Archivio del Tag ‘riforme’
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Lo Zio Sam tifa Sì per Renzi, e la stampa finge d’indignarsi
“Indebita ingerenza”, “Irruzione a gamba tesa”, “Invasione di campo”, questi solo alcuni dei titoli dei quotidiani di oggi dopo le improvvide esternazioni dell’ambasciatore Usa a Roma, John Phillips. Come è noto il nostro ha affermato candidamente che una vittoria del No al referendum costituzionale rappresenterebbe un «passo indietro» nella politica italiana e ostacolerebbe gli investimenti stranieri in Italia. L’inquilino di Villa Taverna ha naturalmente aggiunto – bontà sua – che si tratta di «una decisione italiana» ma che comunque l’Italia «deve garantire di avere una stabilità di governo». E visti i 63 governi in 63 anni le garanzie sono piuttosto scarse… Alle parole dell’ineffabile Phillips fa eco la news – guarda caso battuta subito dopo – dell’agenzia di rating “Fitch”, che profetizza «uno choc per l’economia» se il No vincesse, con ricadute sul rating italiano. Ma che splendida coppia e come si preoccupano generosamente per la nostra salute…Ora, mentre non sorprende affatto la presa di posizione dei nostri “amici” americani, quello che davvero sorprende – e disgusta – è la reazione della stampa nostrana, che finge di indignarsi per l’illecita ingerenza nei nostri affari interni. Illecita ingerenza? Non sanno i nostri inossidabili pennivendoli del mainstream che la nostra è una nazione vassalla a tutti gli effetti? Il servaggio dell’Italia, che va dalla costrizione ad acquistare armamenti Usa alla imposizione di basi militari con armamento nucleare sul nostro territorio, dalla partecipazione coatta a missioni di guerra – opportunamente rinominate “guerre umanitarie” – delle nostre forze armate, alla deindustrializzazione forzata e alla svendita della nostra economia decisa a tavolino nel ’92, è ormai una realtà ben nota a tutti coloro che si interessino in modo onesto e corretto alla storia di questo paese.Dalla iniziale cessione di parte della nostra sovranità con il Trattato di Parigi nel ’47, decisa da De Gasperi al fine di ottenere il riassetto di equilibri politici interni, alla erogazione dei contributi del Piano Marshall condizionati all’uscita dei comunisti dal governo, passando per gli assassini di Enrico Mattei e di Aldo Moro, per Gladio e la strategia della tensione, per le imposizioni di premier non eletti, la nostra è stata sempre una storia di inverecondo servaggio nei confronti dei Signori del Mondo. Una sottomissione con evidenti manifestazioni servili da parte dei nostri politici rampanti che – guarda caso – prima di essere eletti fanno un viaggetto a Washington onde ottenere l’investitura da parte dei padroni. E, con tutto ciò, i nostri impudichi giornalisti si sorprendono, s’indignano, starnazzano on line perché l’ambasciatore americano ha semplicemente – con tipica franchezza anglosassone – detto le cose come stanno? Suvvia ragazzi, provate per una volta a essere un filino meno ridicoli; se il servaggio è il nostro destino, ammettiamolo onestamente, se, invece, vorremo alzare un giorno la testa, beh, iniziamo a farlo da subito chiamando le cose con il loro nome.(Piero Cammerinesi, “Ahi, serva Italia…”, da “Libero Pensare” del 14 settembre 2016).“Indebita ingerenza”, “Irruzione a gamba tesa”, “Invasione di campo”, questi solo alcuni dei titoli dei quotidiani di oggi dopo le improvvide esternazioni dell’ambasciatore Usa a Roma, John Phillips. Come è noto il nostro ha affermato candidamente che una vittoria del No al referendum costituzionale rappresenterebbe un «passo indietro» nella politica italiana e ostacolerebbe gli investimenti stranieri in Italia. L’inquilino di Villa Taverna ha naturalmente aggiunto – bontà sua – che si tratta di «una decisione italiana» ma che comunque l’Italia «deve garantire di avere una stabilità di governo». E visti i 63 governi in 63 anni le garanzie sono piuttosto scarse… Alle parole dell’ineffabile Phillips fa eco la news – guarda caso battuta subito dopo – dell’agenzia di rating “Fitch”, che profetizza «uno choc per l’economia» se il No vincesse, con ricadute sul rating italiano. Ma che splendida coppia e come si preoccupano generosamente per la nostra salute…
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Brancaccio: l’Ue distrugge il lavoro e fabbrica migranti
I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori? «Bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali», spiega l’economista Emiliano Brancaccio. «L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo». Se oggi i capitali «possono muoversi da un paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali», il risultato è che «ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata». Per questo, Brancaccio pensa a un sistema di controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, «specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Ma il vero problema, dice l’economista, è che l’Unione Europea è ormai un cadavere. Pura utopia sperare di poterla riformare dall’interno, come sperava la sinistra di Tsipras e soci.In Italia, ovviamente, buio pesto: «Dalle nostre parti il dibattito politico è dominato dal nulla», dichiara Brancaccio a Giacomo Russo Spena in un’intervista su “Micromega”. «Eppure, quando ai prossimi appuntamenti elettorali si tratterà di giudicare i programmi dei partiti, poche cose saranno importanti quanto la posizione che le varie forze assumeranno sul tema della circolazione indiscriminata dei capitali». L’esodo di massa dei lavoratori, dal Sud verso il Nord dell’Europa? E’ «l’unico meccanismo che può mitigare gli effetti della forbice occupazionale in atto». Ma siamo alla macelleria pura: «Quella migratoria è una valvola di sfogo delicata, complessa, dolorosa, che richiederebbe un minimo di organizzazione preventiva della direzione e della velocità dei flussi». Dinamiche che l’Ue non ha neppure provato a governare, preferendo affidarsi «a rozzi meccanismi di mercato», contribuendo così a «cospargere altra benzina sul fuoco del risentimento sociale e della xenofobia». Ci siamo dentro anche noi: «Oggi la propaganda delle forze reazionarie, in Gran Bretagna come in Germania, cattura consensi anche lamentando che “ci sono troppi italiani in giro”. Con buona pace per gli ideali di fratellanza tra i popoli europei».Queste tendenze, aggiunge Brancaccio, potrebbero sfociare in una sorta di “xenofobia liberista”, a partire dai possibili esiti della trattativa sulla Brexit. L’influente Istituto Bruegel di Bruxelles promuove un nuovo accordo tra Ue e Regno Unito che si basi da un lato sulla riaffermazione della indiscriminata circolazione internazionale dei capitali tra le due aree, e dall’altro sulla concessione ai britannici di bloccare a piacimento i flussi di immigrati dal continente. «Se questo è il meglio che gli illuminati think-tank europei sono in grado di proporre, la sintesi che ho definito “xenofobia liberista” non è più semplicemente un’ipotesi sul futuro, ma deve già esser considerata un’orrida realtà di fatto», dice Brancaccio. Gli storici revisionisti sostengono che l’avvento dei fascismi in Europa fu una reazione alla rivoluzione bolscevica? «Quel che sta avvenendo in questi anni sembra suggerire che l’ascesa di forme più o meno surrettizie di fascismo può anche verificarsi come effetto diretto del meccanismo capitalistico e delle sue crisi, pur nella totale assenza di una minaccia di tipo comunista o anche solo vagamente tradeunionista».E il peggio è che nessuna schiarita è in vista: «Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento». La sostanza delle politiche economiche non è cambiata: «L’Eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente». Morale: «Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile». E il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti più in difficoltà: attraverso l’acquisto di titoli di Stato, il grosso delle erogazioni Bce finisce alla Germania, anziché alle economie che più ne avrebbero bisogno. E non ci sono segnali politici che possano lasciar sperare in un cambio di rotta. «Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri paesi del Sud Europa». Se Draghi si decidesse ad affrontare davvero il problema, aggiunge Brancaccio, dovrebbe riconoscere che l’Eurozona sta implodendo: «Nessuna unione monetaria alla lunga può sopravvivere se il paese più forte si ostina ad attuare una politica di competizione al ribasso sui salari».Oggi in Germania le retribuzioni hanno cominciato finalmente a crescere, ma in questo modo «è stato eliminato solo un terzo del vantaggio competitivo che la Germania aveva accumulato nello scorso decennio, anche grazie a una ferrea politica di controllo dei salari». In una situazione di deflazione – più merci che denaro circolante – si distrugge capacità produttiva, eliminando posti di lavoro nel Sud Europa. In Italia, dall’approvazione del Jobs Act l’occupazione è aumentata meno della metà rispetto alla crescita media europea, già molto modesta. E’ provato: «La precarizzazione dei contratti non crea occupazione, serve solo a indebolire i lavoratori e a ridurre ulteriormente i salari». Così, oggi, gli italiani che lasciano i confini nazionali sono più degli immigrati che arrivano. Altro che Asia e Africa: «Almeno metà delle attuali migrazioni è interna al continente». Era tutto previsto, peraltro, dalla castrofica architettura Ue: fin dall’inizio, «si sapeva che l’assetto dell’Unione avrebbe determinato andamenti sbilanciati dell’occupazione nei diversi paesi, e quindi avrebbe indotto imponenti migrazioni di lavoratori dalle aree più deboli a quelle più forti». Rispetto al 2007, aggiunge Brancaccio, in Germania ci sono oggi circa tre milioni di occupati in più, mentre in Spagna registriamo 2 milioni e trecentomila occupati in meno. In Italia i posti di lavoro sono un milione in meno rispetto a dieci anni fa. «E in tutto il Sud Europa sono stati distrutti circa 5 milioni di posti di lavoro».I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori? «Bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali», spiega l’economista Emiliano Brancaccio. «L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo». Se oggi i capitali «possono muoversi da un paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali», il risultato è che «ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata». Per questo, Brancaccio pensa a un sistema di controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, «specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Ma il vero problema, dice l’economista, è che l’Unione Europea è ormai un cadavere. Pura utopia sperare di poterla riformare dall’interno, come sperava la sinistra di Tsipras e soci.
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Paura-Renzi, tutti con lui: Usa, Cei, Merkel, Wall Street
Ve lo vedete il nostro ambasciatore a Washington che si intromette nelle campagna elettorale di Trump? Ne verrebbe fuori un putiferio. Invece, rileva Aldo Giannuli, in Italia nessuno apre bocca se mezzo mondo interviene in soccorso di Renzi, in vista del temutissimo referendum d’autunno – temutissimo perché, dopo il Brexit, sarebbe una breccia per altri “pericolosi” referendum, non solo in Italia, sull’euro e la Ue. «La Cei, l’ambasciatore americano, la Merkel, Wall Street, le agenzie di rating come “Fitch”, la Goldman Sachs e la Jp Morgan, la Ue e chissà chi altro nelle prossime ore, stanno accorrendo tutti al capezzale del governo italiano in vista del pericoloso appuntamento referendario che rischia di diventarne l’infarto finale». Per Renzi la strada è in salita: la probabilità di perdere è molto più che una semplice ipotesi. «E pur di scongiurare questo (per loro) infausto evento, si mettono da parte rivalità e vecchi rancori e si travolge persino la prassi diplomatica per la quale è vietatissimo ad un ambasciatore prendere posizione sulle vicende interne del paese presso il quale è distaccato». E, salvo «la timida ma onorevole uscita di Mattarella», non c’è stata nessuna protesta diplomatica del nostro ministero degli esteri.Ormai, scrive Giannuli sul suo blog, «pare che il governo italiano non rappresenti più il popolo italiano ma sia diventato una dépendence del Pd e che, anzi, ringrazi gli Usa per il grazioso appoggio». Ma perché l’opposizione tace? Non una parola dai 5 Stelle o da Sinistra Italiana. In silenzio anche Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia. Perché non chiedere «un dibattito in aula sulle ingerenze straniere nel referendum», o magari «una mozione di sfiducia al ministro degli esteri?». E le gerarchie vaticane, perché si schierano anche loro con Renzi? «Cosa gliene importa ai vescovi italiani (che per il Concordato, dovrebbero tenere il becco chiuso sulla politica in questo paese) se, in Italia, c’è il Senato o no?». Quanto alla Casa Bianca, finora «ha mostrato ben poche simpatie per Renzi a causa delle sue posizioni sui rapporti con la Russia», ma adesso perché di colpo lo difende? E perché anche la Merkel accorre in aiuto del “giullare” fiorentino? No, Renzi non è diventato improvvisamente simpatico a tutti: «Il punto è un altro e va messo in relazione alla Brexit». Una bocciatura della riforma renziana «suonerebbe come la seconda aperta sconfessione di un governo europeo, e questo sarebbe un esempio molto pericoloso».Napolitano e Monti sono stati espliciti, in merito: non sono materie da sottoporre a giudizio referendario, il popolo non deve metter becco in questi argomenti. Il rischio, continua Giannuli, è che «a ruota piombino le richieste di referendum sulla Ue, l’euro o altre materie “sensibili” anche in Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Repubblica Ceca, travolgendo i rispettivi governi come è stato rovesciato Cameron e come lo sarebbe Renzi se vincesse il No». E questo, ovviamente, «potrebbe preludere al crollo della Ue con effetto-domino sugli Usa», anche perché «non dobbiamo perdere d’occhio i venti di rivolta elettorale che soffiano su Europa e Usa come reazione alla crisi ormai quasi decennale». Questa l’analisi di Giannuli: «Le élites dominanti, anzi la élite globale, reagisce mettendo da parte i suoi dissensi interni e opponendo un fronte unico alla sollevazione popolare. D’altra parte, la riforma di Renzi dell’“uomo solo al comando” tutta impostata sul ruolo centrale e quasi esclusivo del governo ai danni di magistratura e, soprattutto, Parlamento si inquadra perfettamente nella “costituzione emergenziale” della globalizzazione: una governance impostata su una sorta di conferenza permanente dei capi degli esecutivi senza impicci parlamentari e tantomeno di organi come le Corti Costituzionali o, più in generale, del potere giudiziario». In altre parole, «l’ordine neoliberista non tollera di essere messo discussione e tantomeno dai popoli dell’Occidente». Se non altro, ora ha gettato la maschera.Ve lo vedete il nostro ambasciatore a Washington che si intromette nelle campagna elettorale di Trump? Ne verrebbe fuori un putiferio. Invece, rileva Aldo Giannuli, in Italia nessuno apre bocca se mezzo mondo interviene in soccorso di Renzi, in vista del temutissimo referendum d’autunno – temutissimo perché, dopo il Brexit, sarebbe una breccia per altri “pericolosi” referendum, non solo in Italia, sull’euro e la Ue. «La Cei, l’ambasciatore americano, la Merkel, Wall Street, le agenzie di rating come “Fitch”, la Goldman Sachs e la Jp Morgan, la Ue e chissà chi altro nelle prossime ore, stanno accorrendo tutti al capezzale del governo italiano in vista del pericoloso appuntamento referendario che rischia di diventarne l’infarto finale». Per Renzi la strada è in salita: la probabilità di perdere è molto più che una semplice ipotesi. «E pur di scongiurare questo (per loro) infausto evento, si mettono da parte rivalità e vecchi rancori e si travolge persino la prassi diplomatica per la quale è vietatissimo ad un ambasciatore prendere posizione sulle vicende interne del paese presso il quale è distaccato». E, salvo «la timida ma onorevole uscita di Mattarella», non c’è stata nessuna protesta diplomatica del nostro ministero degli esteri.
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Messora: M5S e vincolo di mandato, vergogna totalitaria
«Se sei un parlamentare di un partito e cambi gruppo politico te ne vai a casa. Te ne vai a casa!», tuona Di Maio dal palco, ignorando che la Costituzione (articolo 67) dichiara che ogni membro del Parlamento «rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Diritto che i 5 Stelle vorrebbero abolire: «Una volontà della prima ora di Gianroberto Casaleggio», scrive Claudio Messora, già comunicatore dei grillini, ora in polemica col movimento. Curiosamente, aggiunge, proprio questa modifica alla Costituzione (che dunque non è più sacra e inviolabile) è una delle due proposte di legge più votate dagli iscritti. L’altra è il ripristino delle case chiuse, mentre le proposte serie, come quelle che «mirano all’uscita dall’euro», sono «giudicate inammissibili dallo staff, oppure spariscono dal web». A prima vista, il vincolo di mandato può sembrare “cosa buona e giusta”. «E inizialmente ne ero convinto anch’io», ammette Messora sul suo blog, “ByoBlu”. «Ma lo sembra solo fintantoché pensiamo a Razzi e a Scilipoti, cioè a qualcuno che di sua spontanea volontà abbandona un gruppo parlamentare per “cambiare casacca”».Cosa succede invece se un parlamentare viene espulso dal suo gruppo politico contro la sua volontà? Molti 5 Stelle sono stati cacciati con espulsioni di massa, 20 solo al Senato: «Alcune di queste sono state condotte con procedimenti sommari, privi del più elementare diritto di difesa, argomentate attraverso l’uso di una retorica di parte al fine di nascondere le reali motivazioni dell’espulsione e di ottenere una legittimazione basata su un plebiscito popolare similmente a quanto avveniva durante le fasi dell’annessione al Regno d’Italia o ai tempi del fascismo». Prova ne è che alcuni parlamentari hanno tentato di fare ricorso contro queste decisioni: il “cambiamento di casacca”, per alcuni, «non era certamente voluto, ma subito con dolore». Ma un parlamentare viene messo alla porta perché ha violato le regole, i principi, i valori del gruppo, oppure «viene fatto fuori perché era diventato scomodo, avendo visto quegli stessi principi calpestati proprio da quel gruppo che, per togliersi di mezzo un rompiscatole scomodo, lo espelle?». La legge della maggioranza è un’arma a doppio taglio: «E’ buona finché la maggioranza è buona, ma è cattiva quando ad essere buona è rimasta solo la minoranza».E qui, continua Messora, entra in gioco il “divieto imperativo di mandato”, che è presente in tutte le democrazie tranne il Portogallo, Panama, il Bangladesh e l’India. La forza dell’autonomia del singolo parlamentare? Può sempre ribellarsi al suo governo, al suo partito, se si accorge che è caduto nelle mani di un’oligarchia che opera contro l’interesse collettivo, tradendo l’ispirazione politica iniziale. Che succede se invece al parlamentare non è più consentito il dissenso? Viene espulso, allontanato Parlamento e sostituito con altri parlamentari, più compiacenti: «Si apre la strada, cioè, alla dittatura di pochi». Basta un gruppo dirigente deciso a impossessarsi del vertice del partito. Al contrario, l’assenza di vincolo di mandato garatisce al parlamentare la libertà di agire secondo coscienza, rifiutandosi di votare leggi che gli paiono inaccettabili, a prescidere dal colore politico del governo che le propone. «Una tutela per la democrazia – riconosce Messora – che i padri costituenti avevano introdotto, memori dell’esperienza del fascismo». Misura sulla quale, peraltro, nel 2010 lo stesso Grillo era d’accordissimo. «Chi è eletto risponde ai cittadini, non al suo partito», diceva, citando proprio l’articolo 67 della Costituzione, che esclude il vincolo di mandato.Certo, è una tutela che consente allo “scilipotismo” di manifestarsi, ma è ancora in grado di preservare la forma democratica, continuando a tutelare gli interessi originari in base ai quali il parlamentare era stato eletto, all’occorrenza aderendo o creando un nuovo raggruppamento parlamentare che coincida con quegli stessi valori. Una garanzia che evita di degradare il Parlamento a «ostaggio di un regime totalitario». Oggi più che mai, l’abolizione del vincolo di mandato «accentua il rischio della selezione di una classe dirigente prona ai voleri del padrone, che – per il suo proprio interesse, ovvero per conservare quella poltrona tanto vituperata a parole – accetta l’ubbidienza totale in cambio del mantenimento dello status di parlamentare». Ma a quel punto, aggiunge Messora, «a cosa serve avere un Parlamento se tutti i parlamentari di una intera forza politica sono vittima dello schiaffo di una dirigenza di partito? Tanto varrebbe allora ci fosse un solo parlamentare: il segretario di quello stesso partito, in rappresentanza di tutti, che magari fa le leggi insieme ai soli segretari degli altri partiti. Immaginate cosa avrebbero potuto fare Renzi e Berlusconi, al tempo del Pdl, se in Italia la Costituzione non vietasse il vincolo di mandato: avrebbero sostituito tutti i parlamentari che dissentivano con la loro volontà di riforma del paese, mettendone al loro posto altri pronti a votare sempre e solo sì, magari in cambio di soldi».Due sole persone, massimo tre, avrebbero già cambiato la Costituzione da tempo. E forse, continua Messora, non si sarebbe neanche trovato il numero di parlamentari necessari a chiedere un referendum confermativo, per cui adesso non ci sarebbe nessun tour per spiegare le ragioni del “No”. «Il problema dei cambi di casacca effettivamente c’è, ma non si risolve smantellando le norme costituzionali poste a baluardo dell’avvento dei regimi». Il problema vero? La selezione dei candidati: che dev’essere accurata, non come quella (online) effettuata dal M5S. E poi, una volta eletti, i parlamentari dovrebbero accettare di essere sottoposti a critiche senza sconti, non “perdonati” dai militanti in ogni caso, «quasi che si facesse parte di una famiglia i cui membri vanno difesi anche quando sbagliano». Tocca ai cittadini, innanzitutto, vigilare sugli eletti: stanno facendo il loro dovere, per il bene della nazione? «Se i cittadini sentissero di appartenere a un’unica squadra e la smettessero di dividersi e farsi dividere, secondo la vecchia strategia del “divide et impera” – conlude Messora – allora per la politica e per i demagoghi non ci sarebbe più alcun spazio di manovra, se non quello di essere costretti a perseguire un bene superiore. Il che rappresenta il vero, autentico “vincolo di mandato”».«Se sei un parlamentare di un partito e cambi gruppo politico te ne vai a casa. Te ne vai a casa!», tuona Di Maio dal palco, ignorando che la Costituzione (articolo 67) dichiara che ogni membro del Parlamento «rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Diritto che i 5 Stelle vorrebbero abolire: «Una volontà della prima ora di Gianroberto Casaleggio», scrive Claudio Messora, già comunicatore dei grillini, ora in polemica col movimento. Curiosamente, aggiunge, proprio questa modifica alla Costituzione (che dunque non è più sacra e inviolabile) è una delle due proposte di legge più votate dagli iscritti. L’altra è il ripristino delle case chiuse, mentre le proposte serie, come quelle che «mirano all’uscita dall’euro», sono «giudicate inammissibili dallo staff, oppure spariscono dal web». A prima vista, il vincolo di mandato può sembrare “cosa buona e giusta”. «E inizialmente ne ero convinto anch’io», ammette Messora sul suo blog, “ByoBlu”. «Ma lo sembra solo fintantoché pensiamo a Razzi e a Scilipoti, cioè a qualcuno che di sua spontanea volontà abbandona un gruppo parlamentare per “cambiare casacca”».
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Soros con Renzi: Sì al referendum, cioè al diktat della Bce
Pochi giorni fa George Soros sul “Corriere della Sera” dispensava buoni consigli a Renzi su come vincere il referendum costituzionale. In questo modo il più famoso di quei moderni pirati che sono gli speculatori finanziari internazionali confermava ciò che in molti sappiamo. Che la finanza e le banche, quell’1% di super-ricchi che oggi ha in mano il potere, abbiano diretto interesse nella vittoria della controriforma della nostra Costituzione. E che per vincere questi signori siano disposti a fare carte false e anche per questo, dopo mesi di campagna per il Sì a reti unificate, ancora non sappiamo quando si andrà a votare. Il pronunciamento di Soros, che segue quello di Confindustria, top manager di multinazionali, banchieri italiani ed europei, ci porta direttamente alla dimensione sociale dello scontro sulla controriforma costituzionale. Cioè al fatto che, contrariamente a quanto affermato dai suoi estensori, la controriforma di Renzi abbia proprio il fine ultimo di affossare la prima parte della Costituzione del 1948.La legge Boschi sistematizza processi di riduzione dei poteri e dei diritti popolari e del lavoro, di centralizzazione del potere, iniziati negli anni ‘80 del secolo scorso con i governi di Bettino Craxi. Non a caso è in quegli anni che si comincia a parlare di governabilità e decisionismo. Allora si lanciò il progetto di una “grande riforma” che superasse il sistema costituzionale uscito dalla sconfitta del fascismo e rafforzasse il potere di decidere del governo e del suo capo. Craxi accompagnò questo suo disegno con il taglio per decreto legge del salario determinato dalla scala mobile. Questo per chiarire quale fosse il segno sociale ed economico del decisionismo rivendicato. Nel mondo della globalizzazione dei mercati e della speculazione finanziaria dominante sarebbe stato necessario un nuovo tipo di governo, più simile all’amministrazione di una grande impresa che al governo democratico della società.Contemporaneamente allo smantellamento di quei lacci e lacciuoli, per usare la definizione di Guido Carli, che limitavano mercato e potere d’impresa, negli anni ‘80 si diede il via alla piena affermazione del potere della finanza sul bilancio pubblico. Nel 1982 venne decisa la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, per cui da quel momento l’amministrazione pubblica per i suoi bisogni avrebbe dovuto indebitarsi con le banche e la finanza internazionale a prezzi di mercato, invece che ricorrere alla Banca d’Italia come nei decenni di crescita precedenti. Insomma negli anni 80 si misero in campo tutte le basi delle politiche liberiste contro il lavoro e i diritti sociali, poi sviluppatesi nei trenta anni successivi. Ora Renzi riprende e porta a conclusione tutti i progetti di riforma autoritaria della democrazia nati oltre trenta anni fa, contemporaneamente ed assieme all’affermazione delle politiche economiche e sociali liberiste. Il suo quindi non è un cambiamento, ma il compimento sul piano istituzionale delle politiche che da trenta anni colpiscono il lavoro.Roberto Benigni e altri sostengono però che la legge Boschi possa essere accettata proprio perché inerisce alla organizzazione del potere e non ai suoi fini, che resterebbero ancora quelli definiti nella prima parte, che non viene toccata. La Costituzione più bella del mondo resterà, dicono costoro, sarà solo più efficiente. Ma come si può sostenere che la completa riscrittura di 47 articoli della Costituzione in una volta sola lasci inalterata la nostra Carta? Se in una automobile conservo un po’ della carrozzeria esterna e cambio motore e parti meccaniche io ho un’altra vettura e anche la carrozzeria ne risentirà, sempre che non si vada a sbattere. La prima parte della Costituzione, cioè i principi sul lavoro, sulla salute, sul rapporto pubblico privato, sull’ambiente, da tempo viene devastata dalle normali leggi dei governi. Forse che acquistare un operaio come un pacchetto di sigarette dal tabaccaio, con i voucher, ha qualcosa a che vedere con il concetto costituzionale di lavoro? E la distruzione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e tutte le forme di precarietà previste per legge, non espellono forse i diritti costituzionali dai luoghi di lavoro?Di Vittorio chiedeva di far entrare la Costituzione nelle fabbriche per realizzarla davvero, oggi la si estromette dal rapporto di lavoro ridotto a merce, per poi renderla vuota e inutile ovunque. E lo Sblocca Italia, la Buona Scuola, i tagli alla sanità che costringono milioni di poveri a non curarsi, quelli alle pensioni, le privatizzazioni non devastano ogni principio della prima parte della Costituzione? E la guerra in violazione plateale dell’articolo 11? Da tempo la politica quotidiana dei governi vìola i principi della prima parte della Carta, la controriforma della sua seconda parte istituzionalizza e rende permanente il pratico smantellamento della prima. La nostra non è una Costituzione liberale che stabilisca semplicemente le regole del gioco per l’accesso al potere politico. Quello era lo Statuto Albertino, che permise venti anni di dittatura fascista nel rispetto delle sue regole. La nostra è una Costituzione democratica a forte caratterizzazione sociale, è una costituzione sociale.Voglio ricordare quello che secondo me è l’articolo che meglio caratterizza il senso e lo scopo della nostra Carta, l’articolo 3. All’inizio quell’articolo afferma semplicemente il principio dell’eguaglianza formale: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, fin qui siamo nel solco delle costituzioni liberali e borghesi. Ma poi nel secondo comma cambia tutto, leggiamolo: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Ecco, qui la nostra Costituzione afferma che senza eguaglianza sociale non c’è davvero neppure quella formale. Marchionne che guadagna 50 milioni di euro all’anno ed un operaio Fiat che ne prende 25000 non sono eguali. L’uno ha infinitamente più potere dell’altro. Per questo il diritto del lavoro non è eguale a quello commerciale, perché la compravendita della prestazione di lavoro non avviene tra contraenti con pari forza contrattuale.Il diritto del lavoro parte dal presupposto che i rapporti di forza tra impresa e lavoratore vadano riequilibrati a favore di quest’ultimo; ed è proprio per questo che le riforme liberiste degli ultimi trenta anni smantellano il diritto del lavoro e lo sostituiscono con il diritto commerciale. Secondo la controriforma liberista il lavoro va trattato come qualsiasi altra merce e non deve essere sostenuto da leggi e tutele speciali, altrimenti verrebbero violate le sacre leggi del mercato. L’articolo 3 riconosce la disparità sociale delle classi come limite assoluto della democrazia e affida alla Repubblica il compito di “rimuovere”, apprezziamo bene la forza di questa parola, gli ostacoli economici all’eguaglianza. Chi sono i soggetti a cui la Repubblica deve offrire la sua tutela particolare, i cittadini svantaggiati genericamente intesi? No,sono proprio i lavoratori perché evidentemente per la nostra Costituzione il grado di libertà reale del paese si misura innanzitutto con quello del lavoro. Una Costituzione classista? No, democratica nel senso ampio assunto da questa parola dopo la sconfitta del fascismo.Si noti bene poi che il compito di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza non è affidato al governo o al suo capo, ma alla Repubblica. Cioè al governo, al Parlamento, alla magistratura, agli enti locali, a tutte le istituzioni politiche che compongono la Repubblica, comprese le organizzazioni che la Costituzione riconosce come fondamentali, sindacati, partiti, libere associazioni. Tutto questo è la Repubblica, che si dà il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono la reale eguaglianza. La repubblica prefigurata ed organizzata dalla controriforma di Renzi è invece tutta un’altra cosa. Prima di tutto nella Costituzione renziana c’è un uomo solo al comando. Il Parlamento è composto di nominati, direttamente il Senato, indirettamente ma egualmente la Camera. Che viene eletta con una legge elettorale che concede il potere assoluto alla migliore minoranza, che potrà decidere quello che vuole, o meglio quello che vuole il suo capo, contro la maggioranza del paese che non l’ha scelta per governare. Un colpo di Stato permanente, frutto del golpe bianco che ha prodotto la stessa legge di riforma.Non dimentichiamo infatti che un Parlamento dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con una maggioranza che rappresenta poco più del 20% del paese reale, ha smontato un Costituzione votata nel 1947 da oltre il 90% di una Assemblea eletta dal 90% dei cittadini. Il potere autoritario che scaturisce dai 47 nuovi articoli della Costituzione renziana distrugge l’autonomia di tutte le istituzioni della Repubblica, dal parlamento, alla magistratura, agli enti locali. I sindaci diventano impiegati del governo, visti i vincoli nazionali ed europei cui sono sottoposti secondo il nuovo articolo 119. I sindacati, anche per le complicità di Cgil, Cisl e Uil, vengono anch’essi soggiogati al sistema di potere. Che a sua volta deve obbedire a vincoli e ordini superiori, quelli dettati dal vincolo europeo. In sintesi, la controriforma della Costituzione è un tavolo a tre gambe. Quella centrale, su cui siamo chiamati ad esprimerci con il referendum, organizza il sistema di potere attorno al capo. Un’altra gamba è l’Italicum, la legge elettorale truffa che determina chi sarà il capo.La terza gamba è il nuovo articolo 81, che impone anche al capo un vincolo superiore: quello del Fiscal Compact europeo, il pareggio di bilancio obbligatorio costituzionalmente. Una repubblica autoritaria a sovranità limitata, questo è ciò che sta sul tavolo della controriforma costituzionale. Altro che rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e la partecipazione dei lavoratori, la nuova repubblica si dà un altro mandato, quello di rimuovere gli ostacoli alla libertà d’impresa. Nel nome del mercato e della austerità europea, il capo supremo deve fare sì che la repubblica sia sempre più appetibile per gli investimenti della finanza e delle multinazionali, che devono essere attirati come dice la propaganda liberista dominante. È la repubblica del Ttip, il trattato internazionale che vorrebbe concedere il diritto alla extraterritorialità giudiziaria alle multinazionali, prima di tutto sui diritti del lavoro e sulla tutela della salute e dell’ambiente.Le fonti ispiratrici di questa Costituzione di mercato sono chiaramente rintracciabili nei centri del potere finanziario europeo e multinazionale. Basta rileggersi la lettera del 5 agosto 2011, indirizzata al governo italiano da Draghi e Trichet, cioè dalla Banca Centrale Europea. Quel testo definiva un preciso programma di governo e di riforma costituzionale, realizzati poi in gran parte dagli esecutivi che si sono succeduti da allora alla guida del paese. E poi bisogna ricordare il documento del 28 maggio 2013 stilato dalla Banca Morgan, una delle grandi istituzioni della finanza speculativa mondiale. Quella banca allora scrisse in un suo documento che le riforme liberiste nei paesi europei periferici, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, non si erano potute realizzare pienamente a causa degli ostacoli frapposti dalle relative costituzioni nazionali. Quelle Costituzioni, ricordava sempre la banca, figlie della sconfitta del fascismo e della parte rilevante avuta in essa dalle forze di sinistra socialiste e comuniste.Per questa ragione storica le Costituzioni antifasciste tutelano troppo il lavoro, danno troppo potere alle opposizioni così come alle regioni e ai comuni, garantiscono i sindacati e in definitiva danno potere di veto a chiunque scenda in piazza per difendere i propri interessi. Le riforme liberiste della economia e della società non avrebbero mai potuto dispiegarsi con tutta la loro efficacia senza cambiare quelle costituzioni, concludeva infine la banca. Non può esservi dubbio che la legge Boschi corrisponda meticolosamente agli indirizzi di riforma costituzionale rivendicati dalla Banca Morgan e che la sua messa in opera cancellerebbe la sostanza della Costituzione antifascista. Bisogna votare No alla controriforma, affinché l’Italia sia ancora una repubblica democratica fondata sul lavoro e non sulle banche.(Giorgio Cremaschi, “Il referendum costituzionale è popolo contro banche”, da “Micromega” del 31 luglio 2016).Pochi giorni fa George Soros sul “Corriere della Sera” dispensava buoni consigli a Renzi su come vincere il referendum costituzionale. In questo modo il più famoso di quei moderni pirati che sono gli speculatori finanziari internazionali confermava ciò che in molti sappiamo. Che la finanza e le banche, quell’1% di super-ricchi che oggi ha in mano il potere, abbiano diretto interesse nella vittoria della controriforma della nostra Costituzione. E che per vincere questi signori siano disposti a fare carte false e anche per questo, dopo mesi di campagna per il Sì a reti unificate, ancora non sappiamo quando si andrà a votare. Il pronunciamento di Soros, che segue quello di Confindustria, top manager di multinazionali, banchieri italiani ed europei, ci porta direttamente alla dimensione sociale dello scontro sulla controriforma costituzionale. Cioè al fatto che, contrariamente a quanto affermato dai suoi estensori, la controriforma di Renzi abbia proprio il fine ultimo di affossare la prima parte della Costituzione del 1948.
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C’è qualcosa peggio di Renzi? Ma certo: è la sinistra Pd
Dopo la strage di Nizza e quello che sta succedendo in Turchia, ci si sente male a commentare quel che fa la folla di omuncoli che occupano il nostro palcoscenico politico: Verdini, Alfano, Renzi, Salvini, Speranza, Bersani… C’è una sproporzione inaudita fra le tragedie planetarie che si stanno consumando e che ne preannunciano di altre e più gravi e l’infinita piccolezza dei nostri cialtroncelli di regime. Ma, tant’è, tocca occuparcene perché se assai piccola è la statura dei nostri uomini di governo, grandi e pesanti sono i danni che rischiano di produrre e che, in parte, stanno già producendo. E dunque, mestamente, veniamo ai problemi di casa. Dunque referendum il 6 novembre o giù di lì e, a quanto pare, referendum singolo: Renzi è il più intelligente dei renziani e capisce che l’ipotesi spacchettamento è una fesseria che non sta in pieni né sul piano pratico né su quello logico e tantomeno su quello costituzionale. D’altra parte è stata una idea dei radicali (che quando si tratta di far danno alla democrazia sono sempre in prima fila) e di Bersani che ha perso un’altra magnifica occasione per tacere.Che poi il referendum si faccia davvero il 6 novembre non sarei così sicuro, soprattutto per il rischio che si sovrapponga la crisi delle banche e magari l’ipotesi spacchettamento torna utile non per essere attuata, ma per fare manfrina fra Cassazione e Corte Costituzionale e guadagnare due o tre mesi di tempo, poi chi vivrà vedrà. In questo quadro fosco di drammi internazionali e di scenari interni assai preoccupanti, la sinistra Pd trova il modo di farci ridere, nostro malgrado, con una proposta elettorale semplicemente indecente. La riforma, presentata da quel raro talento di Speranza, prevede l’elezione dei deputati in 475 collegi uninominali a turno unico e 12 eletti all’estero con sistema proporzionale. Gli altri 143 seggi vengono così assegnati: 90 alla prima lista o coalizione, fino a un totale massimo di 350 deputati; 30 alla seconda lista o coalizione; 23 divisi tra chi supera il 2% e ha meno di 20 eletti.Cioè: eliminiamo il doppio turno perché se no vince Grillo, facciamo i collegi uninominali perché abbiamo più possibilità di battere Grillo, e ci accaparriamo così la maggioranza dei seggi. Poi, come se non bastasse, ci aggiungiamo altri 90 seggi, ma solo sino ad un massimo di 350, badate bene: ben 4 in meno del premio previsto dall’Italicum, 30 li diamo alla seconda lista (sperando che sia la destra e non il M5s) e 23 li distribuiamo come mancia fra quelli che, avendo superato la clausola di sbarramento del 2%, abbiano avuto meno di 20 seggi così una lista che magari ha avuto il 18% ma solo 15 seggi uninominali, piò anche arrivare ad averne 23-24 (una mancia non si nega a nessuno). E se non ci sono liste con più del 2% e meno di 20 seggi? In quel caso i 23 seggi li ridistribuiamo fra le due prime liste, ma se poi la prima lista ha già 350 seggi, li diamo alla seconda, tanto non cambia molto.Cioè un metodo maggioritario con correzione maggioritaria e clausola di sbarramento. L’Italicum è molto meno disrappresentativo: in fondo, quello che avanza da quel che va al vincitore, lo distribuisce proporzionalmente fra tutti quelli che superano la soglia di sbarramento. Naturalmente, questo superbo metodo elettorale che non ha eguali nel mondo (da nessuna parte si somma il maggioritario uninominale, il premio di maggioranza e la clausola di sbarramento, ma con la mancia finale) avrebbe il dono di far superare tutti i dubbi sulla riforma costituzionale e la “sinistra Pd” potrebbe lietamente aiutare Renzi a vincere! E ci vogliono imbrogliare? A Lecce dicono: “Io e te, ad un altro, sì. Tu a me no”. Poi la ciliegina sulla torta: Speranza dice che l’uninominale aiuterebbe a colmare il divario fra eletti ed elettori perché si restituirebbe agli elettori la possibilità di scegliere il rappresentante: come dire che, al ristorante ti presento una lista con un solo piatto e ti dico: “scegli!”. Ma Speranza è cretino o pensa che siano cretini tutti gli altri? Secondo me fa il doppio gioco…Neanche a dirlo il sistema è anche tecnicamente fatto in modo sbagliato, per cui può produrre risultati assolutamente controintuitivi. Ad esempio, assegnare la maggioranza al secondo e non al primo: se una lista, prevalendo di un solo voto per collegio, si accaparra 316 seggi ha già la maggioranza e, anche se il suo concorrente ottiene più voti nazionali, con tutto il premio dei 90 seggi, perde. Oppure può benissimo darsi che per la distribuzione del voto, nessuno abbia la maggioranza assoluta perché la lista A ottiene 200 seggi uninominali, più i 90 del premio (= 290) la lista B altri 200 (+ 30= 230) e gli altri 75 seggi uninominali vadano alla lista C ed ai minori che si prendono anche i 23 seggi di mancia. Risultato: nessuno ha la maggioranza per governare e, per di più abbiamo realizzato il sistema più disrappresentativo del mondo. Un capolavoro di ineguagliata grandezza! Questi della sinistra Pd (che non si capisce a nome di chi parlino e chi rappresentino) sono degli stalinisti andati a male per overdose di opportunismo e se sono “sinistri” lo sono nel senso di “loschi”. Il giorni in cui Renzi li sterminerà sino all’ultimo con ferocia turca, io applaudirò freneticamente. Anche alla disonestà intellettuale occorre mettere un limite, soprattutto quando viene da persone intellettualmente ipodotate.(Aldo Giannuli, estratti da “C’è qualcosa di peggio di Renzi? Sì, la sinistra Pd”, dal blog di Giannuli del 21 luglio 2016).Dopo la strage di Nizza e quello che sta succedendo in Turchia, ci si sente male a commentare quel che fa la folla di omuncoli che occupano il nostro palcoscenico politico: Verdini, Alfano, Renzi, Salvini, Speranza, Bersani… C’è una sproporzione inaudita fra le tragedie planetarie che si stanno consumando e che ne preannunciano di altre e più gravi e l’infinita piccolezza dei nostri cialtroncelli di regime. Ma, tant’è, tocca occuparcene perché se assai piccola è la statura dei nostri uomini di governo, grandi e pesanti sono i danni che rischiano di produrre e che, in parte, stanno già producendo. E dunque, mestamente, veniamo ai problemi di casa. Dunque referendum il 6 novembre o giù di lì e, a quanto pare, referendum singolo: Renzi è il più intelligente dei renziani e capisce che l’ipotesi spacchettamento è una fesseria che non sta in pieni né sul piano pratico né su quello logico e tantomeno su quello costituzionale. D’altra parte è stata una idea dei radicali (che quando si tratta di far danno alla democrazia sono sempre in prima fila) e di Bersani che ha perso un’altra magnifica occasione per tacere.
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La Brexit travolge Renzi, adesso volano i No al referendum
Basta giri di parole e commissariamenti, meglio libertà e democrazia. Da Londra a Roma, l’onda del Brexit rischia di travolgere Matteo Renzi: contro la “rottamazione” della Costituzione voterebbe il 54% degli italiani, incluso il 22% degli elettori del Pd. L’“Huffington Post” ha pubblicato il primo sondaggio sul referendum di ottobre dopo il voto che ha sancito l’addio del Regno Unito all’Unione Europea. E le percentuali non lasciano spazio di vittoria per il premier, che ha investito tutto sul buon esito della consultazione sulla riforma costituzionale, scrive il “Giornale”. Secondo il sondaggio di “ScenariPolitici” realizzato in esclusiva per l’“Huffington Post”, la maggioranza degli italiani oggi sarebbe orientata a votare contro la manomissione della Costituzione e lo smantellamento del Senato elettivo. «Il 54% degli intervistati voterebbe contro la riforma, il 46% a favore», si legge sul sito diretto da Lucia Annunziata, pur consapevole che si tratti di dati ancora «suscettibili di sostanziali modifiche, visto che meno di un italiano su due oggi è certo di andare a votare».Come racconta Adalberto Signore sul “Giornale”, Renzi sarebbe rimasto molto colpito dalle immagini di David Cameron che davanti all’ingresso del numero 10 di Downing Street annuncia le dimissioni da primo ministro. «Il premier – scrive Sergio Rame – inizia a sospettare che aver indetto un referendum sul ddl Boschi possa essere stato un azzardo. Anche perché ha promesso di lasciare la politica nel caso in cui dovesse passare il “no”. Uscire da questo angolo è pressoché impossibile». Secondo “ScenariPolitici”, il 23% degli italiani non ha ancora deciso cosa votare. Il 29%, invece, non andrà a votare. Non solo. Appena il 28% degli intervistati considera la riforma renziana “una priorità per l’Italia”, mentre per il 49% è molto meglio “focalizzarsi su altre tematiche più urgenti”.Nel frattempo, il fronte del “no” si sta muovendo compatto. Le opposizioni hanno già iniziato la campagna per non far passare il ddl Boschi dalle forche referendarie e, quindi, mandare a casa Renzi. Il “no” starebbe addirittura conquistando l’elettorato del Pd: sempre secondo “ScenariPolitici”, il 22% degli elettori “Dem” sarebbe infatti pronto a votare “no”. «Per Renzi, insomma, sembra non esserci scampo». Lo si può capire: tutta la sua politica, finora, è stata orientata in un’unica direzione – assecondare i diktat dell’élite che usa la Germania come kapò europeo, fingendo però di introdurre brillanti (e indolori) innovazioni. Dopo la porta in faccia sbattuta dagli inglesi, sul muso della Merkel innanzitutto, cresce la voglia di emulazione. Perché dare ancora retta ai pigolii di Renzi, quando è possibile dire dei “no” nettissimi? Ed ecco, per il premier, il grande rischio del referendum di ottobre, annunciato anche dal crollo del Pd alle amministrative.Basta giri di parole e commissariamenti, meglio libertà e democrazia. Da Londra a Roma, l’onda del Brexit rischia di travolgere Matteo Renzi: contro la “rottamazione” della Costituzione voterebbe il 54% degli italiani, incluso il 22% degli elettori del Pd. L’“Huffington Post” ha pubblicato il primo sondaggio sul referendum di ottobre dopo il voto che ha sancito l’addio del Regno Unito all’Unione Europea. E le percentuali non lasciano spazio di vittoria per il premier, che ha investito tutto sul buon esito della consultazione sulla riforma costituzionale, scrive il “Giornale”. Secondo il sondaggio di “ScenariPolitici” realizzato in esclusiva per l’“Huffington Post”, la maggioranza degli italiani oggi sarebbe orientata a votare contro la manomissione della Costituzione e lo smantellamento del Senato elettivo. «Il 54% degli intervistati voterebbe contro la riforma, il 46% a favore», si legge sul sito diretto da Lucia Annunziata, pur consapevole che si tratti di dati ancora «suscettibili di sostanziali modifiche, visto che meno di un italiano su due oggi è certo di andare a votare».
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L’inizio della fine per l’Ue delle banche, dell’euro e del Ttip
Smentendo tutti i sondaggisti e tutti i palazzi del potere, e anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime di chi come noi era per la Brexit, il popolo britannico ha detto basta alla Ue. Lo aveva fatto un anno fa anche il popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo governo si era piegato alla tirannia della Troika. Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che il potere dei mercati e la democrazia sono incompatibili e dobbiamo stare con chi sceglie la democrazia. Con questo voto muore subito il Ttip, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della Ue dell’Euro, delle multinazionali, delle banche e soprattutto dell’austerità. Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della Ue perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche, furiose e inconcludenti dei suoi leader.Anche in questi giorni c’è stato chi ha detto che si sta nella Ue per cambiarla, peccato che la Ue sia indisponibile a qualsiasi cambiamento vero e come tutte le tirannie può solo crollare, non cambiare. Nel no alla Ue è stato decisivo il popolo laburista, che non ha seguito le indicazioni del suo establishment politico e sindacale, ma ha premiato l’impegno di minoranze coraggiose, come il glorioso sindacato dei ferrovieri che abbiamo conosciuto come Eurostop. Minoranze oscurate dai mass media, ma che sono state determinanti. Il popolo della sinistra britannica ha chiarito che sinistra ed europeismo oggi sono incompatibili e che la battaglia contro la Ue delle banche è stata egemonizzata finora da forze di destra perché la sinistra ufficiale ha abbandonato il suo popolo. Ora questo popolo ha bisogno di altri rappresentanti, che in nome della eguaglianza sociale e della democrazia e non dei mercati, ricaccino le destre dal terreno abusivamente occupato.Ora si apre l’epoca del coraggio e tutto si rimette in moto, sarà dura ma questo voto mostra che l’epoca della globalizzazione senza diritti sociali è finita, sono gli stessi mercati a crollare sul potere di argilla che hanno costruito. Tornano i popoli, gli stati, le politiche economiche, i diritti sociali e del lavoro. Sarà dura e non sarà breve, ma c’è tutta una classe dirigente europea da rottamare. Cominciamo qui votando No al referendum di ottobre e mandiamo a casa Renzi e la sua controriforma costituzionale, voluta dalla Ue delle banche. E dopo la Renxit avanti con la Italexit. Grazie al popolo britannico che come nel 1940 dà il via al percorso di liberazione dell’Europa, gli Spitfire sono spuntati dalle urne.(Giorgio Cremaschi, “Brexit, l’inizio della fine per l’Europa delle banche”, da “Micromega” del 24 giugno 2016).Smentendo tutti i sondaggisti e tutti i palazzi del potere, e anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime di chi come noi era per la Brexit, il popolo britannico ha detto basta alla Ue. Lo aveva fatto un anno fa anche il popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo governo si era piegato alla tirannia della Troika. Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che il potere dei mercati e la democrazia sono incompatibili e dobbiamo stare con chi sceglie la democrazia. Con questo voto muore subito il Ttip, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della Ue dell’Euro, delle multinazionali, delle banche e soprattutto dell’austerità. Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della Ue perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche, furiose e inconcludenti dei suoi leader.
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Cacciari: ma il M5S non farà guerra a Renzi sul referendum
Il voto politicamente decisivo, per Renzi, era Milano. S’è salvato, a Milano, e adesso può continuare a raccontare che il voto non è politicamente significativo. Ma, a questo punto, la sfida di ottobre diventa per lui assolutamente decisiva. E, con i risultati di queste elezioni, se il Movimento 5 Stelle si dovesse impegnare davvero “pancia a terra” per il referendum, per il No, rischia la pelle. Ma non ne sono convinto: non sono affatto convinto che il Movimento 5 Stelle condurrà una battaglia all’ultimo respiro su questo tema, perché ormai è evidente che al Movimento 5 Stelle la riforma Renzi conviene, è molto semplice – a meno che Renzi non decida di cambiare la legge elettorale. Come vado ripetendo dall’inizio della sua avventura, quello dei 5 Stelle non è un movimento di destra, assolutamente, e quindi anche una certa riforma istituzionale molti dei militanti l’avrebbero appoggiata. Metà dell’elettorato e dei militanti 5 Stelle hanno una storia che è Ulivo, è centrosinistra; sono persone che la sciagurata direzione del centrosinistra, dell’Ulivo prima e del Pd dopo, ha perso per strada. Non hanno nulla a che fare, antropologicamente, col Fronte Nazionale e Lega, sono molto più simili agli Tsipras, ai Podemos. Quindi, perché dovrebbero schierarsi “usque ad mortem” contro Renzi sul referendum? Non credo che lo faranno, e non solo per ragioni tattiche.L’affermazione del Movimento 5 Stelle viene da lontano, e viene soprattutto dalle strutturali debolezze del Partito Democratico, che non dipendono tanto dalle lacerazioni interne, come si continua a blaterare, ma da una radicale debolezza del mondo in cui questo partito è stato organizzato fin dall’inizio, dimenticando totalmente il “problemino” di un suo radicamento territoriale, la valorizzazione delle energie locali. Sono scelte sciagurate, che dimostrano come la dirigenza ex socialdemocratico-comunista ed ex democristiana che hanno dato vita al Pd non comprendessero nulla, negli anni ‘90 e nel primo decennio del nuovo millennio, delle trasformazioni sociali e strutturali che erano in atto. Questo non è il senno di poi. Si chieda a Fassino delle decine di riunioni, anche con lui, e allora anche con Chiamparino, per vedere di organizzare un Partito Democratico federalistico, che puntasse sul radicamento territoriale nelle periferie. Le energie c’erano, basti pensare all’andamento del voto amministrativo nel ventennio berlusconiano: sempre vi era un’affermazione maggiore del centrosinistra, dell’Ulivo, rispetto al centrodestra.Tutto ciò è stato sradicato, è stato dimenticato, ed è da lì che nasce il successo dei grillini – da lì e poi, certo, anche da un movimento generale anti-sistema che è comune in tutta Europa. Ma la specificità del caso italiano va compresa lì. E non è che sia scomparsa la classe operaia, non è scomparso il lavoro dipendente. E cosa votano costoro, soprattutto i giovani? Votano 5 Stelle massicciamente, o stanno a casa. L’astensionismo? Impressionante, ma ormai è fisiologico: centrodestra e centrosinistra dovrebbero cambiare radicalmente (ma non c’è alcuna prospettiva), e diventare nuovamente attrattivi di settori dell’elettorato “ragionante”. Perché comunque questa non è l’astensione dell’indifferenza, è l’astensione del “non ne possiamo più”: non ne possiamo più di andare a scegliere in quale demagogia identificarci. Metà di quest’astensione è un’astensione matura, consapevole: non possiamo continuare a votare tra chi promette di più e chi è più incompetente. Questi dati non cambieranno fino a quando non ci sarà un’offerta politica più intelligente e più adeguata alle tragedie che viviamo.(Massimo Cacciari, “Risultato Torino sintomatico disastro Pd”, dichiarazioni rilasciate ad Anna Zippel per “Repubblica Tv” il 20 giugno 2016).Il voto politicamente decisivo, per Renzi, era Milano. S’è salvato, a Milano, e adesso può continuare a raccontare che il voto non è politicamente significativo. Ma, a questo punto, la sfida di ottobre diventa per lui assolutamente decisiva. E, con i risultati di queste elezioni, se il Movimento 5 Stelle si dovesse impegnare davvero “pancia a terra” per il referendum, per il No, rischia la pelle. Ma non ne sono convinto: non sono affatto convinto che il Movimento 5 Stelle condurrà una battaglia all’ultimo respiro su questo tema, perché ormai è evidente che al Movimento 5 Stelle la riforma Renzi conviene, è molto semplice – a meno che Renzi non decida di cambiare la legge elettorale. Come vado ripetendo dall’inizio della sua avventura, quello dei 5 Stelle non è un movimento di destra, assolutamente, e quindi anche una certa riforma istituzionale molti dei militanti l’avrebbero appoggiata. Metà dell’elettorato e dei militanti 5 Stelle hanno una storia che è Ulivo, è centrosinistra; sono persone che la sciagurata direzione del centrosinistra, dell’Ulivo prima e del Pd dopo, ha perso per strada. Non hanno nulla a che fare, antropologicamente, col Fronte Nazionale e Lega, sono molto più simili agli Tsipras, ai Podemos. Quindi, perché dovrebbero schierarsi “usque ad mortem” contro Renzi sul referendum? Non credo che lo faranno, e non solo per ragioni tattiche.
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Pd a rischio: gli astensionisti colpiranno, magari a Torino
Elezioni amministrative solo di nome: è stato un voto altamente politico, secondo Aldo Giannuli. «La politica non è solo matematica, ma anche chimica: gli effetti dipendono da come si combinano gli elementi, e se chiami la gente a votare per le comunali avendo già in prospettiva la riforma costituzionale del paese, non puoi pensare che il voto prescinda da questo». Le comunali «sono state l’aperitivo del referendum che, a sua volta, sarà la premessa delle elezioni politiche». A quanto pare, questo è «l’inizio di una fase molto delicata di cambiamento». Fine del bipolarismo, siamo ormai in un sistema quadripolare: centrosinistra, centrodestra, 5 Stelle e poi l’oceano dell’astensionismo, «che non è affatto un’area silente», perché «gli astenuti non sono cittadini morti, ma cittadini che non trovano una risposta soddisfacente». Si ritirano, per ora, nell’“area muta” del non-voto, ma «da un momento all’atro possono rientrare, provocando effetti devastanti e imprevisti, non appena trovino un punto di aggregazione». Ovvio: «Otto anni di crisi non potevano non avere un riflesso anche sul piano politico, e il “polo muto” è il sedimento di rancori, rabbia, senso di rivolta che sta covando in fasce sempre più numerose di elettorato».Prima o poi, scrive Giannuli sul suo blog, questo “sentimento” si manifesterà nel più violento dei temporali: «E non è detto che debba necessariamente essere un temporale elettorale, potremmo trovarci di fronte a una rivolta di piazza, impossibile ora da qualificare se di destra o di sinistra». Tutto questo, all’indomani della «prima seria sconfitta politica del Pd renziano e del suo incipiente “partito della nazione”». Se le regionali 2015 «ridimensionarono il leggendario 41% delle europee, ma confermando un valore superiore al 33%», oggi il Pd è al 17% a Napoli (dove è escluso anche dal ballottaggio) e sotto il 30% a Roma e Torino, «dove rischia molto seriamente per il secondo turno». A Bologna il Pd è rimasto 11 punti al di sotto delle previsioni che lo volevano vincente al primo turno. E in tutti i Comuni minori perde voti. «Una sconfitta secca e senza appello, che si intuisce destinata a ingigantirsi nel secondo turno». A Roma, «la battaglia è persa senza appello». A Milano, il distacco fra Sala (che a gennaio era dato oltre il 50%) e Parisi è praticamente nullo: è possibile che molti grillini voteranno Parisi.Rimonta non impossibile anche a Torino: Chaiara Appendino potrebbe beffare Fassino incassando voti di Lega, Forza Italia e Airaudo. L’unica piazzaforte al sicuro resta Bologna, «dove però non basterà un magro 53-54% a riscattare la figuraccia iniziale». Dunque, il Pd rischia seriamente di perdere in tutte tre le città italiane con più di un milione di abitanti (Roma, Milano, Napoli) e ha qualche probabilità di perdere a Torino. «E se anche qui Renzi dovesse essere sconfitto, potrebbe fare una cosa: salire sulla Mole, sul punto più alto possibile, e buttarsi di sotto senza nemmeno aspettare ottobre», scrive Giannuli. Al che, le acque potrebbero iniziare ad agitarsi: forse, la minoranza Pd troverà il coraggio di dire che al referendum si vota No. «Il Partito della Nazione muore prima ancora di nascere (bell’apporto, quello di Verdini a Napoli) mentre il Pd entra chiaramente in crisi».Il secondo polo destabilizzato è la destra che, pur sconfitta dove si è presentata divisa (Roma e Torino), resiste a Napoli e Bologna e ha una forte affermazione a Milano. Forza Italia scompare a Roma e Torino, ma ha un buon successo a Napoli e Milano. «Sulla carta, i derby dove la destra si presentava divisa sono stati vinti da Salvini, ma che te ne fai di battere Marchini e Napoli se poi resti escluso dal ballottaggio?». Queste elezioni dicono due cose, insiste Giannuli. La prima è che la destra non è scomparsa: a Roma, se si fossero presentati uniti, sarebbero andati al ballottaggio al posto di Giachetti; a Milano, Napoli e Bologna gli sfidanti sono tutti del centrodestra. «Ma ha speranza di affermarsi solo se ha il volto moderato dei Parisi, dei Lettieri e delle Bergonzoni, non dove ha candidati in camicia nera o esagitati come Salvini che, per di più, non beccano un voto a sud dell’Emilia. Quindi il giovanotto leghista può dare l’addio ai suoi sogni di essere il candidato presidente del Consiglio della destra». Anche Berlusconi «è finito», ma può ancora esercitare un ruolo come king-maker del futuro centrodestra: « Anche qui si apre una transizione tempestosa, che non sappiamo a cosa approderà». Unico vero vincitore, il M5S, per la prima volta senza Casaleggio e con Grillo in disparte: «Per la prima volta i grillini sono chiamati a governare», e non piccole città di provincia come Parma o Livorno, ma la capitale e, forse, anche Torino. «Se non ce la fanno, questa può essere la tomba del movimento».Elezioni amministrative solo di nome: è stato un voto altamente politico, secondo Aldo Giannuli. «La politica non è solo matematica, ma anche chimica: gli effetti dipendono da come si combinano gli elementi, e se chiami la gente a votare per le comunali avendo già in prospettiva la riforma costituzionale del paese, non puoi pensare che il voto prescinda da questo». Le comunali «sono state l’aperitivo del referendum che, a sua volta, sarà la premessa delle elezioni politiche». A quanto pare, questo è «l’inizio di una fase molto delicata di cambiamento». Fine del bipolarismo, siamo ormai in un sistema quadripolare: centrosinistra, centrodestra, 5 Stelle e poi l’oceano dell’astensionismo, «che non è affatto un’area silente», perché «gli astenuti non sono cittadini morti, ma cittadini che non trovano una risposta soddisfacente». Si ritirano, per ora, nell’“area muta” del non-voto, ma «da un momento all’altro possono rientrare, provocando effetti devastanti e imprevisti, non appena trovino un punto di aggregazione». Ovvio: «Otto anni di crisi non potevano non avere un riflesso anche sul piano politico, e il “polo muto” è il sedimento di rancori, rabbia, senso di rivolta che sta covando in fasce sempre più numerose di elettorato».
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Matteo stai sereno, stanno già arrivando i titoli di coda
La coppia presidenziale Boschi-Renzi ha stufato? Avevano cercato di far apparire l’appuntamento amministrativo di giugno come un insignificante stretching, prima della sfida all’O.K. Corral referendario di ottobre. La possibilità di iniziare già da ora a spedire un chiaro messaggio al duo rampante, rispondendo per le rime alle loro evidenti propensioni alla presa per i fondelli dei cittadini, è stata irresistibile; riuscendo perfino nel miracolo di interrompere per una volta il trend al non-voto, tanto da riportare alle urne in alcune città un numero superiore di aventi diritto rispetto alle occasioni precedenti. Ora possono dire quello che vogliono, questi pervicaci manipolatori del pensiero, che di volta in volta – e a seconda di quanto conviene loro – pretendono di stabilire se un dato elettorale ha una qualche valenza generale o meno. Le europee 2014 (drogate dalla paghetta degli 80 euro, che per molti si è rivelata soltanto un prestito truffaldino pro tempore) venivano proclamate un test estremamente rilevante; le consultazioni di domenica un semplice appuntamento localistico.Solo perché gli scricchiolii nei consensi stavano a indicare un pericoloso risveglio dall’incantamento, nei confronti di chi ha monopolizzato la scena pubblica con un’opera sistematica di colonizzazione degli immaginari; intasandoli di sogni infondati quanto apparentemente rassicuranti. Dalle erogazioni a sorpresa (ossia con la clausola mimetizzata – come nelle obbligazioni di Banca Etruria – per la loro restituzione a valore maggiorato; tipo l’abbattimento di tasse nazionali a fronte di incrementi locali) alle riforme bidone, il cui sapore rancido veniva mascherato dagli abbondanti inzuccheramenti lessicali: la “buona” scuola, il “buon” lavoro e così via. Difatti la dark lady in tailleur da fata turchina Boschi, forse avvisata dalle proprie antenne sensibilissime alle questioni di potere (come dimostrò alle elezioni per il sindaco di Firenze, mollando per tempo il candidato dalemiano Michele Ventura di cui era portavoce, per imbarcarsi sul carro renziano), già da qualche giorno si era premurata di mutare registro: dal trionfalismo al terrorismo.Difatti ora passa dal cinguettio molesto sui “partigiani buoni” al sibilo del «se vince il no si apriranno scenari di instabilità». Staremo a vedere cosa si inventerà il suo partner dai pantaloni a tubo di stufa, che solitamente funziona meglio quando può giocare all’attacco in chiave di seduzione; mentre le bugie difensive gli vengono peggio, perché tradiscono la sua cinica arroganza. Do you remember “stai sereno”? Certo, l’esito delle consultazioni domenicali è ancora aperto. Ma già emettono due messaggi importanti. Il primo è che in questo Paese, dove la condiscendenza al potere e ai potenti è un tratto caratteriale estremamente diffuso, alla fine ci si stufa del fenomeno di turno. E Renzi presumibilmente sta per essere investito da un effetto disaffezione che ricorda la metafora del “marziano a Roma” di Ennio Flaiano: l’alieno Knut atterrato nella capitale che, esaurito il primo effetto sorpresa, viene liquidato dal millenario scetticismo capitolino con un beffardo “ancora qui?”.La seconda questione è se dallo scombussolamento prenderà corpo una qualche proposta di governo credibile, che smentisca l’argomentazione (ricattatoria) che “a Renzi non ci sono alternative”. Oltre il (più che legittimo) voto punitivo che ha caratterizzato in larga misura gli esiti (liberatori) che abbiamo sotto gli occhi. Visto che oggi ci è data l’opportunità di meditare su una grande verità che Flaiano faceva pronunciare al suo “marziano”: «La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia».(Pierfranco Pellizzetti, “Elezioni amministrative 2016, dopo un po’ Renzi stufa”, da “Il Fatto Quotidiano” del 6 giugno 2016).La coppia presidenziale Boschi-Renzi ha stufato? Avevano cercato di far apparire l’appuntamento amministrativo di giugno come un insignificante stretching, prima della sfida all’O.K. Corral referendario di ottobre. La possibilità di iniziare già da ora a spedire un chiaro messaggio al duo rampante, rispondendo per le rime alle loro evidenti propensioni alla presa per i fondelli dei cittadini, è stata irresistibile; riuscendo perfino nel miracolo di interrompere per una volta il trend al non-voto, tanto da riportare alle urne in alcune città un numero superiore di aventi diritto rispetto alle occasioni precedenti. Ora possono dire quello che vogliono, questi pervicaci manipolatori del pensiero, che di volta in volta – e a seconda di quanto conviene loro – pretendono di stabilire se un dato elettorale ha una qualche valenza generale o meno. Le europee 2014 (drogate dalla paghetta degli 80 euro, che per molti si è rivelata soltanto un prestito truffaldino pro tempore) venivano proclamate un test estremamente rilevante; le consultazioni di domenica un semplice appuntamento localistico.
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In campo solo loro, vinceranno il RefeRenzum col 100%
Piazze e vicoli, radio pubbliche e private, Tv, giornali on line e giornali di carta, volantini di Expert, Trony e Ikea, Università e scuole materne, Facebook, Twitter, Instagram, Badoo, pornohub. E poi ancora: Tg, programmi di approfondimento, rassegne stampa notturne, bugiardini dei medicinali, talk-show, varietà (isole dei famosi comprese): la campagna referendaria per il “Sì” del duo Renzi-Boschi – a quattro mesi e passa dal voto – non risparmia alcun luogo fisico, alcun canale di comunicazione per convincere il popolo sovrano ed elettore che deve votare “Sì” al referendum sulla costituzionalizzazione del bonapartismo. L’attività frenetica dei due non conosce soste, limiti, ostacoli. E’ una marcia trionfale verso la schiacciante vittoria plebisciataria che rade al suolo ogni opposizione. Tutte le occasioni sono buone per ribadire che la riforma costituzionale è necessaria, improcrastinabile e santa e che – oltre a Berlinguer, Ingrao, Pajetta, Togliatti, Gramsci, Bordiga, i partigiani buoni e la Terza Internazionale – questa riforma la vuole pure la casalinga di Voghera.Si parla di immigrazione? La riforma è necessaria per arginare i flussi migratori. Il deficit (qualunque deficit, non importa quale, anche un deficit di intelligenza va bene) è oltre i limiti? La riforma lo farà rientrare entro i limiti. Napolitano ha il mal d’auto? La riforma glielo farà passare. La tua connessione internet salta in continuazione? Niente paura, con la riforma sarà stabile e più veloce di prima. Sei stato licenziato? La riforma produrrà nuovi e più gratificanti posti di lavoro tutti per te. Il buttafuori della discoteca non ti ha fatto entrare e ti ha preso a calci perché eri ubriaco come una scimmia già dalle quattro del pomeriggio? Con la riforma non succederà mai più. Mancano, lo dicevo prima, ancora quattro mesi al referendum e già siamo combinati così.Non so quanti italiani resisteranno a questo bombardamento, a questa guerra totale, a questo incubo, per tutto questo tempo. Già tremo all’idea che la notte di ferragosto aprendo un’anguria in spiaggia al falò con gli amici ci possa trovare dentro un volantino con le ragioni per il “Sì” referendario. Il referendum è senza quorum. Questi due, da qui a ottobre, ci avranno sterminato tutti (pure quelli della loro parte) e andranno a votare solo loro. E vinceranno col 100% dei consensi.(Turi Comito, “Vinceranno il RefeRenzum con il 100%”, da “Megachip” del 26 maggio 2016).Piazze e vicoli, radio pubbliche e private, Tv, giornali on line e giornali di carta, volantini di Expert, Trony e Ikea, Università e scuole materne, Facebook, Twitter, Instagram, Badoo, pornohub. E poi ancora: Tg, programmi di approfondimento, rassegne stampa notturne, bugiardini dei medicinali, talk-show, varietà (isole dei famosi comprese): la campagna referendaria per il “Sì” del duo Renzi-Boschi – a quattro mesi e passa dal voto – non risparmia alcun luogo fisico, alcun canale di comunicazione per convincere il popolo sovrano ed elettore che deve votare “Sì” al referendum sulla costituzionalizzazione del bonapartismo. L’attività frenetica dei due non conosce soste, limiti, ostacoli. E’ una marcia trionfale verso la schiacciante vittoria plebisciataria che rade al suolo ogni opposizione. Tutte le occasioni sono buone per ribadire che la riforma costituzionale è necessaria, improcrastinabile e santa e che – oltre a Berlinguer, Ingrao, Pajetta, Togliatti, Gramsci, Bordiga, i partigiani buoni e la Terza Internazionale – questa riforma la vuole pure la casalinga di Voghera.