanto all’Italia, «oltre allo sterminato forziere di Propaganda Fide, ribattezzata Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ha un patrimonio stimato, al netto della crisi immobiliare, di circa 7 miliardi), l’Apsa controlla pure le società Sirea e Leonina, che a bilancio valgono oltre 16 milioni». Tra affitti a privati e locazioni commerciali, tutte le sigle che fanno capo all’Apsa hanno ricavato nel 2011 circa 23,5 milioni di euro. «Il bilancio finale dell’Apsa è impressionante», rileva Fittipaldi. «Case e appartamenti sparsi in Europa nel 2013 hanno toccato il valore complessivo di 342 milioni», mentre quello del portafoglio investimenti in euro ha superato quota 475 milioni, «cui bisogna aggiungere titoli per 137 milioni di dollari, 33 milioni di sterline e 17 milioni di franchi svizzeri».Un “tesoro” che vale complessivamente più di un miliardo, e che oggi gestiscono in tre: il super-consulente Dalla Sega e i due monsignori a capo dell’Apsa, il presidente Domenico Calcagno e il segretario Luigi Mistò. «Se gli immobili dell’Apsa valgono più di quanto riportato in bilancio, anche sull’oro ci sono molte cose che non tornano», aggiunge la fonde de “LEspresso”. Leggendo i dati riservati del 2013, scrive Fittipaldi, si scopre che l’Apsa detiene metalli preziosi per 30,8 milioni di euro, e «alcune stime interne della segreteria di Stato, da prendere con le molle, parlano di un controvalore di 140 miliardi di euro, il doppio di quanto conservato dalla Banca d’Italia». Qualcuno, però, sospetta che parte importante delle riserve auree del Vaticano sia conservata nei forzieri svizzeri e inglesi. «La stima mi sembra eccessiva – chiosa il dirigente Apsa – anche perché parte cospicua del nostro metallo giallo è stato venduto tra gli anni ‘90 e l’inzio del nuovo secolo dal cardinale venezuelano Rosalio Castillo Lara, ex presidente dell’amministrazione».Oltre all’oro dell’Apsa, il Vaticano controlla anche il patrimonio dello Ior, valutato 6 miliardi di euro. «Non stupisce che sul gruzzolo, dopo l’arrivo del nuovo pontefice, si sia scatenata una battaglia (l’ennesima) per la gestione. Francesco ha innanzitutto spazzato via gli uomini di Tarcisio Bertone che dal 2007 guidavano lo Ior e, attraverso Calcagno, la cassaforte dell’Apsa. Troppi gli scandali della decadente “lobby italiana”: a parte le scorribande di Scarano e le vicende di Bertone (i casi Carige e Lux Vide promettono sviluppi), le inchieste per riciclaggio hanno fatto saltare il direttore dello Ior Paolo Cipriani, il suo vice Massimo Tulli e il tesoriere della banca, mentre presto la prefettura degli Affari economici guidata da Giuseppe Versaldi, amico intimo di Bertone, potrebbe essere soppressa». Per ricostruire un sistema più trasparente, continua “L’Espresso”, Bergoglio ha poi chiamato dall’Australia il cardinale George Pell e lo ha nominato capo di un nuovo dicastero, la Segreteria dell’Economia. Una sorta di super-ministero che controllerà, di fatto, tutti gli enti finanziari dentro le Mura Leonine.Noto al Papa per le sue doti di economo, dopo aver gestito con buoni risultati una grande diocesi come quella di Sidney, il cardinale Pelle è soprattutto un uomo di comando. Ha subito silurato il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg, rottamando le vecchie strutture di governance e accentrando nei suoi uffici i poteri esecutivi: la segreteria di Stato è stata ridimensionata (il successore di Bertone, Pietro Parolin, si occuperà prevalentemente di diplomazia), mentre lo Ior e l’Apsa sono stati commissariati. In Vaticano c’è chi teme ambizioni dell’australiano: «Se Parolin ha sotterrato l’ascia di guerra solo perché Francesco lo ha ammesso nel C9, il gruppo ristretto di cardinali che devono aiutarlo nella guida della Chiesa, il presidente del Governatorato Giuseppe Bertello sta tentando in tutti i modi di bloccarne l’ascesa». Tra i nuovi potenti, però, a «limitare il raggio d’azione di Pell» ci hanno priovato, «per ora senza successo», solo Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del C9, e il cardinale Santos Abril y Castelló, presidente della commissione cardinalizia dello Ior.In Australia, i cattolici progressisti rimproverano al prelato di Sydney le posizioni ultra-conservatrici e le sparate pubbliche sull’Islam («religione guerresca», piena di «invocazioni alla violenza»). Inoltre, Pell fu scagionato nel 2002 dall’accusa di aver abusato di un ragazzino di 12 anni, mentre nel 2008 un’altra presunta vittima di abusi lo aveva incolpato di aver “coperto” un sacerdote pedofilo. «Lo scorso marzo, infine, il cardinale è stato chiamato a testimoniare di fronte alla Commissione nazionale d’inchiesta sugli abusi contro i minori istituita dal governo di Canberra, in merito a una causa che un altro ex chierichetto, John Ellis, aveva fatto alla Chiesa e allo stesso Pell in seguito a violenze sessuali avvenute tra il 1974 e il 1979». Pell ha chiesto scusa, continua “L’Espresso”, ma in molti sono restati sconcertati per la sua promozione decisa da Bergoglio. «Nella giungla vaticana – aggiunge Fittipaldi – il ranger venuto da Sydney non si muove da solo. Il capo segue i consigli di tre fidati consiglieri: il neo presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, il tycoon maltese Joseph Zahra (entrambi membri del Consiglio dell’Economia, l’altro neonato ufficio economico guidato da Reinhard Marx), e l’amico Danny Casay, manager che ha gestito con lui la diocesi di Sydney».Gli sconfitti, i vecchi cardinali di curia, li chiamano “la banda dei maltesi”, adombrando il pericolo di conflitti d’interessi: l’unico membro italiano chiamato a far parte del Consiglio dell’Economia, Francesco Vermiglio, ha fondato con l’amico Zahra (patron del colosso finanziario Misco Malta) la Misco Advisory Ltd, «una joint venture per invogliare i nostri connazionali a investire nell’isola, fino a pochi anni fa vero paradiso fiscale». A marzo 2014, inoltre, il figlio di de Franssu, Luis Victor, è stato assunto dalla Promontory, società Usa che da un anno sta spulciando i conti dello Ior. «Ma il numero uno dello Ior pare abbia buoni rapporti anche con alcuni giovani consulenti della McKinsey che hanno lavorato sui bilanci dell’Apsa. Tra loro c’era pure Filippo Sciorilli Borrelli. Classe 1981, è un figlio d’arte: suo padre Ivo è infatti tra gli azionisti di maggioranza di Banca Arner, l’istituto svizzero che ha tra i suoi (pochi) correntisti Silvio Berlusconi». Non c’è nessuna lobby maltese, ha ribattuto Pell, indignato. Tuttavia, ribatte “L’Espresso”, proprio i finanzieri de Franssu e Zahra – titolari di società di investimento – avevano ideato i nuovi assetti del business vaticano, secondo un modello «che rispecchia in gran parte quello annunciato da Pell», ovvero: potere assoluto della Segreteria dell’Economia, Apsa trasformata in Banca centrale e nascita di un nuovo Vatican Asset Management (Vam) per gestire titoli e obbligazioni.Nelle mire di Pell, aggiunge Fittipaldi, c’è anche un altro patrimonio della Santa Sede: i musei vaticani, tra i più visitati e redditizi al mondo: nel 2011 l’utile netto è stato di 58,7 milioni, e gli incassi (tra biglietti e merchandising) superiori a 91 milioni. Per contro, le spese 2013 della Curia romana ammontano a 77,9 milioni, e l’Apsa ha chiuso il suo bilancio in perdita di 48,4 milioni. «Se l’Obolo di San Pietro grazie alla beneficenza dei fedeli nel 2013 ha portato nelle casse 78 milioni, la mitica Radio Vaticana ha perso, secondo un report interno pubblicato nel 2013 e riferito al 2011, ben 26,6 milioni», scrive Fittipaldi. «Anche la tipografia che stampa “L’Osservatore romano” ha chiuso i conti a meno 5,5 milioni». Un salasso, a cui aggiungere il deficit delle 170 nunziature all’estero (meno 25,1 milioni) e i 5,8 milioni che servono a pagare le 110 guardie svizzere. «Chissà, infine, se la spending review minacciata da Pell peserà anche sulle messe di papa Francesco: nel 2011 l’Ufficio celebrazioni liturgiche ha speso per Ratzinger 1,1 milioni. Viste le dimensioni del tesoro di Dio, si tratta poco più di una mancia».Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.
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Fortezza Europa: vendiamo armi e anneghiamo profughi
Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.«I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato», e di trova di trova di fronte un’Europa trasformata in filo spinato, scrivono Spinelli, Padoan e Viale, nella petizione sottoscritta da Alexis Tsipras e Nichi Vendola e da autorevoli personalità come Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Ermanno Rea, Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky. Imperativo morale: garantire il diritto di fuga e fermare i “respingimenti”. Nel 2013, il numero dei migranti forzati è aumentato di ben 6 milioni, complice la carneficina siriana che in tre anni ha sfrattato due milioni e mezzo di civili. Si scappa anche dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale; si fugge dalla Somalia e dal Maghreb.Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste «in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati». Chi non muore durante il viaggio, che trasforma il Mediterraneo in un cimitero, viene accolto come un fuorilegge, subendo una «inferiorizzazione giuridica, economica e sociale», oltre alla privazione della libertà. Così, a naufragare è «quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie». Sicché, «i cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi». Tuttavia, l’Unione Europea – che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani – sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo «mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare».La cosa, aggiungono i firmatari della petizione, è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere, gestione di tutte le fasi del processo migratorio, accoglienza delle persone e condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri. Tutte norme rimaste quasi lettera morta: questo «conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione», data anche l’incapacità di predisporre soluzioni pratiche come la creazione di corridoi umanitari. L’Ue preferisce restare «nascosta dalla retorica del Consiglio Europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze», tra agenzie europee che dovrebbero «applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza». Massima ipocrisia, i respingimenti: presentati come misure per salvare i profughi, sono esattamente la loro condanna all’annegamento. Sono gli Stati, per primi, a violare le norme su diritto d’asilo, integrazione e solidarietà: «L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della “fortezza Europa”».Come ogni altra legge varata dall’autocrazia tecnocratica di Bruxelles che infligge le politiche di austerity, anche lo “scudo” europeo anti-immigrazione, Frontex, non è mai stato votato dai cittadini. «L’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito», scrivono Spinelli, Padoan e Viale, ricordando il cartello esposto a Bruxelles da un migrante: “Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Servono nuove leggi, da applicare prontamente per fermare la strage. Oggi ci sono soltanto «iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex», praticamente «fumo negli occhi». I firmatari chiedono a Bruxelles di esaminare seriamente la situazione e produrre risposte. Nel frattempo, «si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche». Un corridoio umanitario tra Africa e Ue, sotto tutela Onu, per scongiurare nuove tragedie. Del resto, l’Europa è già presente in Libia: perché non fa niente per contrastare il traffico di esseri umani?Spinelli, Padoan e Viale chiedono «canali di ingresso legale», in cui «un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare», e in cui l’Onu e l’Ue presidino ogni snodo di partenza e di transito per «identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori», per poi «smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l’accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie», mettendo fine all’assedio degli abitanti di Lampedusa, costretti a supplire, con grande generosità, «l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea». Più in generale, «l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare». Poi occorre assicurare libertà di movimento, garantire ai profughi «la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti». Serve anche il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo: «Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti». Per questo, i firmatari chiedono «la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem».Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale e chiedono che l’Ue si impegni a facilitare richieste e visti, «per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita», grazie a una normativa «capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati», a cominciare dalla protezione del diritto di transito. Problema ancor più drammatico per i minori non accompagnati, quasi 6.000 in Italia negli ultimi 18 mesi: «Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione». Poi, l’istituzione dello “ius soli”, per assicurare la cittadinanza europea ai figli dei migranti nati nei nostri paesi. Obiettivo finale: una “pax mediterranea”, dopo la “guerra infinita” prodotta dall’attuale geopolitica occidentale, prima responsabile delle crisi che determinano il flusso dei rifugiati. Servono nuovi strumenti politici per governare l’esodo: «Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una “terza forza” in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d’Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci».La crisi migratoria, concludono i firmatari, mostra quanto sia urgente una politica estera europea, «attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli Usa, che sono spesso all’origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini». L’Europa è tutt’altro che innocente: tra i primi dieci esportatori mondiali di armi figurano Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia. «Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche. Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa».Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.
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Cari grillini, che c’entra Renzi con la Grande Guerra?
Lo storico Aldo Giannuli, amico di vecchia data di “Radio Popolare”, ha pubblicato in questi giorni due interessanti articoli dedicati alla “storia per anniversari” in cui pone dei problemi e articola delle riflessioni stimolanti e che ci hanno “tirato in causa”, facendoci riflettere sul nostro lavoro di queste settimane. Storia per anniversari? Parliamone. Come si fa a non essere d’accordo con il professor Giannuli: l’anniversarismo è la malattia infantile (o senile?) della storiografia. Una prova viene dall’attuale dibattito parlamentare. Il vicecapogruppo del “Movimento 5 Stelle”, Andrea Cecconi, ha twittato questo messaggio: “A 100 anni dalla Grande Guerra, la trincea è divenuta ideologica”. In un solo tweet, l’esponente del “Movimento 5 Stelle” fa un parallelismo tra le trincee militari e quelle dell’opposizione e cita uno dei padri della Costituzione, Pietro Calamandrei.Con tutta la comprensione per la posizione del gruppo grillino contro la riforma istituzionale proposta da Renzi è davvero un’iperbole insopportabile quella di paragonarsi a un alpino sull’Ortigara o a un fante sulla Marna. Perché a Palazzo Madama non si rischia di morire; perché i soldati italiani cent’anni fa non stavano difendendo la democrazia contro la dittatura; perché molti di quei militari neanche sapevano perché stavano combattendo in quelle spaventose condizioni. Quello di Andrea Cecconi è lo stesso salto mortale doppio carpiato che fanno i giornalisti quando urlano “strage” per un incidente stradale o “emergenza meteo” quando nevica fuori stagione. Decontestualizzano, ingigantiscono (o minimizzano), falsificano. Perché possono farlo senza “pagare pegno”? Perché nessuno insegna più la storia come si dovrebbe.La citazione di Calamandrei è pertinente: il giurista e politico parlava proprio di quella Costituzione che il vicecapogruppo del “Movimento 5 Stelle” rivendica di difendere con la sua azione parlamentare. Ma suggerisce l’idea che trincee e Costituzione facciano parte di un unico pacchetto. Il che – oggettivamente – è un po’ difficile da sostenere. Spezzo però una lancia a favore dell’anniversarismo, denunciato da Aldo Giannuli come principale colpevole di «una percezione “a chiazze” del sapere storico [...] che spesso è peggio della totale ignoranza della storia, perché ha effetti “falsificanti” anche maggiori». Sarà banale, ma dipende da come si usano gli anniversari: in altre parole dipende dal dosaggio di capacità divulgativa, precisione nelle fonti e contestualizzazione. Ci sono medium che sono capaci di farlo e altri no. Non dico che con il progetto multimediale “Autista moravo” abbiamo dimostrato di saperlo fare, ma posso assicurare che molti ascoltatori ci hanno comunicato la gratificazione per aver capito meccanismi della storia recente e dell’attualità che prima ignoravano.Meno banale è l’aspetto delle fonti. Mano a mano che entriamo negli anniversari più “vicini”, maggiore è la possibilità di utilizzare fonti audio e video, che rendono più vivace la narrazione. Non è semplice usarle correttamente, ma indubbiamente è più facile mostrare i filmati su come si muoveva la cavalleria, vedere le foto della battaglia, ascoltare il racconto dei sopravvissuti, confrontare i quotidiani. E quindi anche interrogarsi sulla propaganda usata come arma (consigliabile, da questo punto di vista la mostra “La Grande Guerra su grande schermo” aperta da poco al Museo Storico di Trento), sulla manipolazione dell’opinione pubblica, sulle deformazione a posteriori degli avvenimenti. Insomma: non dobbiamo abbandonare l’anniversarismo, ma abbiamo bisogno di storici competenti e di mass media che sappiano usarlo con intelligenza.(Danilo De Biasio, “Storia per anniversari? Parliamone”, dal sito di “Radio Popolare” del 31 luglio 2014).…..storia, Aldo Giannuli, Radio Popolare, anniversari, malattia, infanzia, senilità, storiografia, prove, Parlamento, M5S, Beppe Grillo, Movimento 5 Stelle, Andrea Cecconi, Twitter, social network, Grande Guerra, Prima Guerra Mondiale, ideologia, militari, opposizione, Costituzione, Pietro Calamandrei, riforme, Matteo Renzi, iperbole, alpini, trincee, Ortigara, fanteria, Marna, Palazzo Madama, rischio, morte, soldati, democrazia, dittatura, giornalisti, media, disinformazione, strage, incidenti, emergenza, meteo, menzogne, falsificazioni, scuola, studio, diritto, politica, colpa, cultura, conoscenza, ignoranza, fonti, multimediale, radio, attualità, audio, video, testimonianze, narrazione, cavalleria, sopravvissuti, giornali, propaganda, armi, musei, Trento, manipolazione, opinione pubblica, competenza, intelligenza, Danilo De Biasio,Lo storico Aldo Giannuli, amico di vecchia data di “Radio Popolare”, ha pubblicato in questi giorni due interessanti articoli dedicati alla “storia per anniversari” in cui pone dei problemi e articola delle riflessioni stimolanti e che ci hanno “tirato in causa”, facendoci riflettere sul nostro lavoro di queste settimane. Storia per anniversari? Parliamone. Come si fa a non essere d’accordo con il professor Giannuli: l’anniversarismo è la malattia infantile (o senile?) della storiografia. Una prova viene dall’attuale dibattito parlamentare. Il vicecapogruppo del “Movimento 5 Stelle”, Andrea Cecconi, ha twittato questo messaggio: “A 100 anni dalla Grande Guerra, la trincea è divenuta ideologica”. In un solo tweet, l’esponente del “Movimento 5 Stelle” fa un parallelismo tra le trincee militari e quelle dell’opposizione e cita uno dei padri della Costituzione, Pietro Calamandrei.
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Riforme progettate per noi, docile bestiame da decimare
Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.L’unico organo elettivo, cioè il Parlamento, ha poteri limitati, che preferisce non esercitare (non ha mai costretto la Commissione a un rendiconto), e la sua natura di cagnolino da passeggio è stata evidenziata da come è stato fatto votare il nuovo presidente dell’Ue: era ammesso un solo candidato – Juncker – e il voto era segreto. Per giunta, nessun elettore europeo, prima di votare, aveva saputo che sarebbe stato Juncker il candidato unico alla presidenza. Nessuna meraviglia se le medesime caratteristiche le ritroviamo anche nella urgente e irresistibile marcia delle riforme istituzionali di Renzi: queste riforme, appunto, diminuiscono la partecipazione e l’influenza degli elettori, ostacolano i referendum, danno al premier i poteri sia politico-legislativi, che di controllo (su se stesso) anche solo con un 22% dei consensi. Nessuna meraviglia: è chiaro che l’Italia e la sua Costituzione devono essere riformate in questo senso per integrarsi nella struttura autocratica dell’Ue.La seconda linea di riforme, iniziata alla fine degli anni ’70, è quella economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi sociali: il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato che corregge il mercato e fa investimenti anticiclici per evitare la recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante, fisiologica inflazione, viene sostituito con un modello da alcuni ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché Friedrich Von Hayek voleva non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello economico-finanziario imposto all’Ue fa per contro tutto questo, anzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la politica degli Stati e dell’Unione.Il detto modello raggiunge lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle banche. Quando la politica economica è affidata ai banchieri centrali, che, per statuto, deliberano e operano non solo in autonomia ma nella segretezza e nella irresponsabilità, la democrazia rappresentativa è finita, il consenso popolare è superato. Il risultato – prevedibile e inevitabile perché facente parte degli obiettivi – è la deflazione, la disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione – che ora si prospetta pure per la Germania.La Costituzione italiana del 1948 è, per contro, esplicitamente keynesiana: l’articolo 1 fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’Ue e della Bce, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione (primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici anticiclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura, diviene strutturale e non accidentale. La storia della cosiddetta integrazione europea è in realtà la storia della sostituzione di un modello socio-economico-istituzionale con un modello opposto, ossia dei valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia elettiva e la legittimità costituzionale, col loro contrario: parassitismo finanziario e autocrazia.E’ la storia di un’inversione non dichiarata, che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune, di promesso sviluppo che non arriva mai. Un’inversione di cui oramai sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno da che cosa provengano, e pensano che le cause siano la corruzione o l’evasione o l’articolo 18. In Italia, oltre a queste piaghe, le due linee di riforme di cui Napolitano, Monti, Letta e Renzi sono paladini e artefici (soprattutto Napolitano, che, per imporla e accelerarla, deborda continuamente dalla sua funzione di garante e arbitro per intervenire nella politica dei partiti) sul piano economico sta producendo un continuo e rapido aumento del debito pubblico – cioè l’opposto di ciò che promette – e l’emigrazione di capitali, imprese e cervelli, con la deindustrializzazione del paese e la moria delle sue aziende (dirò poi perché queste loro azioni non vanno condannate, nemmeno moralmente).La direzione, la finalità autocratica, essenzialmente dittatoriale, a cui mira la prima linea di riforme, cioè quelle istituzionali, spiega chiaramente la ragione per la quale, paradossalmente, ci si ostina a portare avanti la seconda linea di riforme, cioè quella economico-finanziaria, sebbene stia producendo effetti rovinosi e contrari a quelli che dovrebbe produrre, tra la sofferenza di milioni di persone: le due linee di riforme convergono in un’operazione di ingegneria sociale, di costruzione di una società radicalmente e apertamente oligarchica che comandi incontrastata le popolazioni fiaccate e rassegnate da molti anni di frustrazioni e insicurezze, e impoverite di redditi, risparmi, diritti civili, sociali, politici. Il modello economico in via di imposizione, con le sue riforme, non importa se produce recessione o stagnazione; il suo scopo reale e non detto non è la crescita, ma una riforma dell’ordinamento sociale e giuridico che assicuri il dominio sulla popolazione generale, la possibilità di sfruttarla senza limiti, l’estrazione da essa di rendite certe per il capitale finanziario anche in periodi di contrazione del Pil, e il tutto in modo formalmente legittimo. A questo servono le riforme. E le privatizzazioni, che ieri Padoan ha ripromesso, parlando in Cina, che verranno eseguite. Quindi è assurdo ciò che promette Renzi, ossia che queste riforme strutturali rilancerebbero l’economia. Possono solo rilanciare l’affarismo spartitorio e screditare ulteriormente il settore pubblico – e questo credo sia il vero obiettivo.Attualmente in Italia abbiamo un programma di tagli alla spesa pubblica, una pressione fiscale che non può calare anche a causa dei 40 miliardi all’anno di riduzione del debito pubblico che il governo dovrà fare in esecuzione del Fiscal Compact, un reddito e una capacità di spesa in picchiata anche a causa dell’alta disoccupazione e maloccupazione, soprattutto giovanili; inoltre le banche stanno riducendo il credito alle imprese e alle famiglie e tengono altissimi i tassi: sanno che gli aspiranti mutuatari, data la mancanza di continuità del loro reddito, non avranno i mezzi per ripagare i prestiti, quindi logicamente non erogano prestiti, se non raramente e con spread altissimi, al decuplo dell’Euribor, per compensare il rischio – dicono. Quindi oggettivamente non ci sono le condizioni per un’uscita dalla depressione economica. Anzi, è in corso un avvitamento recessivo, che determinerebbe rendimenti altissimi sul debito pubblico, senonché qualcuno – la Bce e/o la Fed – comprando sul mercato secondario, e distorcendo il mercato, li tiene artificialmente bassi – come fa ancora più vistosamente con le nuove emissioni del debito pubblico greco.Alla luce di quanto sopra detto, possiamo tranquillamente concludere che, quando un leader comunitario, soprattutto un leader italiano, promette crescita o impegno per la crescita, promette la sospirata flessibilità, promette che l’Ue porta allo sviluppo – quando promette queste cose, e insieme dice che “le regole europee”, “il risanamento”, “il rigore di bilancio” saranno rispettati, mente sapendo di mentire, mente per imbonire la gente: il modello che viene implementato attraverso l’Ue e l’Italia in particolare non vuole crescita, lavoro, sicurezza, rilancio produttivo, ma stagnazione. Come non vuole partecipazione popolare né diritti sociali. Al massimo sono ammessi interventi di riduzione del disagio sociale per prevenire che evolva in sommossa, o sussidii a categorie sociali realizzati a spese di altre categorie sociali (come gli 80 euro di Renzi), in una logica di divide et impera. Logica peraltro applicata anche tra gli Stati membri: consentire ad alcuni (Germania e soci) un relativo (e provvisorio) sviluppo a spese degli altri, onde avere il loro appoggio per completare l’opera di inversione costituzionale. Che si appalesa, oramai, come un’opera eversiva. E quando ci dicono “fare le riforme istituzionali è condizione per ottenere flessibilità di bilancio dall’Europa”, il significato è: “se non ci lasciate riformare la Costituzione per realizzare l’autocrazia che vuole la grande finanza, la grande finanza vi lascia senza soldi”.Diversamente da altri, io non biasimo moralmente i progettisti e gli autori di quanto sopra. Non dico che sono criminali perché sacrificano il 99% della popolazione agli interessi dell’1%. Infatti, il loro modello socioeconomico deflativo-parassitario-autocratico è più adeguato a ciò che i popoli sono, al loro effettivo livello mentale e di consapevolezza, che non è molto diverso da quello del bestiame, come dimostra la bovina docilità con cui si lasciano “riformare”. Il modello democratico, e anche il modello (post)keynesiano, presuppongono che l’uomo mediano e il popolo siano qualcosa che in realtà non sono affatto, quindi semplicemente non possono funzionare. Il modello socioeconomico deflativo ha, inoltre, il vantaggio di riuscire a imporre coercitivamente e dall’alto, di fronte al raggiungimento dei limiti fisici dello sviluppo e alla necessità di ripiegare, la necessaria decrescita ecologica dei consumi e della stessa popolazione, che in regime di democrazie nazionali non si potrebbe ottenere.(Marco Della Luna, estratti dal post “Dove portano queste riforme”, pubblicato sul blog di Della Luna il 24 luglio 2014).Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.
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Missione compiuta, l’Italia muore: la catastrofe in cifre
Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotograno «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».Secondo gli analisti di “Sollevazione”, la resa matematica dell’Italia rivelata dai conti – la lingua spietata del pallottoliere – permette anche di «capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l’euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro paese», il cui Pil ha perso 8,7 punti percentuali a partire dal 2007, inclusa la manipolazione dello spread che ha “armato” la gigantesca manomissione operata da Monti e Fornero, con la loro “spending review” e la riforma-suicidio delle pensioni. Un’agenda peraltro proseguita da Letta: tagliare la spesa, ben sapendo che il “risparmio” dello Stato manda in crisi il settore privato, facendo calare il gettito fiscale e quindi esplodere il debito pubblico. Matteo Renzi? Niente di nuovo: neoliberismo puro, a cominciare dal Jobs Act per precarizzare ulteriormente il lavoro. Aggravanti: la neutralizzazione delle ultime difese sociali garantite dalla Costituzione, come vuole l’élite finanziaria, e l’eliminazione fisica dell’opposizione attraverso una legge elettorale come l’Italicum, definita peggiore – per le sue restrizioni – di quella che permise a Mussolini di consolidare il neonato regime fascista.Tutto questo, mentre il paese soccombe ogni giorno: in sei anni, il Pil pro capite è calato di 9 punti (di 10, invece, il reddito reale disponibile per le famiglie). Stesse percentuali per la frana della ricchezza nazionale: -9% dal 2007 al 2013, pari a 843 miliardi di euro. C’era una volta l’Italia: nello stesso periodo, la produzione industriale è crollata addirittura del 25,5%. Sta andando in frantumi, grazie alla politica imposta da Berlino, il maggior competitore europeo della Germania. Tra il 2001 e in 2013, l’Italia ha perso 120.000 fabbriche. Sono cifre da scenario bellico, e non sono riguardano solo l’industria: ci sono anche le 75.000 imprese artigiane costrette a chiudere. Anno record per il fallimenti, l’infame 2013 delle “larghe intese”: qualcosa come 111.000 fallimenti, in appena dodici mesi. Contraccolpo catastrofico, la disoccupazione: dal 2001, con l’ingresso nell’Eurozona, l’industria italiana ha perso un milione e 160.000 posti di lavoro. Colpa anche dell’assenza di credito: nonostante ricevano denaro dalla Bce a tassi «prossimi allo zero», le banche continuano a finanziare le imprese con prestiti al 4,49%, mentre negli altri paesi dell’Eurozona l’interesse medio è al 3,8%.Anche così il lavoro si estingue alla velocità della luce. Dal 2007, la piaga della disoccupazione è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7 attuale. «I disoccupati ufficiali sono 3 milioni e 300.000», rileva “Sollevazione”, ai quali vanno però aggiunti «altri 3 milioni di persone», che ormai non si rivolgono neppure più ai centri per l’impiego: i cosiddetti “sfiduciati” fanno salire a quasi 6 milioni e mezzo il totale dei disoccupati italiani, proprio mentre la Germania del super-export vede salire ai massimi storici la quota degli occupati. C’è anche il trucco, naturalmente: un tedesco su quattro accetta i mini-job da 450 euro al mese. E’ la strada aperta in Italia dal Jobs Act di Renzi, di fronte a una platea oceanica di giovani senza lavoro: il 43%, più del doppio dei ragazzi disoccupati nel 2007. Sta male, comunque, la stragrande maggioranza dei salari italiani: «Con uno stipendio netto di 21.374 dollari l’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto nella classifica Ocse: se la passano peggio solo i portoghesi e gli abitanti dei paesi dell’Europa orientale». A valanga, la mancanza di impiego si traduce in forte calo dei consumi familiari, tagliati di quasi il 10% solo negli ultimi due anni. A farne le spese è anche il risparmio, continuamente eroso per far fronte all’emergenza economica, mentre la super-tassazione disposta dall’Ue ha raggiunto per l’Italia il 44% del Pil.«Se si considera il periodo tra il 2011 e il 2012 – precisa “Sollevazione” – soltanto l’Ungheria, in Unione Europea, ha conosciuto un aumento delle tasse rispetto al Pil superiore a quello dell’Italia». E’ un circolo vizioso: imporre più tasse a chi già le paga, per tentare (inutilmente) di arginare il calo delle entrate, comunque – già oggi – superiori alla somma delle uscite: situazione che sarà ulteriormente aggravata dal Fiscal Compact e cronicizzata dall’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. In pratica, la fine dello Stato sociale e delle garanzie sui servizi vitali – scuola e sanità in primis, peraltro minacciate di privatizzazione forzata dal Ttip e dal Tisa, i trattati segreti euro-atlantici imposti dagli Usa, che Renzi preme per approvare in fretta. Cartina di tornasole di questa autentica catastrofe, il debito pubblico: era pari al 103,3% del Pil nel 2007, ma ha raggiunto il 132,9% nel 2013. «L’ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un nuovo record storico: quota 2.166,3 miliardi, con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente».Va in rosso il conto delle famiglie, nel paese che prima dell’avvento dell’euro era il più risparmiatore d’Europa: rispetto al Pil, dal 1998 al 2012 il debito privato delle imprese è passato dall’85 al 120%, quello delle banche dal 40 al 110%, quello delle famiglie dal 30 al 50%. Paradossalmente, osserva “Sollevazione”, «in questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico», mentre il debito aggregato – pubblico e privato – è letteralmente esploso, dal 275% ad oltre il 400%. Spaventose pure le sofferenze bancarie, cresciute di 100 miliardi dal 2007 al 2013, per un totale di 147,3 miliardi di euro. Ed ecco l’ultimo gradino della tragedia: la povertà. Un fantasma che mette paura: l’esercito dei nuovi poveri e il timore che crescano furti e rapine ha aumentato del 5,7% i denari lasciati in custodia alle banche, oltre 1,2 miliardi di euro. Secondo Eurostat, gli «individui a rischio povertà o esclusione sociale» nel 2008 erano in Italia il 25,3%, e sono diventati il 29,9% nel 2012. L’ Istat è ancora più preciso: «Un italiano su dieci è in povertà assoluta».Tra il 2012 e il 2013, spiega l’istituto di statistica, l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8 al 7,9%, coinvolgendo oltre 300.000 famiglie e 1 milione 206.000 persone in più rispetto all’anno precedente. «E’ povera, o quasi povera, una famiglia su cinque». Poi c’è la “povertà relativa”, quelle delle famiglie (sono quasi 3 milioni e mezzo) il cui portafoglio mensile è inferiore alla spesa media nazionale, 972 euro al mese. Sono famiglie che cercano di sopravvivere con meno di 800 euro al mese, che si riducono a meno di 750 nel Mezzogiorno, dove più evidenti sono le diseguaglianze che la “crisi” ha fatto esplodere. Nel 1992, l’Italia era un paese relativamente equilibrato: non c’era un abisso tra ricchi e poveri e la classe media era in ottima salute. Oggi, praticamente, è in via di estinzione e teme di sprofondare giorno per giorno verso la povertà. Nel 2013, l’Italia è risultato «il paese più diseguale dell’Unione Europea, dopo la Gran Bretagna». Solo che il Regno Unito non è ingabbiato dall’euro. Infatti, a Londra, economia e occupazione stanno decisamente meglio rispetto alla media dell’atroce Eurozona, di cui l’Italia – dopo la Grecia – è la vittima principale.Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotografano «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».
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Tutto online, il lavoro sparisce: vincono solo i miliardari
Nell’era di Internet, la libertà è per pochi: ormai lo ammette anche il compositore Jaron Lanier, pioniere della creatività digitale. Musicista, informatico e imprenditore, Lanier incarna «il tipico prodotto della subcultura di Berkeley, nella quale l’ipermodernità si lega ecletticamente ai linguaggi estetici anni sessanta-settanta, e l’individualismo legittima la piena ricerca del successo e il più spregiudicato utilizzo dei meccanismi della moda», scrive Alessandro Visalli, citando un’intervista di Riccardo Staglianò sul “Venerdì di Repubblica”. «Lanier si è pentito: dopo aver sostenuto per anni che Internet libererà l’uomo, che produrrà un anarcoide e liberato mondo della piena affermazione per tutti, depurato del potere e leggero come le idee, si è accorto che si va nella direzione opposta». Nel suo settore più amato, la musica, «ha visto che tutto cala man mano che il prodotto si diffonde “liberamente”, che le sale da incisione chiudono, i musicisti iniziano a cambiare mestiere, i negozi restano deserti», anche perché ormai con un’iPhone da poche centinaia di euro «si possono ottenere risultati che richiedevano decine di migliaia di euro e il lavoro di molte persone».Sono nati giganti – cui lo stesso Lanier ha venduto ben tre “start-up”– che impiegano la millesima parte dei lavoratori che erano prima impegnati nei loro settori: anche così le strade si svuotano dei negozi, scrive Visalli su “Tempo Fertile”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Secondo alcune ricerche, è a rischio di ulteriore distruzione il 47% dei mestieri attualmente praticati negli Usa e il 40% della forza lavoro. Esempio: «Kodak, che impiegava 140.000 persone, oltre ad un enorme indotto per la distribuzione e commercializzazione di miliardi di pellicole, poi per il loro sviluppo e conservazione, è stata praticamente sostituita dai telefonini, da qualche app e qualche “social”». Un caso limite è Instagram, che impiega appena 13 dipendenti ed è stata appena venduta per un miliardo di dollari (Kodak ne valeva 28 con tutti i suoi stabilimenti). «Le catene di viaggi cedono a Expedia, Orbitz; le librerie ad Amazon; le case editrici a Kindle e al fenomeno dei libri fai-da-te; i traduttori stanno per essere spazzati via da software di traduzione che impiegano le innumerevoli traduzioni esistenti fatte da uomini, per automatizzarle e renderle sempre migliori con l’uso».Non è tutto: Skype sta per lanciare un servizio di sottotitoli automatico che “farà fuori” gli interpreti (magari insieme a Google Glass); l’istruzione universitaria potrà essere distribuita da Berkeley in tutto il mondo, a decine di milioni di discenti, a prezzi unitari bassissimi; una app (“Uber”) farà fuori i tassisti; altre stanno facendo lo stesso con gli alberghi; arriveranno le Google Car, a sfidare i camionisti; ma la cosa non dovrebbe lasciare tranquilli neppure gli analisti di borsa (“Warren”), i giornalisti, i commercialisti, gli avvocati, gli architetti. «E’ il modello della new economy, “winner takes all”. Ed è basato sullo sfruttamento senza restituzione di valore di una miriade di microcontenuti che sono sommati, resi significativi dall’immensa potenza del “big data”». Questo, continua Visalli, è il punto messo in evidenza da Lanier: il segreto del successo di Google Translate, di Facebook, di Amazon, di You Tube, è che «tutti i contenuti che nelle loro mani diventano oro sono regalati». Cosa resterà? «Sicuramente una élite dotata del capitale culturale, simbolico e informatico per rendersi necessaria nel mondo della iper-rappresentazione che ci si prepara; sono i vincenti che prendono tutto». E poi?«Qui la cosa si fa difficile», prosegue Visalli. «Una polvere di nicchie di mestieri di cura uno-ad-uno, autoprodotti e inventati; l’apologia dell’individualismo estremo. In mezzo? Se nessun meccanismo pubblico o privato (ma regolato) distribuirà le risorse che salgono ai “vincitori”, garantendo che chi veramente le produce (e non solo chi le rende aggregate, visibili e spendibili) ne abbia di che vivere, avremo un centro deserto». In quel caso, «non avremo neppure i mestieri di cura». Fondamentalmente, aggiunge il blogger, l’economia diventerà «un sistema in cui i beni sono prodotti in modo automatico da una piccolissima parte dei lavoratori». La tendenza è scendere molto sotto il 10%, forse sotto il 5%. Si tratta di lavoratori che “valgono” poco e ppercepiscono stipendi molto bassi. «I contenuti linguistici ed estetici – veicoli identitari e di senso primari – sono il vero veicolo di valore, ma si concentrano in pochissime mani; il resto, la grande parte della società, resterà impegnata in circuiti di auto-cura di reciprocità, poveri dal punto di vista monetario, ricchi da quello sociale e antropologico. Una società che potrebbe ricordare il medioevo».Nell’era di Internet, la libertà è per pochi: ormai lo ammette anche il compositore Jaron Lanier, pioniere della creatività digitale. Musicista, informatico e imprenditore, Lanier incarna «il tipico prodotto della subcultura di Berkeley, nella quale l’ipermodernità si lega ecletticamente ai linguaggi estetici anni sessanta-settanta, e l’individualismo legittima la piena ricerca del successo e il più spregiudicato utilizzo dei meccanismi della moda», scrive Alessandro Visalli, citando un’intervista di Riccardo Staglianò sul “Venerdì di Repubblica”. «Lanier si è pentito: dopo aver sostenuto per anni che Internet libererà l’uomo, che produrrà un anarcoide e liberato mondo della piena affermazione per tutti, depurato del potere e leggero come le idee, si è accorto che si va nella direzione opposta». Nel suo settore più amato, la musica, «ha visto che tutto cala man mano che il prodotto si diffonde “liberamente”, che le sale da incisione chiudono, i musicisti iniziano a cambiare mestiere, i negozi restano deserti», anche perché ormai con un’iPhone da poche centinaia di euro «si possono ottenere risultati che richiedevano decine di migliaia di euro e il lavoro di molte persone».
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Basta Ue: sovranità nazionale, per salvare la democrazia
Rivendicare la sovranità nazionale e disobbedire al Patto di Stabilità imposto dalla Troika:«Occorre una rottura, un bagno di realismo e uno scatto di coraggio di fronte a questa crisi e a questa Unione Europea che opprime e disunisce i popoli europei». L’ideologia dell’europeismo lubrifica il diktat economico dell’Ue, vera causa della catastrofe, mentre le ultime elezioni rivelano i sentimenti di un’opinione pubblica che «diventerà prevedibilmente sempre più anti-Unione Europea», avverte Enrico Grazzini. Senza una rivolta politica radicale la musica non cambierà, perché «alla base della politica europea e tedesca dell’austerità senza fine, della deflazione e della disoccupazione di massa ci sono i trattati di Maastricht, e poi del Fiscal Compact, del Two Pack e Six Pack», già sottoscritti dai governi di centrodestra e centrosinistra. «Senza modificare o ripudiare questi trattati-capestro è praticamente impossibile rilanciare la spesa pubblica e invertire l’attuale rotta europea», che ci sta portando al disastro.Sono proprio quei trattati-sciagura che la Merkel impugna per imporre la sua politica «suicida e insostenibile», con «regole rigidissime sui limiti ai deficit pubblici», in una situazione già drammatica in cui «gli investimenti privati e i consumi sono in caduta libera». E’ storia: «Grazie all’Ue, l’Europa è diventata da anni il malato grave dell’economia mondiale, e non riesce a vedere la fine del tunnel». L’Unione Europea uscita da Maastricht, scrive Grazzini su “Micromega”, «non è la patria degli europei», ma solo un’istituzione intergovernativa oppressiva. Modificare i trattati è pressoché impossibile, perché servirebbe l’unanimità degli Stati? «L’unica possibilità è allora di ripudiarli, di uscire da queste regole rovinose: disconoscere i trattati significa percorrere una strada difficile e dolorosa, piena di rischi, ma probabilmente non esistono alternative», anche se nemmeno la Lista Tsipras se n’è ancora resa conto: «La sinistra è culturalmente succube di un europeismo federalista che oggi ormai è completamente fuori dalla realtà».Parlano i fatti: il Parlamento Europeo, eletto solo dal 40% della popolazione del continente, è dominato da una coalizione pro-austerità ancora più larga di quella prevista prima delle elezioni: democristiani, socialisti e liberali. La Commissione Europea verrà guidata dal lussemburghese Juncker, che «rappresenta da sempre gli interessi della grande finanza europea». In ogni caso saranno i governi, «quello tedesco su tutti», a decidere le questioni economiche e politiche di sostanza. Tsipras sperava che i socialisti europei cambiassero la loro politica pro-Merkel, svoltando verso la crescita dell’occupazione? Per questo volevano Martin Schulz come presidente, ma «il compagno Schulz», è stato confermato alla guida del Parlamento Europeo «da democristiani e liberali», e quindi non cambierà politica, senza contare che Strasburgo «può poco o nulla in materia economica, monetaria e fiscale».I trattati come il Fiscal Compact riguardano direttamente i governi, e quello tedesco determina le politiche economiche dell’Unione e dell’Eurozona: «La Germania non mollerà sugli eurobond e non prende neppure in considerazione la possibilità di una maggiore solidarietà europea», continua Grazzini. «E ovviamente Germania, Francia e naturalmente la Gran Bretagna, nonostante i bei discorsi di Renzi, si oppongono a ogni lontanissima ipotesi di federazione europea». Anche Syriza dovrà rivedere la sua linea: in Grecia ha vinto, ma non al punto da conquistare il governo. La situazione greca resta disperata: il debito esplode e il paese è virtualmente fallito, a causa «dell’ingordigia delle banche tedesche e francesi che in tempi di vacche grasse hanno prestato enormi somme a governi corrotti». Quest’anno Atene ha raggiunto una bilancia commerciale in attivo e un avanzo di bilancio pubblico, quindi non ha più bisogno di capitale estero: secondo alcuni analisti, alla Grecia comviene dichiarare default, tornare alla moneta nazionale e svalutare per recuperare competitività verso l’estero. Una strada senza alternative, per un paese strangolato: «Se anche vendesse il Partenone, il suo debito pubblico continuerebbe ad aumentare a causa del pagamento degli interessi sul debito estero».Se la destra finanziaria tedesca impone un neoliberismo neo-feudale al resto d’Europa, all’appello manca – disastrosamente – la sinistra, assente o addirittura complice della “dittatura” tecnocratica. In altre parole, dice Grazzini, questa Unione Europea è semplicemente antieuropea. Per cui, «al posto di nutrirsi, come il giovane Renzi, di nobili e vacue illusioni federaliste sugli Stati Uniti d’Europa, la sinistra europea dovrebbe riconoscere una realtà sempre più evidente: l’Unione Europea nata a Mastricht non è e non sarà mai l’Unione dei popoli europei», ma solo un organismo intergovernativo «che intende garantire la sottomissione degli Stati europei agli imperativi della grande finanza tedesca e internazionale». La Ue «è prona ai diktat dei mercati finanziari e non ascolta il grido di dolore dei cittadini: se mai c’è una istituzione che, come anticipava Marx, rappresenta il “comitato d’affari” del grande capitale, questa è proprio la Ue».Per capire la Ue è meglio leggere Machiavelli piuttosto che Mazzini o Spinelli, aggiunge Grazzini. Bruxelles è un mostro giuridico, che ha tradito le aspettative dei leader del dopoguerra, da De Gasperi a Adenauer, mentre «la politica federalista di Spinelli era già fallita a causa del nazionalismo francese». Il quadro europeo è cambiato di colpo con la caduta del Muro di Berlino, la nascita della nuova potenza tedesca e la creazione dell’euro. E attenzione: «Due socialisti hanno cambiato (in peggio) la storia d’Europa: il francese Mitterrand e il tedesco Schroeder. Il primo ha imposto la moneta unica alla Germania, accettando però che l’euro fosse fin dalla nascita un marco mascherato; il secondo ha creato, con la deregolamentazione del mercato del lavoro in Germania, con l’introduzione dei mini-jobs e la sua politica pro-business e pro petrolio russo, le condizioni della supremazia tedesca. Da allora, la storia europea è dominata dall’economia e dagli interessi tedeschi».L’euro di Maastricht «ha reso impossibili le svalutazioni e le rivalutazioni», e con la crisi globale del 2008 stava per saltare: «Lo ha salvato la Merkel, concedendo che la Bce di Mario Draghi intervenisse in sua difesa “con tutti i mezzi possibili”», ma «solo perché conveniva alla Germania che l’euro non finisse nel caos». Questa moneta unica, di cui gli Stati non hanno più il controllo, non elimina solo la sovranità nazionale: «Divide strutturalmente le economie e impedisce uno sviluppo sostenibile. E’ una gabbia rigida e stupida, e mortale per le nazioni meno competitive». Infatti, l’impossibilità di svalutare all’esterno i prezzi dei prodotti nazionali – come invece fanno «senza vergogna e con successo» gli Usa, la Cina e il Giappone – comporta automaticamente la necessità di «svalutare internamente il lavoro e il proprio patrimonio pubblico e privato», e infine di «offrirsi in vendita ai paesi creditori per ripagare i debiti».La crisi ha reso evidenti i limiti della gabbia monetaria disegnata a Maastricht, continua Grazzini. «Dilagano la disoccupazione e la deindustrializzazione a favore del capitale estero, mentre continuano ad aumentare i debiti pubblici degli Stati periferici, come l’Italia». Prevedibilmente, la Ue non cambierà politica, anzi «diventerà sempre più rigida nel chiedere il rispetto del Fiscal Compact», intervenendo «in maniera sempre più autoritaria» nelle economie dei singoli paesi, «dettando le sue ricette anche a livello fiscale e di spesa pubblica». Bruxelles impone il taglio della spesa sociale, più tasse sui consumi, la privatizzazione del welfare e dei beni comuni, la deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro con i mini-job alla tedesca e la messa sul mercato delle industrie strategiche nazionali, amputando anche il risparmio dei cittadini e delle banche. La stessa Unione Bancaria «è funzionale alla politica di centralizzazione dei capitali». Idem «le controriforme di Renzi», anch’esse «funzionali al disegno europeo e agli imperativi dei mercati finanziari».Ma, anche se Renzi riuscisse a fare i “compiti a casa”, «cioè a ottenere un Senato debole e non eletto dai cittadini, una legge elettorale ultra-maggioritaria, l’introduzione dei mini-job a 400 euro al mese», il premier «non avrà nulla dall’Ue: in cambio delle (contro)riforme italiane otterrà dall’Europa ancora più austerità», a parte «qualche briciola di investimento che però non modificherà la drammatica situazione italiana». Vie d’uscita? Una: far saltare il banco e rivendicare la sovranità nazionale, che non si capisce per quale motivo debba essere considerata “di destra”. Stati Uniti d’Europa? Implicherebbero «la sottomissione dei paesi europei ad ulteriori regole sempre più centralizzate e oppressive, per integrare l’Europa su base tedesca». Sicché, «al posto di reclamare una impossibile (e comunque autoritaria) Federazione Europea, la sinistra farebbe invece bene a proporre una politica aggressiva di denuncia per destrutturare questa Unione, ridare voce all’opposizione di massa a questa Ue della finanza e della tecnocrazia».Sovranità nazionale, certo, perché «solo a livello nazionale è possibile che i popoli riescano a incidere democraticamente sull’economia e sull’occupazione», sottolinea Grazzini. «E’ una favola sciocca che il nazionalismo sia solo di destra: anche Garibaldi e i partigiani erano nazionalisti e patrioti. Anche Enrico Mattei era un patriota». Sovranità nazionale oggi significa solidarietà e democrazia, «sviluppo sostenibile orientato alla piena occupazione, alla garanzia di un salario minimo e di un reddito garantito per chi non ha lavoro». Aggiunge Grazzini: «L’autodeterminazione dei popoli contro la globalizzazione selvaggia implica una dura lotta per ristabilire l’autonomia nazionale contro i poteri sovranazionali di stampo neo-coloniale. La brutta novità di questo decennio è che, anche grazie alla Ue, il neocolonialismo monetario ed economico per la prima volta colpisce direttamente le più avanzate nazioni europee e non solo gli Stati del Terzo Mondo».Per questo motivo, è «folle e suicida» lasciare la rivendicazione sovranista alla «destra populista», che non a caso oggi «occupa lo spazio popolare che la sinistra ha colpevolmente abbandonato». L’iniziativa del referendum italiano contro il Fiscal Compact, avviata da Riccardo Realfonzo? Ottima, da sostenere: «La sinistra dovrebbe proporre di cambiare o ripudiare i trattati europei, di ristrutturare i debiti pubblici, di avviare politiche espansive mirate a combattere la disoccupazione e a reprimere la speculazione. E dovrebbe ridiscutere radicalmente la moneta unica che conviene solo alla Germania». Riaprire i giochi: «Proporre di concordare il ritorno alle monete nazionali con cambi fissi aggiustabili, e creare una moneta comune (ma non unica) europea verso il dollaro, lo yuan e lo yen». Forse allora «l’Europa potrebbe rinascere», ma per questo servirebbe un terremoto politico. E servirebbe una sinistra onesta e coraggiosa, di cui in Italia non c’è più traccia da troppi anni.Rivendicare la sovranità nazionale e disobbedire al Patto di Stabilità imposto dalla Troika: «Occorre una rottura, un bagno di realismo e uno scatto di coraggio di fronte a questa crisi e a questa Unione Europea che opprime e disunisce i popoli europei». L’ideologia dell’europeismo lubrifica il diktat economico dell’Ue, vera causa della catastrofe, mentre le ultime elezioni rivelano i sentimenti di un’opinione pubblica che «diventerà prevedibilmente sempre più anti-Unione Europea», avverte Enrico Grazzini. Senza una rivolta politica radicale la musica non cambierà, perché «alla base della politica europea e tedesca dell’austerità senza fine, della deflazione e della disoccupazione di massa ci sono i trattati di Maastricht, e poi del Fiscal Compact, del Two Pack e Six Pack», già sottoscritti dai governi di centrodestra e centrosinistra. «Senza modificare o ripudiare questi trattati-capestro è praticamente impossibile rilanciare la spesa pubblica e invertire l’attuale rotta europea», che ci sta portando al disastro.
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Pardi: Renzi peggio della P2, è in arrivo una dittatura
La P2 è cosa passata e sepolta. E comunque tale riforma è peggio di quel che era il programma della P2 perché essa era una cosa visionaria di ultradestra, frenata dall’interno da tutti i meccanismi della democrazia, Dc compresa non essendo complice fino in fondo. Oggi invece abbiamo il partito di centrosinistra che instaura la dittatura della maggioranza, peggio della P2. Renzi sta applicando e realizzando il programma di Berlusconi. Come un mantra, il premier si dice continuamente soddisfatto dell’affidabilità di Forza Italia, la quale avrebbe mantenuto in vita il Patto del Nazareno. Lo credo bene, è il loro programma! Quante volte Berlusconi si è lamentato di una Costituzione che non darebbe a chi governa gli strumenti per farlo? Hanno inventato questo meccanismo di dittatura della maggioranza (e di dittatura del leader della maggioranza sulla sua maggioranza) per liquidare ogni possibilità di opposizione parlamentare.La riforma del Titolo V è frutto di un dialogo tra Pd e Fi. Vi sembra normale che un pregiudicato come Berlusconi sia protagonista di una riforma costituzionale? La legge elettorale è platealmente incostituzionale come quella attuale: con un mostruoso premio di maggioranza mantiene il voto diseguale ed esclude dalla rappresentanza politica milioni di cittadini. Tra l’altro le liste saranno bloccate quindi a decidere la composizione saranno i partiti, nelle loro segrete stanze. C’è il rischio si instauri in Italia – in senso tecnico – una dittatura della maggioranza in grado di modificare la Corte Costituzionale ed eleggersi il suo presidente della Repubblica. Inoltre sarà la dittatura del leader della maggioranza sulla sua stessa maggioranza. Questo Parlamento non ha alcuna legittimità a legiferare sulla Costituzione essendo composto da nominati in base a una legge elettorale, il Porcellum, ritenuta incostituzionale dalla Consulta. Di cosa stiamo parlando? Abbiano il buon gusto e la serietà di legiferare su temi come lo sviluppo, il lavoro, l’economia, i diritti civili ma si astengano rigorosamente dal toccare la nostra Carta. È un’anomalia pericolosissima.Il soggetto promotore è senza diritto: solo Camere elette con una legge che restauri il principio dell’articolo 48 (il voto è personale ed eguale) potranno modificare la Costituzione. In secondo luogo, ci vogliono far credere che il bicameralismo sia la causa di tutti i mali. Una bugia. Da tempo il Parlamento è esautorato dai propri compiti: si governa il paese tramite decreti leggi con le Aule relegate al solo compito di votare la fiducia. I disegni di legge sono rarissimi e il potere legislativo è di fatto nelle mani dell’esecutivo. Il vero problema è che la maggioranza non è compatta e i leader non riescono a gestire i propri partiti. Bicameralismo perfetto? No, potremmo anche rivederlo. Ma il focus è un altro: la riforma costituzionale va associata alla nuova legge elettorale in cantiere. I due provvedimenti sono parte di uno stesso disegno. Vogliono declassare il Senato e lasciare intatta la Camera che permetterà al partito che prende più voti un dominio assoluto.(Pancho Pardi, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “La riforma di Renzi peggio della P2”, pubblicata da “Micromega” il 14 luglio 2014).La P2 è cosa passata e sepolta. E comunque tale riforma è peggio di quel che era il programma della P2 perché essa era una cosa visionaria di ultradestra, frenata dall’interno da tutti i meccanismi della democrazia, Dc compresa non essendo complice fino in fondo. Oggi invece abbiamo il partito di centrosinistra che instaura la dittatura della maggioranza, peggio della P2. Renzi sta applicando e realizzando il programma di Berlusconi. Come un mantra, il premier si dice continuamente soddisfatto dell’affidabilità di Forza Italia, la quale avrebbe mantenuto in vita il Patto del Nazareno. Lo credo bene, è il loro programma! Quante volte Berlusconi si è lamentato di una Costituzione che non darebbe a chi governa gli strumenti per farlo? Hanno inventato questo meccanismo di dittatura della maggioranza (e di dittatura del leader della maggioranza sulla sua maggioranza) per liquidare ogni possibilità di opposizione parlamentare.
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Temo una rivolta, perché guadagno mille volte più di voi
«Probabilmente non mi conoscete, ma come voi sono uno degli 0,1%, un fiero capitalista. Ho fondato, co-fondato e finanziato più di 30 società di ogni genere, da cose piccole come il night club con cui ho cominciato a vent’anni, a giganti come Amazon.com di cui sono stato il primo investitore esterno. Poi ho fondato aQuantitative, una società di pubblicità su Internet che nel 2007 è stata venduta a Microsoft per 6,4 miliardi di dollari. In contanti. Insieme ad amici possediamo una nostra banca. Racconto tutto questo per dimostrarvi che per molti versi non sono molto diverso da voi. Come voi ho una visione ampia degli affari e del capitalismo. E come voi sono stato oscenamente ricompensato per il mio successo, con una vita che gli altri 99,9% di americani non possono nemmeno immaginare. Molteplici case, aereo personale, ecc». Comincia così una sorprendente lettera aperta, pubblicata qualche giorno fa dal sofisticato “Politico.com” e rilanciata da siti di economia & politica come “Business Insider” e “Zero Hedge”, ogni volta con un gran numero di lettori e apprezzamenti.Una lettera che è anche una analisi/denuncia del livello estremo raggiunto dalla disuguaglianza nell’odierno capitalismo. E un avviso: così non può continuare. Arriveranno i forconi, contro di noi. Nick Hanauer, 55 anni, nonni immigrati dalla Germania di Hitler, è un classico uomo d’affari americano, uno che si è fatto da sé. Americano anche nel piglio con cui si esprime. «Nel 1992 a Seattle vendevo cuscini fabbricati dall’impresa della mia famiglia a negozi in giro per il paese e Internet era una goffa novità alla quale ci si collegava a 300 baud. Ma già allora mi sono accorto abbastanza rapidamente che molti grandi magazzini miei clienti erano condannati. Ho capito che non appena Internet fosse diventata abbastanza veloce e affidabile – e quel tempo non era così lontano – tutti si sarebbero buttati a comprare on line come pazzi. Realizzare questo, vedere oltre l’orizzonte un po’ più in fretta di tanti altri, è stata la parte strategica del mio successo. La parte fortunata è stata invece l’avere un paio di amici, entrambi di grande talento, anche loro intrigati dalle potenzialità della rete. Uno è un tizio di cui non avrete certo sentito parlare, Jeff Tauber, l’altro era Jeff Bezos (il fondatore di Amazon ndr). Ero così eccitato dal potenziale del web che ho detto ai due Jeff che volevo investire in qualsiasi cosa avessero deciso di lanciare».«Il secondo Jeff – Bezos – mi chiamò per primo, e lo aiutai a sottoscrivere la sua piccola libreria start up. L’altro Jeff partì con un negozio on line chiamato Cybershop, ma quando la fiducia nelle vendite via Internet era ancora bassa; era troppo presto per la sua idea, la gente non era ancora pronta ad acquistare on line cose costose senza vederle di persona (a differenza di oggetti semplici come i libri, la cui qualità non cambia – questa è stata la carta vincente di Bezos). Cybershop non è andato lontano, è stato uno dei tanti fallimenti di imprese dot-com. Amazon è andato meglio. E io ora possiedo un maxi-yacht. Ma lasciatemi essere franco. Non sono la persona più intelligente che avete conosciuto, o quello capace di lavorare più sodo. Ero uno studente mediocre, non sono un tecnico – non so ho mai saputo scrivere una riga di software. Quel che mi è servito, credo, è una certa propensione al rischio e un’intuizione su quel che accadrà in futuro. Intuire dove le cose stanno andando è l’essenza dell’imprenditorialità. E cosa vedo oggi nel nostro futuro? Vedo dei forconi».«Mentre persone come voi e me prosperano oltre i sogni di ogni plutocrate nella storia, il resto del paese – il 99,9% – resta molto indietro e arretra. Il divario fra quelli che hanno e quelli che non hanno peggiora sempre di più. Nel 1980 l’1% in cima alla piramide controllava l’8% del reddito nazionale degli Stati Uniti. Il 50% più in basso si divideva il 18% delle ricchezze. Oggi l’1% più ricco si divide il 20%, e il 50% della popolazione solo il 12%. Ma il problema non è la disuguaglianza in sé, qualche misura è intrinseca a ogni economia capitalista che funzioni. Il problema è che la disuguaglianza è a livelli storicamente mai visti e peggiora di giorno in giorno. Il nostro paese sta diventando una società sempre meno capitalista e sempre più una società feudale. A meno che le nostre politiche non cambino drammaticamente, la classe media scomparirà, e torneremo indietro alla Francia del 18° secolo. Prima della Rivoluzione. Così ho un messaggio per i miei colleghi oscenamente ricchi, per tutti coloro che vivono nelle bolle dei nostri mondi circondati da cancellate: svegliatevi, gente. Non durerà. Se non si fa qualcosa per sanare le clamorose diseguaglianze in questa economia, i forconi ci saranno addosso».«Nessuna società può tollerare una tale disparità. Non ci sono esempi nella storia in cui si sia verificata una tale accumulazione di ricchezza e i forconi non siano arrivati. Dove c’è una società altamente disuguale o c’è uno Stato di polizia, o un’insurrezione. Non ci sono altre possibilità. Il punto non è se, ma quando. Molti di voi pensano che siamo speciali perché “questa è l’America”, pensiamo di essere immuni alla forze che hanno dato vita alla Primavera Araba o alle Rivoluzioni in Francia e in Russia. Molti fra i colleghi dello 0,1% sfuggono questo argomento, molti mi prendono per matto, altri vedono un ragazzino povero con un iPhone e pensano che l’ineguaglianza sia una finzione. Vivete nel mondo dei sogni, vi dico. Volete credere che se ci sarà qualche segnale di destabilizzazione, ci sarà tempo per reagire e organizzarsi. Ma non funziona così, come sa qualsiasi studente di storia. Le rivoluzioni, come le bancarotte, si manifestano per gradi e poi precipitano di colpo. Un giorno uno si dà fuoco e improvvisamente la gente è in strada, prima che ci si renda conto il paese brucia. E non c’è tempo per salire sul nostro Gulfstream e scappare in Nuova Zelanda. Succede così. E se l’ineguaglianza peggiorerà, succederà».Sembrano le parole dei ragazzi di “Occupy Wall Street”, movimento che pare scomparso nel nulla. Ma il nostro capitalista niente affatto pentito non parla così per paura quanto per interesse. Del paese, della società, ma anche degli stessi ultraricchi dello 0,1%, a quanto cerca di dimostrare nell’analisi che segue. La cui tesi si può riassumere nel titolo dato al post da “Business Insider” (foto di persone in fila negli anni ’30 della Grande Depressione): “Spiacenti, gente, ma i ricchi non creano occupazione”. Hanauer se la prende con il punto di vista “ortodosso” dell’economia politica, e ne smonta alcuni presupposti di fondo: «Sono i ricchi che creano occupazione? Falso. E’ come dire che il seme crea l’albero: magari ne è il presupposto, ma provate a piantare un seme su Marte o nel Sahara. Senza terra buona, acqua, nutrienti non spunterà nulla e il seme morirà. La retorica per cui l’America è grande per via di uomini come me e Steve Jobs è finzione. Se entrambi fossimo nati in Somalia o in Congo saremmo rimasti a vendere frutta all’angolo della strada».L’economia non è un’astrazione, ma un ecosistema complesso di persone reali fra loro interdipendenti. Se i lavoratori hanno più denaro, le imprese hanno più clienti e hanno bisogno di più impiegati. A creare posti di lavoro in ultima istanza sono i clienti, i consumatori, vale a dire la classe media. Non sono i ricchi, come vuole uno dei luoghi comuni dell’economia ortodossa, non sono gli imprenditori, che pure sono una parte importante del processo. La classe media è stata la causa, non la conseguenza, della prosperità goduta nel passato dagli Usa. Alzare il salario minimo costa posti di lavoro, per la legge della domanda e dell’offerta? Falso. Lo aveva ben capito Henry Ford che nel 1914 raddoppiò la paga ai suoi operai (a 5 dollari al giorno, equivalenti a 120 di oggi) affinché potessero permettersi di comprare le auto che producevano. Lo ha capito la città di Seattle, che ha alzato per legge il salario minimo a 15 dollari l’ora da 9 – che era già il 30% in più della media Usa. Risultato: Seattle è con San Francisco la città col tasso di occupazione più alto negli Usa, ed è in assoluto la città che cresce di più.Il problema con la nostra economia – chiosa “Business Insider” – è che quella che una volta era la nostra potente classe media è stata lasciata impoverire da decenni di tagli ai costi e salari stagnanti, e oggi porta a casa una quota molto minore di 30 anni fa, mentre gente come Hanauer e i suoi amici dell’1% si accaparravano fette sempre maggiori di ricchezza, anche dopo la crisi del 2008. Dal 2009 al 2012 il 95% dei guadagni è andato all’1% mentre il 99% è rimasto al palo. Negli ultimi tre decenni i compensi per i Ceo (amministratori delegati, direttori generali, alti dirigenti) sono cresciuti 127 volte più rapidamente di quelli di altre categorie. Dal 1950 il rapporto tra la paga di un Ceo e quella di un lavoratore è aumentato del 1.000%: i Ceo guadagnavano 30 volte il salario medio, oggi il loro stipendio vale 500 volte il secondo. E nessuno ha eliminato i propri alti dirigenti senior, li ha esternalizzati in Cina o ha automatizzato il loro lavoro. Al contrario, ce ne sono molti più di prima.Intanto la classe media veniva falcidiata da politiche fiscali favorevoli all’1%, dalla globalizzazione e da miglioramenti tecnologici senza controlli. Ma veniva strozzata anche dalla nostra ossessione per il profitto a breve termine, dall’ethos prevalente nel mondo degli affari per cui gli impiegati sono visti come “un costo” e le società tengono i loro salari più bassi possibile. E’ un bene per l’economia che i ricchi siano sempre più ricchi? Falso. Il punto è che la classe media spende quasi tutto quello che guadagna, e questa spesa diventa ricavo per società avviate, finanziate o possedute da persone come Hanauer. Ma oggi, con i salari bassi come mai grazie all’avidità e alle corte vedute dell’1%, la classe media non è più in grado di farlo, e ciò si ritorce contro l’economia reale e gli stessi imprenditori. In America infatti i più ricchi – imprenditori, investitori e società – oggi hanno così tanto denaro da non riuscire a spenderlo. Così, invece di ri-pomparlo nell’economia creando guadagni e salari, quel denaro resta in conti di investimento.«Io guadagno all’anno 1.000 volte l’americano medio, ma non compro mille volte più roba. La mia famiglia negli ultimi anni ha comprato tre automobili, non 3.000. Io ho acquistato qualche paio di pantaloni e qualche camicia all’anno, come molti altri americani. Ho comprato due paia dei migliori pantaloni di lana, quelli che il mio partner Mike chiama “pantaloni da manager”. Ma non avrei potuto acquistarne 1.000. Invece ho messo via il mio denaro extra là dove non fa molto bene al paese». Se i 9 milioni di dollari di Hanauer in più dei 10 milioni di guadagni annuali fossero andati a 9.000 famiglie invece che a lui, sarebbero stati pompati di nuovo nell’economia attraverso il consumo. E avrebbero creato più occupazione. Invece stanno nei conti bancari di Hanauer o investiti in società che non hanno abbastanza clienti potenziali a cui vendere. Hanauer stima che se la maggior parte delle famiglie americane portasse a casa la stessa quota di reddito nazionale di 30 anni fa, ogni famiglia avrebbe altri 10.000 dollari di reddito da spendere.Con famiglie più ricche, lo Stato potrebbe davvero diventare più snello, risparmiando su assistenza pubblica, cure mediche gratuite, buoni pasto (oggi fruiti da 44 milioni di cittadini). E anche i più ricchi se ne gioverebbero. Il messaggio finale: «Cari 1%, molti dei nostri compatrioti cominciano a credere che il problema sia il capitalismo in sé. Non sono d’accordo, e credo non lo siate neppure voi. Ma il capitalismo lasciato senza controlli tende alla concentrazione e al collasso. Ecco perché gli investimenti nella classe media funzionano, e i tagli delle tasse ai ricchi invece no. Bilanciare il potere dei lavoratori con quello dei miliardari alzando il salario minimo non è male per il capitalismo, è uno strumento indispensabile per rendere il capitalismo stabile e sostenibile», conclude Hanauer (all’inizio invero esortava a prendere esempio dalle riforme di Franklyn Delano Roosevelt, un po’ più ampie di così). «O possiamo star seduti, non fare nulla e goderci i nostri yacht. Aspettando i forconi».L’analisi di Hanauer riguarda anche l’Italia? Sì, per tre motivi. Perché le disuguaglianze ci sono anche da noi, sia pure meno accentuate che negli Usa; perché le tendenze in America si riflettono altrove, a cominciare dall’Europa; perché, al di là delle riforme indispensabili al nostro paese fermo da decenni, l’economia italiana fa parte del sistema economico globale. Un sistema che fra debiti enormi e disoccupazione vertiginosa non sta affatto bene, come oggi ricorda la Banca dei Regolamenti Internazionali, mentre un rapporto della Banca Mondiale invita esplicitamente a prepararsi per la prossima crisi. Hanauer parla sicuramente nell’interesse dell’economia reale, dei cittadini e delle imprese piccole e medie. Ma alle banche e alle grandi corporations i luoghi comuni dell’ortodossia vanno benissimo. Finanza e multinazionali, compresi i costruttori di armamenti, i colossi dell’high-tech, i giganti della farmaceutica o del web hanno clienti globali, si tratti dell’1% del pianeta (dove addirittura 85 iper-ricchi – non 8.500, né 850, proprio 85 – detengono tanta ricchezza quanta ne possiede la metà della popolazione della Terra) o della classe media che a livello planetario comunque emerge fra varie contraddizioni. E multinazionali e banche & finanza hanno anche le lobby più potenti capaci di “convincere” i politici a fare leggi e norme a loro più favorevoli. Non resta che attendere i forconi, allora, o aspettare la prossima crisi?(Maria Grazia Bruzzone, “Svegliatevi plutocrati, i forconi ci saranno addosso”, da “La Stampa” del 4 luglio 2014).«Probabilmente non mi conoscete, ma come voi sono uno degli 0,1%, un fiero capitalista. Ho fondato, co-fondato e finanziato più di 30 società di ogni genere, da cose piccole come il night club con cui ho cominciato a vent’anni, a giganti come Amazon.com di cui sono stato il primo investitore esterno. Poi ho fondato aQuantitative, una società di pubblicità su Internet che nel 2007 è stata venduta a Microsoft per 6,4 miliardi di dollari. In contanti. Insieme ad amici possediamo una nostra banca. Racconto tutto questo per dimostrarvi che per molti versi non sono molto diverso da voi. Come voi ho una visione ampia degli affari e del capitalismo. E come voi sono stato oscenamente ricompensato per il mio successo, con una vita che gli altri 99,9% di americani non possono nemmeno immaginare. Molteplici case, aereo personale, ecc». Comincia così una sorprendente lettera aperta, pubblicata qualche giorno fa dal sofisticato “Politico.com” e rilanciata da siti di economia & politica come “Business Insider” e “Zero Hedge”, ogni volta con un gran numero di lettori e apprezzamenti.
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Caracciolo: polveriera Gaza, il Medio Oriente è impazzito
Parrebbe la solita storia: Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse. Quindi, aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili. A seguire, spedizione punitiva, stivali per terra, nella Striscia. Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio: è cambiato il contesto, avverte Lucio Caracciolo. Stanno mutando i rapporti di forza all’interno delle leadership palestinesi e israeliana. Soprattutto, «il Grande Medio Oriente si sta disintegrando: dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua», dopo le “primavere arabe” e le contro-rivoluzioni di marca saudita che hanno prodotto solo «guerre, miseria, precarietà».Esempio, il golpe egiziano con tentativo tuttora in corso di annegare nel sangue la Fratellanza musulmana. E poi «la disintegrazione della Libia, il massacro permanente sulle macerie della Siria e la mai spenta guerra civile in Iraq», che ora ha visto riemergere «le tribù sunnite e i vedovi di Saddam, insieme ai jihadisti dell’Isis, inventori dell’improbabile “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi». Sullo sfondo, scrive il direttore di “Limes”, c’è il rischio che anche la Giordania, «battuta da cotante onde sismiche», finisca per crollare. Grandi domande: quanto e come potrà tenere l’Arabia Saudita, che stenta a riprendere il controllo dei “suoi” jihadisti e altri agenti scagliati contro il regime di Assad e gli sciiti iracheni, impegnati a liquidare i Fratelli Musulmani? Inoltre, che fine farà il disegno dell’Iran di «rientrare a pieno titolo nella partita internazionale sacrificando le proprie ambizioni nucleari sull’altare di un accordo con gli Stati Uniti?». Di conseguenza, «Obama vorrà portare fino in fondo il suo ritiro dal Medio Oriente, o sarà costretto a smentirsi per non perdere quel che resta della credibilità americana nella regione e nel mondo?».Nel campo palestinese, continua Caracciolo, il riflesso dello tsunami regionale ha una conseguenza strategica: entrambe le sue leadership storiche sono in agonia. «Per questo hanno dovuto inventare un improbabile “governo” di unità nazionale». Abu Mazen «si era ridotto a fare il poliziotto per conto di Netanyahu, venendo per ciò remunerato e vezzeggiato da europei e americani». Ma la “pax cisgiordana” degli ultimi anni, culminata nel record del 2012 (zero morti israeliani in Giudea e Samaria), è stata minata dal recente assassinio dei tre ragazzi israeliani e dalle rappresaglie che ne sono seguite. «In questa vicenda – prosegue il direttore di “Limes” – è venuta in piena luce la crisi di Hamas, che ha perso il controllo di centinaia di gruppuscoli jihadisti o financo “lupi solitari” che agiscono in proprio ma sono in grado di condizionare le agende altrui, Israele incluso». Sicché, «l’atroce uccisione di Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel è stata subito attribuita da Netanyahu a Hamas. Quanto meno, è una semplificazione».A compiere quel crimine si dice siano stati alcuni killer della tribù dei Qawasameh, basata a Hebron, che «si dedica da tempo a compiere attentati per screditare la leadership di Hamas ogni volta che questa cerca di costruirsi una qualche legittimità internazionale». Dunque una scheggia impazzita, non certo un referente militare della «peraltro divisa» leadership di Gaza. La rappresaglia contro la Striscia non potrà dunque portare a risultati duraturi, sottolinea Caracciolo, perché i mille clan jihadisti non sono bersaglio da missile. Favorirà, al contrario, la radicalizzazione di altri giovani palestinesi. «Spirale infinita, ma non uguale a se stessa: a ogni giro di provocazione e rappresaglia, il gioco di violenze e controviolenze diventa più rischioso». La crisi «potrà essere sedata, magari a lungo», ma «non risolta». Così, Netanyahu «rischia di fare i conti con gli effetti imprevisti del machiavellismo con cui lui, come i suoi predecessori, ha pensato di chiudere la partita palestinese giocandone le fazioni una contro l’altra». L’opinione pubblica israeliana, angosciata dalla continua pioggia di razzi, sta spingendo il premier ad alzare il tiro. «L’estrema destra lo accusa di passività, la coalizione di governo perde pezzi (Avigdor Lieberman) e il suo aspirante successore, Naftali Bennett, affila le armi. Risultato: 40 mila riservisti sono mobilitati e una nuova campagna di terra dentro Gaza sembra imminente».Invadere Gaza, dunque. Ma con quale obiettivo? «Una soluzione radicale dovrebbe prevedere la rioccupazione della Striscia: impossibile senza un bagno di sangue, con perdite considerevoli anche fra i soldati israeliani». L’ultima cosa che Gerusalemme vuole, sostiene Caracciolo, è «riaccollarsi la responsabilità di quell’inferno da cui Sharon seppe smarcarsi quasi dieci anni fa». Incognite pericolose: «La storia non si ripete. Massimo, fa rima. E illude. Tutti i contendenti pensano di recitare un copione scritto. Anche volendo, non possono. Dentro e intorno a casa, tutti hanno preso a correre all’impazzata. Verso dove, nessuno sa. Meno che mai quelli che pensano di saperlo».Parrebbe la solita storia: Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse. Quindi, aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili. A seguire, spedizione punitiva, stivali per terra, nella Striscia. Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio: è cambiato il contesto, avverte Lucio Caracciolo. Stanno mutando i rapporti di forza all’interno delle leadership palestinesi e israeliana. Soprattutto, «il Grande Medio Oriente si sta disintegrando: dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua», dopo le “primavere arabe” e le contro-rivoluzioni di marca saudita che hanno prodotto solo «guerre, miseria, precarietà».