Archivio del Tag ‘rigore’
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Becchi: grazie a Di Maio, il Quirinale punta all’accordo col Pd
Sabino Cassese a Palazzo Chigi, con Di Maio come ruota di scorta e il placet di Renzi. Tradotto: come seppellire in poche settimane l’indicazione degli elettori, che il 4 marzo si sono chiaramente espressi per voltare pagina rispetto al passato. Senza contare il 27% di italiani rimasti prudentemente lontani dalle urne, il 55% ha scelto 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia. Ovvero: fine dei governi-ombra agli ordini di Bruxelles, inagurati da Monti e proseguiti con Letta, Renzi e Gentiloni, l’uomo “invisibile” che passerà alla storia per aver convalidato il decreto Lorenzin sui vaccini obbligatori in assenza di emergenze sanitarie, terremotando le famiglie italiane. Dopo l’illusione della diarchia Salvini-Di Maio a incarnare il cambiamento invocato dagli ettori (meno tasse, reddito di cittadinanza), secondo Paolo Becchi – a causa del veto grillino su Berlusconi – si fa strada l’ipotesi peggiore: un “governo del presidente” sostenuto dai 5 Stelle ma senza più Di Maio a Palazzo Chigi. Un esecutivo pallido, sorretto anche dal Pd tuttora renziano. Filosofo del diritto, in passato vicino alla leadership grillina, Becchi ora avverte: «Di Maio non può pretendere di mettere Salvini di fronte a un ricatto. A quel punto si assume una gravissima responsabilità: quella di consegnare la volontà degli elettori o a una cattiva alleanza, quella col Pd, o alle ipotesi tecniche».Secondo Becchi, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”, «il Quirinale ha un preciso disegno in testa», però «intende arrivarci gradualmente, certificando il fallimento delle ipotesi alternative». Ha conferito a Elisabetta Casellati un mandato esplorativo a stretto giro, mentre «centrodestra e M5S non hanno raggiunto un accordo in un mese e mezzo». Impensabile che accada qualcosa di decisivo prima delle elezioni regionali, in programma il 22 aprile in Molise e il 29 in Friuli. Cosa c’entrano le elezioni regionali? «L’intento di Mattarella – sostiene Becchi – è quello di mettere in difficoltà i due probabili vincitori di questo voto, amministrativo ma di grande valore politico, perché se Berlusconi perde malamente in Molise, dove si sta impegnando in prima persona, politicamente è finito. A quel punto Salvini sarebbe più autonomo e potrebbe alzare la posta». Significa che il Colle vuole impedire a Di Maio e Salvini di mettere sul piatto delle trattative di governo le rispettive vittorie elettorali in Molise e Friuli? «Significa che vuole impedire a Salvini di avere più peso politico all’interno della coalizione vincente nelle urne del 4 marzo, tagliando così le gambe alle possibilità residue di un accordo M5S-Lega».La manovra servirebbe a legittimare altri scenari, ovvero «un patto M5S-Pd, oppure un “governo del presidente”, affidato per esempio a Sabino Cassese», giurista e accademico, giudice emerito della Corte Costituzionale. Lo stesso Cassese, in un editoriale “interventista” sul “Corriere della Sera”, ha lanciato un monito a tutti, dalla Siria all’Italia: la sovranità degli Stati «va tenuta sotto controllo», e inoltre gli Stati «agiscono per la realizzazione di principi globali». Princìpi che il nuovo M5S “atlantista” potrebbe sottoscrivere. «Il disegno è chiaro», dice Becchi: «Far saltare l’accordo del M5S con il centrodestra per evitare il “pericolo” leghista e far nascere un “governo del presidente” con 5 Stelle e Pd, mettendo al posto di un inesperto come Di Maio un ex giudice costituzionale in grado di garantire la collocazione internazionale e la messa in sicurezza del paese». E perché mai Di Maio ci dovrebbe stare? «Perché a quel punto avrà giocato male la sua partita con Salvini e non potrà più tornare indietro», argomenta Becchi. «Dovrà scegliere tra dare un governo al paese o andare al voto. Di Maio ha tirato troppo la corda e alla fine l’ha spezzata. Non se ne è ancora reso conto, ma non farà più il capo del governo». E Renzi? «Darebbe l’okay, perché Di Maio non farebbe più il premier».Di Maio ha detto che vorrebbe governare solo con Salvini? «L’impressione è che alla Lega il governo non interessi» sottolinea Becchi: «L’opposizione è più redditizia e in palio c’è il centrodestra del dopo-Berlusconi». Il professore è ancora convinto che Salvini voglia innanzitutto portare il centrodestra al governo, e che voglia farlo coi 5 Stelle «perché sono le due forze che hanno vinto le elezioni». Ma i due programmi non sono incompatibili? «Non lo credo», risponde Becchi. «Il M5S non ha nessun programma, fa e disfa i programmi a piacimento a seconda delle convenienze. E’ un partito liquido, con a capo un trentenne che si è montato la testa e vuole fare il premier a tutti i costi. E infatti darebbe tranquillamente alla Lega i ministeri di peso». Se la Casellati guadagnasse tempo, aggiunge Becchi, forse prolungherebbe la vita all’ipotesi 5 Stelle-Lega: «Non è stata esplorata fino in fondo, e sono proprio le urne di Molise e Friuli a legittimarla». L’ipotesi della staffetta Di Maio-Salvini «offrirebbe garanzie anche a Berlusconi: gli permetterebbe di avere qualche ministro e soprattutto ci potrebbe stare un accordo per tutelare le aziende».Il veto del Movimento 5 Stelle sul Cavaliere «avvalora l’ipotesi che Di Maio voglia davvero fare il governo col Pd», afferma Becchi». Ma se fosse Berlusconi a continuare a opporsi ai grillini, le elezioni in Molise e in Friuli potrebbero tradirlo: «In questo caso Salvini, più forte grazie al risultato regionale, potrebbe davvero abbandonare Berlusconi, andandosene con Fratelli d’Italia e con metà Forza Italia per fare un centrodestra a propria immagine: se Berlusconi non accettasse, sarebbe il suo funerale politico». Viceversa, un nuovo Patto del Nazareno spaccherebbe il centrodestra: «La Lega e Fratelli d’Italia uscirebbero: Salvini non accetterebbe mai di entrare in un “governo del presidente”». E Di Maio? Perché non si è ancora reso conto del fatto che non farà più il premier? «Per una ragione profonda, non politica», sostiene Becchi. «Di Maio e il gruppo dirigente del M5S, ma la considerazione vale anche per i militanti, sono ormai persone che vivono di rancore, di passioni tristi. Il risentimento li blocca e li bloccherà su tutto. Se non sei più in grado di contemplare una ipotesi politica di governo, se credi che avendo 11 milioni di voti alle spalle ti puoi comportare come vuoi continuando a dire io-io-io, o me o nessuno, se Berlusconi ti dice che non ha veti e tu continui a dire no, allora è finita». Questo lo ha detto, a Di Maio?«Sì, ma non c’è stato verso». Come andrà a finire? «La crisi di governo li sta fregando – chiosa Becchi – perché sta diventando anche e soprattutto colpa loro, di Di Maio soprattutto. E se per caso si vota, i 5 Stelle potrebbero avere brutte sorprese».Sabino Cassese a Palazzo Chigi, con Di Maio come ruota di scorta e il placet di Renzi. Tradotto: come seppellire in poche settimane l’indicazione degli elettori, che il 4 marzo si sono chiaramente espressi per voltare pagina rispetto al passato. Senza contare il 27% di italiani rimasti prudentemente lontani dalle urne, il 55% ha scelto 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia. Ovvero: fine dei governi-ombra agli ordini di Bruxelles, inaugurati da Monti e proseguiti con Letta, Renzi e Gentiloni, l’uomo “invisibile” che passerà alla storia per aver convalidato il decreto Lorenzin sui vaccini obbligatori in assenza di emergenze sanitarie, terremotando le famiglie italiane. Dopo l’illusione della diarchia Salvini-Di Maio a incarnare il cambiamento invocato dagli elettori (meno tasse, reddito di cittadinanza), secondo Paolo Becchi – a causa del veto grillino su Berlusconi – si fa strada l’ipotesi peggiore: un “governo del presidente” sostenuto dai 5 Stelle ma senza più Di Maio a Palazzo Chigi. Un esecutivo pallido, sorretto anche dal Pd tuttora renziano. Filosofo del diritto, in passato vicino alla leadership grillina, Becchi ora avverte: «Di Maio non può pretendere di mettere Salvini di fronte a un ricatto. A quel punto si assume una gravissima responsabilità: quella di consegnare la volontà degli elettori o a una cattiva alleanza, quella col Pd, o alle ipotesi tecniche».
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Africa impoverita, migranti in fuga dal neoliberismo usuraio
Il suo nuovo libro si chiama “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».«Si tratta di somme di denaro legate a delle condizionalità, ossia all’implementazione di politiche neoliberiste, improntate alla massima apertura commerciale, alle liberalizzazioni, ai tagli alla spesa pubblica e alle privatizzazioni. In pratica una forma di ricatto che ha impedito all’Africa postcoloniale di uscire dalla trappola del sottosviluppo e anzi ne ha aumentato la povertà». Ma l’Africa non ha bisogno di investimenti infrastrutturali e modernizzazione dei sistemi per uscire dalla povertà? «L’Africa ha bisogno di liberarsi dal giogo dell’iperglobalizzazione, di proteggere i propri mercati e di sviluppare un’economia propria, basata sulla produzione e il consumo locale. Il modello imposto dalle organizzazioni internazionali, basato sul massimo ricorso al libero scambio, prevede che si esportino beni di prima necessità sottratti al consumo e si importi il resto, impedendo così la nascita di un’industria locale. L’emigrazione non può essere una soluzione per queste economie, sebbene molti sostengano che le rimesse di denaro nei paesi di origine possano aiutare l’economia locale. Esse in realtà non danno alcun impulso allo sviluppo di iniziative e imprese locali, ma arricchiscono solo il fiorente business delle società di trasferimento di denaro».Secondo la sua tesi, invece, il debito pubblico è uno strumento già utilizzato in Africa per impedire crescita e per improntare la globalizzazione della povertà. È proprio un’altra visione. Da quali prove la fa partire? «Proprio a seguito della crisi del debito del Terzo Mondo del 1982 sono stati introdotti i cosiddetti piani di aggiustamento strutturale. Questi programmi prevedono l’accettazione totale e acritica da parte dei paesi poveri del modello economico neoliberista, presentato come condizione indispensabile per lo sviluppo e per l’uscita dalla crisi. Gli effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti. L’Africa è entrata nella spirale del pagamento degli interessi del debito: dal 1982 al 1990 ha restituito 400 miliardi di dollari di soli interessi. Una situazione che presenta molte analogie con quella che stiamo vivendo in Europa e in Italia in particolare».La Cina è in Africa e più che quella comunista è quella capitalista, le due cose ormai si fondono. Come è potuta accadere questa “rivoluzione” e perché l’Africa è così appetibile da chi commercia e chi vuole produrre «L’Africa è il continente più ricco al mondo di risorse naturali e minerarie, è quindi un ottimo mercato per la Cina, che pure deve far fronte alla propria pressione demografica e alla sempre maggiore richiesta di beni. I funzionari cinesi hanno stimato che il loro paese ha necessità di inviare in Africa ancora 300 milioni di persone per risolvere i problemi interni di sovrappopolazione e inquinamento. La Cina sta occupando l’intero continente africano, concedendo prestiti a tassi bassissimi e appropriandosi di tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali. Per contro la popolazione africana ripone speranze e fiducia nel Dragone cinese che, a differenza dei paesi occidentali, non ha un passato coloniale e non impone il proprio modello economico e sociale».(Ilaria Bifarini, “La spirale del debito neoliberista ha ucciso l’Africa, ora l’Europa”, intervista rilasciata a “Lo Speciale” il 27 marzo 2018. Il libro: Ilaria Bifarini, “I coloni dell’austerity”, sottititolo “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”, 205 pagine, edito da Amazon, con prefazione di Giulietto Chiesa).Il suo nuovo libro si chiama “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».
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Giannini: farsa anti-Silvio, i 5 Stelle verso l’inciucio col Pd
Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».Non si sono mai viste pressioni ed urgenze così “infestanti” per sostenere «il neoliberismo finanziario, estremista e globale», che in Italia «è equivalso a recessioni finanziarie e politiche di macelleria sociale». Ebbene: «Sarà un caso, ma subito dopo la prima “udienza” al Colle, Di Maio si è sperticato in elogi e lodi verso la permanenza nell’euro, nell’Ue e nel “Patto Atlantico”», scrive Giannini in una riflessione su “Come Don Chisciotte”. Intanto le settimane passano, e i vincitori delle elezioni «non si sono ancora accordati per cambiare l’Italia», voltando pagina rispetto al rigore che ha disastrato il paese. Prima del voto, continua Giannini, la Lega aveva fatto promettere solennemente al Cavaliere che non avrebbe tradito la coalizione con un nuovo “Nazareno” col Pd, ma a sua volta si era impegnata a non abbandonare Forza Italia per i 5 Stelle. A proposito: «Di Maio lo sa che quando dice “non rifaremo un Nazareno” si riferisce in primis al Pd? Allora perché ha dichiarato che è disponibile ad allearcisi?». Non può non sapere, Di Maio, che Salvini non potrebbe mai abbandonare Berlusconi: «Quindi evidentemente non vuole allearsi con la Lega, bensì col Pd».Resta una sola possibilità, «per trasformare il voto democratico in un fatto». Questa: tornare alle urne con una inedita coalizione. «Se Lega, e 5S (e FdI) davvero vogliono governare insieme – scrive Giannini – devono riportarci al voto presentandosi coalizzati, dando il colpo di grazia a chi ci ha portato nella catastrofe negli ultimi 25 anni». In quel modo si avrebbe «una maggioranza chiara e solida, rispettosa della volontà dei cittadini stufi di alchimie e alleanze post-elettorali diverse dalle coalizioni pre-voto». Alchimie di quel genere, ricorda Gianni, «hanno sempre generato governi catastrofici (Ciampi, Dini, D’Alema, Monti, Letta, Renzi». Non sarà per per timore di questa inedita coalizione che Calenda (Pd) adesso vorrebbe governare coi 5 Stelle addirittura creando una Bicamerale per cambiare legge elettorale? Un cartello con Salvini e Meloni costringerebbe i grillini a uscire allo scoperto: si vedrebbe «se davvero vogliono governare per il paese o se Berlusconi è per loro solo una scusa per finire comodamente all’esecutivo col Pd (e la Bonino)». Per i 5 Stelle, in ogni caso, è finita l’epoca del rifiuto delle alleanze. Parlamentari neo-eletti già “affezionati” alla poltrona? Si può comprendere, ma un governo-salvezza vale ben di più.L’inedita coalizione tra Di Maio, Salvini e Meloni avrebbe anche il merito di saldare il Sud al Nord, mentre un governo 5 Stelle-Lega con l’appoggio esterno di Forza Italia «renderebbe Berlusconi l’ombelico del mondo, in un costante e strumentale malpancismo». Per Giannini, «i cittadini italiani hanno il diritto di comprendere se ciò che passano i partiti e le Tv è reale o virtuale». Ovvero: si lotta per avere al timone una guida patriottica (euroscettica) oppure euro-entusiasta e quindi anti-italiana? «Nel primo caso, al tavolo con Merkel e Macron a decidere qualità e entità della famosa clausola di uscita concordata dall’euro si siederebbe anche l’Italia». Giannini invece ha il fondato sospetto che Forza Italia e 5 Stelle «stiano in realtà collaborando, mediante i ben noti veti incrociati». Obiettivi: non farcela sedere, l’Italia, a quel tavolo, perché «Berlusconi non può inimicarsi i “mercati” che detengono azioni Mediaset, mentre i 5 Stelle non si sa se sono ancora una forza autonoma o se sono diretti da soggetti con sede a Londra (appunto, i “mercati”)». Giannini ricorda che accettammo un rapporto d’ingresso catastrofico nell’euro (990 lire per 1 marco), che resta «il vero motivo delle nostre attuali sofferenze, perché non rispecchiante la nostra economia reale».Non partecipare al nuovo tavolo europeo «sarebbe una ripetizione della storia in farsa, per la felicità dei vari global-entusiasti Napolitano, Mattarella, Merkel, Draghi, Clinton». Nel frattempo, Di Battista si agita a bordo campo definendo “male assoluto” Berlusconi? «Il forte sospetto – scrive Giannini – è che tutto ciò serva a far passare in secondo piano l’austerity come vero dramma per l’Italia e far digerire la prossima alleanza col Pd». E intanto, al grido “bisogna fare in fretta” (tanto caro a Monti, nel 2011) i media cercano di spaventare l’italiano medio, di manipolarlo e di convincerlo che nuove elezioni sarebbero una catastrofe economica. Così provano a «incatenarci altri anni all’ennesimo governo inciucista, venduto come al solito per “responsabile”». Che poi è la vera specialità del Pd, massimo garante italiano – almeno finora – dell’ordoliberismo europeo fondato sull’austerity. Ce l’avranno il coraggio, i 5 Stelle, si saltare l’ostacolo e puntare a premiare l’espressione popolare del 4 marzo, alleandosi con Salvini e Meloni? Viceversa, dimostrerebbero di essere solo la versione 2.0 del Pd, in salsa populista ma con lo stesso traguardo: rassicurare i grandi poteri neoliberisti e privatizzatori che stanno spolpando l’Italia.Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».
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Magaldi: serve ben altro che il taglio (irrisorio) dei vitalizi
Non penseranno di cavarsela con la burletta dei famosi vitalizi, vero? Ben altre prove – assai più decisive, per il popolo italiano, di quei quattro spiccioli destinati agli ex parlamentari – attenderebbero Di Maio e Salvini, nel caso dessero un taglio ai minuetti e provassero a dar vita a qualcosa che assomigli ad un governo. A oltre un mese dal voto, sarebbe ora di darsi da fare: lo dice persino un compassato gentleman come Paolo Mieli, uno dei signori del mainstream italico, la tribuna vip che accolse Mario Monti come un salvatore della patria, Enrico Letta come il naturale successore e il suo “killer” Matteo Renzi come un formidabile rinnovatore, anche lui benedetto dagli stessi dèi. Ora è di scena l’ex impresentabile Di Maio: che aspetta a muoversi, onde annunciare poi a Mattarella di avere in tasca i numeri vincenti? Dopo il voto, lo stesso Mieli era tra quanti la prendevano con calma: tempo al tempo, nella speranza forse che il Pd si decidesse a dare udienza ai 5 Stelle. Ma ora l’intervallo sta scadendo. O meglio, dice Mieli, onnipresente nei talk-show: quei due hanno “spaccato” con argomenti forti, anzi fortissimi. Reddito garantito, tasse tagliate alla radice. Vogliamo cominciare a ragiornare, seriamente, per capire da che parte cominciare?Siamo nel mezzo di una torbida palude, dice un osservatore indipendente come Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché fustigatore pubblico della massoneria più onnipotente, il regno misterioso delle superlogge-ombra come quelle in cui milita George Soros, che firmerà un contributo speciale nel sequel di “Massoni”, saggio di prossima uscita. Già nel primo volume, Magaldi sostiene che l’Italia sia un campo di battaglia decisivo, riguardo al futuro dell’Europa, anche per il mondo esclusivo delle Ur-Lodges: da una parte la fazione dominante, reazionaria, che ha impugnato la clava del rigore finanziario demolendo benessere e diritti, e dall’altra i progressisti, riemersi dall’ombra con Bernie Sanders alle primarie americane e con Jeremy Corbyn alla guida dei laburisti inglesi. La Francia? Dopo la grande delusione di François Hollande, sponsorizzato dalla “Fraternité Verte”, all’Eliseo è tornata una pedina dell’oligarchia destrorsa, il finto outsider Emmanuel Macron, sorretto dalla supermassoneria neo-aristocratica – che infatti annuncia tagli devastanti al welfare e storiche mutilazioni del pubblico impiego. “En Marche”, ma dalla parte opposta: quella raccomandata dall’élite cha trasformato l’Unione Europea in un bagno penale per “popoli superflui”, per usare un’espressione di Marco Della Luna.Siamo nella palude, dice Magaldi a “Color Radio”, ma non è detto che dal fango fertile non nasca qualche fiore. Purché, appunto, non si monti una gazzarra fuorviante sulla quisquilia dei vituperati vitalizi, pari a zero nel bilancio delle cose che contano davvero. Per esempio: reddito di cittadinanza e scure sulle tasse. Post-keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, Magaldi tiene ai suoi distinguo: non è saggio pensare a un’assistenzialismo permanente, né a una Flat Tax come quella promessa da Salvini in campagna elettorale, con l’aliquota al 15%. Ma il reddito pentastellato è qualcosa di diverso: se ben amministrato, può essere un ammortizzatore molto utile, almeno in via temporanea. Beninteso: è il lavoro, il faro della riscossa del paese. E la leva strategica sono gli investimenti pubblici, destinati alle imprese private. Non si contano le infrastrutture ormai cadenti cui mettere mano, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Idem, le tasse: passi la boutade elettorale del 15%, ma non è pensabile che si continui a taglieggiare le aziende, messe in croce da uno Stato che sa essere efficiente solo quando veste i panni di esattore. Sono argomenti forti, quelli sul tappeto. L’importante è cominciare a spacchettarli: soccorso finanziario a chi è nei guai, e riduzione netta della tassazione. Si farà sul serio? Sappiano, i vincitori del 4 marzo, che l’Europa li sta guardando – insieme agli italiani che li hanno votati.Non pensino di cavarsela con la burletta dei famosi vitalizi. Ben altre prove – assai più decisive, per il popolo italiano, di quei quattro spiccioli destinati agli ex parlamentari – attenderebbero Di Maio e Salvini, nel caso dessero un taglio ai minuetti e provassero a dar vita a qualcosa che assomigli ad un governo. A oltre un mese dal voto, sarebbe ora di darsi da fare: lo dice persino un compassato gentleman come Paolo Mieli, uno dei signori del mainstream italico, la tribuna vip che accolse Mario Monti come un salvatore della patria, Enrico Letta come il naturale successore e il suo “killer” Matteo Renzi come un formidabile rinnovatore, anche lui benedetto dagli stessi dèi. Ora è di scena l’ex impresentabile Di Maio: che aspetta a muoversi, onde annunciare poi a Mattarella di avere in tasca i numeri vincenti? Dopo il voto, lo stesso Mieli era tra quanti la prendevano con calma: tempo al tempo, nella speranza forse che il Pd si decidesse a dare udienza ai 5 Stelle. Ma ora l’intervallo sta scadendo. O meglio, dice Mieli, onnipresente nei talk-show: quei due hanno “spaccato” con argomenti forti, anzi fortissimi. Reddito garantito, tasse tagliate alla radice. Vogliamo cominciare a ragiornare, seriamente, per capire da che parte cominciare?
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Molinari: serve una donna a Palazzo Chigi, dopo 71 anni
Una donna a Palazzo Chigi, per la prima volta dopo 71 anni? Nelle trattative tra i partiti per trovare una maggioranza in Parlamento si fa strada l’ipotesi di un nome super partes, in grado di sciogliere le resistenze dei diversi schieramenti sui candidati che hanno vinto le elezioni. Comincia a farsi strada l’idea di un premier donna, lanciata dal direttore della “Stampa”, Maurizio Molinari. «Per l’Italia che il 4 marzo si è recata alle urne chiedendo un forte rinnovamento della classe politica – scrive – è arrivato il momento di avere una donna alla guida del governo». Il risultato del voto non potrebbe essere più evidente, ammette Molinari, perché oltre la metà degli elettori ha votato per partiti anti-establishment. A prescindere da quale sarà la combinazione di forze che esprimerà il nuovo presidente del Consiglio, «l’opportunità di avere in Italia la prima donna premier ha un valore strategico», è addirittura «un interesse nazionale», perché «potrebbe trasformare l’entusiasmo per il voto in entusiasmo per il governo, contribuendo a rafforzare la credibilità delle istituzioni rappresentative in una stagione segnata dal loro indebolimento». E’ quasi euforico, Molinari; con una donna primo ministro «l’Italia lancerebbe un segnale folgorante».Numerosi studi, secondo Molinari, dimostrano che il ritardo nella parità di genere frena lo sviluppo economico: «Una premier in Italia sarebbe un evento-spartiacque, tale da favorire un ruolo maggiore delle donne nel sistema produttivo nazionale, con una pioggia di ricadute postive». Chi sosterrebbe l’eventuale esecutivo “in rosa”? Teoricamente le ipotesi possibili sono quattro, ricorda l’“Agi”: coalizione M5S-Lega, coalizione M5S-Pd, governo di larghe intese, coalizione M5S-centrodestra. Quali le eventuali candidate per Palazzo Chigi? Nel caso toccasse alla berlusconiana Maria Elisabetta Alberti Casellati, appena eletta a Palazzo Madama anche coi voti dei grillini, potrebbe liberarsi la presidenza del Senato per il Pd, in vista di ipotetiche larghe intese. Tradizionale riserva della Repubblica, scrive sempre l’“Agenzia Italia”, la Corte Costituzionale ha nei suoi ranghi la vicepresidente Marta Cartabia (area centrosinistra) e Daria De Pretis, ancora più a sinistra. Ma se a scegliere dovesse essere il Movimento 5 Stelle – sostiene l’“Agi” – probabilmente a Palazzo Chigi andrebbe Silvana Sciarra, che in passato ha colpito duramente la legge Fornero, costringendo le forze politiche a una sua parziale revisione. Si parla anche dell’ex ministro Paola Severino, invisa però a Berlusconi (sua la legge che l’ha reso incandidabile), e tra i nomi sempre spesi volentieri c’è quello della Bonino, «reduce sì da una delusione elettorale, ma ben attenta a non legare troppo il suo nome a quello dei democratici».Curriculum ecumenico, quello della Emma nazionale: Berlusconi la volle alla Commissione Europea, il centrosinistra alla Farnesina. «Di profilo più basso i nomi al femminile che può presentare la Banca d’Italia, anch’essa tradizionale serbatoio di premier traghettatori e super partes». La stessa “Agi” fa i nomi di dirigenti come Orietta Maria Varnelli, Franca Alacevich e Donatella Sciuto. Poi le outsider: «Deboli, almeno a momento, anche i nomi di Anna Finocchiaro, più volte indicata in passato come possibile candidata al Quirinale, e di Linda Lanzillotta. Quanto a Lucrezia Reichlin, l’economista ha uno splendido curriculum ma potrebbe risultare poco gradita a Lega e 5 Stelle: troppo tecnica, soprattutto vicina ai mondi di Bruxelles e Londra che le due formazioni dicono di non apprezzare». Archiviate la Boschi e la Boldrini, insieme a Debora Serracchiani, Beatrice Lorenzin e Daniela Santanchè, a bordo campo qualcuno avvista Mara Carfagna, o meglio ancora Anna Maria Bernini, capogruppo forzista al Senato, già candidata alla presidenza da Salvini. Debuttanti assolute, dalla cosiddetta società civile? C’è chi ricorda che i grillini volevano Milena Gabanelli, giornalista fondatrice di “Report”, addirittura al Quirinale. Ma la donna più impegnata in politica – capo di un partito – è Giorgia Meloni, battagliera leader di “Fratelli d’Italia”, costola minore della coalizione vincente alle elezioni. Non esattamente una figura di mediazione: toni sempre accesi, contro l’ignobile “burocratura” di Bruxelles.Una donna a Palazzo Chigi, per la prima volta dopo 71 anni? Nelle trattative tra i partiti per trovare una maggioranza in Parlamento si fa strada l’ipotesi di un nome super partes, in grado di sciogliere le resistenze dei diversi schieramenti sui candidati che hanno vinto le elezioni. Comincia a farsi strada l’idea di un premier donna, lanciata dal direttore della “Stampa”, Maurizio Molinari. «Per l’Italia che il 4 marzo si è recata alle urne chiedendo un forte rinnovamento della classe politica – scrive – è arrivato il momento di avere una donna alla guida del governo». Il risultato del voto non potrebbe essere più evidente, ammette Molinari, perché oltre la metà degli elettori ha votato per partiti anti-establishment. A prescindere da quale sarà la combinazione di forze che esprimerà il nuovo presidente del Consiglio, «l’opportunità di avere in Italia la prima donna premier ha un valore strategico», è addirittura «un interesse nazionale», perché «potrebbe trasformare l’entusiasmo per il voto in entusiasmo per il governo, contribuendo a rafforzare la credibilità delle istituzioni rappresentative in una stagione segnata dal loro indebolimento». E’ quasi euforico, Molinari; con una donna primo ministro «l’Italia lancerebbe un segnale folgorante».
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Massoni: pressing sul Pd, via Renzi e alleanza con Di Maio
Fortissime pressioni massoniche sul Pd per archiviare Renzi e puntare all’abbraccio con Di Maio, a sua volta in attesa di essere accolto dalla supermassoneria internazionale alla quale ha bussato. Lo scenario verso il quale premono i poteri forti, l’alleanza tra Pd e 5 Stelle, sarebbe perfetto per Salvini, che – dall’opposizione – continuerebbe indisturbato a spolpare Forza Italia, accreditandosi come leader unico del centrodestra. Il problema? Si chiama Matteo Renzi: non è facile farlo fuori. Parola di Gianfranco Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Dal giorno dopo le elezioni – ricorda Carpeoro, saggista e attento osservatore della situazione italiana – ho detto che non si sarebbe andato da nessuna parte, se non facendo delle acrobazie istituzionali non solo inutili, ma dannose per il paese». Un mese dopo, ribadisce il concetto: l’unica cosa seria da fare, dice, sarebbe varare un governo destinato a durare solo 90 giorni. Un esecutivo di scopo, sostenuto da tutti i partiti, con un unico obiettivo: cambiare la legge elettorale, reintroducendo il premio di maggioranza. «Chi vince, anche di poco, deve poter governare. E’ un problema pratico, non ideologico. Bisogna uscire da questa ipocrisia assoluta, imposta dalla Corte Costituzionale, per la quale il premio di maggioranza nel 90% dei casi è illegittimo. Basta: chi vince, governi».Di Maio oggi parla di Pil e mercati, equilibrio di bilancio e rispetto dei parametri europei? «Cos’altro aspettarsi, da Di Maio?». Per Carpeoro, il leader dei 5 Stelle «sta cercando di farsi accogliere nella Ur-Lodge dove si è proposto». Quale? «Se posso fare una previsione, dovrebbe essere la “Three Eyes”», ovvero la superloggia storica della destra reazionaria, incarnata per decenni da figure di vertice del massimo potere mondiale come Kissinger, Rockefeller e Brzezinki, incluso – secondo Gioele Magaldi – lo stesso Giorgio Napolitano. Secondo l’autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere), della “Three Eyes” fanno parte anche Mario Draghi nonché Christine Lagarde del Fmi, in compagnia di esponenti dell’élite italiana come Gianfelice Rocca (Techint e Assolombarda), il top manager Giuseppe Recchi, Marta Dassù di Finmeccanica, il banchiere Enrico Tommaso Cucchiani, l’economista Carlo Secchi e Federica Guidi, già ministro dello sviluppo economico del governo Renzi. Questo il salotto buono al quale, secondo Carpeoro, avrebbe chiesto asilo il candidato premier dei 5 Stelle. «Dieci giorni prima delle elezioni – ricorda – Di Maio è andato a parlare col mondo finanziario di Londra, che è quello che organizza i grandi complotti e le grandi speculazioni».Un progetto partito da lontano, il ruolo di Di Maio come “cavallo di Troia” del grande potere? Anche no: la sua leadership è emersa strada facendo. Il grande momento del Movimento 5 Stelle «ha portato Di Maio a essere un personaggio esteticamente opportuno per fare quest’operazione». E come avrebbe fatto, l’ex steward dello stadio di Napoli, ad avvicinare il mondo supermassonico delle Ur-Lodges? Ha sempre avuto alle spalle Casaleggio, sottolinea Carpeoro. «In fin dei conti, Casaleggio è uno che ha progettato il Nuovo Ordine Mondiale: guardatevi i suoi documenti, i filmati». Beninteso: «Mica è una parolaccia, il Nuovo Ordine Mondiale: dipende da come lo fai, può essere anche una cosa non necessariamente drammatica». La storia dell’uomo, aggiunge Carpeoro, è fatta di epoche di ordine e epoche di disordine: è strano, eppure «si somigliano sempre sinistramente, l’ordine e il disordine». Carpeoro ne parla nel libro “Summa Symbolica”, di cui sta per uscire il secondo volume: «Non essendo possibile un ordine assoluto, tutto finisce per essere un ordine». Gianroberto Casaleggio? «Era un mistico, quindi ha disegnato il progetto di una società perfetta, a suo avviso. E aveva un socio – Enrico Sassoon – che faceva parte di una Ur-Lodge». Carpeoro diffida, dei progettisti di mondi perfetti: «Nessuno fa più danni di chi pensa di fare il bene degli altri: Hitler era uno così, no?».Ora i giornali dicono che l’alleanza tra Pd e 5 Stelle sarebbe una falsa pista, mentre il vero obiettivo di Di Maio sarebbe l’intesa con Salvini? Favole: «Di Maio sa che non potrà mai fare un’alleanza con Salvini, a meno di non considerare Salvini un idiota», taglia corto Carpeoro. La ragione è ovvia: «Salvini è motivato a essere il leader del centrodestra. Automaticamente, se scaricasse gli altri per fare da stampella a Di Maio, non potrebbe mai più essere il leader del centrodestra (lo dimostrano tutti i casi precedenti: Fini, Casini, Follini)». Il capo della Lega, aggiunge Carpeoro, sa perfettamente che in un governo coi 5 Stelle andrebbe a fare il passacarte. Molto meglio, per lui, essere il leader dell’opposizione. Quindi, Salvini propone a Di Maio di accettare anche Forza Italia, mettendosi alla pari con il centrodestra. Ipotesi abbastanza impercorribile: «Se Di Maio accettasse, l’idiota sarebbe lui». Non resta che l’altra sponda, il Pd, che in questo momento sta subendo «fortissime pressioni – paramassoniche, massoniche, internazionali – per cambiare la sua posizione e archivare Renzi». Ma eliminare l’ex premier è difficile: «Renzi si è cautelato, ha il predominio numerico sul partito: se si fanno le primarie, le rivince lui». E soprattutto: senza più Renzi, il Pd teme di poter scomparire. «Ne va della sua sopravvivenza politica». Vie d’uscita? Una sola, per Carpeoro: un governo che duri solo tre mesi. Obiettivo: voto anticipato, con una nuova legge elettorale che garantisca il governo di un vincitore sicuro.Fortissime pressioni massoniche sul Pd per archiviare Renzi e puntare all’abbraccio con Di Maio, a sua volta in attesa di essere accolto dalla supermassoneria internazionale alla quale ha bussato. Lo scenario verso il quale premono i poteri forti, l’alleanza tra Pd e 5 Stelle, sarebbe perfetto per Salvini, che – dall’opposizione – continuerebbe indisturbato a spolpare Forza Italia, accreditandosi come leader unico del centrodestra. Il problema? Si chiama Matteo Renzi: non è facile farlo fuori. Parola di Gianfranco Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Dal giorno dopo le elezioni – ricorda Carpeoro, saggista e attento osservatore della situazione italiana – ho detto che non si sarebbe andati da nessuna parte, se non facendo delle acrobazie istituzionali non solo inutili, ma dannose per il paese». Un mese dopo, ribadisce il concetto: l’unica cosa seria da fare, dice, sarebbe varare un governo destinato a durare solo 90 giorni. Un esecutivo di scopo, sostenuto da tutti i partiti, con un unico obiettivo: cambiare la legge elettorale, reintroducendo il premio di maggioranza. «Chi vince, anche di poco, deve poter governare. E’ un problema pratico, non ideologico. Bisogna uscire da questa ipocrisia assoluta, imposta dalla Corte Costituzionale, per la quale il premio di maggioranza nel 90% dei casi è illegittimo. Basta: chi vince, governi».
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Giannuli: i 5 Stelle guastati dal potere che volevano battere
C’eravamo tanto amati. O meglio: rispettati e stimati, in vista di un futuro che però non è sbocciato. Ora siamo all’addio: «Scusate, scendo a questa fermata». Il pullman è a 5 Stelle, il conducente è Di Maio. L’ex passeggero deluso risponde al nome di Aldo Giannuli: scende dal carro sul quale in tanti, oggi, fanno a gara a salire. Storico e politologo, un passato militante da post-comunista, Giannuli è uno dei pochi intellettuali di sinistra indipendenti, non ostili ai grillini. Anzi, fin da subito si era schierato – con simpatia dichiarata – tra gli “osservatori amici” del grande test rappresentato dal Movimento 5 Stelle. Fine dell’illusione, anche se – chiarisce l’interessato nel suo blog – il M5S «ha tre meriti storici che nessuno può negare: aver abbattuto il falso bipolarismo Fi-Pd, aver posto in termini politici e non solo giornalistici il tema della casta e aver impedito che la protesta che stava montando sfociasse in movimenti di estrema destra come Alba Dorata o il Front National». Per queste ragioni, sottolinea il professore, non è affatto pentito di aver «costeggiato e appoggiato il M5S – pur senza mai entrare a farne parte – dal 2013 ad oggi». Niente sconti, comunque, nemmeno in precedenza: «Non ho mai evitato di criticare singoli aspetti o scelte del movimento che, però, complessivamente ho sempre difeso». Come i lettori del suo blog hanno potuto constatare, però, negli ultimi due anni, i motivi di dissenso sono andati crescendo.Le critiche di Giannuli si sono fatte più frequenti e forse più aspre, per cui non è stato un caso che nelle recenti elezioni politiche, alla Camera non ha votato 5 Stelle ma “Potere al Popolo”. «Non sono io che mi sono man mano allontanato dal M5S: io sono rimasto fermo, è il M5S che ha preso altre strade». Per esempio, la guida “carismatica” dell’uomo solo al comando. «Il M5S al quale mi ero avvicinato era quello dell’“uno vale uno” che, pur non senza contraddizioni anche evidenti, rifiutava l’idea di un capo politico che decidesse tutto». In quelle “contraddizioni anche evidenti”, Giannuli evita di nominare Grillo, il designatore di Di Maio; non che ai tempi di Beppe, cioè quando sulla scena stava l’ex comico, contasse davvero l’“uno vale uno”: bastava un sospiro del Capo per esiliare chiunque avesse osato ragionare con la propria testa, da Pizzarotti in giù. Comunque la si veda, secondo Giannuli, le cose sono ulteriormente peggiorate: «Oggi, nel movimento vige un regolamento che nessuno ha mai approvato e che dà pieni poteri al capo politico, sino al punto di dargli la possibilità di nominare i capigruppo parlamentari non più eletti (cosa che non ha precedenti nella storia del Parlamento repubblicano)».Aggiunge Giannuli: «Il M5S al quale mi ero avvicinato parlava di democrazia diretta, anche con un’enfasi eccessiva che si traduceva in un discutibile rifiuto della democrazia rappresentativa; oggi di democrazia diretta non si parla più ed è restato solo un antiparlamentarismo ancora più inquietante di ieri». Nostalgia dichiarata: «Il M5S cui mi ero accostato miscelava temi di destra (come l’ostilità verso gli immigrati) con temi di sinistra (come la difesa dell’articolo 18) ma aveva una decisa avversione ai poteri finanziari (ricordiamoci le partecipazioni di Grillo alle assemblee degli azionisti Telecom)». Oggi invece Di Maio «dice che i governi devono tener conto dell’orientamento dei mercati finanziari». Sta cadendo un velo che in realtà esisteva già prima: Giannuli non se n’era accorto? «Il M5S con il quale iniziai a collaborare – aggiunge – si schierò decisamente per la legge elettorale proporzionale e contro la riforma renziana della Costituzione in difesa della Costituzione repubblicana del 1948». L’edizione più recente del movimento, invece, «ha fatto non poche concessioni nel dibattito sulla legge elettorale (in particolare quando si parlò di metodo tedesco) e, con ogni evidenza, si appresta a sostenere il ritorno ad una qualche forma di maggioritario».Quanto alla Costituzione, la pretesa di avere la presidenza del Consiglio sulla base della maggioranza relativa ottenuta nel voto per l’elezione della Camera «è solo la premessa logica di una riforma di indirizzo presidenziale», sostiene Giannuli. «Ma allora, perché ci si è opposti alla riforma di Renzi?». Il professore ha combattuto il ras del Pd in quel referendum perché era «contrario alla sua riforma», non per fini reconditi. «Mi viene il dubbio – dice – che qualche altro ha combattuto quella riforma solo perché voleva togliere di mezzo Renzi». Di fatto, ribadisce Giannuli, cinque anni fa il Movimento 5 Stelle «entrò nelle stanze del potere per ribaltarle», mentre quello oggi capitanato da Di Maio «non si sottrae all’abbraccio mortale del potere consolidato». Non hanno cambiato il potere, scandisce il professore: al contrario, è il potere che ha cambiato loro. «Non sono mai le persone a fare progetti di potere: è il potere che fa progetti sulle persone», sostiene il saggista Gianfranco Carpeoro, altro estimatore della base grillina – ma severo censore del vertice: «Di Maio – dice – era la peggior scelta possibile, per i 5 Stelle: un uomo inconsistente e condizionato dalla finanza anglosassone, sovragestito da un personaggio ambiguo come il politologo statunitense Michael Ledeen, supermassone del B’nai B’rith, legato ad ambienti sionisti del massimo potere mondiale, specialisti in manipolazione geopolitica».Visto dal punto di vista di Giannuli (che, a differenza di Carpeoro, con i 5 Stelle ha interagito direttamente) il paesaggio è ingombro di macerie: «Il M5S con cui ho collaborato – racconta il professore – fece un’epica battaglia parlamentare contro la “riforma” della Banca d’Italia che ne faceva dono alle principali banche nazionali. La legge prevedeva tre anni di tempo per mettere sul mercato le azioni possedute in eccesso dai pochi oligopolisti, il limite è scaduto nel 2017 senza che sia avvenuto niente: e il M5S non dice niente, preferendo posare occhi vogliosi sulla Cassa Depositi e Prestiti, in perfetto stile “spoil system”. Certo, sin qui è stata gestita malissimo, ma quale è il rimedio? Piazzare qualche amico? Non so». Altrettanto preoccupante il rapporto con Bruxelles, capitale dell’austerity: «Oggi non solo non si parla proprio più di uscita dall’euro – scrive Giannuli – ma si fa dell’oltranzismo filo Ue, e si prospetta l’adesione al gruppo più eurista del Parlamento Europeo, “En Marche”». Il movimento grillino delle origini si diceva “né di destra né di sinistra”, certo, «ma in realtà ospitava nel suo seno sia destra che sinistra», rileva il politologo. E oggi? «Quella ambiguità è sciolta», ma nel modo peggiore: «Pur continuando a dirsi né di destra né di sinistra, il Movimento sta imboccando una strada decisamente di destra».Fatemi scendere, dice Giannuli. E spiega: «Io ero e sono sempre rimasto di sinistra», dunque la convergenza verso lo “xenofobo” Salvini sarebbe quanto mai indigesta. «Potevo convivere con l’ambiguità iniziale, ma non con una cosa esplicitamente di destra». Dopo aver lungamente tollerato la non-chiarezza dei grillini, ora Giannuli vota contro la spiacevole franchezza di Di Maio e soci. Per cui, aggiunge, non stupitevi: «Sapete che sono anticonformista». Ovvero: «In un paese in cui (quasi) tutti salgono sul carro del vincitore, io scelgo di scendere». Precisa: «Sarò grato ai conduttori televisivi che non mi presenteranno più come “vicino al Movimento 5 stelle” ma come persona “che è stata a lungo vicina al M5S». Intendiamoci, niente di personale: «Nessuna acrimonia e nessuna ostilità preconcetta». Distacco nel giudizio, serena equanimità: «Quando il M5S farà scelte condivisibili lo difenderò, quando ne farà di segno opposto lo criticherò». Ma sempre nel merito, assicura Giannuli. Perché, «nonostante tutto», cioè malgrado Di Maio, il Movimento 5 Stelle «è ancora oggi una importante risorsa per il paese». E quindi «sarebbe altamente auspicabile che correggesse questa discutibile rotta». Benvenuto tra noi, potrebbero dire a Giannuli alcuni milioni di italiani, tra il 27% degli aventi diritto, che il 4 marzo hanno valutato inevitabile l’astensionismo elettorale, dopo aver visto Di Maio inchinarsi ai santuari della finanza-canaglia.C’eravamo tanto amati. O meglio: rispettati e stimati, in vista di un futuro che però non è sbocciato. Ora siamo all’addio: «Scusate, scendo a questa fermata». Il pullman è a 5 Stelle, il conducente è Di Maio. L’ex passeggero deluso risponde al nome di Aldo Giannuli: scende dal carro sul quale in tanti, oggi, fanno a gara a salire. Storico e politologo, un passato militante da post-comunista, Giannuli è uno dei pochi intellettuali di sinistra indipendenti, non ostili ai grillini. Anzi, fin da subito si era schierato – con simpatia dichiarata – tra gli “osservatori amici” del grande test rappresentato dal Movimento 5 Stelle. Fine dell’illusione, anche se – chiarisce l’interessato nel suo blog – il M5S «ha tre meriti storici che nessuno può negare: aver abbattuto il falso bipolarismo Fi-Pd, aver posto in termini politici e non solo giornalistici il tema della casta e aver impedito che la protesta che stava montando sfociasse in movimenti di estrema destra come Alba Dorata o il Front National». Per queste ragioni, sottolinea il professore, non è affatto pentito di aver «costeggiato e appoggiato il M5S – pur senza mai entrare a farne parte – dal 2013 ad oggi». Niente sconti, comunque, nemmeno in precedenza: «Non ho mai evitato di criticare singoli aspetti o scelte del movimento che, però, complessivamente ho sempre difeso». Come i lettori del suo blog hanno potuto constatare, però, negli ultimi due anni, i motivi di dissenso sono andati crescendo.
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L’onesto criminale Quintino Sella e la legge Fornero dell’800
Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’Unità d’Italia. Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno e i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero. Naturalmente era aiutato, in questo, dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito: nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie. Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita, un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.Migliaia di persone, soprattutto donne e bambini, si ammalarono e morirono per quella tassa. Intere popolazioni si ribellarono ad essa, e contro di loro ci furono le spietate repressioni del generale Raffaele Cadorna, il braccio armato della tassa sul macinato. Per questo l’onestissimo ministro Sella va considerato socialmente un criminale. Risanò i conti pubblici facendo morire di fame, e di pallottole regie, tanta gente. Alla fine la tassa sul macinato fu abolita da Agostino Depretis, un politico molto meno onesto di Sella, anzi un corrotto e corruttore. In questa storia sta un po’ il peccato originale del nostro paese, dove periodicamente il rigore e l’onestà vengono separati e anzi contrapposti alla questione sociale, con la regressione complessiva di tutta la società. Oggi in Italia i tagli alle pensioni hanno la stessa funzione della tassa sul macinato. Che era comoda e facile da riscuotere perché tutti dovevano mangiare. Oggi il sistema pensionistico pubblico è diventato il bancomat dei governi. All’Inps i soldi si trovano subito, basta un decreto legge e lo Stato ce li ha, pronta cassa.Ora la Ue e il Fmi, che han bisogno di altri soldi per finanziare le loro politiche di austerità, chiedono nuovi tagli alle pensioni; e con il loro caravanserraglio di esperti ammaestrati riprende a spiegarci che la previdenza costa troppo. I dati che usano sono falsi e falsificati. Se dalla spesa per la previdenza togliamo i quasi 50 miliardi di tasse che tutti gli anni i pensionati versano allo Stato, tale spesa scende sotto la media europea. Se togliamo l’assistenza, che dovrebbe essere pagata da tutti e non solo dai lavoratori, il bilancio annuale dell’Inps va in attivo. Un attivo sufficiente a pagare l’abolizione della legge Fornero. Anche perché il pensionato italiano maschio, prima di passare a miglior vita, usufruisce dell’assegno pensionistico per 16 anni, mentre la media europea è di 18. E le donne, che (colpevolmente?) vivono di più, vengono pagate per 21 anni contro i 23 degli altri paesi Ue. Quindi già oggi lo Stato italiano si prende due anni di vita in più dai suoi pensionati. Non sappiamo se all’epoca della tassa sul macinato Quintino Sella e gli altri usassero dati falsi per affermare le proprie ragioni. Forse allora non ce n’era tanto bisogno, visto che solo i ricchi votavano. Ma certo l’argomento di fondo era quello stesso di oggi: o i poveri pagano, o lo Stato salta per aria.Per questo l’abolizione della legge Fornero è la cartina di tornasole della politica italiana. Non è una misura sufficiente a far cambiare le cose, bisogna abolire anche Jobsact e Buonascuola, bisogna ricostruire diritti e stato sociale, bisogna rompere con l’austerità Ue e con il pareggio di bilancio. Non è una misura sufficiente, ma è necessaria per indicare che la politica liberista del rigore contro i poveri non può più essere continuata. Se, sulle pensioni, il Parlamento e le forze vincitrici delle elezioni cederanno al ricatto della Ue e della Troika, avranno già concluso la loro funzione. Poi potranno pure tagliare vitalizi e stipendi dei commessi delle Camere, ma questa non sarà giustizia ma solo una misura di facciata per coprire la continuazione del massacro sociale. La stessa facciata dei monumenti all’onestissimo affamatore di poveri Quintino Sella.(Giorgio Cremaschi, “La legge Fornero è la moderna tassa sul macinato”, da “Micromega” del 27 marzo 2018).Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’Unità d’Italia. Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno e i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero. Naturalmente era aiutato, in questo, dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito: nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie. Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita, un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.
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Pallante: come salvarci dalla catastrofe globale della crescita
Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.L’unica terapia? Fermare la crescita tumorale delle merci. Serve qualcosa di enorme, paragonabile alla Rivoluzione Industriale, ma di segno opposto. Valori da capovolgere: il “tanto-avere” è il grande nemico del “ben-essere”. Nel suo ultimo saggio, che definisce “un manifesto politico e culturale”, Pallante denuncia il capitalismo industriale degli ultimi 250 anni. Una forza tellurica eversiva, segnalata da Marx come pericolo: se prima il denaro era solo un mezzo per scambiare merci, è diventato l’unico fine dell’intero ciclo economico. E’ Keynes, nel 1931, il primo a parlare di “disoccupazione tecnologica”: scopriamo sempre nuovi sistemi per «risparmiare forza lavoro», senza riuscire a ricollocarla. Succede perché siamo avidi, dice Pallante: riducendo l’orario di lavoro, l’innovazione di processo non comprometterebbe l’occupazione. Al contrario: sarebbero le macchine a lavorare per noi. Il guaio? Il nostro obiettivo non è vivere bene, in armonia con gli altri e con il pianeta. Vogliamo solo avere tanti soldi, costi quel che costi. Alle conseguenze, semplicemente, non pensiamo: la guerra sociale, la predazione globale delle risorse, il collasso della biosfera. Il paziente è grave: consuma più di quanto la Terra possa dargli. Ogni anno la “deadline” si accorcia: prima del Duemila la linea rossa veniva superata a ottobre, poi a settembre. Ora siamo “in riserva”, ogni anno, già dal mese di luglio.Non ci vuole un indovino per intuire che di questo passo andremo a sbattere. L’emissione di anidride carbonica non smaltibile dalla fotosintesi vegetale è quasi raddoppiata, sugli oceani galleggiano “continenti” di plastica, il pesce s’è dimezzato, il clima terrestre sta per raggiungere i 2 gradi sopra la soglia di sicurezza. E non abbiamo ancora visto niente: si calcola che interi paesi, come il Bangladesh, saranno sommersi. Noi che facciamo? Niente. Anzi, peggio: acceleriamo la corsa verso lo schianto. La globalizzazione violenta del mercato, dice Pallante, riproduce su scala mondiale quanto avvenne con la Rivoluzione Industriale: masse ingenti di contadini e artigiani sradicate dai loro territori e trasformate in folle di profughi economici. Obiettivo: accrescere la platea dei consumatori di merci superflue. Esaurite le capacità dell’Occidente, si punta al resto del mondo. Interi continenti da depredare di materie prime a basso costo, attraverso guerre coloniali permanenti. Decine di paesi devastati, dai quali non resta che scappare. Il sistema li accoglie a braccia aperte, i migranti che ha messo in fuga: diventeranno nuovi consumatori e contribuenti, in termini di tasse e versamenti pensionistici, senza contare il loro sfruttamento schiavistico e il business criminale che specula sull’accoglienza, mortificando la solidarietà di migliaia di volontari.Proprio la mano tesa, offerta ai rifugiati, rivela che la vittoria del mostro (da noi stessi alimentato ogni giorno) non è ancora definitiva. Sopravvivono religioni, cresce a vista d’occhio la fame di spiritualità. In modo spesso confuso, si va in cerca di valori. «Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica – scrive Pallante – la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile». Consente di recuperare la solidarierà «non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi», e arricchisce la pulsione all’uguaglianza di un profilo anche esistenziale. Cosa manca? Una politica, capace di aggregare milioni di individui per invertire il corso degli eventi, scongiurando la catastrofe. Destra e sinistra? Un lungo equivoco. E’ lo stesso Hayek, nume tutelare dei criminali architetti dell’austerity europea, a chiarire che il liberalismo non è stato conservatore, ma rivoluzionario. La sinistra ha arrancato dietro al capitale, cercando solo di distribuirne i profitti in modo più largo. Ma, secondo Pallante, persino l’ossigeno del deficit teorizzato da Keynes è controproducente: siamo al punto in cui – come predetto dal Club di Roma, cioè dal Mit di Boston – ogni espansione dei consumi ci accorcerebbe ulteriormente la vita.Come se ne esce? In un solo modo: tagliando il Pil. Decrescita infelice? No: selettiva. Nel mirino, gli sprechi. Non la barzelletta delle auto blu, ma cifre spaventose, che valgono intere finanziarie: la sola riconversione ecologica degli edifici farebbe crollare di 2/3 la spesa energetica nazionale, creando un oceano di posti di lavoro (utili) e abbattendo in modo vertiginoso l’impatto ambientale. Nel gelido Nord Europa c’è chi vive in “case passive” tecnologicamente avanzate, senza riscaldamento convenzionale, a emissioni zero. Noi invece siamo ancora impelagati nelle guerre geopolitiche per i gasdotti, come se vivessimo all’inizio del ‘900. Le ultime elezioni italiane hanno rottamato la vecchia politica e in particolare la sinistra? Ovvio: proprio la sinistra ha abbandonato i territori che storicamente si era candidata a tutelare. In ordine sparso, si va organizzando localmente un arcipelago di comunità fondate sulle filiere corte, ancora senza rappresentanza istituzionale. Riuscirà a nascere un partito che punti alla sostenibilità dell’economia, anziché all’impossibile “sviluppo sostenibile”? Matematica: benché “sostenibile”, cioè con minor impatto immediato sull’ecosistema, qualsisasi “sviluppo” (crescita illimitata) diventa comunque insostenibile alla distanza, perché farà crescere consumi superflui e veleni.«E’ l’equivoco delle rinnovabili: sono meno impattanti oggi, ma quell’energia “verde” aggraverà il bilancio ecologico domani, se ci sarà ancora “sviluppo”». L’alternativa? Vivere benissimo e diventare tutti ricchissimi: non per forza di denaro, ma di beni (prodotti con “valore d’uso”, anziché merci “usa e getta”). Nel suo libro – densamente argomentato e documentato, numeri alla mano – Pallante ammette che il suo pensiero è necessariamente eretico, di fronte al non-pensiero del “mercato”. «La decrescita selettiva degli sprechi – insiste – è l’unica via d’uscita a una crisi che da troppo tempo genera problemi al sistema economico e sofferenze umane gravissime». Mentre la disoccupazione ci devasta, nessuno mette in cantiere le attività utili, quelle adatte ad affrontare la crisi sociale e l’emergenza ambientale. «Una società che non fa lavorare chi vorrebbe farlo e non commissiona i lavori più necessari, che ripagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo scopo dell’economia sia la crescita del Pil. Prima ce ne liberiamo e meglio sarà».Inutile spiegarlo agli oligopolisti del denaro, i ras della finanza che stanno schiantando il pianeta alla velocità della luce. Dovranno essere i molti, non i pochi, a disertare dall’esercito del Pil, additando questo “sviluppo” come il vero nemico di un’umanità ancora intenzionata ad abitare la Terra. E’ in arrivo un cataclisma definitivo o sarà ancora possibile metter mano al nostro destino, fermando la corsa verso il baratro? Dipende da noi, secondo Pallante, che intanto propone di uscire dal grande imbroglio della fiction mainstream. Svegliarsi: rottamare il culto di vocaboli-totem come progresso, modernità e innovazione. Continuare a scambiarli per sinonimi di miglioramento, sostiene, significa restare prigionieri di un inganno saguinoso, ormai esiziale per le sorti della società e del pianeta. Tornare all’antico? Al contrario: «Occorre utilizzare l’enorme patrimonio scientifico e tecnologico delle società industriali», non più per incrementare la produttività e la produzione di merci, ma «per sviluppare le tecnologie che aumentano l’efficienza con cui le risorse della Terra vengono trasformate in beni». Raffinate tecnologie, che riducono gli sprechi, tagliano le emissioni e recuperano i rifiuti.Oggi, insiste Pallante, difendere la democrazia significa affrontare i problemi creati dalla gobalizzazione: «Occorre porre al centro della politica economica l’autosufficienza alimentare ed energetica». Filiere corte, dall’energia al cibo. Parola d’ordine: «Rilocalizzare tutte le attivitù produttive che rispondono ai bisogni fondamentali della vita e possono essere svolte più vantaggiosamente a livello nazionale che a livello globale». Settori d’impiego teoricamente infiniti: basterebbe «ristrutturare ecologicamente il patrimonio edilizio, rinaturalizzare il paesaggio, ripulire i fiumi, rifare le reti idriche che perdono mediamente il 65% dell’acqua». Solo così, conclude Pallante, si può rianimare l’economia creando lavoro “utile”, che risana l’ecosistema. Serve un nuovo umanesimo, un patto tra comunità consapevoli: «Occorre ridare slancio alla convinzione che il lavoro di ognuno può contribuire in maniera determinante al benessere di tutti», restituendo un futuro ai giovani e alle generazioni a venire. Utopia? Sì, necessaria e urgente. Non c’è più tempo per i sogni, serve una politica operativa basata su un paradigma opposto a quello della crescita, cieca e suicida. Anche perché l’alternativa è già scritta: siamo noi, il famoso tonno da tagliare con un grissino.(Il libro: Maurizio Pallante, “Sostenibilità equità solidarietà”, sottotitolo “Un manifesto politico e culturale”, Lindau, 185 pagine, 16 euro).Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.
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Della Luna: noi e il cantiere (zootecnico) del pensiero unico
Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.Il dissenso rispetto all’ortodossia, e la stessa libera indagine scientifica e storica di quelle credenze, scrive Della Luna nel suo blog, sono atteggiamenti inammissibili, «sanzionati con la delegittimazione morale, il boicottaggio della carriera, la discriminazione amministrativa, l’esclusione dei media, dall’insegnamento, dall’editoria, quando non anche da conseguenze penali». I dati di fatto smentiscono l’ortodossia? Non importa: «Vengono taciuti all’opinione pubblica, soprattutto nei campi chiave per l’orientamento del pensiero e della sensibilità collettivi, della concezione generale della realtà, del consenso politico, della legislazione e della giurisdizione». Anche la ricerca scientifica è «condizionata, limitata e incanalata attraverso il controllo finanziario della stampa specialistica, delle università, della ricerca, dell’editoria». Per Della Luna, avvocato e saggista, si è così ottenuta una sostanziale limitazione della libertà di ricerca, di insegnamento, di informazione pubblica – limitazione che, di fatto, «previene grande parte del possibile dissenso». Attenzione: «L’imposizione di un’ortodossia è incompatibile con la scienza, perché la scienza procede proprio per continua revisione, verificazione, falsificazione, ed è incompatibile con l’indiscutibilità». Dunque, l’ortodossia «serve a proteggere dal controllo scientifico le credenze che sostengono posizioni di privilegio e sfruttamento».E’ un sistema basato sul dominio, con i suoi guardiani: «Le posizioni politiche che mettono in luce e contestano il trend di progressivo trasferimento dei redditi e della ricchezza dai lavoratori alla finanza improduttiva – scrive Della Luna – sono tutte etichettate, dalla grande comunicazione, come populiste-estremiste, se non peggio», mentre sono definiti “di sinistra” partiti come il Pd in Italia, che «difendono la concentrazione dei redditi e del potere politico nelle mani dei grandi banchieri, quando non sono addirittura diretti da figli di banchieri molto discutibili o addirittura incriminati». Secondo Della Luna, «l’uomo non è una grande risorsa per i suoi ideali di giustizia, verità, libertà: pur di non guardare in faccia la realtà e non doversi addossare responsabilità, la maggior parte della gente adotta credenze assurde e rinuncia alla libertà, arrivando a pagare, a stordirsi, a compiere cose degradanti». C’è chi vorrebbe suscitare un movimento rivoluzionario e moralizzatore? Vorrebbe puntare sulla diffusione della conoscenza, illuminando decisivi aspetti della realtà? Tutte illusioni, sostiene il pessimista Della Luna.Siamo tornati all’antico potere sacerdotale, avverte il saggista: «I cleri di molte civiltà si arricchivano e acquisivano potere politico facendo credere al popolo che, per far sì che gli dèi mandassero la pioggia e proteggessero dalle pestilenze e dalle carestie, bisognasse fare grandi donazioni in sacrificio ai templi e obbedire ai grandi sacerdoti». Oggi, afferma Della Luna, svolge una funzione analoga «la credenza istituzionalizzata (cioè la religione) della scarsità della moneta e della indispensabilità per gli Stati di indebitarsi per finanziarsi». Nel saggio “Pensare altrimenti”, il filosofo Diego Fusaro scrive che il capitalismo finanziario, per realizzare il proprio sistema di profitto, ha necessità di farsi pensiero totalitario, unico, quindi di eliminare ogni identità umana differenziale e ogni valore diverso da quelli di scambio, così come ogni vincolo morale, comunitario, etnico, culturale e spirituale, insieme a ogni concezione alternativa dell’uomo e dell’ordinamento esistente, perché ostacolerebbero la “onnimercificazione” e la immediatezza del business.Il nuovo business, aggiunge Fusaro, vuole che ogni qualità sia riducibile a quantità, e che tutto e tutti siano costantemente disponibili on line per le operazioni di mercato (e di sorveglianza), in un processo di omogeneizzazione e riduzione del qualitativo al quantitativo che ammette solo i flussi di scambio, non i soggetti che se li scambiano. Questo produce un effetto ultimamente entropizzante e mortifero, cioè nullificante: «Illumina l’accostamento che Fusaro fa di questo processo all’avanzare del Nulla che divora il fantastico mondo del famoso film “La storia infinita”», annota Della Luna. Per compiere questa eliminazione, soprattutto nei cosiddetti “gloriosi 30” (i decenni della grande crescita e redistribuzione economica «apparentemente democratica»), il sistema ha sviluppato in modo pianificato «la demolizione della consapevolezza di classe attraverso il consumismo: col quale le classi subalterne hanno assimilato i valori di quelle dominanti e si sono moralmente neutralizzate nonché politicamente castrate».Al contempo, ha prodotto la relativizzazione e l’inversione dei valori e delle istituzioni tradizionali, «assieme a un complesso processo di censura e “tabuizzazione del dissenso”, del pensiero diverso (circa le cose che contano, soprattutto degli scopi dell’esistenza) e delle stesse parole che servono per esprimere la critica al capitalismo finanziario». Imperialismo, colonialismo, plutocrazia, conflitto servi-padroni: «Sono vocaboli fondamentali per rappresentarsi le operazioni e le realtà del nostro mondo», in cui le guerre di conquista per il petrolio e le altre risorse, e per l’imposizione del dollaro come moneta obbligata degli scambi di materie prime, «vengono legittimate come esportazione della democrazia, lotta al terrorismo e tutela dei diritti dell’uomo». Parole necessarie, continua Della Luna, e quindi «tolte dalla comunicazione per l’opinione pubblica, e sostituite con altre parole opportunamente scelte». E’ la “neolingua” orwelliana: invertire il significato delle parole, restringere il lessico per ridurre i concetti e produrre così il consenso al sistema. Lo si ottiene, oggi, con il lancio mirato di milioni di email e tweet, nonché «campagne di criminalizzazione, di allarmismo, di ottimismo» dirette a manipolare la mente e il comportamento collettivo, in ambito politico e finanziario.«Con quest’arma ci si può liberare di intellettuali dissenzienti e delle loro idee o rivelazioni, come pure di concorrenti commerciali e politici, creando l’apparenza che la società stessa, democraticamente, li condanni o ne diffidi, mentre si tratta dell’attacco di un singolo soggetto, moltiplicato per milioni mediante strumenti tecnologici». Così per tutto. La ricerca scientifica? Vincolata ai finanziamenti del capitalismo privato e del settore militare. Conseguenze: «note e terribili, nei campi sanitario e alimentare». E l’ideologia gender, introdotta sin dal ‘96 anche attraverso l’Ue? «Persino dati di fatto biologici, come la dualità dei sessi, vengono negati e “tabuizzati” in quanto dati di natura, immodificabili, e convertiti in convenzioni-costruzioni volontarie, ossia in prodotti, così da creare il mercato dei trattamenti per sviluppare un gender», ovvero: «Trattamenti ormonali per sospendere la sessuazione nei fanciulli rinviandola a quando potranno scegliere se diventare maschi o femmine», e anche «condizionamenti psicologici per indurre identificazioni e prassi di “gender” divergenti dall’appartenenza sessuale biologica».La “destra del capitale” (come la chiama Fusaro), si serve di una censoria “sinistra del costume” (ottusa o mercenaria) che è stata allocata negli spazi e gli organi “culturali” (sovrastruttura) per oscurare, delegittimare, criminalizzare e attaccare, talvolta persino con la violenza fisica, i critici strutturali del modello capitalista, vantandosi “antifascista” «ma di fatto esercitando, in modo tipicamente fascista, la proscrizione e repressione dei critici del sistema, senza confronto nel merito ma semplicemente mediante accuse di immoralità, estremismo, populismo o irrazionalismo, nonché di fake news». Non sempre funziona: le elezioni del 4 marzo 2018 – aggiunge Della Luna – hanno dimostrato che larga parte dell’elettorato ha rigettato la propaganda istituzionale pro-immigrazione e pro-eurocrazia. Nei suoi saggi, l’autore demistifica soprattutto i dogmi fondanti del sistema capitalistico, della sua legittimazione giuridica e del consenso che lo sostiene: scarsità-costosità della moneta, efficienza-esistenza del libero mercato, “virtuosità” della spesa pubblica e della riduzione dei debiti nazionali (mediamente cresciuti, non calati, proprio per effetto del rigore fiscale Ue). «Ma siccome queste sono una credenza protetta, non possono essere messe a confronto col loro fallimento di fatto».In grande maggioranza, sostiene Fusaro citando Etienne de la Boétie, la popolazione tende ad adattarsi cognitivamente, moralmente ed emotivamente allo stato di fatto della realtà, ai rapporti di potere effettivi, «perché pensare l’ingiustizia del potere che si subisce rende il subirla più afflittivo e tormentoso, senza apportare vantaggi». In altre parole: meglio non guardarla in faccia, una realtà così orrenda. L’industria culturale del capitalismo finanziario aiuta, eccome, a non aprire gli occhi: agisce «analogamente ma assai più efficacemente di ogni altro totalitarismo precedente, teocratico, comunista o fascista che fosse». Ha costruito e imposto una sua ortodossia, ha fabbricato un consenso, una legittimazione democratico-giuridica. E ha ottenuto che il “logos” dissenziente, cioè la consapevolezza dell’ingiustizia (dell’illogicità e dell’infelicità provocata dal sistema in atto, e della progettabilità di sistemi diversi) possa circolare solo tra pochi intellettuali indipendenti, marginali al potere, senza poter alimentare un movimento politico consistente ed efficace. Quand’anche, aggiunge Della Luna, non si andrebbe oltre qualche piccolo attrito, «perché la capacità repressiva del sistema, col suo apparato mediatico-militare-istituzionale, è immensa».Del resto, «la quota di potere reale messa in gioco nelle votazioni popolari è minima». Chi vota, può decidere pochissime cose. Della Luna l’ha spiegato in saggi come “Oligarchia per popoli superflui” e “Oltre l’agonia”: il pensiero unico è pervasivo, fortissimo. «E’ di gran lunga più capace che ogni altro sistema di legare a sé le persone, le aziende, i governi», proprio perché «più di ogni altro sistema produce e distribuisce mezzi monetari», che sono «il motivatore universale», e lo fa «con operazioni contabili che indebitano verso di esso, con interesse composto, le persone, le aziende, i governi (denaro-debito)». E quindi, nel finanziare il corpo sociale – cioè nel dargli volta per volta il denaro di cui questo necessita per funzionare – al contempo lo indebita verso di sé, creandogli la necessità di prendere ulteriore denaro a prestito (il cosiddetto “debito infinito”, i cui leader sono i produttori della moneta, cioè i vertici del sistema finanziario). «E’ un fattore matematico ineliminabile. E questa dipendenza è divenuta non solo economica, nel tempo, ma anche politica». Il vertice finanziario emana le direttive e detta le leggi: è il fondamento del potere politico. L’attività strategica dei “produttori di denaro”, insiste Della Luna, rappresenta «il core business del settore bancario», che opprime le nazioni indebitate.«Siamo evidentemente in presenza di un piano politico di lungo termine, ovviamente non dichiarato e non proposto al pubblico dibattito né menzionato o menzionabile nei programmi elettorali dei partiti politici». Per Della Luna, è in corso da decenni «un piano di indebitamento progressivo a fine di potere politico e di esautorazione delle istituzioni pubbliche». Si basa sul fatto che gli utenti del credito (cittadini, aziende, amministratori, politici) si accontentano di risolvere il problema finanziario immediato ottenendo un nuovo finanziamento, senza considerare «l’effetto cumulativo macroeconomico del finanziarsi ripetutamente a credito nel lungo e lunghissimo periodo». Ed è proprio questo l’obiettivo dell’operazione. Il piano «viene nascosto, dai suoi stessi esecutori, dietro i precetti della lotta al debito pubblico, dell’avanzo primario e della “virtuosità” di bilancio – precetti la cui applicazione ha infatti aumentato l’indebitamento pubblico verso la comunità bancaria internazionale, come volevano i loro fautori». Indebitamento che, su scala mondiale, supera i 260.000 miliardi di dollari. In Europa, un muro insormontabile grazie alla moneta unica (Della Luna ne parla in “Cimiteuro”, “Euroschiavi”, “La moneta copernicana”).E’ il “social control”, sintetizza Della Luna, il vero obiettivo di fondo dell’oligarchia finanziaria globale. Il profitto monetario? «E’ solo uno strumento», benché formidabile e con volumi mostruosi. Invece, «gestire un mondo in preda a squilibri e conflitti crescenti è molto più impegnativo». Secondo l’analista, questo richiede il passaggio già in corso: «Dalla società finanziarizzata alla società amministrata zootecnicamente». E’ drastico, Della Luna: «All’atto pratico – scrive – lo spazio di libertà degli uomini è sempre stato proporzionale alla loro capacità fisica e mentale di conquistarselo e difenderlo, ossia di resistere alla tendenza a controllarli e sfruttarli da parte del potere costituito». La libertà individuale? Non è altro che «un rapporto tra la forza di controllo dall’alto e quella di resistenza ad essa dal basso». Oggi, conclude, la tecnologia sta moltiplicando la prima rispetto alla seconda. In ogni campo: dalla comunicazione all’elettronica, della biochimica alla manipolazione genetica per via farmacologica. Contiamo sempre meno, saremo sempre più in gabbia. Zootecnia, appunto: «Gli spazi di libertà vanno ad azzerarsi».Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.
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Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo
Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?(Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
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Ilaria Bifarini: di rigore si muore. Lo sanno, e così insistono
Pura idozia? No, peggio: è sadismo. Sanno benissimo che i tagli sono una catastrofe, ma insistono col rigore di bilancio: è il loro unico programma, il loro dogma. Lo ricorda la “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa”. «I danni dell’austerity sono noti allo stesso Fmi», scrive, su Twitter. «Il consolidamento del debito aumenta il livello di disoccupazione di lungo termine e il tasso di disuguaglianza. Eppure continuano a prescrivere la stessa letale ricetta». E’ come somministrare un farmaco letale a un paziente moribondo, dichiara l’economista, intervistata da “Lospeciale”. «Le stesse organizzazioni economiche internazionali fautrici della dottrina neoliberista hanno più volte ammesso la fallimentarietà delle loro teorie», premette. «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale ad esempio, con uno studio del 2016, hanno calcolato gli effetti deleteri delle politiche di austerity in termini di aumento della disoccupazione di lungo periodo e del tasso di disuguaglianza. Eppure, proprio oggi è stato diffuso un working paper dello stesso Fondo Monetario in cui vengono raccomandati ulteriori tagli alla spesa pubblica, in particolare nel settore sanitario, che in Italia ha subito tagli draconiani, raggiungendo livelli considerati allarmanti per la salute pubblica, e nel sistema previdenziale, nonostante la famigerata riforma Fornero».In pratica, si continua con la stessa ricetta – mortale – che ha ridotto il malato in fin di vita. Secondo uno studio della stessa Oxfam, aggiunge Bifarini, «se le misure di austerità continueranno, entro il 2025 l’Europa potrebbe avere da 15 a 25 milioni di poveri in più». Ma il mainstream politico e giornalistico «preferisce ignorare queste verità che trapelano ogni tanto dai documenti ufficiali delle organizzazioni internazionali e propagandare quelli conformi al pensiero unico economico». Nel silenzio generale dei media è uscita questa notizia: è ormai a rischio povertà anche chi lavora, quasi 1 su 8. «La colpa è proprio di questo sistema, che premia la disuguaglianza», spiega Bigarini. «Il futuro ci prospetta una società sempre più polarizzata, con una ristretta cerchia di privilegiati sempre più ricchi e il resto della popolazione, lavoratrice e non, che continuerà a impoverirsi». D’altronde, aggiunge, il fenomeno dei “working poors” è già diffuso in Germania, dove il problema della disoccupazione non è “mostruoso” come in Italia. Eppure, anche in Germania «la deflazione salariale è una colonna portante del modello neoliberista».Inversioni di rotta? Siamo alla vigilia di un cambiamento? Fa pensare, sostiene “Lospeciale”, che il Movimento 5 Stelle oggi parli di natalità e soldi alle coppie con figli: dirlo solo cinque anni fa avrebbe creato polemiche su un presunto “ritorno al fascismo”, in relazione al primitivo welfare nazionalista mussoliniano. «Sicuramente è iniziata una svolta nel sentimento della popolazione», sostiene Ilaria Bifarini, secondo cui il voto del 4 marzo «ha dimostrato la forte volontà e speranza di cambiamento da parte dei cittadini». Politicamente parlando, per l’economista «andrà avanti chi manterrà le promesse e non deluderà gli elettori». E questo, aggiunge, «perché c’è più consapevolezza, anche grazie all’informazione indipendente», che si è progressivamente sviluppata sul web. «Lavoro e famiglia sono senz’altro prioritari: il problema della denatalità non può essere risolto né aggirato con l’accoglienza indiscriminata, ma va affrontato seriamente». Proponendo reddito minimo e Flat Tax, Di Maio e Salvini dimostrano di sapere che occorre dare (o lasciare) più soldi a famiglie e aziende: il contrario dei tagli, che l’Ue – al servizio dei grandi oligopoli globalizzati – continua a raccomandare, fingendo di non conoscene le conseguenze.Pura idozia? No, peggio: è sadismo. Sanno benissimo che i tagli sono una catastrofe, ma insistono col rigore di bilancio: è il loro unico programma, il loro dogma. Lo ricorda la “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa”. «I danni dell’austerity sono noti allo stesso Fmi», scrive, su Twitter. «Il consolidamento del debito aumenta il livello di disoccupazione di lungo termine e il tasso di disuguaglianza. Eppure continuano a prescrivere la stessa letale ricetta». E’ come somministrare un farmaco letale a un paziente moribondo, dichiara l’economista, intervistata da “Lospeciale”. «Le stesse organizzazioni economiche internazionali fautrici della dottrina neoliberista hanno più volte ammesso la fallimentarietà delle loro teorie», premette. «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale ad esempio, con uno studio del 2016, hanno calcolato gli effetti deleteri delle politiche di austerity in termini di aumento della disoccupazione di lungo periodo e del tasso di disuguaglianza. Eppure, proprio oggi è stato diffuso un working paper dello stesso Fondo Monetario in cui vengono raccomandati ulteriori tagli alla spesa pubblica, in particolare nel settore sanitario, che in Italia ha subito tagli draconiani, raggiungendo livelli considerati allarmanti per la salute pubblica, e nel sistema previdenziale, nonostante la famigerata riforma Fornero».