Archivio del Tag ‘riforme strutturali’
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Fermare il Pd, il partito che ha fatto più danni all’Italia
Non ignoro i limiti ed i problemi del M5S e su questo sito, ma è anche vero che si tratta di un movimento giovane, che deve ancora attraversare il lungo tunnel della propria definizione. Quanto all’accusa di populismo (che peraltro Grillo non respinge ed anzi rovescia in una orgogliosa rivendicazione): io non sono affatto populista, vengo da una cultura politica che non è affatto populista, però so che ogni processo di rivolta contro il sistema ha sempre avuto esordi di tipo populista. Ma, soprattutto, so che questa polemica contro il populismo è la foglia di fico dietro cui queste miserabili élite nascondono le loro incapacità, la loro voracità, i loro ignobili privilegi. Questo mi dice da che parte stare in questo scontro. Io credo che siamo in un momento cruciale della storia del nostro paese. Ed in particolare in Italia, le cosiddette élite stanno dando il peggio di sé.Dopo un ventennio nel quale hanno preparato il disastro presente, si apprestano a svendere questo paese: pezzi pregiati di Eni, Finmeccanica, porti, patrimonio immobiliare e artistico, Ferrovie, Cdp, tutto sta per essere svenduto ed alla fine ci ritroveremo con lo stesso debito ma molto più poveri. Ricordate la svendita delle Partecipazioni Statali degli anni Novanta? Dovevano servire ad abbattere il debito: che fine hanno fatto? In questi venti anni abbiamo avuto un ceto politico sostanzialmente omogeneo, salvo sfumature di stile: stessa cultura politica liberista, stesso uso cinico delle tecniche surrettizie di raccolta di consenso, stessa moralità politica. Entrambe hanno occupato l’intero spazio politico con il solito argomento: vota me per non far vincere l’altro. Ma era una falsa alternativa, come l’esito finale di questo ventennio nero rende evidente.Dunque, è arrivato il momento di rovesciare questa classe dirigente in tutte le sue “varianti”. La specie berlusconiana sembra felicemente avviata all’estinzione, ma ora è il momento di pensare al Pd. Il partito che ha fatto più danni sul piano della democrazia (per tutte si pensi alle leggi elettorali maggioritarie e senza preferenze ed alla riforma del titolo V nel 2001; alla riforma dei servizi segreti del 2007), che sta svendendo la Banca d’Italia, che ha sempre espresso il maggior grado di asservimento agli Usa, che in 20 anni non ha svolto alcuna azione di contrasto alla corruzione, che non ha fatto alcuna legge sul conflitto di interesse chiedendo i voti per farla, che per i giovani propone solo e sempre maggiori periodi di lavoro gratuito (servizio civile, praticantato post laurea, lavoro in azienda durante il periodo scolastico), che, con il pacchetto Treu, ha dato il via alla demolizione dei diritti dei lavoratori, che ha difeso la legge Fornero, etc.Ora, l’approdo alla segreteria Renzi è il punto di arrivo finale della degenerazione di quello che fu un grande partito di sinistra ed è oggi un piccolo covo di intriganti e faccendieri. Posso avere molte perplessità sul M5S, ma in compenso ho la certezza che il Pd di Renzi sia il nemico da battere e punire. E’ probabile che in questo turno Renzi cresca, l’importante ora è ostacolarne al massimo l’avanzata per batterlo nella prossima occasione. Il M5S è lo strumento più efficace che ho per colpire questa classe politica. C’è poi un secondo ordine di motivi: è evidente ormai che l’ordinamento della Ue, con l’euro al centro, sta soffocando l’Europa ed occorra un forte ripensamento di questa costruzione tecnocratica. Se l’Europa dei popoli non è solo uno slogan, ma un’aspirazione vera, occorre prima mandare in frantumi questa Europa dei finanzieri e dei tecnocrati che è inconciliabile con l’altra. Il M5S, in Italia, è l’unico martello che ho a disposizione per colpire l’Europa delle banche, se non voglio lasciare campo libero, su questo tema, alle formazioni fasciste, xenofobe, di destra.Inoltre, come ho sempre dichiarato, sono un convinto fautore della legge elettorale proporzionale come unica garanzia di vera rappresentanza non manipolata e, non solo il M5S è l’unica forza politica dichiaratamente proporzionalista, ma soprattutto so che una forte affermazione del M5S avrebbe l’effetto immediato di paralizzare l’abominevole legge Renzi-Berlusconi che è in discussione in Parlamento. E’ sufficiente che il M5S emerga come secondo polo per far passare qualsiasi velleità di legge maggioritaria a doppio turno. E già questa sarebbe da sola una ragione sufficiente. Dunque, sulla base di queste considerazioni, voterò il M5S.Tuttavia, faccio anche i miei auguri alla lista Tsipras di raggiungere il quoziente richiesto. Una sconfitta di questa lista sarebbe molto negativa, comportando la dissoluzione della sinistra radicale. Certo sarebbe stato auspicabile che questa lista avesse espresso posizioni meno ambigue su questioni come l’Euro e non si fosse rifugiata nello slogan fumoso dell’Altra Europa, che vuol dire tutto e niente; ma sarà un alleato importante la prossima volta, quando avrà chiarito le sue posizioni. E, dunque, che per ora non le manchi il quoziente. Ci pensino quei malpancisti del Pd che non se la sentono di votare per il M5S: hanno quest’altra occasione di voto per sbarrare la strada a Renzi.(“Perché voto M5S, auguri anche alla Lista Tsipras”, estratti dell’intervento che Aldo Giannuli ha pubblicato sul suo blog il 18 maggio 2014).Attenti agli applausi: quelli che Grillo ha rimediato a Torino, nella straripante piazza Castello. Secondo il blog marxista “Contropiano” è utile prendere nota di cosa enstusiasma i seguaci: dalla battaglia No-Tav all’“euro-nazismo” di Schulz, che dimentica i meriti dell’Urss («Non avesse vinto Stalin, oggi Schulz avrebbe una svastica sulla fronte»). E c’è anche il fantasma buono di Enrico Berlinguer, evocato da Giuseppe Zupo per dire che il Movimento 5 Stelle è «l’unico erede, oggi in Italia, della battaglia berlingueriana per la “questione morale”», cioè istituzioni pulite come argine necessario contro la tentazione della violenza, di fronte alla rabbia per uno Stato dilaniato dalla corruzione di casta. Un’élite così moralmente fragile da farsi “comprare”, a poco prezzo, da chi vuol finire di mangiarsi l’Italia in un sol boccone: votare 5 Stelle, dice un ex esponente di Rifondazione Comunista come il professor Aldo Giannuli, storico e politologo, significa punire la classe politica (Pd, in primis) che ha tradito l’elettorato di sinistra per fare politiche di destra, al servizio esclusivo dei poteri forti.
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Il Guardian: l’euro è fallito, l’Europa lo ammetta o è la fine
Umore nero alla vigilia delle europee: il quantitative easing della Fed ha dato respiro all’Eurozona, i cui debiti però sono superiori alla velocità di crescita. Così l’austerity ha messo in croce l’economia e la Bce non ha fatto nulla per compensare le perdite, sostiene il “Guardian”. «La disoccupazione è alta e gli elettori sono malati di austerità». Secondo il giornale inglese, sarebbe un errore aspettari miracoli dal voto per Strasburgo: «I partiti mainstream con il loro pensiero dominante saranno ancora in carica e la vita andrà avanti come prima». Come risultato, «l’Europa si condannerà a un periodo anche più lungo di stagnazione economica, disoccupazione di massa e austerità», al punto che «fiorirà l’estremismo». Un’alternativa a questo scenario deprimente? «Ammettere che adottare l’euro come un modo per promuovere la causa di un’unione sempre più stretta è stato un errore di proporzioni storiche», scrive Larry Elliot.L’euro, scrive Elliot in un servizio ripreso da “Voci dall’Estero”, potrebbe essere radicalmente riformato secondo le linee proposte da Charles Grant, direttore del “Centre for European Reform”: questo permetterebbe di ristrutturare i debiti sovrani, ridurre velocemente l’austerità e riconvertire l’economia tedesca per renderla meno concentrata sull’export. L’alternativa radicale è invece quella di «rompere il vincolo della moneta unica, restituire il potere alle singole nazioni o gruppi di Stati con economie convergenti, e ricominciare». Questo, secondo il “Guardian”, «non accadrà, almeno non ancora», visto che l’euro è il simbolo dell’eurocrazia a guida tedesca. Secondo l’economista Roger Bootle, «l’euro è stato un disastro economico, imposto all’Europa per ragioni politiche». Anziché unire l’Europa, la sta frantumando in modo pericoloso. Già negli anni ‘90 si sapeva che l’euro «avrebbe potuto rivelarsi una macchina che distrugge il lavoro», dato che tutti quei paesi «non erano pronti per un’unica politica monetaria».Dice Elliot: «Sembrava lampante che, in assenza di mobilità del lavoro e redistribuzioni su larga scala, i paesi, privati del potere di condurre la propria politica monetaria, avrebbero dovuto ricorrere all’austerità se fossero diventati non più competitivi». Tutto questo, ovviamente, è rimasto inascoltato. «Si prevedeva molto fiduciosamente che l’euro avrebbe reso l’Europa più prospera e così facendo avrebbe creato le condizioni per un’unione sempre più stretta. La realtà è stata una crescita lenta, alti tassi di disoccupazione, riforme strutturali pasticciate, deriva e crescente malcontento. I problemi sono sorti non solo nella periferia, ma anche al centro, dove dalla creazione della moneta unica la situazione è decisamente peggiorata». Quel che è successo è che l’euro ha significato «un tasso di interesse unico e un tasso di cambio unico: il tasso di interesse era troppo basso per alcuni paesi come l’Irlanda e la Spagna, che erano in rapida crescita, ed era troppo alto per paesi come la Germania e la Francia, che crescevano meno rapidamente».Prima della creazione dell’euro, i paesi della periferia economica avrebbero lasciato deprezzare le loro monete per restare competitivi rispetto alla Germania. «Per un decennio, i lavoratori tedeschi hanno avuto aumenti salariali al di sotto del livello di inflazione per vendere le loro merci a prezzi bassi nei mercati europei». Un grande successo, ma fino a un certo punto, aggiunge Elliot: «Il surplus commerciale della Germania è aumentato, ma il rovescio della medaglia è che i deficit commerciali in paesi come la Spagna, la Grecia e l’Italia sono peggiorati». Prima della crisi, il sistema reggeva perché la Germania esportava capitali verso i paesi della periferia. Con la crisi, Berlino ha cominciato a raccontare che, se i paesi del Sud Europa erano in difficoltà, era perché avevano “vissuto oltre le proprie possibilità”. «Un po’ eccessivo, dato che la Germania era stata complice nel permettere loro di farlo», pur di vendere il made in Germany.La Merkel ha detto che avrebbe aiutato i paesi in difficoltà, ma solo alle sue condizioni: tutti i partner europei dovrebbero «replicare la Germania, comprimendo la domanda interna e promuovendo le esportazioni». Questo è chiaramente un’impossibilità logica, obietta Elliot, perché il surplus di un paese è il deficit di un altro paese. Così, non potendo più restare competitivi attraverso la svalutazione, gli altri paesi «hanno dovuto farlo tramite l’austerità, tagliando i salari e la spesa pubblica in modo aggressivo». Con una sola eccezione: il mondo finanziario. «Su insistenza della Germania, per le banche non c’è stata nessuna austerità». Conclude Elliot: «I leader europei considerano l’euro “troppo grande per fallire”? Si sbagliano: è già fallito». Semplice: «E’ fallito perché non riesce a dare la prosperità economica promessa e non riesce a portare l’Europa a unirsi politicamente. L’euro è come il gold standard, ma peggio, è per questo che sarebbe un errore di proporzioni storiche ignorare le elezioni di questa settimana. Sappiamo come finisce questo film». L’ultima grande crisi europea – non c’è bisogno di dirlo – portò al potere un certo caporale Hitler.Umore nero alla vigilia delle europee: il quantitative easing della Fed ha dato respiro all’Eurozona, i cui debiti però sono superiori alla velocità di crescita. Così l’austerity ha messo in croce l’economia e la Bce non ha fatto nulla per compensare le perdite, sostiene il “Guardian”. «La disoccupazione è alta e gli elettori sono malati di austerità». Secondo il giornale inglese, sarebbe un errore aspettari miracoli dal voto per Strasburgo: «I partiti mainstream con il loro pensiero dominante saranno ancora in carica e la vita andrà avanti come prima». Come risultato, «l’Europa si condannerà a un periodo anche più lungo di stagnazione economica, disoccupazione di massa e austerità», al punto che «fiorirà l’estremismo». Un’alternativa a questo scenario deprimente? «Ammettere che adottare l’euro come un modo per promuovere la causa di un’unione sempre più stretta è stato un errore di proporzioni storiche», scrive Larry Elliott.
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Il giudice: l’euro condanna a morte l’Italia antifascista
Il trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».Una volta attuate, dichiara Barra Caracciolo ad “Abruzzo Web”, le democrazie costituzionali contemporanee portano a una crescita incrementata programmaticamente da un intervento pubblico «che è, prima di tutto, correttivo dell’assetto di forze che il capitalismo tende a creare». Un assetto «redistributivo verso la parte più debole, e largamente maggioritaria, della comunità sociale». L’effetto di questa correzione statale è che «tutti stanno meglio», perché la priorità indiscutibile è «la soddisfazione dei bisogni collettivi, non certo la stabilità finanziaria intesa come garanzia della intangibilità dei profitti del capitalismo finanziario». La democrazia moderna quindi “aiuta” la maggioranza, non i privilegiati, e questo «non sta bene a chi sta in cima alla piramide», anche perché la crescita del benessere diffuso «comporta una crescita culturale della massa e fa sì che questa abbia maggiore peso politico», contrastando le élite che tendono invece a condizionare i governi dall’alto del loro potere economico. Ed ecco spiegata l’attuale Ue con la sua Eurozona: sbaraccare lo Stato democratico e restituire il potere all’oligarchia, secondo uno schema pre-moderno, neofeudale.Certo, chi è a favore dell’euro spara a zero contro l’Italia, considerata incapace di intercettare al meglio i fondi europei. Errore, interviene il magistrato: i fondi europei sono nel bilancio dell’Ue ma non dell’unione monetaria, «che è stata deliberatamente creata senza un bilancio fiscale federale: i trattati non offrono strumenti compensativi degli squilibri interni all’area euro, e le dimensioni dei cosiddetti fondi Ue sono assolutamente inadeguate al Pil europeo». Ogni altro sistema federale al mondo – Usa, Canada, la stessa Germania – dispone di ben altro budget. Dato il peso economico dell’Europa, secondo l’economista francese Jacques Sapir servirebbe un bilancio federale europeo paragonabile a quello degli Stati Uniti. «Ma di questo bilancio, la Germania dovrebbe sopportare un peso pari a 8-9 punti del proprio prodotto interno lordo: un risultato semplicemente impensabile, e certamente respinto senza equivoci dalla stessa Germania».Dall’Unione Europea (non dall’area euro) si ripete che agli Stati come l’Italia viene semplicemente “restituita”, in parte, una somma che gli Stati hanno già versato. Per effettuare questa contribuzione netta, dati i vincoli di bilancio (drastica limitazione del deficit, fino all’attuale vincolo al pareggio di bilancio), «dobbiamo sostanzialmente rinunciare ai programmi pubblici previsti dalla nostra Costituzione» dice Caracciolo. «L’Unione Europea, in pratica, ne vieta la piena attuazione nei livelli solidaristici da essa previsti, non si scappa. Insomma, diamo dei soldi e ne riceviamo di meno, il meccanismo è questo. Le priorità, poi, vengono pianificate a livello eurocentrico, secondo finalità settoriali, ben diverse da quelle previste dalla nostra Costituzione». Cifre: ogni anno, secondo la Corte dei Conti, sono oltre 6 miliardi in meno che riceviamo rispetto alla nostra contribuzione. Inoltre, per la stabilizzazione della moneta unica – cioè degli squilibri creati dall’euro – solo negli ultimi tre anni abbiamo dovuto pagare, a vario titolo ed emettendo debito pubblico aggiuntivo (che ci viene poi rimproverato come “colpa”, costringendoci a ulteriori dosi di austerità) oltre 53 miliardi, tra cui i 10 miliardi di soccorsi bilaterali concessi a Spagna e Grecia.Ma anche spendendo per sostenere i paesi più deboli, l’Unione Europea non fa la cosa giusta, nel modo giusto: «I fondi accumulati per tenere su i sistemi bancari greci o spagnoli non sono stati usati per incrementare i bilanci di intervento sull’economia reale di quei paesi, ma vengono direttamente dati in pagamento alla Bce», che compra – da Francia e Germania – i titoli di Stato spagnoli e greci Parigi e Berlino avevano acquisito. Oppure, gli “aiuti” vengono immediatamente girati dagli Stati debitori al sistema bancario dei paesi creditori, quello tedesco in primis. In ogni caso, data la sua esiguità, per un vero “salvataggio” non sarebbe sufficiente neppure il fondo del Mes, il meccanismo europeo di stabilità. E così, nel frattempo le tasse aumentano: «Dall’assetto giuridico attuale non possiamo attenderci che una continua progressione della pressione fiscale», dice Barra Caracciolo. Una super-tassazione, «spesso artificiosa e contraria alla Costituzione», realizzata sia attraverso la moltiplicazione del tipo di imposte, sia attraverso «il continuo allargamento normativo delle basi imponibili», che però tendono a contrarsi dato che siamo in recessione.Uno dei drammi italiani è proprio il crollo della domanda interna di consumi, che aggrava il debito perché riduce il gettito fiscale e compromette il futuro: «Se non c’è più domanda interna, non c’è incentivo alcuno a fare nuovi investimenti in Italia. Chi vorrebbe produrre non lo fa perché non ci sono prospettive di vendere il prodotto, e il carico fiscale rende difficile immaginare anche la convenienza dell’esportazione». Per il magistrato, «siamo nel pieno della visione neoclassica dell’economia», quella della destra economica. «Siamo praticamente in stagnazione dal 1992». Già all’epoca del Trattato di Maastricht «era evidente che non si potesse tollerare un vincolo di cambio e di bilancio fiscale del genere e mantenerlo insieme alla crescita». L’euro – moneta rigida e non sovrana – non può che deprimere l’economia, tagliando le gambe all’unico possibile volano risolutivo, l’intervento statale: in una situazione di crisi, senza investimenti pubblici il settore privato crolla.«In un’economia liberista come quella dell’area euro, fondata sulla lotta all’inflazione e sulla limitazione dell’intervento pubblico, si finisce nella trappola della liquidità», spiega Luciano Barra Caracciolo. «Anche se i tassi praticati dalla banca centrale sono vicini allo zero, i soldi rimangono là, fermi. E i risparmi fermi non si trasformano in investimenti». Questo viene regolarmente imputato «alla mancanza di produttività del lavoro, che viene ulteriormente compresso nel salario: ciò che chiamano “riforme strutturali”», dalla riforma Fornero al Jobs Act di Renzi, dopo il pacchetto Treu del primo governo Prodi e poi la legge Biagi. Secondo Giulio Sapelli, siamo sull’orlo di una guerra. In realtà, la competizione tra Stati è già esplosa: avremmo dovuto cooperare, ma è lo stesso Trattato di Maastricht a parlare di “economia sociale di mercato fortemente competitiva”, prefigurando quindi «una competizione tra Stati per la supremazia sul mercato unico».Eccoci qua: «Privi di governo federale e di sovranità monetaria, stretti da vincoli di bilancio che escludono ogni autonoma politica economica e industriale nazionale, gli Stati non hanno più la parte essenziale della sovranità. Ma quella sovranità, sottrattagli ben oltre i limiti previsti dalla Costituzione per consentire di aderire a un’organizzazione internazionale, non è poi esercitata da nessuno, in termini di politiche di interesse generale dei popoli. È come se ci fosse un buco nero in cui la sovranità si disperde». Gli Stati della nuova Europa? «Devono competere tra loro, altre vie non vengono indicate». Secondo Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia, tutto questo non porta sviluppo: si può anche vincere sulle esportazioni, ma nessuno vince se si vuole realizzare questo obbietivo tutti insieme simultaneamente. Risultato: zero crescita comune, proprio grazie alla perduta sovranità “dispersa nel nulla”. L’export in ogni caso non è la soluzione: «Le esportazioni si mandano avanti comprimendo domanda interna e salari: quindi, negli effetti sociali, siamo in guerra», sottolinea Caracciolo. «Chi perde si trova di fronte a perdite epocali e a un impoverimento che diviene irreversibile».Apriamo gli occhi, aggiunge il magistrato: «Non è l’euro ad aver garantito la pace: semmai è uscire dall’euro che porterebbe finalmente a una “pace”, intesa come armonizzazione cooperativa sul piano commerciale e industriale, che oggi non c’è perché è appunto incentivata una guerra commerciale-finanziaria dalla stessa struttura istituzionale della non-politica monetaria accentrata nella Bce». A questa analisi, la propaganda comune – e i mezzi di informazione di massa – replicano nel solito modo, cioè puntando il dito contro i presunti vizi italiani: non abbiamo mai saputo governarci bene, quindi non cresceremmo nemmeno in caso di uscita dall’euro. Il che è falso, puntualizza il giudice: «L’Italia se la cavava benissimo, riuscendo a stare almeno alla pari di Francia e Inghilterra, con una struttura industriale più dinamica». Fino all’irruzione dello Sme, il sistema monetario europeo e quindi il “vincolo esterno” alla spesa pubblica, «la realtà economico-industriale italiana non era affatto quella mostruosità che è stata dipinta ad arte da chi voleva “ridimensionare” l’Italia». Cifre alla mano, Bara Caracciolo smentisce i pro-euro: tra gli anni ‘70 e gli ‘80 l’Italia aveva una bassa spesa pubblica, inferiore di 10 punti alla spesa tedesca.C’era un deficit strutturale, certo, «ma il deficit non è un in sé un elemento negativo per il prodotto interno lordo», visto che corrisponde «all’immissione pubblica di moneta nel sistema», cosa che da noi «ha generato un grande risparmio privato», il primo d’Europa: gli italiani, in altre parole, si sono arricchiti anche grazie all’azione strategica dello Stato, che ha “speso a deficit per i cittadini”, aziende e famiglie, permettendo al sistema-paese di svilupparsi nel modo che abbiamo visto. Il debito pubblico? Altra mistificazione: nel 1981, al momento del divorzio fra Tesoro (Andreatta) e Banca d’Italia (Ciampi), il debito era appena al 58%, sottolinea Barra Caracciolo. Poi è esploso, quando è stato affidato ai titoli di Stato sul mercato finanziario privato, imbrigliando lo Stato prima con lo Sme – tassi di cambio a oscillazione limitata – e infine con l’euro, moneta iper-rigida che ci vincola «a realtà economiche come la Germania, strutturalmente inconciliabili con la nostra». Morale: «Sottraendo deficit e debito dalle mani dello Stato sovrano, si è avuta un’esplosione degli interessi». Non a caso, naturalmente: «Già in quel momento hanno cominciato ad arricchirsi minoranze di privati che sono diventati i sottoscrittori privilegiati di questo debito a interessi superiori al livello dell’inflazione, determinandosi un trasferimento a loro favore dei soldi dei contribuenti».Uno dei refrain del centrosinistra – da Prodi a Renzi – è la necessità di tagliare la spesa pubblica. E’ solo «una scusa», replica Luciano Barra Caracciolo. «In termini assoluti la spesa italiana non è mai stata alta, era sotto controllo: il problema del deficit era in realtà dovuto alla pressione fiscale relativamente bassa rispetto agli altri paesi europei come Francia e Germania», con in più una vasta evasione fiscale. Con Maastricht, si è cercato di “rimediare” aumentando la pressione fiscale su tutte le categorie produttive. Questo, insieme al cambio sfavorevole (l’euro troppo “forte”) e al venir meno del sostegno pubblico (il taglio del deficit) ha provocato «il blocco dello sviluppo industriale», cioè la grande crisi italiana, sottoposta allo choc improvviso della moneta unica, del rigore fiscale e della fine del sostegno pubblico. Il problema dunque non è l’Italia, ma questa Unione Europea. Il famoso malgoverno italiano? «Non era peggiore di altri ordinamenti in competizione, come Francia e Germania», e in ogni caso gli illustri tangentocrati del passato non hanno certo impedito al paese di svilupparsi rapidamente, arricchendo famiglie e aziende. «Capiamoci bene», insietre Caracciolo: «Con le attuali politiche fiscali, e specialmente col pareggio di bilancio, si azzererà il risparmio privato delle famiglie».«È un fatto di contabilità nazionale, non si può non capire un concetto così elementare», continua il magistrato. «Se devo tenere il deficit sotto un certo limite, si deve comprimere la domanda fino a provocare la recessione». Ma attenzione: il deficit non è un problema. Al contrario: «E’ il risparmio del settore privato». Sono soldi che lo Stato spende per cittadini e aziende. Se invece si taglia, e quindi si comprime la domanda interna di beni e servizi, il saldo arriva allo zero. Pareggio di bilancio, appunto. Così, l’onere degli interessi viene trasferito «nelle mani di chi detiene il debito pubblico», cioè «non certo le famiglie, ormai marginalizzate». Peggio ancora: «Col pareggio di bilancio si arriverà addirittura a un risparmio negativo: per fronteggiare la vita e le tasse, i cittadini dovranno vendere i propri beni patrimoniali, intaccando lo stock di risparmio. Questi beni andranno in sovraofferta, e i prezzi caleranno drammaticamente. Guardate i prezzi degli immobili, già in aperta flessione. In vent’anni di Fiscal Compact i valori reali saranno ridotti almeno a un terzo rispetto ai picchi della metà degli anni 2000. Alla fine del processo saremo tutti più poveri».E mentre il Pd continua a chiedere “più Europa”, proponendo il tedesco Martin Schulz alla guida dell’Ue, «si sta deindustrializzando l’Italia: la Germania su tutte vuole controllarla, in quanto sua principale concorrente industriale nell’area euro». Obiettivo: fare del nostro paese «una gigantesca fabbrica-cacciavite, a bassi salari, progressivamente decrescenti». Insiste il giudice: «La Germania non vuole un’Italia viva e vitale, proprio perché è il principale concorrente sul mercato unico. Fingendo di non volerci – come confermano le posizioni di Helmut Kohl durante la trattativa finale per l’introduzione dell’euro – costrinse l’Italia a entrare nella moneta unica, sapendo di poterla neutralizzare definitivamente nella sua competitività grazie al livello di cambio impostoci per sempre». Certo, televisioni e giornali non hanno certo aiutato gli italiani a capire quello che stava accadendo: «Gli editoriali italiani degli ultimi trent’anni sui più importanti quotidiani ci hanno detto enormi bugie, falsificando il senso economico del deficit e della spesa pubblica. Un lavoro ben orchestrato dai padroni finanziari. Colpevolizzando gli italiani e l’Italia spendacciona siamo arrivati alla povertà: dovevamo espiare i peccati e rinunciare a tutti i nostri diritti sociali. In Europa funziona così». Alla Bce è vietato espressamente di sostenere gli Stati e l’occupazione. «Se non cambiamo è la fine: di tutti».I trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».
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Scalfari: Renzi vi ha mentito, ma dovete votare Pd
«Non capisco, ma mi adeguo», avrebbe sentenziato Giorgio Ferrini, nei panni dello stolido militante comunista dell’indimenticato zoo televisivo di Renzo Arbore. Oggi, Eugenio Scalfari offre a Matteo Renzi il più strano degli endorsement: Renzi è praticamente una frana e dice «il contrario della verità», però bisogna votarlo lo stesso. In pratica si tapperà il naso, scrive il fondatore di “Repubblica” a una settimana dal voto europeo, fornendo spiegazioni che lo stesso Ferrini avrebbe probabilmente faticato a decifrare. Niente deve cambiare, dunque, perché lo vuole l’Europa: l’Europa federale, colta e democratica, l’Europa prospera e felice. Su che pianeta vive, attualmente, Eugenio Scalfari? Gli ultimi gossip, risalenti a un anno fa, lo danno per certo ancora a Roma, dove organizzò una cenetta esclusiva – nientemeno che a casa sua – con Giorgio Napolitano, Mario Draghi ed Enrico Letta, allora premier. Ed era lo stesso Scalfari che, nel 1968, rischiò l’arresto per aver rivelato, su “L’Espresso”, il Piano Solo, tentativo di golpe orchestrato dal generale Giovanni De Lorenzo e dalla sua intelligence, il Sifar.«Da molte settimane», scrive Scalfari su “Repubblica” il 18 maggio 2014, «ho criticato il governo Renzi e soprattutto lui medesimo, che accentra nelle sue mani tutto il potere, con una minoranza di sinistra che di fatto si è messa il silenziatore per disturbarlo il meno possibile». Le accuse: «La legge sul lavoro, la rottura con le organizzazioni sindacali, la legge elettorale, la riforma (di fatto l’abolizione) del Senato e la rivalutazione di Berlusconi», che trasforma «un pregiudicato» in un padre della patria. Il giovane Renzi, «lungi dal risolvere uno per ogni mese, a cominciare da subito, i problemi che affliggono il paese da trent’anni», in realtà «non avrebbe potuto fare altro che proseguire il programma già impostato da Monti e poi aggiornato e avviato da Letta», peraltro «già contenuto nella “legge di stabilità” scritta da Letta con la preziosa collaborazione dell’allora ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni e approvata in via definitiva dal Parlamento». In altre parole: il seppellimento definitivo dell’economia italiana, mediante euro-austerity.«In effetti le cose sono andate ed andranno così», aggiunge Scalfari, secondo cui «lo sapevano tutti», compreso Renzi, il quale ora finge di “vendere” agli italiani una magica, impossibile “ripresa”. L’ex sindaco di Firenze? «Ha detto il contrario della verità e il suo partito gli ha creduto. Poi, adesso, la verità è chiara a tutti». Ergo, il 25 maggio è l’occasione giusta per bocciare il bugiardo? Macché. Al contrario: Scalfari si augura che «gli elettori che rappresentano la parte responsabile del paese» votino compatti proprio «per il Pd e quindi per Matteo Renzi», il super-mentitore. Il motivo di questo cortocircuito logico? Il solito, cui si ricorre in questi casi: la Paura del Nemico alle Porte. I barbari euroscettici, Grillo, i no-euro, le forze che non vogliono «veder progredire l’Unione Europea verso uno Stato federale», quello che sognò Altiero Spinelli settant’anni fa, e che fu abortito dalla “democratura” oligarchica di Maastricht, che fa dell’Eurozona di oggi una delle aree meno civili, meno libere e meno democratiche del pianeta. Perché la Germania «allenti le briglie dell’austerity», niente di meglio che un tedesco – Martin Schulz – alla guida della Commissione Europea. Questa l’analisi politica di Eugenio Scalfari, alla vigilia del voto che, per la prima volta, permetterà ai popoli europei – drammaticamente “svegliati” dalla crisi – di ribellarsi a un regime che oggi percepiscono come abusivo, autoritario e sincero quanto Matteo Renzi.«Non capisco, ma mi adeguo», avrebbe sentenziato Giorgio Ferrini, nei panni dello stolido militante comunista dell’indimenticato zoo televisivo di Renzo Arbore. Oggi, Eugenio Scalfari offre a Matteo Renzi il più strano degli endorsement: Renzi è praticamente una frana e dice «il contrario della verità», però bisogna votarlo lo stesso. In pratica si tapperà il naso, scrive il fondatore di “Repubblica” a una settimana dal voto europeo, fornendo spiegazioni che lo stesso Ferrini avrebbe probabilmente faticato a decifrare. Niente deve cambiare, dunque, perché lo vuole l’Europa: l’Europa federale, colta e democratica, l’Europa prospera e felice. Su che pianeta vive, attualmente, Eugenio Scalfari? Gli ultimi gossip, risalenti a un anno fa, lo danno per certo ancora a Roma, dove organizzò una cenetta esclusiva – nientemeno che a casa sua – con Giorgio Napolitano, Mario Draghi ed Enrico Letta, allora premier. Ed era lo stesso Scalfari che, nel 1968, rischiò l’arresto per aver rivelato, su “L’Espresso”, il Piano Solo, tentativo di golpe orchestrato dal generale Giovanni De Lorenzo e dalla sua intelligence, il Sifar.
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La grande paura: se vince Grillo, nuove elezioni a ottobre
C’è chi la chiama la “rivoluzione d’ottobre”: elezioni anticipate, nel caso Grillo alle europee bruciasse Renzi e Berlusconi restasse molto indietro. Ormai sono in tanti a parlarne, persino “Repubblica”: nuove elezioni a ottobre, «se tutto dovesse andare per il verso sbagliato», per il Pd e per Forza Italia. Se ne parla «nel centrosinistra e nel centrodestra, nel governo e nel partito democratico. Certo quel “se” è ancora molto grande. Eppure per molti, nel corso di questa campagna elettorale, sta diventando via via sempre più piccolo». Dopo l’inchiesta Expo, l’arresto di Scajola e il voto su Genovese, anche a Palazzo Chigi «i calcoli sono diventati sempre più serrati». Un boom dei grillini riuscirebbe a rompere l’attuale equilibrio? Dipende dai numeri dell’eventuale exploit dei 5 Stelle e dal loro distacco rispetto a Pd e Fi. «Tra i democratici e forzisti sta avanzando una sorta di “demone”, una paura per certi aspetti incontrollata che i pentastellati si avvicinino a insidiare la soglia di successo del Pd e che il distacco da Berlusconi riduca Forza Italia definitivamente al ruolo di terzo partito».Grillo, che ostenta sicurezza, annuncia che in caso di vittoria chiederebbe subito le dimissioni di Napolitano e nuove elezioni. A sua volta, intervistato da Lucia Annunziata, Caseleggio spiega che – per la prima volta – i 5 Stelle si presenterebbero alle eventuali elezioni anticipate con una squadra di super-specialisti, personaggi di primo piano selezionati dai 130.000 iscritti in base a competenze riconosciute. L’altro giorno, scrive Claudio Tito in un servizio su “Repubblica” ripreso da “Dagospia”, nel Transatlantico di Montecitorio è scattato l’allarme tra deputati di prima nomina e veterani: «Un turbinio di bigliettini passava di mano in mano con i dati degli ultimi sondaggi. E ogni volta tutti sgranavano gli occhi. Scuotevano la testa e se ne andavano. Se quei numeri venissero confermati – è il ragionamento che molti fanno nel governo e nelle istituzioni – il primo effetto sarebbe il disconoscimento da parte del Cavaliere del cosiddetto “patto del Nazareno”», in base al quale Renzi si è accordato con Berlusconi per abolire il Senato e peggiorare ulteriormente il “Porcellum” con una legge elettorale ancora più antidemocratica, l’Italicum, che abbassa la quota per ottenere il maxi-premio di maggioranza e innalza muraglie per sbarrare il passo ai partiti minori.«L’ex premier – scrive Tito – non potrebbe più accettare una legge elettorale che prevede il ballottaggio tra i primi due partiti e quindi la sua ininfluenza. La riforma costituzionale – l’abolizione del Senato – salterebbe un minuto dopo. Senza contare che diventerebbe più complicato cambiare il sistema di voto e il quadro istituzionale senza o addirittura contro il M5S eventualmente irrobustito dalle urne europee». Far saltare le riforme – sia pure le pessime riforme di Renzi – significherebbe «far precipitare il governo nella “palude”: una delle “ragioni sociali” di questo esecutivo verrebbe di fatto meno». Anche secondo l’“Economist”, che segnala la carica del fronte euroscettico e no-euro, «la disillusione degli elettori può provocare una nuova crisi». E in autunno, aggiunge Tito, quando entrerà in gioco la “legge di stabilità”, in base ai programmi «il governo dovrà procedere con un’altra gigantesca opera di “spending review”, circa 19 miliardi». In tanti si domandano: possibile tagliare in modo così pesante la spesa pubblica «senza un mandato elettorale e con le urla dell’opposizione ingigantite dal megafono elettorale del 25 maggio?».Il percorso si prospetta costellato di enormi incognite. La prima riguarda proprio la legge elettorale: «Il rischio del voto a ottobre sarebbe quello di presentarsi agli italiani con il cosiddetto “Consultellum”, un sistema completamente proporzionale corretto solo dalle soglie di sbarramento», cioè il sistema che la Corte Costituzionale – in mancanza di una nuova legge elettorale – dispone di utilizzare, dopo aver bocciato come incostituzionale il “Porcellum”, col quale è stato eletto l’attuale Parlamento. «La possibilità che si riprecipiti nell’ingovernabilità sarebbe assai consistente», scrive “Repubblica”. «Non a caso sia nel Pd, sia in Forza Italia sta rispuntando l’idea di una sorta di “riforma transitoria”: il ritorno al “Mattarellum”», ovvero il sistema maggioritario uninominale varato col referendum Segni negli anni ‘90. La seconda incognita, infine, è quella del Quirinale. «Napolitano ha più volte fatto sapere che non intende sciogliere le Camere senza una nuova legge elettorale. Piuttosto sarebbe pronto a dimettersi». Ma se tutto dovesse precipitare, aggiunge Tito, le sue dimissioni risponderebbero anche ad un’altra esigenza: quella di far eleggere dall’attuale Parlamento il nuovo capo dello Stato. Ipotesi alla quale i grillini ovviamente si opporrebbero strenuamente. Anche per questo sarà determinante il risultato delle urne.C’è chi la chiama la “rivoluzione d’ottobre”: elezioni anticipate, nel caso Grillo alle europee bruciasse Renzi e Berlusconi restasse molto indietro. Ormai sono in tanti a parlarne, persino “Repubblica”: nuove elezioni a ottobre, «se tutto dovesse andare per il verso sbagliato», per il Pd e per Forza Italia. Se ne parla «nel centrosinistra e nel centrodestra, nel governo e nel partito democratico. Certo quel “se” è ancora molto grande. Eppure per molti, nel corso di questa campagna elettorale, sta diventando via via sempre più piccolo». Dopo l’inchiesta Expo, l’arresto di Scajola e il voto su Genovese, anche a Palazzo Chigi «i calcoli sono diventati sempre più serrati». Un boom dei grillini riuscirebbe a rompere l’attuale equilibrio? Dipende dai numeri dell’eventuale exploit dei 5 Stelle e dal loro distacco rispetto a Pd e Fi. «Tra i democratici e forzisti sta avanzando una sorta di “demone”, una paura per certi aspetti incontrollata che i pentastellati si avvicinino a insidiare la soglia di successo del Pd e che il distacco da Berlusconi riduca Forza Italia definitivamente al ruolo di terzo partito».
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Un lavoro dignitoso? Non l’avrai mai più, grazie al Pd
I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.Col decreto Poletti, osserva Alleva in un articolo sul “Manifesto” ripreso da “Micromega”, i contratti a termine diventano “acausali”: possono essere conclusi senza una motivazione specifica. Unico obiettivo: «Tenere il lavoratore sotto il perpetuo ricatto del mancato rinnovo», senza più neppure sperare in una conferma a tempo indeterminato dopo 36 mesi, perché per questo occorrerebbe un ulteriore contratto: perché mai concederlo, visto che sarebbe più conveniente assumere un nuovo precario? Certo, ricorrere al turn-over dei precari non favorisce certo la competitività dell’azienda sul piano della qualità: ma è appunto questa, come denunciano molti osservatori, la tendenza a cui l’impresa italiana si è andata rassegnando. Meglio produzioni di bassa qualità, ovviamente a basso costo, per tentare di competere sul mercato mondiale globalizzato. Problemi che non esisterebbero se invece si puntasse sul mercato interno dei consumi, sulle filiere corte.Alleva si sofferma sull’ipocrisia del Pd, che ha «trangugiato con la massima indifferenza la “acausalità” e fissato, in cambio, un falso obiettivo, onde poter poi vantare falsi successi». Il falso obiettivo: «Ridurre le possibili proroghe di un contratto “acausale” da 8 a 5», il che però «non sposta di un millimetro il problema del potere ricattatorio consegnato al datore». Anche perché, come subito notato dai giuristi, «una cosa è la proroga di un contratto, altra cosa è il suo rinnovo, ossia la stipula di un altro successivo contratto del tutto analogo». In altre parole, «dopo avere prorogato per cinque volte un contratto acausale a termine, niente impedisce di stipulare un altro contratto simile con le sue cinque proroghe, e così via». Eppure, insiste Alleva, «i parlamentari Pd hanno avuto il coraggio di vantare questo inganno, o autoinganno, come un successo politico».Altro fronte di degradazione definitiva del mercato del lavoro, l’argine del “contingentamento” dei precari, in percentuale ai lavoratori a tempo indeterminato: una misura di salvaguardia, introdotta nel 1987. Nella sua versione originaria, prosegue Alleva, lo stesso decreto Poletti prevedeva una percentuale massima del 20% di contratti a termine per azienda, ma ora il limite è stato aggirato. Restava un ultimo punto: l’obbligo di trasformare in lavoratori stabili i dipendenti a termine, una volta superata la soglia del 20%. «Ebbene, anche su questo i parlamentari del Pd sono stati pronti al grosso passo indietro, a genuflettersi ai Poletti, ai Sacconi, agli Ichino ed ad accettare che il testo normativo preveda, invece della trasformazione, una semplice sanzione amministrativa per lo “sforamento”». Per Alleva, è come se si concedesse a chi dà lavoro in nero di non essere più obbligato a mettere in regola il lavoratore. «Si tratta di un assurdo giuridico, oltre che di una vergogna politica, che l’ineffabile capo dei deputati Pd ed ex ministro del lavoro Cesare Damiano ha avuto il coraggio di definire come “differenza minimale” rispetto al testo originario».Conclude Alleva: «Alla prova dei fatti, tra le forze politiche rappresentate in Parlamento solo i deputati di Sel e del “Movimento 5 Stelle” hanno tenuto un comportamento coerente, limpido e di appassionata difesa della dignità dei lavoratori». Ora, dopo lo scontato voto di fiducia «che consentirà di consumare definitivamente questo vero crimine sociale», la parola dovrà passare «a quanti, nei movimenti e nella società civile, hanno davvero a cuore i diritti dei lavoratori, cercando di rivendicarli anche nelle aule di giustizia italiane ed europee». Sempre che parola “giustizia”, naturalmente, ridiventi coniugabile – in un futuro indefinito – con la parola “Europa”, cioè con la tecnocrazia neoliberista del Fiscal Compact del Trattato Transatlantico che mira esattamente a ridurre a zero le protezioni dello Stato verso i lavoratori, con l’unico obiettivo di far aumentare in modo esplosivo i profitti dei vertici industriali e finanziari, a scapito di lavoratori trasformati in schiavi sottopagati e precari. Operazione a cui, in questi anni – a tappe forzate (trattati europei) – proprio il centrosinistra ha dato un contributo determinante. Buon ultimo Matteo Renzi: sta servendo ai poteri forti, su un piatto d’argento, le atroci “riforme strutturali” invocate da Mario Monti e Elsa Fornero.I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.
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Renzi piace ai mercati? Ovvio: sta per svendere l’Italia
Improvvisamente sembra tutto chiaro. E’ più che un sospetto, e la mente corre al passato: i grandi gestori internazionali non hanno mai dimenticato, con riconoscenza, Romano Prodi, il leader della sinistra moderata che permise lo smantellamento dell’Iri e portò a buon fine le ambitissime privatizzazioni. «Si sa, in Italia certe cose può farle solo la sinistra». Privatizzazioni, ricorda Marcello Foa, che però «si risolsero in un eccellente affare per chi compra e in una fregatura per chi vende o nella sostituzione di monopoli pubblici con monopoli privati». Cose che capitano, ma fanno riflettere. E sorgere qualche dubbio: «Renzi è di sinistra, come Prodi. Come lui è graditissimo a Wall Street, ai grandi fondi come Blackrock, nella City. Ed è più deciso di Enrico Letta che a sua volta godeva di buone credenziali in quegli ambienti ma era troppo lento e prudente: nessuno, nel momento del bisogno, lo ha difeso. Vuoi vedere che la vera missione del mirabolante Matteo Renzi è quella di portare a termine le privatizzazioni, ovvero di svendere quel che resta di buono in Italia?».L’allarme, per Foa, è scattato poco dopo la nomina di Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Fonte dell’avvertimento, un amico che lavora nella finanza: «E’ già la terza volta che una grande banca d’affari parla bene della Borsa di Milano e invita a investire nei titoli italiani. Stesso approccio, stesse argomentazioni: non so cosa stia succedendo». Foa controlla sui grandi giornali e sui principali siti web, ma non trova nulla, a parte qualche trafiletto sul “Sole 24 Ore”. «Poi, tra fine marzo e i primi di aprile, l’informazione riservata a pochi privilegiati del mondo bancario, diventa pubblica». I quotidiani iniziano a battere sullo stesso tasto. Inizia “Repubblica” il 26 marzo, con Federico Fubini che avverte: «I fondi pronti a comprare, ma è una fiducia a tempo: riformare spesa e burocrazia». E spiega: «Erano anni che l’Italia non raccoglieva un interesse simile sui mercati».Così, si scopre che pochi giorni prima si è svolto un summit alla Royal Bank of Scotland, nel cuore della City di Londra, tra investitori di primissimo piano: qualcosa come 300 fondi finanziari, che – in aggregato – rappresentano «istituzioni che controllano ogni giorno molte migliaia di miliardi di dollari sui mercati globali». Tra questi, colossi americani come Blackrock, Fidelity, Blackstone, hedge fund di punta come quello di George Soros o Glg, fondi pensione, banche, più l’antica aristrocrazia europea del risparmio gestito con Schroders. «Il 70% degli investitori raccolti ha sì detto che nei prossimi tre mesi “comprerà attivi italiani”». A ruota, il “Corriere della Sera” titola in prima pagina: “Capitali esteri a caccia d’Italia”. Fabrizio Massaro spiega che fondi Usa, arabi e cinesi puntano su Borsa e made in Italy. Nel mirino banche, industria manifatturiera, moda e turismo. E ancora: «Così Goldman Sachs vende il nuovo corso politico. Garzarelli, capoeconomista del colosso Usa: prezzi bassi e nuova stabilità. Rispetto alla Spagna avete fondamentali più solidi. Renzi? Per i mercati è un leader fuori dagli schemi». Anche il “Sole 24 Ore” abbandona il riserbo e titola: “Piazza affari fa il pieno di capitali esteri”.Nell’ultimo mese il tono non è cambiato, aggiunge Foa nel suo blog sul “Giornale”. «La grande finanza internazionale continua a credere all’Italia. E si scoprono altri dettagli interessanti». Ad esempio, che Matteo Renzi ha incontrato il Ceo di Blackrock, Larry Fink, il più grande fondo di investimento al mondo: «Un colosso da 4.300 miliardi di dollari che, se fosse uno Stato, sarebbe la quarta potenza al mondo dopo Usa, Cina e Giappone». Evento salutato da tutti. «Commenti positivi», informa “Radiocor”, mentre la “Repubblica” si entusiasma: «Il più grande fondo del mondo da Renzi, Blackrock crede nella ripresa italiana». Pian piano, continua Foa, il puzzle si compone. «In Italia, lo sappiamo benissimo, la situazione non è certo migliorata rispetto a qualche mese fa. Anzi, a giudicare dai disastrosi dati sulla disoccupazione e dalle cifre record del debito pubblico è persino peggiorata». Ma quei “mercati” – gli stessi che nel 2011 avevano gettato discredito sull’Italia usando arbitrariamente lo strumento dello spread, nonostante il nostro paese fosse uscito meglio di altri dalla crisi dei subprime – ora ignorano le cattive notizie. «L’Italia è diventata, brava, buona, promettente. Da premiare con la “fiducia”».«Non sono un economista – premette Foa – ma ho seguito da vicino tante crisi finanziarie: e questa, proprio, non me la bevo». Infatti, ad attrarre l’interesse dei grandi fondi, delle banche d’affari e delle multinazionali «non sono solo i valori relativamente bassi (ma neanche troppo) di Piazza Affari, c’è dell’altro». E questo “altro” sembra «strettamente connesso all’inaspettata e rapidissima ascesa a Palazzo Chigi di Matteo Renzi». Forse, una chiave la fornisce il “Corriere della Sera”, nell’articolo di Massaro sulla “caccia ai capitali esteri”. «L’acquisto di azioni a Piazza Affari – scrive – potrebbe essere solo un assaggio in vista di quella che si annuncia come la più grande operazione di privatizzazione degli ultimi anni». Parola del neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, super-falco neoliberista proveniente dall’Ocse e dalla casta tecnocratica al servizio dell’élite mondiale. E’ proprio Padoan, a Cernobbio, a svelare le carte: avanti tutta con le privatizzazioni, quelle che piacciono tanto ai “mercati”, così pieni di “fiducia” per l’Italia di Renzi.«L’attenzione del mercato è crescente e va sfruttata nel migliore dei modi», dichiara Padoan al “Corriere”. L’obiettivo della nuova ondata di privatizzazioni che si profila? E’ duplice: «Accrescere l’efficienza delle imprese privatizzate e ovviamente ridurre in modo consistente il debito pubblico». Il primo banco di prova potrebbero essere le Poste: «È stato avviato il processo di privatizzazione, è una sfida importante per il paese e verrà sottoposta al vaglio del mercato». Gran parte della fortuna politica del governo, scrive il “Corriere”, si gioca sul successo delle vendite di Stato: l’incasso per il Tesoro potrebbe arrivare a oltre 15 miliardi da Poste (il cui 40% da solo vale 4-5 miliardi), Fincantieri, Enac, Cdp Reti, Sace, Grandi Stazioni, St Microelectronics. «Per i fondi si tratta di comprare a prezzi favorevoli, per le banche d’affari di guadagnare sugli incarichi di vendita». Tutto questo, grazie a Matteo il rottamatore, il nuovo eroe dei “mercati” ammazza-paesi.Improvvisamente sembra tutto chiaro. E’ più che un sospetto, e la mente corre al passato: i grandi gestori internazionali non hanno mai dimenticato, con riconoscenza, Romano Prodi, il leader della sinistra moderata che permise lo smantellamento dell’Iri e portò a buon fine le ambitissime privatizzazioni. «Si sa, in Italia certe cose può farle solo la sinistra». Privatizzazioni, ricorda Marcello Foa, che però «si risolsero in un eccellente affare per chi compra e in una fregatura per chi vende o nella sostituzione di monopoli pubblici con monopoli privati». Cose che capitano, ma fanno riflettere. E sorgere qualche dubbio: «Renzi è di sinistra, come Prodi. Come lui è graditissimo a Wall Street, ai grandi fondi come Blackrock, nella City. Ed è più deciso di Enrico Letta che a sua volta godeva di buone credenziali in quegli ambienti ma era troppo lento e prudente: nessuno, nel momento del bisogno, lo ha difeso. Vuoi vedere che la vera missione del mirabolante Matteo Renzi è quella di portare a termine le privatizzazioni, ovvero di svendere quel che resta di buono in Italia?».
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Brancaccio: il Jobs Act è peggio della riforma Fornero
Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. Il provvedimento del governo Renzi è il sequel di un film già mandato in onda tante volte. Non intravedo svolte di politica economica. La sinistra del Pd è riuscita ad apportare alcuni miglioramenti al testo. Nonostante queste modifiche, però, il segno complessivo del Jobs Act non cambia: assisteremo a una ulteriore precarizzazione dei contratti di lavoro. Ci sono novità peggiorative anche rispetto alla riforma Fornero, come l’eliminazione della causale sui contratti a tempo determinato, la possibilità di prorogare questi contratti e l’annacquamento dell’obbligo di stabilizzazione degli apprendisti. Il ministro Padoan sostiene che questi provvedimenti faranno aumentare l’occupazione? Padoan è tra coloro che hanno insistito a lungo con la fantasiosa dottrina della “austerità espansiva”, quella secondo cui l’austerity avrebbe dovuto risanare i bilanci, ripristinare la fiducia dei mercati e rilanciare la crescita e l’occupazione.In realtà l’austerity ha depresso l’economia e non ha risanato i conti. Su indicazione della Bce e della Commissione, allora, il ministro oggi propone una nuova ricetta: la ulteriore flessibilità dei contratti di lavoro aiuterà a creare nuovi posti di lavoro e a ridurre la disoccupazione. Ma le evidenze empiriche ci fanno ritenere che si sbaglino di nuovo. In una rassegna pubblicata qualche anno fa, gli economisti Tito Boeri e Jan van Ours hanno rilevato che su 13 studi empirici esaminati ben nove di essi davano risultati indeterminati e tre di essi indicavano che una maggiore precarietà dei contratti può addirittura determinare più disoccupazione. Alla luce di queste evidenze persino Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, è arrivato a riconoscere che non vi è una precisa correlazione tra le due variabili. Una spiegazione sta nel fatto che i contratti precari da un lato possono indurre le imprese a creare posti di lavoro in una fase di espansione economica, ma dall’altro consentono alle aziende di distruggere facilmente quegli stessi posti di lavoro nelle fasi di crisi.Alla fine, tra creazione e distruzione dei posti di lavoro l’effetto complessivo risulta essere nullo, con buona pace di Padoan e di Draghi. Il M5S si è scagliato contro il Jobs Act parlando di “ritorno alla schiavitù”. Credo vi sia un’espressione più adatta al nostro tempo: intensificazione dello sfruttamento capitalistico del lavoro. E’ un fenomeno che si è verificato in misura particolarmente accentuata negli ultimi vent’anni, durante i quali abbiamo assistito a uno smantellamento progressivo del diritto del lavoro. Il fenomeno si è verificato il larga parte dei paesi industrializzati, anche se in Italia vantiamo un record: dal 1998 l’indice generale di protezione dei lavoratori calcolato dall’Ocse è crollato più che in ogni altro paese europeo. I primissimi provvedimenti risalgono persino a Ciampi. E’ vero tuttavia che il pacchetto Treu determinò una caduta molto accentuata dell’indice di protezione dei lavoratori, alla quale seguì un calo ulteriore con la legge Biagi del governo Berlusconi.Il Jobs Act di Renzi non è altro che il sequel del medesimo film, che i governi che si sono succeduti in questi anni hanno quasi ininterrottamente mandato in onda. Con risultati irrilevanti sul terreno dell’occupazione. Del resto, la creazione di lavoro dipende soprattutto da altri fattori, tra cui l’orientamento espansivo o restrittivo elle politiche economiche. Renzi ha scelto di porsi in sostanziale continuità con le politiche di austerity che fino ad oggi sono state adottate in Europa. Proprio per questo, tuttavia, rischia di non raggiungere gli obiettivi di contenimento del deficit che si è dato. Nel 2014 la crescita del Pil potrebbe rivelarsi inferiore al già risicato 0,8% annunciato dal governo. La conseguenza è che il rapporto tra deficit e Pil potrebbe rivelarsi maggiore del previsto. Sarebbe l’ennesima smentita per la dottrina della “austerità espansiva”.Renzi rivendica gli 80 euro al mese per i dipendenti che ne guadagnano meno di 25.000 lordi? Prima di definirla una mossa “di sinistra” vorrei capire più in dettaglio dove nei prossimi anni la spending review andrà a tagliare. Se ad esempio colpisse i servizi pubblici, i lavoratori subordinati potrebbero trarre più svantaggi che benefici. Riguardo agli effetti sulla crescita, vorrei ricordare che in Italia negli ultimi 5 anni abbiamo perso un milione di posti di lavoro e abbiamo registrato un incremento del 90% delle insolvenze delle imprese. Sono perdite colossali, di proporzioni storiche, che dovremmo affrontare con una concezione completamente nuova della politica economica pubblica. Chi pensa che invertiremo la rotta con 80 euro in più al mese in busta paga non sa quel che dice.(Emiliano Brancaccio, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Jobs Act? Peggio della riforma Fornero”, pubblicata da “Micromega” il 23 aprile 2014).Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. Il provvedimento del governo Renzi è il sequel di un film già mandato in onda tante volte. Non intravedo svolte di politica economica. La sinistra del Pd è riuscita ad apportare alcuni miglioramenti al testo. Nonostante queste modifiche, però, il segno complessivo del Jobs Act non cambia: assisteremo a una ulteriore precarizzazione dei contratti di lavoro. Ci sono novità peggiorative anche rispetto alla riforma Fornero, come l’eliminazione della causale sui contratti a tempo determinato, la possibilità di prorogare questi contratti e l’annacquamento dell’obbligo di stabilizzazione degli apprendisti. Il ministro Padoan sostiene che questi provvedimenti faranno aumentare l’occupazione? Padoan è tra coloro che hanno insistito a lungo con la fantasiosa dottrina della “austerità espansiva”, quella secondo cui l’austerity avrebbe dovuto risanare i bilanci, ripristinare la fiducia dei mercati e rilanciare la crescita e l’occupazione.
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Dopo il voto, Renzi taglierà 250.000 stipendi pubblici
Sei un dipendente pubblico e stai per votare Renzi, che ti ha promesso quegli 80 euro? Fa’ pure, ma sappi che – superato lo scoglio delle europee – il governo taglierebbe qualcosa come 200.000 posti di lavoro nel pubblico impiego, se non 250.000. Tanti i dipendenti a rischio, secondo voci riservate colte da Eugenio Orso tra i “dissidenti” del Pd («non rivelo la fonte, non posso, ma tutto questo rende l’idea del piano contro l’Italia, per eseguire il quale si è scelto proprio il Pd»). A Renzi è stato dunque “ordinato” di tagliare centinaia di migliaia di posti nel pubblico impiego? Sì, «con buona pace degli 85.000 pensionamenti anticipati 2014 e dei pre-pensionamenti annunciati a suo tempo dal ministro Marianna Madia». Inoltre, l’espulsione dei “vecchi” dal pubblico impiego «non libererà posti di lavoro in egual misura per i giovani disoccupati». E se ancora non bastasse, «ci sia avvierà a un blocco praticamente perpetuo delle retribuzioni nel pubblico impiego». Domanda: «Se i dipendenti pubblici sapessero tutto questo, voterebbero alle europee per il Pd e per le veline-capolista di Renzi?».Secondo Orso, autore di un post su “Pauperclass” ripreso da “Come Don Chisciotte”, nel programma del governo c’è un colossale taglio orizzontale del pubblico impiego, complice anche la risalita dello spread, che riprenderebbe – a comando – dopo le elezioni, giusto per premere sull’esecutivo. In cabina di regia, i soliti poteri forti euro-atlantici che utilizzano la tecnocrazia di Bruxelles (fino ai suoi esecutori locali, in Italia il Pd) per piegare gli Stati alla legge del profitto dell’élite. Il giovane Renzi? «E’ solo l’ultima espressione mediatico-propagandistica del Pd», dice Orso, che dichiara di aver raccolto informazioni riservate che «provengono “ventre della balena”, o meglio di quella disgustosa balenottera chiamata Pd: nonostante la sostanziale compattezza del partito euroservo, neoliberale e americanista, è evidente che non tutto può filar liscio», e che quindi a volte «si producono le “fughe di notizie”».Nessuna illusione, però: «Non c’è alcun dubbio che il Pd operi costantemente, sotto vari mascheramenti di corrente e sotto vari nomi (renziani, bersaniani, lettiani, cuperliani, civatiani), contro il popolo e il paese». Quindi, la legislatura “deve” restare in piedi fino a scadenza naturale, cioè fino al 2018, «per consentire di “fare le riforme”», ovvero «avviare e applicare fino alle estreme conseguenze l’arcinoto Fiscal Compact (per noi, legge del 24 dicembre 2012, n. 243), il Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità, a tutto favore delle banche dei paesi europei più forti) e il cosiddetto Erp (European Redemption Fund, sulle garanzie per le “eccedenze del debito pubblico”) che è minacciosamente in arrivo». La verità, aggiunge Orso, è che i vari D’Alema, Bindi, Finocchiaro e poi Bersani, Fassino e Veltroni «non sono mai stati “rottamati”, non sono scomparsi, ma sono sempre presenti, sia pur in posizione defilata: sono loro, di nascosto, di comune accordo, talora fingendo aperta ostilità nei confronti del sindaco di Firenze, che hanno deciso di lasciare che il “ciclone Renzi” si sfogasse».E Napolitano, in apparenza perplesso su Renzi? Fa parte del piano, anche lui: «Sapeva del gioco fin dall’inizio, un po’ ha resistito, ma poi improvvisamente ha “mollato” Letta», il premier pallido, fedele esecutore dei diktat della Troika nonché esponente del Gruppo Bilderberg. Ma attenzione: «Letta è stato esautorato non tanto dall’esuberante ciarlatano di Firenze, che ha eseguito la sentenza davanti ai media, ma dal suo stesso partito, i cui “dinosauri” restano prudentemente nell’ombra», magari fingendo che ci sia un po’ di maretta nel partito. Lo fanno «unicamente per catturare e trattenere il consenso di coloro che, altrimenti, gli volterebbero la schiena disgustati», il che vale per Civati, Fassina e «tutti i finti oppositori di Renzi». La nomenklatura del Pd sa perfettamente che «tutto è rimandato a dopo le europee: una piccola sosta, nella strage sociale, può essere accettata dal padrone o addirittura da lui consigliata». Non a caso, lo spread è in discesa “politicamente”, «in attesa di ripartire dopo il 25 di maggio, se non si rispetteranno i parametri e i trattati europei». Tutto già deciso? Sì, con un’unica variabile: il voto. Il Pd deve “tenere”, a tutti i costi, evitando una débacle elettorale, per restare in sella e completare il piano di devastazione neoliberista e neo-feudale dell’Italia.Sei un dipendente pubblico e stai per votare Renzi, che ti ha promesso quegli 80 euro? Fa’ pure, ma sappi che – superato lo scoglio delle europee – il governo taglierebbe qualcosa come 200.000 posti di lavoro nel pubblico impiego, se non 250.000. Tanti i dipendenti a rischio, secondo voci riservate colte da Eugenio Orso tra i “dissidenti” del Pd («non rivelo la fonte, non posso, ma tutto questo rende l’idea del piano contro l’Italia, per eseguire il quale si è scelto proprio il Pd»). A Renzi è stato dunque “ordinato” di tagliare centinaia di migliaia di posti nel pubblico impiego? Sì, «con buona pace degli 85.000 pensionamenti anticipati 2014 e dei pre-pensionamenti annunciati a suo tempo dal ministro Marianna Madia». Inoltre, l’espulsione dei “vecchi” dal pubblico impiego «non libererà posti di lavoro in egual misura per i giovani disoccupati». E se ancora non bastasse, «ci sia avvierà a un blocco praticamente perpetuo delle retribuzioni nel pubblico impiego». Domanda: «Se i dipendenti pubblici sapessero tutto questo, voterebbero alle europee per il Pd e per le veline-capolista di Renzi?».
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Odifreddi: è stata questa sinistra a tradire i lavoratori
Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.Naturalmente, questa concezione antiumanistica del lavoro ha radici lontane, anche nel passato prossimo. Risale da un lato alle controrivoluzioni liberiste di Reagan e della Thatcher, e dall’altro ai tradimenti delle sinistre di Blair e di Craxi. Ma oggi è stata portata a compimento, nel nostro paese, da un’insolita coalizione, che ha visto unite la destra intransigente di Berlusconi e Monti, con la sinistra inesistente di Napolitano e Renzi. Un presidente della Repubblica che ha da sempre lavorato, all’interno del Partito Comunista, come cavallo di Troia del capitale e del mercato, ha guidato dall’alto del Quirinale l’opera di smantellamento dei diritti dei lavoratori. Quando Berlusconi non ha più potuto agire in prima persona in questo compito, Napolitano gli si è sostituito imponendo governi al limite della costituzionalità e della democrazia, da Monti a Renzi.E oggi i giovani parvenu della politica, forti soltanto della debolezza del paese e privi di qualunque mandato elettorale, stanno completando l’opera di picconamento dei loro predecessori. Il programma è soltanto “far presto”, cambiare tutto prima che l’elettorato possa esprimersi, magari scegliendo partiti e candidati che possano contrastare i voleri e le pretese della santissima Trinità costituita appunto dall’Europa, i mercati e le banche. Con un autoritarismo mascherato da efficientismo, il governo Renzi fa il possibile per varare, il più presto possibile, riforme raffazzonate e unilaterali, con un metodo da repubblica delle Banane: “Ci confrontiamo per qualche giorno, ma poi decidiamo noi”. Per questo il primo maggio ormai non è più una festa, ma un giorno di lutto. Forse è ormai troppo tardi, ma le prossime elezioni europee sono l’ultima spiaggia: se non serviranno a rimandare a casa i traditori dei lavoratori che siedono in Quirinale e a palazzo Chigi, sarà un lutto che durerà a lungo, segnato dalle lacrime richieste dai nemici e imposte dai sedicenti amici.(Piergiorgio Odifreddi, “Un Primo Maggio di lutto”, da “Repubblica” del 1° maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.
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Viale: sondaggi bugiardi, Tsipras smentirà il regime
«Il baratro in cui è precipitato il giornalismo italiano si vede dal fatto che molti non riescono nemmeno a capire che si possa volere un’ Europa diversa da quella che c’è», ovvero «quella di Renzi come lo era di Letta, di Monti e anche di Berlusconi e Tremonti quando erano al governo». Guido Viale denuncia la congiura del silenzio sulla lista Tsipras, nel coro assordante dei media che seguono il premier come un oracolo. «Da qualche mese, al seguito della cavalcata sul nulla di Matteo Renzi», lo spazio che gli riservano giornali e televisioni «è totalitario, come documenta l’Osservatorio sulle Tv di Pavia». E il servilismo degli adulatori è dilagante: «Papa Francesco copia “lo stile di Renzi”, ci ha informato un notiziario». Osserva Viale: «Non c’è più un regime fascista a imporre questo allineamento, sono piuttosto questi allineamenti a creare le solide premesse di un “moderno” autoritarismo, auspicato dall’alta finanza», quella che – Jp Morgan in testa – si scaglia contro la nostra Costituzione, che “ostacola” il loro business.Autoritarismo: quello delle “riforme” costituzionali ed elettorali di Renzi, «tese a cancellare con premio e soglie di sbarramento ogni possibilità di controbilanciare i poteri dei partiti». Nel mirino anche i Comuni, cioè poteri locali ancora relativamente controllati dai cittadini, ai quali erogano i servizi pubblici fondamentali. «Renzi, come Letta, Monti e Berlusconi, vuole costringerli ad alienarli: come aveva fatto Mussolini sostituendo ai Consigli comunali i suoi prefetti», scrive Viale sull’ “Huffington Post”. I media, naturalmente, si regolano di conseguenza. La campagna elettorale per le europee? Interamente confinata nel confronto Renzi-Grillo, «tutto incentrato sulle diverse forme di “carisma” che i due leader esibiscono». Silenzio di tomba sull’unica novità politica nelle urne, la lista “L’altra Europa con Tsipras”. Dai media, ostracismo bulgaro: hanno «ingigantito le difficoltà incontrate nel corso della sua formazione, per poi calare una cortina di silenzio totale sulla sua esistenza». Non una parola sulla visita di Tsipras a Palermo, con teatro pieno e «mille persone rimaste fuori ad ascoltare». E non una riga sulle 220.000 firme di presentazione, «risultato su cui molti media avevano scommesso che non sarebbe mai stato raggiunto».Eppure, aggiunge Viale, non è mancato agli stessi giornali e telegiornali lo spazio per occuparsi del congresso del “nuovo” partito comunista fondato da Rizzo, in realtà «il quattordicesimo», della presentazione della lista elettorale “Stamina” e della riammissione dei Verdi alla competizione elettorale. «Il tutto viene completato con la presentazione di sondaggi che danno la lista per morta: sono i tre divulgati dalle televisioni di regime, mentre tutti gli altri sondaggi la danno due o tre punti al di sopra della soglia di sbarramento, ma non vengono resi noti». Aggiunge Viale: «Io, che ho lavorato anche in una società di sondaggi, so bene come si fa ad orientarli (e anche a falsificarli) e quanto contribuiscano a “orientare” e a manipolare la realtà». Così, poco per volta, «impercettibilmente si scivola verso un nuovo regime», confortato regolarmente da cerimonieri come Eugenio Scalfari, autore di una «omelia settimanale», la domenica, su “Repubblica”.Gli 80 euro in busta paga? Una bufala senza copertura, riconosce Scalfari, inventata solo per vincere le europee. Ma c’è da augurarsi che l’imbroglio funzioni, aggiunge il fondatore di “Repubblica”, perché così il governo si rafforzerà, recupererà anche in Europa il prestigio perduto e la crescita potrà ripartire. «Il che – dice Viale – mostra in che conto Scalfari tenga “questa Europa”», cioè «quella a cui stiamo sacrificando le ormai molte “generazioni perdute” del nostro e di altri paesi, l’esistenza, la salute, la vecchiaia e la vita stessa di un numero crescente di cittadini, di lavoratori e di imprenditori, e l’intero tessuto produttivo del nostro e paese». Soprattutto, l’accondiscendenza conformista di Scalfari «mostra dove porta questa teoria, o visione, o percezione, sempre più diffusa dai media e tra la gente, del governo Renzi come “ultima spiaggia”. Così, quando si sarà compiuto il disastro economico, sociale e istituzionale a cui ci sta trascinando quella sua cavalcata fatta di vuote promesse, di trucchi contabili e di nessuna capacità di progettare un vero cambiamento di rotta per l’Italia e per l’Europa, non si potrà più tornare indietro». La miglior risposta, si augiura Viale, sarebbe il rovesciamento dei pronostici di regime: proprio a partire dal voto europeo.«Il baratro in cui è precipitato il giornalismo italiano si vede dal fatto che molti non riescono nemmeno a capire che si possa volere un’ Europa diversa da quella che c’è», ovvero «quella di Renzi come lo era di Letta, di Monti e anche di Berlusconi e Tremonti quando erano al governo». Guido Viale denuncia la congiura del silenzio sulla lista Tsipras, nel coro assordante dei media che seguono il premier come un oracolo. «Da qualche mese, al seguito della cavalcata sul nulla di Matteo Renzi», lo spazio che gli riservano giornali e televisioni «è totalitario, come documenta l’Osservatorio sulle Tv di Pavia». E il servilismo degli adulatori è dilagante: «Papa Francesco copia “lo stile di Renzi”, ci ha informato un notiziario». Osserva Viale: «Non c’è più un regime fascista a imporre questo allineamento, sono piuttosto questi allineamenti a creare le solide premesse di un “moderno” autoritarismo, auspicato dall’alta finanza», quella che – Jp Morgan in testa – si scaglia contro la nostra Costituzione, che “ostacola” il loro business.