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Eroina, soldi e “terre rare”: perché restiamo in Afghanistan
Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.I caduti afghani sono combattenti (oltre 100.000, un terzo governativi e due terzi talebani) e civili (35.000, in aumento negli ultimi anni). E sono stime ufficiali dell’Onu, che trascurano le tante vittime civili non riportate. Senza considerare i civili afghani morti a causa dell’emergenza umanitaria provocata dal conflitto: sono 360.000, secondo i ricercatori americani della Brown University. Chi sostiene la necessità di portare avanti questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni internazionali e Ong, non certo alla Nato), l’Afghanistan – aggiunge Piovesana – ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite).Politicamente, il regime integralista islamico afghano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra della minoranza tagika) «è tra i più inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma». Per non parlare del problema del narcotraffico: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale è fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale è il crescente numero di afghani che cercano rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli afghani sono i più numerosi dopo i siriani, precisa “Micromega”. E anche dal punto di vista militare i risultati sono deludenti. Dopo 16 anni di guerra, i Talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà del paese. «Una situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al fronte, e la Nato a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di bisogno».Il fronte occidentale è sotto il comando italiano: per fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati (un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello Usa: alpini della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le offensive dei soldati afghani. Gli esperti militari dubitano del successo di questa strategia, riferisce Piovesana: perché mai poche migliaia di soldati che combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150.000 soldati occidentali armati fino ai denti? «Secondo esperti e diplomatici, l’unica via d’uscita è il dialogo con i Talebani e la loro inclusione in un governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe Usa e Nato e la riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e cooperazione». Piovesana ricorda che i Talebani, fortemente sostenuti dalla maggioranza Pashtun degli afghani, non rappresentano una minaccia per l’Occidente: la loro agenda è infatti la liberazione del suolo nazionale, non la jihad internazionale.Per questo i Talebani combattono i jihadisti stranieri dell’Isis-Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai organizzato attentati in Occidente, «né hanno avuto alcun ruolo negli attacchi dell’11 Settembre, che avevano apertamente condannato». L’alternativa all’accordo? Non esiste. O meglio, sarebbe «il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per formazioni terroristiche transnazionali come Isis-Khorasan». Secondo Piovesana si tratta di una prospettiva «pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico», dal momento che «uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse». Russia, Cina, Iran e Pakistan sarebbero infatti desiderose di estendere la loro influenza strategica per «stroncare il narcotraffico afghano che le colpisce» e, non ultimo, «mettere le mani sulle ricchezze minerarie afghane (in particolare le “terre rare” indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i mille e i tremila miliardi di dollari».Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.
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Cangiani: odiano la democrazia, e la chiamano socialismo
Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».Solo in seguito, continua Cangiani nell’anticipazione del suo saggio, pubblicata su “Sbilanciamoci”, si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico”, denunciato dallo scrittore spagnolo Ignacio Ramonet nel 1995, aveva tolto l’ossigeno vitale all’interesse pubblico, alle nostre comunità nazionali. La finanza, privata e pubblica («dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà») ha continuato a «provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria». Anziché un metodo efficiente di finanziamento delle imprese, Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali, fino a denunciare il dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Caffè «sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito». Le rendite – che a suo parere, ricalcando Keynes, sono la prova di una «inefficienza sociale» – gli appaiono connaturate con «la struttura oligopolistica del sistema creditizio-finanziario».Spiega Cangiani: «I paesi periferici non petroliferi, indotti a indebitarsi rovinosamente, hanno subito una crisi senza precedenti, come effetto delle misure di “aggiustamento strutturale” imposte dal Fmi negli anni Ottanta e, in generale, di un’economia “usuraia”». La stessa politica, cioè «la cosiddetta austerità e le cosiddette riforme strutturali», è continuata negli anni Novanta, con gli stessi disastrosi risultati. Intanto gli Usa, con il presidente Clinton, continuavano a indicare la stessa rotta, «riducendo la spesa per il welfare e portando a termine la deregolamentazione delle attività finanziarie». Il piano per salvare il Messico dal fallimento alla fine del 1994, ricorda Cangiani, fu elaborato da Fmi e Usa «per proteggere gli investitori stranieri, in maggioranza nordamericani, ma comportò la limitazione della sovranità del Messico, con il controllo del suo bilancio e un’ipoteca sull’esportazione del suo petrolio». I paesi del Sudest asiatico e la Corea furono colpiti dalla crisi finanziaria del 1997 e dalla conseguente recessione, mentre la pressione del debito estero (insieme con la decisione di stabilire un cambio alla pari tra peso e dollaro) portarono alla rovina l’economia dell’Argentina, «predisponendo la svalutazione e il saccheggio delle sue risorse, in particolare delle attività possedute dallo Stato».Il debito e il cambio alla pari fra le rispettive monete, aggiunge Cangiani, erano stati fattori decisivi nel processo di riunificazione del 1990 delle due Germanie – ovvero di annessione dell’una da parte dell’altra – e per la ex Ddr ebbero conseguenze simili a quelle subite in seguito dall’Argentina. «Questi precedenti avrebbero dovuto suscitare almeno qualche dubbio sul progetto di unificazione europea e in particolare sulla moneta unica», osserva Cangiani. In un articolo del 1985, Federico Caffè aveva indicato alcuni punti critici, fondamentali e sottovalutati. A suo avviso, l’integrazione europea avrebbe dovuto adottare «idonee e coordinate misure di politica economica» contro la disoccupazione e la disuguaglianza. La futura Ue avrebbe dovuto controllare la domanda globale e amministrare l’offerta complessiva, disciplinare i prezzi e i consumi energetici. Inoltre, aggiungeva Caffè, se ogni paese aderente alla zona di libero scambio potesse decidere la propria tariffa nei confronti di paesi terzi, sarebbe più facile limitare il dominio di uno degli Stati membri sugli altri. Il problema, diceva, è se si realizzerà «un’intesa tra uguali o un rapporto tra potenze egemoni e potenze soggette». Ora, rileva Cangiani, «sappiamo che anche l’unione monetaria, con le norme che la regolano, ha contribuito al prevalere della seconda fra queste due ipotesi».Caffè denunciava la tendenza verso un’Europa «strumentalizzata in funzione di remora all’introduzione di riforme essenziali alle strutture differenziali dei paesi membri», contraria al permanere di «settori pubblici dell’economia», soggetta al modello neoliberista e incapace di assumere «un atteggiamento coerente rispetto alle società multinazionali», le quali, anzi, contano di rafforzare il proprio potere monopolistico, anche rispetto ai governi. La tendenza dalla quale Caffè metteva in guardia è divenuta più forte e incontrastata, scrive Cangiani. La sinergia tra le imposizioni Ue e la trasformazione neoliberista si è fatta profonda ed efficace, e la moneta è stata resa autonoma dallo Stato. Ecco «una conferma delle antiche radici dell’odierno neoliberismo», commentava Caffè, segnalando l’impronta “ottocentesca” del pensiero economico neo-feudale dell’ultraliberista austriaco Friedrich Von Hayek. Un analista come Claus Thomasberger oggi dimostra che la situazione attuale corrisponde a quella disegnata dal reazionario Hayek nel 1937, «che prevedeva un’unione monetaria e dunque una moneta immune da interferenze dei governi nazionali». Secondo quel progetto, ricorda Cangiani, «i governi avrebbero dovuto ridurre drasticamente gl’interventi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente naturale, le politiche sociali, le barriere doganali, i controlli sui movimenti dei capitali e sui prezzi».Il libero mercato e la concorrenza fra paesi sarebbero stati sia l’effetto sia la causa di tale riduzione. Per Hajek, infatti, le istituzioni democratiche devono avere semplicemente la funzione di mettere in pratica i principi liberisti, e l’Unione Europea quella di impedire l’interferenza dei singoli Stati nell’attività economica. Le idee di Hayek e quelle dell’inglese Lionel Robbins hanno avuto infine successo. L’ideologia liberista si spiega con il vincolo del profitto, «caratteristica essenziale dell’organizzazione della società moderna e fattore che determina la sua dinamica», e la sua persistenza secolare deriva da «fattori storici, quali le difficoltà periodiche dell’accumulazione capitalistica, le diverse forme da essa assunte e i rapporti di forza tra le classi sociali». Inoltre, continua Cangiani, il neoliberismo rappresenta «un successo paradossale», perché predica «l’autoregolazione di un mercato che si suppone concorrenziale, e una più ampia e robusta libertà degli individui», i quali invece «restano esclusi, anzi rovesciati nel contrario».Ne è uno specchio l’Ue, dove è stata imposta la libera circolazione di merci, attività finanziarie e movimenti dei capitali, mentre «le politiche dei singoli Stati rimangono non solo frammentate, ma concorrenziali riguardo al livello dei salari, alle norme sul lavoro, all’occupazione, all’imposizione fiscale, alle strategie industriali e alla spesa sociale». Anzi: «Si consente che singoli paesi pratichino il dumping fiscale, normativo e salariale per attirare capitali e addirittura fungano da “paradisi fiscali”». Capita che persino la stesura di rapporti sui “beni comuni” sia affidata a grandi società private, «per la buona ragione che se ne intendono, essendo stakeholders – cioè interessate al business». In Europa oggi «viene raccomandata la privatizzazione delle aziende statali, attuata con zelo in Italia specialmente negli anni Novanta, e tuttora in corso». La privatizzazione investe anche attività vitali: acqua e altri beni comuni, le “public utilities”, la formazione, la sanità e l’assistenza sociale. Si tagliano le pensioni, crescono tasse e imposte mentre cala la loro progressività rispetto ai redditi delle famiglie. «Il principio dell’universalismo riguardo a servizi come la sanità e l’istruzione, che ovviamente presuppone la loro gestione pubblica, è stato messo in questione».E i numeri parlano da soli: nel 2014, la spesa sanitaria (pubblica) è stata, in Francia, equivalente a 4.950 dollari pro capite, mentre negli Usa (sanità privatizzata) si è speso il doppio, 9.403 dollari. «La spesa totale corrisponde rispettivamente all’11,5% e al 17,1% del Pil dei due paesi», annota Cangiani. «La quota della spesa governativa sul totale è del 78,2% in Francia e del 48,3% negli Stati Uniti. La speranza di vita alla nascita risulta di 82,4 anni in Francia e di 79,3 negli Usa», secondo dati Oms aggiornati al 2016. «Dunque, negli Usa, rispetto alla Francia, profitti e rendite di privati che operano a vario titolo nel settore sanitario assorbono una quota molto maggiore del Pil, mentre l’assistenza sanitaria non è migliore nel suo complesso e, soprattutto, esiste una grande disuguaglianza fra i cittadini ben assicurati e i circa 80 milioni di persone non assicurate o sotto-assicurate. I tre anni di speranza di vita in meno rispetto alla Francia gravano soprattutto su queste ultime, e per loro devono essere ovviamente più di tre».Quanto alla disoccupazione, che è «un problema sistemico» che riguarda «almeno 30 milioni di persone nell’Ue», tende a venir affrontata con politiche di “attivazione” e di “workfare” rivolte ai singoli individui, in concorrenza l’uno con l’altro, osserva Cangiani. «La contrattazione collettiva va scomparendo. La “flessibilizzazione” del mercato del lavoro – che vuol dire precarietà, paghe più basse, dequalificazione, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori – viene presentata, contro ogni evidenza empirica, come la soluzione per aumentare gli occupati e uscire dalla crisi». Tutto ciò, aggiunge l’analista, corrisponde al credo neoliberale, «cioè, di fatto, alla convenienza del potere economico e soprattutto delle grandi istituzioni finanziarie in cui esso tende a concentrarsi». L’esito è sotto i nostri occhi: tendenza depressiva e aumento delle disuguaglianze, smantellamento delle riforme sociali conquistate dai lavoratori e crescita della struttura gerarchica sia del mercato sia fra gli Stati membri dell’Unione. «Le politiche neoliberali finiscono per erodere i diritti di cittadinanza, non solo quelli economici e sociali, ma anche quelli politici e civili: e con i diritti, la libertà degli individui».La sovranità popolare attraverso il Parlamento, conquistata dalle rivoluzioni borghesi, «viene seriamente compromessa, sia dai governi “tecnici” e di “grande coalizione” sia dalle burocrazie nazionali e internazionali, che rispondono ai grandi interessi economici e finanziari piuttosto che agli elettori, denuncia Cangiani. «Il Fiscal Compact concordato il 30 gennaio 2012, e in particolare l’inserimento nella Costituzione dell’obbligo del bilancio in pareggio, riducono la sovranità popolare, oltre allo spazio di manovra della politica economica, che i paesi esterni all’area dell’euro mantengono». Di fatto, questa dinamica (spacciata per tecnico-ecomomica) è invece squisitamente ideologica, politica, egemonica: di fronte alla crisi iniziata negli anni Settanta, «il neoliberismo è stato il modo in cui la classe dominante ha cercato una soluzione corrispondente ai propri interessi», scrive Cangiani. «Ha riconquistato tutto il potere, a scapito della democrazia», e poi «ha risolto, per un’élite ristretta, le difficoltà dovute alla sovra-accumulazione, le quali, però, tendono di per sé a ripresentarsi, e ad aggravarsi a causa delle politiche adottate». La nuova economia imposta all’Occidente, specie in Europa, «si basa sulla svalutazione della forza lavoro e l’intensificazione del suo sfruttamento, e su costi sociali crescenti a carico dell’ambiente naturale e umano».A questo si aggiunge la ricerca di nuovi campi d’investimento: accanto a quelli storicamente sottratti alla gestione pubblica ci sono «l’immane sviluppo dell’attività finanziaria e l’accaparramento di territori e di risorse naturali». Investimenti di questo tipo consentono a una frazione del capitale di mantenere un livello soddisfacente di accumulazione, ma contrastano la sovra-accumulazione solo in parte o provvisoriamente, «dato che producono piuttosto rendita che profitto, nella misura in cui occupano posizioni di monopolio o si limitano a prendere possesso di risorse esistenti o, come la speculazione finanziaria, si appropriano di valore che è prodotto da altre attività». Come scrive David Harvey, il principale risultato del neoliberismo è stato di «trasferire, più che creare reddito e ricchezza». In altre parole, è stata «un’accumulazione mediante espropriazione». Rimedi? L’indebitamento (pubblico e privato) serve a sostenere la domanda e un certo livello di attività, «ma questa soluzione si rivela vana o almeno provvisoria», secondo Cangiani, visto che genera «rendita finanziaria ed esigenza di “austerità”, origine a loro volta di sovrabbondanza di capitale».Nel 2015, un economista come Wolfram Elsner ha dimostrato che, inserendo nel computo il “capitale fittizio” – cioè il capitale monetario, spesso creato dal credito, in cerca di interessi e guadagni speculativi piuttosto che di impieghi produttivi – il saggio di profitto resta basso, almeno cinque volte inferiore a quel 20-25% che pretenderebbero le grandi società finanziarie. «Queste ultime, comunque, incamerano la maggior parte dell’aumento della massa del profitto ottenuto con le politiche neoliberali (privatizzazioni delle attività pubbliche e del welfare, saccheggio di risorse, crescente disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza)». Anche per questo, secondo Cangiani, sono politiche «controproducenti rispetto al problema della sovraccumulazione, per risolvere il quale erano state predisposte». Per Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, la crescita patologica dell’attività finanziaria e dell’indebitamento pubblico e privato sono sintomi di una crisi sistemica, che rivela l’obsolescenza del capitalismo. «Quando l’investimento finanziario, cioè il fare denaro direttamente dal denaro, diviene dominante rispetto all’investimento per produrre ricchezza reale, si rivela il rovesciamento paradossale del rapporto tra fini e mezzi», dal momento che, con il capitalismo, le “attività pecuniarie” divengono il “fattore di controllo” del sistema economico.Inoltre, osservano Lohoff e Trenkle, la posta necessaria per sostenere una simile scommessa sul futuro dev’essere sempre aumentata, ma non può esserlo all’infinito: prima o poi «deve avvenire una gigantesca svalutazione del capitale fittizio». James O’Connor ritiene che la crescita del sistema economico venga sostenuta a spese del suo ambiente, nella misura in cui quest’ultimo è sfruttato in modo eccessivo e guastato senza rimedio. «Questo modo di procedere porta all’aumento dei costi per l’attività economica stessa e quindi al tentativo di trasferirli in misura crescente nell’ambiente. Si ha dunque un processo cumulativo, di cui si rischia di perdere il controllo». In effetti, continua Cangiani, questa tendenza a spese dell’ambiente si è rafforzata dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello sviluppo e della diffusione dell’attività industriale. «La questione delle risorse naturali e dei “limiti dello sviluppo” si presenta, in generale, come fattore della crisi strutturale dell’accumulazione». Esiste una via d’uscita? Nel 2013, Colin Crouch ha immaginato una possibile socialdemocrazia, vista come «la forma più alta del liberalismo», mediante la quale il capitalismo verrebbe reso «adatto alla società». Ma c’è un problema politico, che si chiama élite: «La minoranza che trae vantaggio dalla situazione attuale ha il potere di indirizzare il cambiamento economico e politico nel verso opposto a quello auspicato da Crouch».Il sociologo Luciano Gallino la chiamava “lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, e finora è risultata vincente. Per Elsner, lo smantellamento progressivo della democrazia è “necessario”, nell’ambito delle politiche neoliberiste, ai fini dell’aumento del profitto. Il capitalismo ha bisogno di nuove strutture regolative, ha spiegato nel 2014 Wolfgang Streek: bloccando e invertendo la tendenza all’assoluta mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, le nuove strutture di controllo consentirebbero di combattere i «cinque disordini sistemici dell’attuale capitalismo avanzato», e cioè «la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio dei beni e delle attività pubbliche, la corruzione e l’anarchia globale». E se la domanda iniziale di Streek è se il capitalismo sia giunto alla fine dei suoi giorni, la sua conclusione è che, comunque, si prospetta «un lungo e doloroso periodo di degrado cumulativo». Il problema, riassume Cangiani, è che riforme tipicamente keynesiane – il finanziamento in deficit di investimenti pubblici e l’aumento della domanda mediante redistribuzione del reddito – sono, attualmente, «non semplicemente invise all’ideologia dominante, ma praticamente irrealizzabili».O meglio, riforme classicamente keynesiane, sociali e proggresiste non sono realizzabili «nel quadro di un capitalismo che riesce a sopravvivere solo aumentando lo sfruttamento del lavoro, risucchiando i risparmi delle classi medie, contenendo al massimo la regolazione pubblica e il welfare state, favorendo i grandi evasori ed elusori fiscali e condannando interi paesi al fallimento». Sono ormai cadute le passate illusioni di un’economia “mista” o di una “terza via”, a metà strada tra capitalismo e socialismo, conclude Cangiani: «Le istituzioni politiche sono occupate dal potere economico, che non solo le indirizza, ma le deforma». E in più, «mancano forze politiche capaci di imporre, oltre che di concepire, riforme incisive». Che direbbe oggi del sistema finanziario il professor Federico Caffè? Di fronte a una situazione «incomparabilmente meno ingombrante, complessa, problematica e fraudolenta», Caffè osservava che «l’ingegnosità giuridica non è ancora riuscita a imbrigliare la complessità destabilizzante delle strutture finanziarie del capitalismo maturo», strutture «spesso favorite in ossequio alla salvaguardia dei diritti proprietari di tipo paleocapitalistico».Paleocapitalismo da età della pietra: neoliberismo. Nelle osservazioni di Caffè traspariva già «l’immagine di una classe dominante che oscilla tra egoismo e panico», con «paesi dominanti che tendono alla prepotenza», in mezzo a «una politica segnata da servilismo e inefficienza». E dagli economisti «una ricerca teorica conformista, orgogliosa della sua pochezza». Secondo Cangiani, servirebbe il coraggio di una ricerca indipendente, insieme a «un titanico lavoro di organizzazione politica», per capire cosa potrebbe «salvare il capitalismo da se stesso e l’umanità da una deriva entropica». Ma poi – era il cruccio di Caffè – il riformista autentico viene lasciato in solitudine, per quanto le sue proposte possano essere fattibili e convenienti anche per migliorare e allungare la vita del capitalismo. Benché sia chiaro che ci troviamo «a un punto di svolta globale», come scrivono John Bellamy Foster e Fred Magdoff, riforme efficaci risultano, almeno in pratica, inagibili. La dura realtà è che «un’organizzazione sociale più razionale» implicherebbe «una vera democrazia politica ed economica: ciò che gli attuali padroni del mondo chiamano “socialismo” e massimamente temono e denigrano».(Il libro: Michele Cangiani, “Stato sociale, politica economica e democrazia. Riflessioni sullo spazio e il ruolo dell’intervento pubblico oggi”, Asterios editore, 288 pagine, 29 euro).Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».
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Carte false: così nascosero la storia della Papessa Giovanna
«E’ per evitare equivoci sul sesso del Papa che fu introdotta la sedia “gestatoria”, la speciale poltrona per la cerimonia di incoronazione del nuovo pontefice, con un foro nel sedile attraverso cui uno o due diaconi, con le mani, dovevano verificare la presenza degli attributi maschili», ricorda l’agenzia di stampa “Adn Kronos”. La formula di annuncio, in latino: “Habet duo testiculos et bene pendentes”. Questa curiosa consuetudine «fu introdotta nel medioevo, quando la Chiesa decise di porre fine alle dicerie sulla Papessa Giovanna, una giovane donna originaria di Magonza, salita al soglio di Pietro dopo aver ingannato la corte papale sul suo reale stato anagrafico». Ma è veramente esistita, la Papessa femmina? Non per Wikipedia, che propende ancora per la “leggenda”: «La Papessa Giovanna sarebbe stata l’unica figura di Papa donna, che avrebbe regnato sulla Chiesa con il nome di Giovanni VIII dall’853 all’855. È considerata dagli storici alla stregua di un mito o di una leggenda medievale». Poi, nel 2011, lo storico Pietro Ratto scova un volume avventurosamente custodito, che svela che la cronologia vaticana ha “taroccato” due secoli interi, proprio per cancellare – a posteriori – la storia imbarazzante della Papessa, fattasi passare per Papa. Ratto scrive la sua scoperta in un saggio, “Le pagine strappate”, lo invia a grandi editori e si sente rispondere così: «Ma lei non tiene alla sua famiglia?».Il libro è uscito, ma è stato accolto dal silenzio più assoluto. «Ho capito che avevo toccato un potere davvero forte, oltre ogni immaginazione», afferma Ratto in un’intervista. Nel sito “In-Contro Storia” premette: «La storia che i professori insegnano a scuola è quella che a loro volta hanno imparato». Tutto scorre senza intoppi e senza dubbi: «In pochi si chiedono se ciò che viene raccontato sia effettivamente accaduto, e le perplessità che eventualmente insorgono vengono presto soffocate». Chi davvero cerca la verità la può trovare, aggiunge Ratto, «ma solo a patto di stravolgere le proprie conoscenze, mantenendosi aperto a sempre nuove prove, a sempre nuovi elementi di studio». Il suo libro, “Le pagine strappate”, descrive passo dopo passo «l’affascinante analisi di un testo del Quattrocento sfuggito alla censura del Concilio di Trento». Un’analisi che Ratto definisce «onesta, appassionante e appassionata, che incredibilmente svela i trucchi della Chiesa per rimuovere la vicenda storica della Papessa Giovanna, restituendoci uno scorcio di realtà da tempo rimossa».Per il blog storico “Sguardo sul Medioevo”, il saggio di Ratto è «altamente convincente», dal momento che l’autore «riesce quantomeno a dimostrare che la censura selvaggia della Chiesa abbia davvero nascosto una presunta Papessa». L’originalità de “Le pagine strappate”, rileva “SoloLibri.net”, «sta proprio nel modo di in cui l’autore ha scelto di esporre i risultati di una ricerca storica – basata su dati verificati, su notti insonni, su confronti, calcoli, date, fonti antiche – rendendola accessibile ed invitante, senza banalizzarla ma accrescendone invece il fascino, anche per chi non mastica storia quotidianamente». Wikipedia, che non è aggiornata sul libro di Ratto e quindi alla storia della Papessa non crede, ricorda però che la vicenda «ottenne in Occidente un qualche grado di plausibilità a causa di elementi intriganti contenuti nella storia». Il primo a raccontare questa storia per iscritto, nel 1240, fu il cronista domenicano Giovanni di Metz, ripreso pochi anni dopo dal confratello Martino Polono. Chi era, Giovanna? Secondo la narrazione, scrive Wikipedia, si trattava di una donna inglese, educata a Magonza: «Per mezzo dei suoi convincenti e ingannevoli travestimenti in abiti maschili, riuscì a farsi monaco con il nome di Johannes Anglicus per poi salire al soglio pontificio, alla morte di Papa Leone IV (17 luglio 855), con il nome di Giovanni VIII».Sembra che la Papessa non praticasse l’astinenza sessuale, aggiunge Wikipedia. Così, Giovanna rimase incinta «di uno dei suoi tanti amanti». Durante la solenne processione di Pasqua, nella quale il Papa tornava al Laterano dopo aver celebrato messa in San Pietro, mentre il corteo papale era nei pressi della basilica di San Clemente, la folla entusiasta si strinse attorno al cavallo che portava il Pontefice. «Il cavallo del Papa, impaurito, reagì violentemente, provocando a “Papa Giovanni” un travaglio prematuro». Scopertone il segreto, la Papessa Giovanna «fu fatta trascinare per i piedi da un cavallo, attraverso le strade di Roma, e lapidata a morte dalla folla inferocita nei pressi di Ripa Grande». Fu poi sepolta «nella strada dove la sua vera identità era stata svelata, tra San Giovanni in Laterano e San Pietro in Vaticano». In altre versioni, Giovanna sarebbe morta subito, al momento del parto; oppure, una volta scoperta, rinchiusa in un convento. Pietro Ratto, però, racconta un’altra storia. Che comincia, per lui, nel novembre del 2011. Via web ha appena conosciuto un personaggio misterioso, protetto dall’anonimato, che l’autore chima “l’Erudito”. Vive in una baita in montagna, isolata, immersa nella natura. Un giacimento di archivi preziosi: incunaboli, pergamene, manoscritti antichissimi. Anche un originale del Decamerone di Boccaccio. E poi Machiavelli, Mazzarino e Guicciardini, tutti «in preziosissime, inestimabili edizioni originali», per non parlare delle pergamene del Trecento, dei documenti longobardi.«Tra le tante meraviglie – racconta Ratto – l’Erudito collezionista mi spalanca davanti agli occhi, sornione, un testo del Quattrocento. Un’opera di un illustre storico della Chiesa, in un’edizione miracolosamente sfuggita all’inesorabile censura del Concilio di Trento, che strategicamente l’anziano collezionista apre sul tavolo in un punto preciso, proprio là dove un anonimo segnalibro si nascondeva da chissà quanti anni. Gli domanda: «La conosce la storia della Papessa Giovanna?». Ma certo, la famosa favola. Al che, “l’Erudito” storce il naso: «Non gli piace ch’io liquidi frettolosamente come leggenda quello che considera un evento storico a tutti gli effetti». L’anziano bibliofilo non aggiunge nient’altro, «ma il suo sguardo beffardo è un invito alla lettura, allo studio, una volta tornato a casa». Giorni e notti di lavoro febbrile, in cui Ratto passa dallo scetticismo all’euforia. «Gli occhi bruciano, a suon di leggere e rileggere», contando «giorni, mesi, anni, tra l’855 ed il 1100». “L’Erudito” gli procura alcune edizioni successive dell’opera, quelle opportunamente rivedute e corrette dagli inquisitori, quelle che gli storici conoscono a menadito. «E man mano che procedo, man mano che conto, mi accorgo del trucco», scrive Ratto.«La Papessa, evidentemente, è esistita davvero, dato che la Chiesa è ricorsa ad un complesso processo di falsificazione di date e nomi di Pontefici relativi ai duecento anni successivi per occultare e rimuovere dalla storia un periodo esattamente corrispondente al lasso di tempo in cui, secondo gli storici medievali, si sarebbe verificato il suo pontificato», afferma lo studioso. «Le pagine che mi trovo di fronte e radiografo per settimane ne sono la prova». Da qui nasce il libro, “Le pagine strappate”, che «narra di questa mia entusiasmante ricerca, le cui tappe vengono raccontate come in un romanzo ma meticolosamente spiegate e dimostrate, come in un saggio storico». E’ un libro che parla di un altro libro, “Delle vite dei Pontefici”, scritto dal celebre storico rinascimentale Bartolomeo Sacchi, detto il Platina. Attenzione: l’edizione che Ratto si ritrova tra le mani è quella originale del 1552, tradotta in volgare e sfuggita ai censori. E’ ben diversa, dunque, da quella “ripulita” che poi è giunta agli storici. Così, la ricerca dello studioso «si trasforma in un autentico scoop, per quanto la scabrosità della scoperta abbia indotto gli “studiosi” e la stampa più o meno specializzata a non divulgarla».«Comincia così la mia analisi comparata nei confronti di questa antica copia, confrontata con l’edizione in latino del 1562 e con quella in volgare del 1650, colpite invece da una progressiva censura ecclesiastica», spiega Ratto. «Tutte e tre le copie sono, naturalmente, presenti nella collezione dell’anziano collezionista. Dal confronto delle tre edizioni risalgo pian piano alle ragionevoli prove dell’esistenza della Papessa ed agli evidentissimi trucchi con cui i suoi due anni di pontificato potrebbero essere stati cancellati dalla Storia, ricorrendo a complesse correzioni di date e nomi di pontefici relativi ai due secoli successivi». Tanto per cominciare, il Platina era il direttore della Biblioteca Vaticana. Un illustre umanista, che ha dedicato la sua storia dei Papi a Sisto IV, pontefice da cui è molto apprezzato e che gli ha conferito quell’importante ruolo. Nonostante ciò, il Platina riporta la vicenda della Papessa, citando il cronista medievale Martino Polono, «senza smentirla o liquidarla come pura leggenda e senza venir attaccato dalla Chiesa».Secondo l’edizione del 1552, al momento della sua elezione la Papessa (di cui si raccontano particolari della vita fino al suo parto avvenuto in strada durante una processione), assume il nome di Giovanni VIII. Così, la numerazione dei Papi omonimi continua poi per tutta la serie fino all’ultimo, il predecessore di Martino V, che viene chiamato Giovanni XXIV. Nelle altre due edizioni analizzate, che tendono a considerare la Papessa una “fabula”, Giovanni VIII è colui che nell’edizione del 1552 è Giovanni IX, e il diretto predecessore di Martino V compare come Giovanni XXIII, antipapa. «Questa circostanza è importante: come avrebbe potuto uno storico famoso come il Platina, infatti, sbagliare il numerale di un Papa regnante sessant’anni prima, senza venir pubblicamente smentito e deriso? Sarebbe un po’ come se uno studioso attuale chiamasse Montini “Paolo VII”». Aggiunge Ratto: dall’analisi delle correzioni apportate nelle edizioni del 1562, e soprattutto del 1650, si rafforza l’ipotesi che le complesse motivazioni normalmente addotte per giustificare la celebre “Questio Paparum Joannum”, il rebus che ha assillato gli storici (nel conteggio di tutti i Papi Giovanni, infatti, mancherebbero due pontefici) non avrebbero in realtà nessun fondamento, «a parte l’esigenza di occultare il pontificato della Papessa».Autore dell’occultamento: il revisore Onofrio Panvinio, «vero e proprio braccio armato della censura ecclesiastica». Un potente burocrate vaticano, «in grado di risistemare il conteggio dei Giovanni con autentici “giochi di prestigio”». Come quando, nell’edizione del 1650, Panvinio «sostiene improvvisamente di essere in possesso di non meglio precisate “brevi apostoliche”, in virtù delle quali “i Giovanni che noi chiamiamo 21, 22 e 23 si dovrebbero chiamare 20, 21 e 22”. Per Ratto sono «trucchetti, questi, smascherabili proprio grazie al confronto con l’edizione incensurata». Infine, tramite un complesso conteggio condotto in parallelo sulle copie del 1552 e del 1650, relativo a tutti i pontificati a partire da quello del successore di Leone IV – che per la prima edizione è (la Papessa) Giovanni VIII mentre nella seconda è Benedetto III – Piero Ratto rileva «un evidente processo di correzione di centinaia di date di elezione o di morte di pontefici, nonché di nomi e di numerali». Una manipolazione bella e buona, per «assottigliare progressivamente la differenza tra la versione del Platina e quella della Chiesa ufficiale, fino al definitivo riallineamento delle due cronologie, raggiunto con la consacrazione di Benedetto IX, verificatasi nel dicembre 1032».Wikipedia riconosce che in molti hanno accostato la carta della Papessa, uno degli “arcani maggiori” dei tarocchi, alla figura della Papessa Giovanna. E cita un romanzo sulla vicenda, “La Papessa Giovanna” del greco Emmanouil Roidis, uscito nel 1865, poi tradotto nel 1954 dall’inglese Lawrence Durrell, col titolo “The Curious History of Pope Joan”. Più recente il romanzo dell’autrice statunitense Donna Woolfolk “Cross Pope Joan” (1996), da cui è stato tratto nel 2009 il film “La papessa”. Ma Wikipedia non cita il saggio di Ratto neppure nella (vasta) bibliografia sulla controversa vicenda. «Ciò che davvero potrebbe aver spinto la Chiesa del Cinquecento a cancellare la vicenda di Giovanna – osserva Ratto – sarebbe stato unicamente l’insopportabile scandalo di una “foemina” sul soglio di Pietro». Da notare, infine, «l’importante e inconfutabile prova» che il saggio fornisce relativamente alla presenza del busto di Giovanna tra quelli degli altri pontefici, «ben visibile nel duomo di Siena ancora alla fine del XVI secolo». In un’opera del 1595, scritta proprio per smentire la “favola” di Giovanna, un giurista cattolico rinascimentale si lamentò a gran voce della presenza di quel busto a Siena e ne richiese l’immediata rimozione. «Un elemento molto importante, questo, dato che fino ad oggi anche questa particolare circostanza è sempre stata liquidata come l’ennesima falsità collegata alla “fabula” e messa in circolazione dai soliti “eretici” protestanti».(Il libro: Pietro Ratto, “Le pagine strappate”, Elmi’s World, 112 pagine, 12 euro).«E’ per evitare equivoci sul sesso del Papa che fu introdotta la sedia “gestatoria”, la speciale poltrona per la cerimonia di incoronazione del nuovo pontefice, con un foro nel sedile attraverso cui uno o due diaconi, con le mani, dovevano verificare la presenza degli attributi maschili», ricorda l’agenzia di stampa “Adn Kronos”. La formula di annuncio, in latino: “Habet duo testiculos et bene pendentes”. Questa curiosa consuetudine «fu introdotta nel medioevo, quando la Chiesa decise di porre fine alle dicerie sulla Papessa Giovanna, una giovane donna originaria di Magonza, salita al soglio di Pietro dopo aver ingannato la corte papale sul suo reale stato anagrafico». Ma è veramente esistita, la Papessa femmina? Non per Wikipedia, che propende ancora per la “leggenda”: «La Papessa Giovanna sarebbe stata l’unica figura di Papa donna, che avrebbe regnato sulla Chiesa con il nome di Giovanni VIII dall’853 all’855. È considerata dagli storici alla stregua di un mito o di una leggenda medievale». Poi, nel 2011, lo storico Pietro Ratto scova un volume avventurosamente custodito, che svela che la cronologia vaticana ha “taroccato” due secoli interi, proprio per cancellare – a posteriori – la storia imbarazzante della Papessa, fattasi passare per Papa. Ratto scrive la sua scoperta in un saggio, “Le pagine strappate”, lo invia a grandi editori e si sente rispondere così: «Ma lei non tiene alla sua famiglia?».
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Scienza express: tutto pubblicabile, su riviste a pagamento
Quanto è semplice pubblicare un articolo su una rivista poco prestigiosa? È semplicissimo, purché venga corrisposta la giusta cifra. La rincorsa alle pubblicazioni da parte dei giovani ricercatori ha favorito lo sviluppo di riviste piratesche disposte a tutto pur di essere pagate, tanto da illudere i vari autori di aver superato controlli rigidissimi e di poter aver accesso a un palcoscenico luminoso all’interno del mondo delle pubblicazioni scientifiche. Un medico statunitense ha voluto saggiare la serietà di una di queste riviste e ha escogitato un’esilarante presa in giro, andata a buon fine. I fan più sfegatati della vecchia sitcom “Seinfeld” saranno sorpresi nel ricevere la notizia che la sindrome da “avvelenamento da uromisite”, tradotto dall’originale “uromycitisis poisoning”, è diventata una malattia “ufficiale” tanto da meritare una pubblicazione su una rivista “scientifica” dedicata all’urologia. La storia della pubblicazione dell’articolo “Uromycitisis Poisoning Results in Lower Urinary Tract Infection and Acute Renal Failure: Case Report” è esilarante e come molti episodi delle sitcom americane racchiude un messaggio finale. La storia inizia con una mail ricevuta dal dottor John H. McCool, inviatagli da un nuovo giornale: “Urology and Nephrology Open Access Journal”.La mail invitava il medico a inviare un articolo per contribuire alla pubblicazione di un nuovo numero. McCool, il quale ha fondato un sito dedicato a coloro che desiderano ricevere un aiuto per la costruzione di un articolo scientifico da pubblicare in inglese, ha da subito sentito puzza di imbroglio, l’invito gli è sembrato inopportuno non essendo un esperto di urologia o nefrologia, e ha deciso di verificare la qualità del giornale provando a proporre un articolo totalmente inventato. Essendo un grande fan della serie “Seinfeld”, l’autore ha preso spunto da un vecchio episodio della serie per inventarsi il caso di studio: durante una puntata il protagonista si trova costretto da varie disavventure a dover urinare all’interno di un parcheggio pubblico; sorpreso dalla guardia si inventa una malattia rarissima che lo costringe a dover urinare forzatamente ogniqualvolta ne abbia necessità, pena un possibile avvelenamento da “uromisite” e una morte atroce. L’articolo contenente la descrizione di questo caso a dir poco peculiare è stato condito con varie citazioni inventate e da una serie di nomi sempre ripresi dalla medesima sitcom.L’articolo è stato dunque inviato alla rivista affinché potesse essere sottoposto al processo di peer-review: il processo di revisione del contenuto dell’articolo da parte di esperti del settore. Si tratta di una pratica fondamentale all’interno della comunità scientifica, perché questo passaggio dovrebbe essere il momento del controllo imparziale della plausibilità, della ripetibilità e dell’utilità conoscitiva dello studio. Per essere pubblicato l’articolo deve essere accettato dalla totalità o dalla maggior parte dei revisori. In questo caso, con non troppa sorpresa dell’autore, l’articolo è stato accettato in tempi brevissimi, sono bastati tre giorni: i recensori hanno indicando solamente qualche correzione da aggiungere nell’abstract e altre sottigliezze di poco conto. L’articolo sarebbe stato dunque pubblicato, ma a una condizione: che venissero pagati 799 dollari più tasse. Ed ecco svelato l’imbroglio. Quello che interessa ai fantomatici editori della rivista sono i soldi che possono sottrarre a ricercatori alla disperata ricerca di pubblicazioni.Per chi è del settore questo genere di riviste ha un nome: “predatory journals”. Si tratta di “riviste” fittizie, che si propongono come open access, nella maggior parte dei casi senza una vera redazione, senza un comitato scientifico reale. Si presentano spesso come nuove risorse emergenti alla ricerca di giovani talenti da mettere in luce e offrono opportunità di pubblicazione a coloro che bramano espandere il proprio curriculum. Le loro strategie sono stereotipate: solitamente si riceve una mail dove si viene invitati a scrivere un articolo per un nuovo numero (in altri casi si chiede di diventare membri dell’editorial board), viene presentato un sito dedicato apparentemente regolare dove si troveranno nomi di sconosciuti o di persone che inconsapevolmente fanno parte della redazione, ma per chiunque abbia tempo per approfondire la qualità di questi siti essi risulteranno irrimediabilmente vuoti. Il loro fine è riuscire a farsi pagare per la pubblicazione dell’articolo, che si può star sicuri non verrà rifiutato dai revisori. Coloro che decidono di pagare possono veder scomparire la rivista non appena effettuato il bonifico, oppure rimangono delusi dal veder pubblicato il proprio articolo su un qualche sito vuoto, delegittimato e screditato.McCool ha voluto prendersi gioco in maniera esemplare di uno di questi approfittatori per riportare ancora una volta l’attenzione su un fenomeno in aumento. Sono state contate circa 10.000 riviste del genere sulle quali sono stati pubblicati nel 2015 circa mezzo milione di articoli. Nell’epoca del “publish or perish”, o si pubblicano tanti articoli oppure si muore affogati nel mare della competizione spietata. Essendo i ricercatori valutati soprattutto per il peso e la quantità delle loro pubblicazioni, trovare una rivista dove pubblicare è una necessità vitale. Le possibilità di fare carriera o di ricevere sostanziosi finanziamenti ruotano tutte attorno alle proprie pubblicazioni. Per molti scendere a compromessi con riviste dall’impact factor nullo o dalla dubbia reputazione è una via di fuga disperata. Si è così innescato questo circolo vizioso che spinge i ricercatori a trovare qualsivoglia piattaforme sulle quali pubblicare i propri articoli, dall’altra parte molti furbi hanno trovato un modo semplice per fare danari. Recentemente ha suscitato altrettanta ilarità una denuncia simile a quella di McCool: la rivista “International Journal of Comprehensive Research in Biological Sciences” ha pubblicato senza troppe remore un articolo scritto da un bambino di sette anni incentrato su quanto fossero “cool” i pipistrelli.Navigando sul web si possono trovare altri simpatici esperimenti del medesimo tipo e come ultimo esempio non si può non menzionare l’articolo “Get me off your fucking mailing list”, il cui titolo e il lungo contenuto coincidono pedissequamente e in modo ossessivo. Questo memorabile sunto di scienza è stato accettato da una rivista ed è divenuto tanto famoso da meritarsi una pagina su Wikipedia. Tutti questi esempi mettono in luce l’intreccio dannoso di certe caratteristiche del mondo della ricerca scientifica che si sono ormai consolidate. Le modalità di pubblicazione in seguito al pagamento di una sorta di tassa sono divenute una pratica sempre più frequente con il crescere delle riviste open access. È oggi difficile discriminare quando si debba o meno pagare la giusta cifra, e più in generale quanto sia etica questa forma di pagamento. Purtroppo le denunce non hanno fino ad oggi sortito un reale effetto positivo, gli sciacalli continuano a proliferare e i ricercatori ad essere turlupinati. Sul web esistono però programmi e liste in grado di rintracciare e scovare i predatory journals, utili a non far cadere in trappola i più sprovveduti. L’intreccio di interessi economici ed esigenze di carriera genera ancora una volta effetti perversi nel mondo della ricerca scientifica, anche se talvolta questi effetti riescono a regalarci qualche risata.(Olmo Viola, “Tutto è pubblicabile, purché si paghi?”, da “Micromega” del 22 agosto 2017).Quanto è semplice pubblicare un articolo su una rivista poco prestigiosa? È semplicissimo, purché venga corrisposta la giusta cifra. La rincorsa alle pubblicazioni da parte dei giovani ricercatori ha favorito lo sviluppo di riviste piratesche disposte a tutto pur di essere pagate, tanto da illudere i vari autori di aver superato controlli rigidissimi e di poter aver accesso a un palcoscenico luminoso all’interno del mondo delle pubblicazioni scientifiche. Un medico statunitense ha voluto saggiare la serietà di una di queste riviste e ha escogitato un’esilarante presa in giro, andata a buon fine. I fan più sfegatati della vecchia sitcom “Seinfeld” saranno sorpresi nel ricevere la notizia che la sindrome da “avvelenamento da uromisite”, tradotto dall’originale “uromycitisis poisoning”, è diventata una malattia “ufficiale” tanto da meritare una pubblicazione su una rivista “scientifica” dedicata all’urologia. La storia della pubblicazione dell’articolo “Uromycitisis Poisoning Results in Lower Urinary Tract Infection and Acute Renal Failure: Case Report” è esilarante e come molti episodi delle sitcom americane racchiude un messaggio finale. La storia inizia con una mail ricevuta dal dottor John H. McCool, inviatagli da un nuovo giornale: “Urology and Nephrology Open Access Journal”.
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Ricca Germania e poveri tedeschi, divario record in Europa
«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstly sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.La disoccupazione, un problema cruciale per gli altri paesi Ue, per il sondaggio è solo al quinto posto. Marcel Fratzscher, capo del centro di ricerca economica Diw e consigliere dell’Spd, dice: «L’economia sta andando bene. La grande preoccupazione è per quelli che vengono lasciati indietro». I conservatori che sostengono la Merkel non sono d’accordo su questo punto, scrive Wagstly, nell’articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. Ma in una recente intervista su YouTube, la stessa Merkel ha ammesso che la disuguaglianza sta diventando un problema politico: «Veramente – ha detto – molte persone ne sono preoccupate», Ma quanta disuguaglianza c’è in Germania, dopo 12 anni di governo Merkel? Dal 1990 (anno della riunificazione) ad oggi, le disparità sono realmente aumentate, anche se negli ultimi cinque anni sono state in parte attutite grazie alla crescita della produzione, dei posti di lavoro e dei salari. In termini di redditi delle famiglie, la Germania è vicina alla media europea. «Ma in termini di ricchezza – scrive Wagstly – la Germania è significativamente più disuguale rispetto agli altri paesi, con le famiglie più ricche che controllano una quota della ricchezza più ampia rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale».Il 40% dei tedeschi più poveri non possiede praticamente alcun bene patrimoniale, nemmeno dei risparmi in banca. Per quanto riguarda i redditi, il divario tra il 10% dei più poveri e quello dei più ricchi ha iniziato ad allargarsi dalla metà degli anni ’90. «Accade in larga misura per le stesse ragioni degli altri paesi del mondo sviluppato: globalizzazione e perdita di posti di lavoro tramite cambiamenti tecnologici». Dopo un periodo di iniziale stagnazione dopo la riunificazione, la Germania è tornata a crescere grazie a un boom delle esportazioni (“dopate” dall’euro), combinato con una moderazione salariale da parte dei sindacati, e col pacchetto Hartz IV per il mercato del lavoro (flessibilità) e le riforme dell’assistenza sociale, che hanno spinto sempre più disoccupati al lavoro. «Gli effetti economici complessivi sono stati molto ampi, riportando la Germania alla testa della Ue e cementando il sostegno a favore della Merkel», al potere dal 2005. Le riforme Hartz IV erano state comunque ereditate dal governo precedente del socialdemocratico Gerhard Schröder. «Ma se la disoccupazione è diminuita, le persone a reddito basso guadagnano comparativamente sempre meno rispetto ai lavoratori ben pagati».Un ruolo importante nel ridurre la disoccupazione e aumentare il numero degli occupati al livello record di 44 milioni ha avuto l’espansione dei mini-job, posti di lavoro part-time deregolamentati, che sono passati da 4,1 milioni nel 2002 a oltre 7,5 milioni quest’anno. «I loro sostenitori dicono che hanno contribuito a creare opportunità di lavoro, ad esempio per madri con figli piccoli, studenti e pensionati. Ma i critici affermano che questi mini-job hanno spesso rimpiazzato posti di lavoro a tempo pieno, specialmente nei settori della ristorazione e della vendita al dettaglio», scrive il “Financial Times”. E il sindacato Dgb aggiunge che, anziché aprire la strada a posti di lavoro permanenti, i mini-job sono diventati per i lavoratori un vicolo cieco. «Ci vorrebbe un cambiamento molto più drastico sui redditi per contrastare una causa ancora più grande di disuguaglianza in Germania, ossia la distribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri, che è straordinariamente iniqua».Il paese non ha quell’abbondanza di miliardari che si trovano, ad esempio, nel Regno Unito, ha però una pletora di milionari, spesso concentrati nelle famiglie che possiedono industrie medio-grandi. Intanto, solo il 45% dei tedeschi possiede la casa nella quale vive. Tutti gli altri sono in affitto, specie nelle grandi città, dove i prezzi si sono rapidamente alzati dopo la crisi finanziaria del 2008. «Questo ha ulteriormente ampliato il divario tra gli abbienti e i nullatenenti». Secondo punto, le pensioni: sono generose più che altro con gli ex lavoratori a tempo pieno. «I ricchi si garantiscono una pensione con i fondi privati, ma il tedesco medio non se lo può permettere. In teoria le pensioni pubbliche dovrebbero essere un modo altrettanto sicuro delle pensioni private per garantirsi un reddito in età avanzata, al pari delle pensioni private negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Ma l’investimento manca di flessibilità. Per esempio, è impossibile andare in pensione prima e ottenere un riscatto dell’intera somma, che potrebbe essere usata per avviare un’attività produttiva». Infine, l’imposta di successione in Germania favorisce i proprietari di impresa.La disuguaglianza nella distribuzione di ricchezza e redditi aumenta la disuguaglianza sociale, prosegue Wagstly nella sua analisi. Le scuole tedesche reggono bene il confronto con gli altri paesi Ocse, ma «fanno peggio» se solo «si considera il divario tra i bambini di famiglie ricche e quelli di famiglie povere». Nel 2015 la condizione economica di uno studente spiegava il 16% delle differenze nel successo scolastico in Germania, rispetto al 13% della media Ocse. «Allo stesso modo, nella salute c’è un profondo divario tra i ricchi e i poveri, che sembra essere più ampio in Germania che nella media dei paesi Ue». A queste disuguaglianze, conclude il “Financial Times”, si somma un divario regionale che persiste tuttora: «Sebbene dopo la riunificazione del 1990 la Germania Est abbia fatto progressi, i redditi rimangono più bassi di un terzo rispetto ai livelli della Germania Ovest». I giovani hanno smesso di emigrare a frotte, ma il resto della popolazione sta invecchiando più rapidamente: se fosse uno Stato autonomo, con il 24% della popolazione over-65, la Germania Est sarebbe il paese «più anziano del mondo». Ma le sacche di povertà non si limitano alle regioni dell’Est. «I ricchi se ne vanno dai quartieri poveri, e persone povere affluiscono», dice Dieter Heisig, pastore protestante che ha prestato servizio nella città per più di 30 anni. «Non vorrei dover dire che abbiamo dei ghetti, qui in Germania, però li abbiamo».«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstyl sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.
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Un milione gli Ufo finora avvistati. Perché gli Usa tacciono
Sui grandi media non se ne parla mai, ma sono un milione gli Ufo avvistati nel mondo, negli ultimi 70 anni. E almeno il 20% degli avvistamenti – quindi, non meno di 200.000 – sono stati “validati” dall’intelligence militare di decine di paesi. Lo rivela il sociologo Roberto Pinotti, storico leader del Cun, Centro ufologico nazionale, riconosciuto dall’aeronautica militare. «Una realtà che il potere ufficiale continua a non ammettere, benché ne sia perfettamente a conoscenza». Il perché di questo decennale, imbarazzato silenzio? «Semplice: chi oggi detiene la leadership, nel mondo, dovrebbe ammettere la propria catastrofica inferiorità tecnologica di fronte a esseri infinitamente superiori», sostiene Pinotti in una recente conferenza, ripresa da “YouTube”. «Tutti sanno che gli alieni ci stanno monitorando», aggiunge. «Se avessero cattive intenzioni, avrebbero già annientato l’umanità». Si metteranno “ufficialmente” in contatto con noi? «Ma con chi potrebbero parlare? Con gli Usa, sempre in guerra col resto del mondo? Con i russi, i cinesi, gli indiani, gli europei? Meno improbabile, semmai, un contatto con autorità morali: il Dalai Lama non ha escluso questa eventualità, e la stessa Chiesa cattolica attribuisce un’importanza strategica al modernissimo osservatorio astronomico della Specola Vaticana di Mount Graham, in Arizona».“Res Inexplicata Volans”, è la definizione – in latino – con cui gli stimatissimi scienziati di Mount Graham, gesuiti, definiscono astronavi e dischi volanti. Fenomeno la cui osservazione ufficialmente documentata risale al 1947. Da allora, se ne sono occupati ininterrottamente i maggiori esperti militari, dall’aviazione statunitense fino alla Royal Air Force britannica, incluso il Kgb sovietico: «Proprio da Mosca, dopo il crollo dell’Urss – aggiunge Pinotti – abbiamo avuto accesso una mole veramente enorme di materiale top secret». Attualmente si contano oltre 12.000 dossier ufficiali dei militari statunitensi, mentre sono 1.700 quelli che la Francia ha raccolto dal 1977. La media si equivale ovunque: oltre il 20% degli avvistamenti resta puntualmente “inspiegato”. Sono circa 500, poi, i casi «tuttora senza una spiegazione certa», registrati in Italia dal Reparto Generale Sicurezza dell’aeronautica militare, istituito da Giulio Andreotti dopo i 2.000 avvistamenti sulla penisola verificatisi nel biennio 1978-79. Lo stesso Centro ufologico nazionale ha agli atti oltre 12.000 rapporti. «Nessuno ormai osa più dire che il fenomeno non è reale», conferma il Cun. Pinotti, già ufficiale dell’aeronautica nonché saggista di successo e giornalista aerospaziale, dispone di un archivio di oltre 8.000 fotografie. Tutte autentiche? Le falsificazioni accertate, assicura, non superano il 10%.Vladimiro Bibolotti, attuale presidente del Cun, sul “Fatto Quotidiano” ricorda che il 24 giugno 1947, esattamente 70 anni fa, il pilota civile americano Kenneth Arnold, mentre volava nei pressi del Monte Rainier nello Stato di Washington avvistò «una formazione di 9 oggetti volanti in fila indiana che sembravano saltellare come piattini sull’acqua». Oltre alla elevata velocità, quegli oggetti «avevano una forma particolare, semicircolare “come il tacco di una scarpa”». Ma per i giornalisti dell’epoca, attirò di più la versione di “piattini volanti”: quella colorita definizione, “flying saucer”, era destinata a diventare famosa, trasformandosi poi in “flying disc”. Solo tra il 1952 e il 1953 l’oggetto volante diventò Ufo, “Unidentified flying object”. La notizia dell’avvistamento, continua Bibolotti, non fu subito presa in seria considerazione, fino a quando – pochi giorni dopo – alcuni piloti militari avvistarono anche loro degli oggetti volanti comparabili con quelli osservati da Kenneth Arnold. Durante l’estate del ‘47 «furono moltissimi gli avvistamenti segnalati in ogni parte del territorio degli Stati Uniti, e cosa poco nota, furono scattate molte fotografie proprio da piloti militari». Così, anche grazie ai media, era nata l’ufologia.Già antiche cronache latine e medioevali, aggiunge il presidente del Cun, troviamo fenomeni celesti molto curiosi, dalle descrizioni simili e assimilabili alle moderne segnalazioni di fenomeni Ufo. E durante la Seconda Guerra Mondiale comparvero i cosiddetti “Foo Fighters”, «che volavano impunemente in mezzo alle formazioni degli alleati o dell’asse». Tuttavia, l’avvistamento del 24 giugno 1947 è considerato convenzionalmente come il “primo”. A distanza di 70 anni, il fenomeno Ufo continua ad appassionare. Come ebbe a dire un decennio fa l’allora presidente dell’Unione giornalisti aerospaziali italiani, il compianto Cesare Falessi: «Gli Ufo? Certo che esistono! Se per assurdo così non fosse, il vero scoop sarebbe scoprire in virtù di quale incredibile prodigio una questione inesistente continua a rimbalzare tuttora sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, a distanza di sei decenni». Oggi, a dieci anni dalla scomparsa di Falessi, dopo che il fenomeno è stato a lungo negato dalle autorità, «si scopre che invece le varie agenzie governative, non ultima la Cia, investigarono meticolosamente e con un ingente budget a disposizione».A conferma di ciò, continua Bubolotti, c’è da poco stato il rilascio di ben 800.000 dossier, con oltre un milione di pagine a testimonianza dell’interesse per quelle manifestazioni tecnologiche così inconsuete. Come disse il presidente americano Harry Truman in una conferenza stampa televisiva per tranquillizzare l’opinione pubblica americana dopo il famoso sorvolo nel 1952 di alcuni oggetti sopra la Casa Bianca, «se mai tali oggetti fossero reali, non sarebbero stati costruiti da nessuna nazione della Terra». C’è chi ha trasformato questa ricerca «in atti di fanatismo religioso, minando la credibilità stessa del fenomeno», al pari degli scettici «che non hanno mai letto dossier di fonte militare», accusa il presidente del Cun. Depistatori, che hanno trasformato il tutto «in cattive interpretazioni di percezione o allucinazioni, dimenticando che persino noti astronomi d fama mondiale come Clyde Tombaugh, scopritore di Plutone, nonché piloti militari, scienziati e premi Nobel sono stati testimoni di avvistamenti di oggetti la cui natura tecnologica e intelligente esula dalle nostre capacità costruttive». Conferma il grande astrofisico Stephen Hawking: «Non siamo soli, nell’universo».A settant’anni dall’avvistamento di Kenneth Arnold, però, rimane ancora il ragionevole dubbio e il mistero che tali oggetti ci lasciano, sia come manifestazione tecnologica, sia come fenomeno sociologico che investe l’intera umanità, coclude Bubolotti. «Evidentemente, la vastità dell’universo e le nuove scoperte ci avvicinano a nuove prospettive e conoscenze paragonabili alla rivoluzione copernicana che scardinò l’idea che la Terra fosse al centro dell’universo». Forse, lo studio e la verifica della realtà degli “oggetti volanti non identificati”, «fenomeno oggettivamente non misurabile convenzionalmente, nonostante tracciati radar e filmati militari», alla fine «sconfesserebbe il modus operandi di scettici che, senza aver mai studiato carte e documenti, lapidariamente hanno liquidato la questione come inesistente». Storici precedenti smentiscono i negazionisti: è il caso delle meteoriti che «solamente nel 1794, dopo la caduta di molti esemplari a Siena, furono accettate come fenomeno reale, nonostante oltre 5.000 anni di osservazioni astronomiche».Roberto Pinotti è ancora più drastico: imputa agli Usa l’imposizione del “grande silenzio” sulla materia, perché «la superpotenza, in quanto tale, è quella che averebbe più da perdere, di fronte all’ammissione dell’esistenza di entità ben più potenti». Anche per questo, aggiunge, proprio gli Usa – tramite la fantascienza di Hollywood e le produzioni televisive appositamente finanziate – ha cercato di manipolare l’immaginario collettivo: un po’ per mettere gli Ufo in burletta, e un po’ per cominciare ad abituare la popolazione all’idea che, un bel giorno, l’evento destinato a terremotare la coscienza dell’umanità potrebbe davvero accadere, «come i militari sanno benissimo, dato che – anche in Italia – compilano accurati dossier», in parte trasferiti allo stesso Cun, redatti con precisione impressionante: caratteristiche del veicolo osservato, dimensioni, luminosità, rumore, tipo di volo. C’è di tutto, compresa la descrizione minuziosa di atterraggi. «Cito da fonte precisa, militare: membri dell’equipaggio, due. Altezza: un metro e trenta. Abbigliamento: tuta azzurra e casco bianco, con antenne».Sui grandi media non se ne parla mai, ma sono un milione gli Ufo avvistati nel mondo, negli ultimi 70 anni. E almeno il 20% degli avvistamenti – quindi, non meno di 200.000 – sono stati “validati” dall’intelligence militare di decine di paesi. Lo rivela il sociologo Roberto Pinotti, storico leader del Cun, Centro ufologico nazionale, riconosciuto dall’aeronautica militare. «Una realtà che il potere ufficiale continua a non ammettere, benché ne sia perfettamente a conoscenza». Il perché di questo decennale, imbarazzato silenzio? «Semplice: chi oggi detiene la leadership, nel mondo, dovrebbe ammettere la propria catastrofica inferiorità tecnologica di fronte a esseri infinitamente superiori», sostiene Pinotti in una recente conferenza, ripresa su “YouTube”. «Tutti sanno che gli alieni ci stanno monitorando», aggiunge. «Se avessero cattive intenzioni, avrebbero già annientato l’umanità». Si metteranno “ufficialmente” in contatto con noi? «Ma con chi potrebbero parlare? Con gli Usa, sempre in guerra col resto del mondo? Con i russi, i cinesi, gli indiani, gli europei? Meno improbabile, semmai, un contatto con autorità morali: il Dalai Lama non ha escluso questa eventualità, e la stessa Chiesa cattolica attribuisce un’importanza strategica al modernissimo osservatorio astronomico della Specola Vaticana di Mount Graham, in Arizona».
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Jama: medici pagati da 50 anni per mentire sullo zucchero
Per più di cinquant’anni l’industria dello zucchero avrebbe pilotato le ricerche, pagando decine di scienziati in modo che sminuissero il pericoloso collegamento tra alimenti zuccherati e problemi cardiaci e spostassero l’attenzione sui grassi saturi e il colesterolo. È quanto emerge da una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista “Jama Internal Medicine”, la bibbia della ricercatori Usa: una serie di 320 documenti, scoperti da tre ricercatori della University of California, San Francisco, metterebbe in luce una verità sconvolgente. «Sono stati in grado di sviare il dibattito sullo zucchero per decenni», ha detto al “New York Times” Stanton Glantz, professore di medicina e autore del report. Il “depistaggio” si sarebbe verificato a partire dagli anni ‘60. Stando ai documenti trovati e analizzati, nel 1967 un gruppo conosciuto come “Sugar research foundation”, oggi divenuto “Sugar Association”, avrebbe pagato alcuni ricercatori di Harvard circa 50.000 dollari a testa per pubblicare sul “New England Journal of Medicine” uno studio che distruggesse l’immagine dello zucchero come nemico per la salute del cuore.«La ricerca concludeva che, “senza dubbio”, l’unico modo per prevenire i problemi cardiaci era quello di ridurre il colesterolo e i grassi saturi», spiegano gli autori del report su “Jama”. In altre parole, gli scienziati si adoperarono per sottovalutare pubblicamente il ruolo dello zucchero nel causare malattie cardiovascolari. Sebbene i ricercatori di allora non siano più rintracciabili, perché ormai deceduti, si sa che uno di questi, Mark Hegsted, divenne capo della divisione che si occupa di nutrizione al Dipartimento dell’Agricoltura e che il suo gruppo pubblicò le linee guida sull’alimentazione nel 1977. Un altro, il dottor Fredrick J. Stare, ricoprì il ruolo di presidente del dipartimento di nutrizione di Harvard. Nonostante i fatti risalgano a decenni fa, il tema è destinato ad aprire un nuovo dibattito. «Questo incidente di cinquant’anni fa potrebbe sembrare storia antica – spiega in un editoriale Marion Nestle, professoressa di “food policy” alla New York University – ma è rilevante perché risponde ad alcune domande che ci poniamo ancora oggi. È vero che le lobby dello zucchero hanno manipolato la ricerca in loro favore? Sì, è vero, e la pratica continua».«Il nostro studio mette in luce il bisogno di fare più attenzione e non dare la ricerca sempre per scontata», spiegano gli autori. «Ci sono molti modi in cui uno studio può essere manipolato, dalle domande che pone e si pone al come le informazioni vengono analizzate fino al modo in cui le conclusioni vengono riportate nel testo». C’è di che tenere gli occhi aperti, insomma. Anche perché la Sugar Association, come riporta “Vox”, continua a pubblicare le sue linee-guida sul rapporto tra zuccheri e salute del cuore. Dal canto suo, l’associazione si è difesa: «Lo studio di “Jama” cavalca il trending dell’anti-zucchero. Le ricerche degli ultimi decenni hanno messo in luce che lo zucchero non ha una responsabilità univoca sulle malattie del cuore. Siamo preoccupati per la crescente diffusione di articoli ideati apposta per prendere click e che minano la qualità delle ricerche scientifiche, ma siamo ancora più delusi dal fatto che un simile report sia apparso su una rivista come “Jama”».(“La lobby dello zucchero ci ha ingannato per 50 anni, medici pagati per mentire: uno studio su Jama svela anni di depistaggi”, dall’“Huffington Post” del 13 settembre 2016).Per più di cinquant’anni l’industria dello zucchero avrebbe pilotato le ricerche, pagando decine di scienziati in modo che sminuissero il pericoloso collegamento tra alimenti zuccherati e problemi cardiaci e spostassero l’attenzione sui grassi saturi e il colesterolo. È quanto emerge da una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista “Jama Internal Medicine”, la bibbia della ricercatori Usa: una serie di 320 documenti, scoperti da tre ricercatori della University of California, San Francisco, metterebbe in luce una verità sconvolgente. «Sono stati in grado di sviare il dibattito sullo zucchero per decenni», ha detto al “New York Times” Stanton Glantz, professore di medicina e autore del report. Il “depistaggio” si sarebbe verificato a partire dagli anni ‘60. Stando ai documenti trovati e analizzati, nel 1967 un gruppo conosciuto come “Sugar research foundation”, oggi divenuto “Sugar Association”, avrebbe pagato alcuni ricercatori di Harvard circa 50.000 dollari a testa per pubblicare sul “New England Journal of Medicine” uno studio che distruggesse l’immagine dello zucchero come nemico per la salute del cuore.
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Inuit e Nasa: i ghiacci disciolti inclinano l’asse terrestre
Il sole allo zenit, in un cielo completamente diverso. Risultato: clima impazzito, temperature in aumento, cataclismi naturali dovuti all’inaudito sciogliemento dei ghiacci e alla “migrazione” di immense quantità d’acqua. Sta accadendo qualcosa di mai prima osservato: lo affermano gli anziani Inuit, intervistati nell’Artico dal regista e produttore canadese Zacharias Kunuk, in contatto con la Nasa. «Gli anziani parlano di come il loro mondo è cambiato, da come era decenni prima di oggi», riassume il blog “La Crepa nel Muro”. E’ un quadro preoccupante, di cui gli Inuit sono testimoni: lo scioglimento dei ghiacciai artici, la scomparsa del ghiaccio marino. «Le foche hanno bruciature sulla loro pelliccia e sono coperte di piaghe e di una pelle più sottile, la pelle è deteriorata». E mentre gli scienziati sostengono che è l’inquinamento umano a contribuire in modo decisivo al cambiamento climatico, i vecchi Inuit sono convinti qualcosa di molto molto più grande sta succedendo. L’agenzia aerospaziale americana conferma: «I ghiacci che si sciolgono ai poli e le falde idriche depauperate sulla terraferma modificano la distribuzione della risorsa idrica sul pianeta, alterando la rotazione della Terra: lo spostamento è tale da inficiare l’accuratezza di un Gps».Come noto, ricorda Filomena Fotia su “Meteoweb”, la Terra ruota sul suo asse in modo irregolare, oscillando e sobbalzando: queste variazioni naturali sono accompagnate da quelle generate dai cambiamenti climatici, spiega oggi la Nasa, confermando le inquietanti anomalie osservate dagli anziani Inuit. «L’oscillazione fa variare leggermente l’inclinazione dell’asse terrestre, provocando uno spostamento, che per tutto il XX secolo si è diretto verso la Baia di Hudson, in Canada, ma ha invertito la rotta a partire dal 2003, spostandosi di circa 17 centimetri all’anno in direzione delle Isole Britanniche». Il risultato della ricerca, pubblicato su “Science Advances”, si deve a Surendra Adhikari e la suo collega Erik Ivins, entrambi ricercatori della Nasa. Gli esperti, aggiunge Fotia, hanno analizzato i dati dal 2003 a oggi dei satelliti Grace (Center Gravity Recovery and Climate Experiment) che misurano la distribuzione delle masse d’acqua sul pianeta, e hanno fatto una scoperta clamorosa: «La natura degli spostamenti spiegava la migrazione dell’asse verso l’Europa, rilevata a partire dal duemila. Si consideri che ogni anno in Groenlandia si sciolgono 278 trilioni di chili all’anno di ghiaccio e in Antartide occidentale 172 trilioni di chili».Oltre che allo scioglimento dei ghiacci, secono i ricercatori della Nasa la “migrazione” verso l’Europa è dovuta anche «al depauperamento delle risorse idriche sulla terraferma, in particolar modo in Eurasia: 530 trilioni di chili di acqua all’anno vanno persi a causa della siccità e dell’eccessivo sfruttamento delle falde, provocando un innalzamento del livello del mare». Effetti di cui soffriamo tutti, e il cui impatto è particolarmente forte tra gli abitanti delle più estreme regioni artiche, convinti – per primi – che il “climate change” non sia solo dovuto alla Terra, cioè all’uomo, ma anche al cielo: gli anziani intervistati da Zacharias Kunuk «dicono che il Sole non sorge più come nella normalità del tempo andato: hanno la luce del giorno più a lungo, per cacciare, e il Sole è più alto di quanto non lo sia mai stato prima e riscalda più velocemente l’ambiente». Su questo sono tutti d’accordo: il sole e la luna, che sono “cambiati”, «influenzano la temperatura, il modo in cui soffia il vento». E così, a memoria d’uomo, non è mai stato così difficile prevedere il tempo. «Conosciamo i problemi correlati alla geoingegneria», cioè le “scie chimiche”, e «tutti gli effetti negativi di ricaduta sulla Terra e la salute pubblica». Ma a questi problemi ora «si aggiungono quelli scoperti dagli anziani Inuit», determinati «dallo spostamento dell’asse terrestre» confermato dalla Nasa.Il sole allo zenit, in un cielo completamente diverso. Risultato: clima impazzito, temperature in aumento, cataclismi naturali dovuti all’inaudito sciogliemento dei ghiacci e alla “migrazione” di immense quantità d’acqua. Sta accadendo qualcosa di mai prima osservato: lo affermano gli anziani Inuit, intervistati nell’Artico dal regista e produttore canadese Zacharias Kunuk, in contatto con la Nasa. «Gli anziani parlano di come il loro mondo è cambiato, da come era decenni prima di oggi», riassume il blog “La Crepa nel Muro”. E’ un quadro preoccupante, di cui gli Inuit sono testimoni: lo scioglimento dei ghiacciai artici, la scomparsa del ghiaccio marino. «Le foche hanno bruciature sulla loro pelliccia e sono coperte di piaghe e di una pelle più sottile, la pelle è deteriorata». E mentre gli scienziati sostengono che è l’inquinamento umano a contribuire in modo decisivo al cambiamento climatico, i vecchi Inuit sono convinti qualcosa di molto molto più grande sta succedendo. L’agenzia aerospaziale americana conferma: «I ghiacci che si sciolgono ai poli e le falde idriche depauperate sulla terraferma modificano la distribuzione della risorsa idrica sul pianeta, alterando la rotazione della Terra: lo spostamento è tale da inficiare l’accuratezza di un Gps».
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Migranti, ora basta. Il super-potere: ci costano troppo
Aprire, sempre e comunque, la porta ai migranti? Non è più così certo che sia giusto, ai piani alti del massimo potere, che forse si prepara ad archiviare la propaganda mondialista del politically correct. Lo rileva “Voci dall’Estero”, che segnala una riflessione di Steven Camarota, direttore del Cis, il centro ricerche di Washington sull’immigrazione. Attenzione: l’analisi è pubblicata su “Foreign Affairs”, storica rivista del Cfr, il Council on Foreign Relations, potentissimo organismo del supremo potere mondiale – think-tank di origine paramassonica, in cui maturano le grandi linee di indirizzo economiche e geopolitiche che da decenni “orientano” l’Occidente. «Tra il fallimento del multiculturalismo e i problemi di integrazione, il drenaggio fiscale causato dalle condizioni di indigenza degli immigrati (le loro scarse possibilità di miglioramento economico) e il risibile impulso demografico a una popolazione che invecchia», riassume “Voci dall’Estero”, da Camarota «viene smontato tutto l’armamentario argomentativo di quella strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che ha dominato il dibattito pubblico americano (e non solo) sull’immigrazione. I tempi sono pronti per un cambiamento?».Al netto della retorica, fa notare Camarota in premessa, il motto elettorale “America First” di Donald Trump coincide perfettamente con la storica posizione della democratica Barbara Jordan, icona dei diritti civili statunitensi e già stratega di Bill Clinton: «Nel dibattito sull’immigrazione c’è un solo tema fondamentale, ed è il benessere del popolo americano». Ovvero: «Gestire l’immigrazione in modo che serva l’interesse nazionale». Cosa che, secondo l’analista di “Foreign Affairs”, negli ultimi 50 anni non è avvenuta. Solo che «il dibattito sull’argomento è stato smorzato». Manipolazione politico-mediatica: «I decisori politici e gli opinionisti di entrambi i partiti hanno teso a sovrastimare i benefici e a sottovalutare o ignorare i costi dell’immigrazione», scrive Camarota. Trump ha sfruttato elettoralmente il disagio per l’immigrazione irregolare? Vero, ma il disastro non l’ha creato lui, ammette l’analista: negli Usa ci sono troppi immigrati irregolari e non. «Gli Stati Uniti attualmente garantiscono ogni anno un milione di permessi legali di residenza permanente agli immigrati (o “carta verde”), il che significa che possono rimanere fino a quando desiderano e diventano cittadini dopo cinque anni, o tre se sono sposati con un cittadino statunitense. Annualmente arrivano anche circa 700.000 visitatori a lungo termine, soprattutto lavoratori ospiti e studenti stranieri».Un così grande afflusso annuale, agiunge Camarota, si somma nel tempo: nel 2015 i dati del Census Bureau indicano che nel paese vivevano 43,3 milioni di immigrati – il doppio del numero del 1990. «I dati del censimento comprendono circa 10 milioni di immigranti clandestini, mentre circa un altro milione di persone non viene conteggiato». In più, ci sono gli effetti dello “ius soli”: «Contrariamente alla maggior parte dei paesi, gli Stati Uniti concedono la cittadinanza a chiunque nasca su suolo americano, inclusi i figli dei turisti o degli immigrati clandestini, per cui i dati sopra riportati non comprendono nessuno dei bambini di immigrati nati negli Stati Uniti». I sostenitori dell’immigrazione sostengono che l’America è una “nazione di immigrati”, e certamente «l’immigrazione ha svolto un ruolo importante nella storia americana». Tuttavia, osserva Camarota, «gli immigrati attualmente rappresentano il 13,5% della popolazione totale statunitense, la percentuale più alta in oltre 100 anni». Il Census Bureau prevede che entro il 2025 la percentuale di immigrati nella popolazione raggiungerà il 15%, superando il record del 14,8%, raggiunto nel 1890. «Senza una modifica della politica, questa percentuale continuerà ad aumentare per tutto il ventunesimo secolo».Conteggiando gli immigrati e i loro discendenti, il Pew Research Center stima che dal 1965, anno in cui gli Stati Uniti liberalizzarono le proprie leggi, l’immigrazione ha aggiunto 72 milioni di persone nel paese, «un numero maggiore della popolazione attuale della Francia». Tenuto conto di questi numeri, scrive Camarota, è sorprendente che i funzionari pubblici «si siano concentrati quasi esclusivamente sugli 11-12 milioni di immigrati clandestini del paese, che rappresentano solo un quarto della popolazione totale degli immigrati». L’immigrazione legale, infatti, «ha un impatto molto più grande sugli Stati Uniti». Ma i leader del paese «raramente si sono posti le grandi domande». Per esempio: qual è la capacità di assorbimento delle scuole e delle infrastrutture nazionali? Come se la caveranno gli americani meno qualificati nel mercato del lavoro, in concorrenza con gli immigrati? Oppure, forse la più importante: quanti immigrati gli Stati Uniti sono in grado di assimilare nella propria cultura? «Trump non sempre ha approcciato queste domande con attenzione, o con molta sensibilità, ma va a suo merito averle almeno sollevate».Secondo gli integrazionisti, visto che l’America riuscì ad assorbire l’ultima grande ondata del passato, quella dal 1880 al 1920, tutti gli immigrati si assimileranno, oggi e domani. Ma le condizioni di ieri non sono quelle attuali, obietta Camarota: negli ultimi decenni «la crescita marcata delle enclave di immigrati ha probabilmente rallentato il ritmo di assimilazione», e oggi «la moderna economia americana ha meno buoni posti di lavoro per i lavoratori non qualificati». Ecco perché «gli immigrati non migliorano nel tempo la loro situazione economica», come invece facevano in passato. Ma è cambiato anche l’atteggiamento degli americani verso gli immigrati, che ieri erano competamente soli, mentre oggi – grazie al web e alla telefonia mobile – sono in contatto permanente con la terra d’origine. «In passato c’era un consenso più vasto sulla desiderabilità dell’assimilazione», sostiene Camarota. Il giudice della Corte Suprema di Giustizia Louis Brandeis, figlio di immigrati ebrei, in un discorso sul “vero americanismo” nel 1915 dichiarò che gli immigrati, oltre a imparare l’inglese, dovevano «essere portati in completa armonia con i nostri ideali e le nostre aspirazioni». Oggi non è più così: il forte accento sull’assimilazione «è stato sostituito con il multiculturalismo, che sostiene che non esiste una singola cultura americana, che gli immigrati e i loro discendenti dovrebbero mantenere la loro identità, e che il paese dovrebbe adattarsi alla cultura dei nuovi arrivati anziché il contrario».Per Camarota, l’istruzione bilingue, i distretti legislativi disegnati lungo linee etniche e le schede elettorali in lingua straniera «incoraggiano gli immigrati a considerarsi separati dalla società e bisognosi di un trattamento speciale a causa dell’ostilità degli americani comuni». Per John Fonte, studioso dell’Hudson Institute, queste politiche – che spingono gli immigrati a mantenere la loro lingua e cultura – rendono meno probabile la loro assimilazione sociale. Un recente sondaggio “Associated Press”, aggiunge Camarota, ha scoperto che la maggior parte degli americani pensa ancora che il proprio paese dovrebbe avere una cultura fondamentale che gli immigrati adottino. Ma il tipo di assimilazione finora tentato «non ha più il sostegno dell’elite», osserva l’analista. Come sottolinea lo psicologo politico Stanley Renshon, molte organizzazioni incentrate sugli immigrati oggi aiutano gli immigrati a imparare l’inglese, ma lavorano duramente anche per rafforzare i legami con il vecchio paese. E questo evidenzia anche l’altra area di contesa nel dibattito sull’immigrazione, cioè il suo impatto economico e fiscale: «Molte famiglie immigrate prosperano negli Stati Uniti, ma una grande parte non ci riesce, aggiungendosi in modo significativo ai problemi sociali già esistenti».Numeri preoccupanti: «Quasi un terzo di tutti i bambini americani che vivono in povertà oggi hanno un padre immigrato, e gli immigrati e i loro figli rappresentano quasi un terzo dei residenti Usa senza un’assicurazione sanitaria», rileva “Foreign Affaris”. Nonostante alcune restrizioni alla capacità dei nuovi immigrati di utilizzare programmi di assistenza basati sul reddito, circa il 51% delle famiglie immigrate usa il sistema previdenziale, rispetto al 30% delle famiglie native. Delle famiglie con figli, i due terzi rientrano in programmi di assistenza alimentare. «Tagliare fuori gli immigrati da questi programmi sarebbe sciocco e politicamente impossibile – ragiona Camarota – ma è giusto mettere in discussione un sistema che accoglie immigrati così poveri da non poter nutrire i propri figli». La maggior parte degli immigrati arriva negli Stati Uniti per lavorare. «Ma poiché il sistema legale dell’immigrazione statunitense privilegia le relazioni familiari sulle competenze professionali – e poiché il governo ha generalmente tollerato l’immigrazione clandestina – gran parte degli immigrati non è qualificata. Infatti, metà degli immigrati adulti negli Stati Uniti non hanno alcuna istruzione oltre la scuola superiore. Questi lavoratori hanno generalmente guadagni bassi, il che significa che si appoggiano alla previdenza sociale anche se stanno lavorando».Recenti studi statistici dimostrano che gli immigrati e le loro famiglie «utilizzano servizi pubblici per un valore notevolmente più alto di quante tasse pagano», con un “drenaggio fiscale” di quasi 300 miliardi di dollari l’anno. Attualmente, il bilancio fiscale è pesantemente negativo. Enorme, poi, l’impatto sul mercato del lavoro. Uno dei principali economisti statunitensi dell’immigrazione, George Borjas di Harvard, ha recentemente scritto sul “New York Times” che, aumentando l’offerta di lavoratori, l’immigrazione riduce i salari per alcuni americani: sono immigrati «un terzo dei lavoratori edili». Sicché, «i perdenti dell’immigrazione sono gli americani meno istruiti, molti dei quali neri e ispanici, che lavorano in queste occupazioni». E se il multiculturalismo assicura che i migranti risolveranno il problema demografico dei paesi occidentali, la cui popolazione invecchia, l’economista Carl Schmertmann ha mostrato più di due decenni fa che «l’afflusso costante di immigrati, anche in età relativamente giovane, non necessariamente ringiovanisce una popolazione a bassa fertilità».Nel 2015, scrive Camarota, l’età media di un immigrato era di 40 anni, contro i 36 per i nativi. E il tasso di fertilità globale degli Stati Uniti, inclusi gli immigrati, è di 1,82 bambini per donna, che scende solo a 1,75 quando gli immigrati vengono esclusi dal conteggio. «In altre parole, gli immigrati aumentano il tasso di fertilità di appena il 4%». L’ultimo argomento a favore degli immigrati si concentra sui benefici per i profughi più poveri, diretti nel Primo Mondo. «Ma, data la portata della povertà del Terzo Mondo, l’immigrazione di massa non è la forma migliore di soccorso umanitario: più di tre miliardi di persone nel mondo vivono in povertà, guadagnando meno di 2,50 dollari al giorno», riferisce “Foreign Affaris”. «Anche se l’immigrazione legale triplicasse a tre milioni di persone all’anno, gli Stati Uniti farebbero comunque entrare solo l’un per cento dei poveri del mondo ogni decennio. Al contrario – avverte Camarota – l’assistenza allo sviluppo potrebbe aiutare molte altre persone nei paesi a basso reddito».L’ultima volta che gli Usa limitarono l’immigrazione fu a metà degli anni ’90, con Barbara Jordan. «Clinton inizialmente sembrava approvare le raccomandazioni, ma poi cambiò inclinazione dopo la morte della Jordan e il vento politico mutò direzione. Il tentativo di abbassare il livello di immigrazione è stato sconfitto nel Congresso dalla stessa strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che hanno dominato il dibattito pubblico sull’immigrazione da allora fino all’era Trump». Con l’elezione di “The Donald”, potrebbe essere possibile un compromesso politico negli Stati Uniti? L’analista di “Foreign Affaris”, voce ufficiale del Council on Foreign Relations, avanza possibili soluzioni alternative. Per esempio, legalizzare «alcuni immigrati clandestini», in cambio però «di una politica più restrittiva su chi entra». Inoltre, «dare precedenza all’immigrazione qualificata», istruita, più facile da assimilare. Realisticamente, in ogni caso, l’immigrazione rimarrà controversa: «Per il futuro prevedibile, il numero di persone che vorranno venire nei paesi sviluppati, come gli Stati Uniti, sarà molto più grande di quello che questi paesi sono disposti ad accettare o in grado di permettersi».Aprire, sempre e comunque, la porta ai migranti? Non è più così certo che sia giusto, ai piani alti del massimo potere, che forse si prepara ad archiviare la propaganda mondialista del politically correct. Lo rileva “Voci dall’Estero”, che segnala una riflessione di Steven Camarota, direttore del Cis, il centro ricerche di Washington sull’immigrazione. Attenzione: l’analisi è pubblicata su “Foreign Affairs”, storica rivista del Cfr, il Council on Foreign Relations, potentissimo organismo del supremo potere mondiale – think-tank di origine paramassonica, in cui maturano le grandi linee di indirizzo economiche e geopolitiche che da decenni “orientano” l’Occidente. «Tra il fallimento del multiculturalismo e i problemi di integrazione, il drenaggio fiscale causato dalle condizioni di indigenza degli immigrati (le loro scarse possibilità di miglioramento economico) e il risibile impulso demografico a una popolazione che invecchia», riassume “Voci dall’Estero”, da Camarota «viene smontato tutto l’armamentario argomentativo di quella strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che ha dominato il dibattito pubblico americano (e non solo) sull’immigrazione. I tempi sono pronti per un cambiamento?».
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Antenati misteriosi: chi è Homo Naledi, l’Uomo delle Stelle?
Sono passati meno di due anni dall’annuncio della scoperta di una nuova specie umana, l’Homo Naledi, in una grotta sudafricana contenente più di 1.500 reperti fossili. La morfologia di questa specie, scrive Andrea Parravicini su “Micromega”, è un sorprendente mix di caratteri “trattenuti”: un cervello piccolo, una corporatura somigliante a un’australopitecina (come la famosa Lucy) o ai primi rappresentanti del genere Homo, mescolata a caratteri “derivati”, più “moderni”, come le mani adatte a manipolare oggetti o i piedi da camminatore bipede. Recenti studi collocano questa specie in un’epoca sorprendentemente recente, contemporanea all’emergere dei primi umani moderni, e che confermano la possibilità di comportamenti complessi, o addirittura simbolici, da parte di questa strana ed enigmatica creatura. Nel ssettembre 2015, la rivista scientifica “eLife” annunciava la scoperta, avvenuta circa un anno e mezzo prima. In lingua Sotho, “Naledi” significa “stella”: «Una stella nel firmamento dell’evoluzione umana che oggi, a distanza di quasi due anni, continua a brillare intensamente, soprattutto per via dei nuovi dettagli e di ulteriori scoperte che alimentano interesse e curiosità riguardo a questo nostro misterioso “cugino”».La pubblicazione, aggiunge Parravicini, ha avuto risonanza in tutto il mondo, anche per via di un’abile operazione di marketing. Situato nell’area dove si trova la cosiddetta “Culla dell’umanità”, un sito dichiarato patrimonio dell’Unesco dal 1999 e che ha restituito parecchi resti di forme ominine, “Rising Star” è un intricato complesso di grotte a circa 50 chilometri da Johannesburg, in Sudafrica. Tra queste grotte, una camera posta a una trentina di metri di profondità e raggiungibile solo attraverso uno stretto pertugio si è rivelata una miniera d’oro per gli studiosi di evoluzione umana. In essa, chiamata “Dinaledi chamber”, il team di Lee Berger dell’Università Witwatersrand ha rinvenuto più di 1.550 ossa umane, appartenenti ad almeno 15 individui (se si contano solo le ossa associate tra loro, e non le innumerevoli altre appartenenti a parecchi altri individui). Scoperta che «coincide con il più grosso ritrovamento di ossa di ominini mai avvenuto, un vero e proprio giacimento, che permetterà agli scienziati di condurre uno studio esteso e approfondito, con un confronto tra le parti anatomiche di molti individui diversi, maschi e femmine, vecchi e giovani».Dai primi studi è emerso subito chiaramente che le ossa appartenevano tutte a una nuova specie umana, l’Homo Naledi per l’appunto. Mostra una conformazione di tratti “a mosaico”, antichi e più recenti, spiega Parravicini: siamo di fronte a una specie dalla morfologia «sconcertante, con una statura di circa un metro e mezzo per un peso di 40-55 kg, con una conformazione del cranio simile agli altri Homo ma con un cervello molto piccolo, grande un terzo del nostro (560cc nei maschi), con spalle e mani adatte all’arrampicata e ad afferrare rami, con dita ricurve ma pollici lunghi e solidi, e polsi e palmi dotati, come i nostri, di adattamenti per la manipolazione fine e la presa di precisione». Anche i piedi e gli arti inferiori sono simili a quelli dell’uomo moderno. «E non c’è dubbio che, da quanto si è inferito dalle conformazioni del tarso, dell’alluce e dall’articolazione della caviglia, Homo Naledi fosse in grado di camminare e di mantenere la stazione eretta», anche se «la presenza di falangi prossimali ricurve fa pensare a una forma particolarmente idonea all’arrampicamento sugli alberi». Infine, «la meccanica dell’anca e la conformazione del bacino ricordano quelle degli australopitechi, ma la mandibola debole e i denti piccoli sono caratteristiche derivate». L’impressione, osserva Parravicini, è quella di trovarsi di fronte a una forma di transizione tra l’australopiteco e forme più recenti come Homo Habilis», vissute circa 2 milioni di anni fa, insieme a Homo Rudolfensis e Homo Ergaster.Ma in che modo quelle migliaia di ossa trovate a Rising Star sono finite in quell’anfratto recondito e buio, a molti metri di profondità e difficilmente raggiungibile da chiunque? Su “eLife”, Paul Dirks e colleghi escludono che siano state cause accidentali ad accumulare una massa di resti ossei così ingente: improbabile un cataclisma. Forse, ipotizzano gli studiosi, «siamo di fronte a una deposizione intenzionale e ripetuta di corpi, o a un qualche tipo di sepoltura», anche se non per forza un comportamento “ritualizzato” o con significati simbolici. «Io penso che dev’esserci un’altra spiegazione, solo che non l’abbiamo ancora trovata», afferma Bernard Wood, paleoantropologo della George Washington University. Qualcuno ha anche proposto che quell’accumulo impressionante di corpi possa essere la conseguenza di omicidi per via di guerre o sacrifici: sarebbe il primo, antecedente al Neolitico; finora, i reperti rinvenuti nel Paleolitico – secondo gli studiosi – non suggeriscono la presenza della guerra, mancando ritrovamenti di più corpi nello stesso luogo, con segni evidenti di violenza (cranio sfondato).La precisa datazione dei reperti è stata recentemente stabilita dall’équipe di Paul Dirks della James Cook University, in Australia, combinando differenti metodologie di analisi. «Lo studio ha ottenuto risultati davvero sorprendenti, che assegnano Homo Naledi allo scenario meno prevedibile: esso risalirebbe a un periodo collocabile tra 236.000 e 335.000 anni fa, quando i primi umani moderni stavano emergendo in Africa e i Neanderthal stavano evolvendo in Europa». Questo significa che «un omino con un cervello grande un terzo rispetto al nostro e una corporatura tipica di forme di più di 2 milioni di anni fa, pur esibendo qui e là caratteri sorprendentemente moderni, si aggirava nelle stesse zone in cui stavano emergendo umani già pienamente moderni». Una datazione, osserva Parravicini, che pone agli studiosi di evoluzione non pochi problemi. Dirks colloca Homo Naledi «in un momento in cui troviamo molti strumenti in Africa. E ciò significa che non è più possibile dare per scontato che questi strumenti siano stati costruiti dai primi Homo Sapiens».Un’ulteriore scoperta, aggiunge Parravicini, è stata fatta in un’altra grotta del complesso di Rising Star. Nella Lesedi Chamber, posta a un centinaio di metri dalla Dinaledi Chamber e a trenta metri di profondità, sono stati trovati altri 131 reperti fossili associati a Homo Naledi, appartenenti almeno a tre individui, due adulti e un individuo molto giovane, presumibilmente di età inferiore a 5 anni. Da questi ultimi ritrovamenti è emerso «uno dei più completi scheletri mai scoperti, tecnicamente più completo del famoso fossile di Lucy grazie alla conservazione del cranio e della mandibola». Accedere alla Lesedi Chamber è ancora più difficile rispetto alla Dinaledi. E questo, rileva John Hawks, antropologo all’Università di Wisconsin-Madison, «dà peso all’ipotesi che Homo Naledi sfruttasse luoghi scuri e remoti per conservare i suoi morti». Un comportamento analogo a quello ipotizzato per i 6.500 resti umani trovati a Sima de los Huesos, nella Sierra de Atapuerca in Spagna, in cui pare che anche Neanderhtal occultasse i propri compagni morti già 400.000 anni fa. «Ma l’aspetto sconcertante – osserva Parravicini – è che questo comportamento, profondamente tipico di noi esseri umani, di prenderci cura dei nostri simili anche dopo la loro morte, possa essere condiviso da una forma umana da un cervello grande come quello di un gorilla».Ma, in definitiva, cos’è questa bizzarra specie umana vissuta alle soglie della storia? E come va collocata all’interno dell’intricato cespuglio dell’evoluzione umana? Secondo Chris Stringer del National History Museum di Londra, Homo Naledi potrebbe essersi originato in un’epoca vicina all’emergere del genere Homo, più di 2 milioni e mezzo di anni fa, suggerendo che si tratti di una “specie fossile”, un relitto evolutivo isolato che ha mantenuto molti tratti primitivi sviluppati parecchio tempo prima. Qualcosa di analogo potrebbe essere accaduto anche a Homo Floresiensis, un’altra misteriosa specie rinvenuta sull’isola di Flores, in Indonesia, denominata “hobbit” per il corpo piccolo ed esile, i cui più recenti rappresentanti sono vissuti fino a 60.000 anni fa, forse «diretti discendenti di una popolazione di antenati di Homo Habilis». Tuttavia, fa notare Stringer, le condizioni di isolamento dello “hobbit” di Flores (Isole della Sonda) hanno senz’altro contribuito alla sua grande longevità, mentre nel caso del Naledi lo scenario è quello sudafricano, aperto, in cui si aggiravano altre forme ben più “avanzate” di esseri umani, dal cervello molto più grande. Lee Berger e colleghi accarezzano l’idea che Homo Naledi possa addirittura essere «il frutto di un’ibridazione tra una specie tarda di australopitecina e una popolazione più simile a una specie umana». Quel che è certo, conclude Parravicini, è che la storia evolutiva del nostro genere diventa sempre più intricata e complessa: in altre parole, quel che credevamo di sapere non era esatto.Sono passati meno di due anni dall’annuncio della scoperta di una nuova specie umana, l’Homo Naledi, in una grotta sudafricana contenente più di 1.500 reperti fossili. La morfologia di questa specie, scrive Andrea Parravicini su “Micromega”, è un sorprendente mix di caratteri “trattenuti”: un cervello piccolo, una corporatura somigliante a un’australopitecina (come la famosa Lucy) o ai primi rappresentanti del genere Homo, mescolata a caratteri “derivati”, più “moderni”, come le mani adatte a manipolare oggetti o i piedi da camminatore bipede. Recenti studi collocano questa specie in un’epoca sorprendentemente recente, contemporanea all’emergere dei primi umani moderni, e che confermano la possibilità di comportamenti complessi, o addirittura simbolici, da parte di questa strana ed enigmatica creatura. Nel ssettembre 2015, la rivista scientifica “eLife” annunciava la scoperta, avvenuta circa un anno e mezzo prima. In lingua Sotho, “Naledi” significa “stella”: «Una stella nel firmamento dell’evoluzione umana che oggi, a distanza di quasi due anni, continua a brillare intensamente, soprattutto per via dei nuovi dettagli e di ulteriori scoperte che alimentano interesse e curiosità riguardo a questo nostro misterioso “cugino”».
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Geologo: quei solchi di pneumatici hanno 12 milioni di anni
Fa un certo effetto ascoltare la dichiarazione del dottor Alexander Koltypin, se non altro per il fatto che si tratta di un geologo e direttore del Natural Science Research Center presso l’Università Internazionale Indipendente di Ecologia e Politologia di Mosca. Secondo il ricercatore russo, in diverse località del pianeta è possibile osservare solchi di pneumatici lasciati nel terreno da veicoli pesanti che si possono far risalire a circa 12 milioni di anni fa.Come è possibile? Certamente si tratta di un’affermazione discutibile, dal momento che l’archeologia classica fa risalire l’inizio della civiltà umana a diverse migliaia di anni fa, non milioni. Eppure, Koltypin si dice convinto che sul nostro pianeta esistono numerosi siti archeologici dove è possibile riscontrare indizi che avvalerebbero l’esistenza di civiltà vissute milioni di anni fa. Koltypin è un appassionato sostenitore di questa teoria, tanto da aver denominato il suo sito web ‘Earth before the flood: Disappared Continents and Civilizations‘ (La Terra prima del Diluvio: Continenti e Civiltà scomparse).È proprio dal suo sito che il ricercatore russo afferma che le tracce riscontrate nel sito spagnolo di Castellar de Meca, nella provincia di Valencia, risalirebbero al Miocene medio e tardo (tra i 12 e i 14 milioni di anni fa circa). Il villaggio di Castellar de Meca è un sito archeologico unico nel suo genere. Le rovine mostrano un insediamento fortificato praticamente scavato nella roccia. Gli archeologi ‘ortodossi’ fanno risalire i primi insediamenti umani all’età del bronzo. Koltypin si riferisce all’unico accesso alla cittadella fortificata chiamato “Camino Hondo” sul cui fondo sono impresse le tracce parallele. La spiegazione ufficiale è che si tratta di solchi lasciati dal passaggio di carri trainati da animali. Ma Koltypin non è soddisfatto: «Io non accetto queste spiegazioni», scrive il ricercatore. «I solchi sono troppo profondi per essere stati lasciati da mezzi così leggeri. Dobbiamo pensare a veicoli notevolmente più pesanti».All’epoca il terreno doveva essere umido e morbido, come argilla malleabile. Muovendosi su di esso, un veicolo di grandi dimensioni sarebbe affondato facilmente nel fango, lasciando la doppia traccia di pneumatico. Secondo Koltypin, questi ipotetici veicoli presentavano dimensioni simili ai fuoristrada moderni, ma con pneumatici larghi 23 centimetri. Con il passare degli eoni, il fango si sarebbe pietrificato, lasciando impresse le caratteristiche tracce per i milioni di anni a venire. Lo studio condotto dal ricercatore russo sui depositi minerali che rivestono le tracce e la loro erosione, mostrerebbero la loro incredibile antichità. Sebbene la pietrificazione possa avvenire in poche centinaia di anni, o addirittura pochi mesi, Koltypin sostiene che in questo caso non ci sarebbero dubbi a far risalire le tracce al Miocene. Koltypin ha condotto numerosi studi sul campo in varie località, con diverse pubblicazioni su riviste di geologia. Il ricercatore ipotizza che oltre 12 milioni di anni fa esistesse una rete di strade diffusa in tutto il Mediterraneo.Solchi di ruote pietrificati con caratteristiche simili sono state riscontrate a Malta, in Turchia, Italia, Kazakistan e Francia. A suo avviso, queste strade sarebbero state utilizzate dalle stesse persone che hanno costruito città sotterranee come Derinkuyu, in Cappadocia. Secondo l’archeologia ufficiale, le tracce pietrificate sarebbero state lasciate da diverse civiltà in diversi periodi di tempo. Koltypin, invece, ritiene che esse vadano attribuite ad un’unica civiltà diffusa su tutto il pianeta esistita in un’epoca estremamente remota. Il nostro pianeta ha circa 4,5 miliardi di anni e un passato geologicamente turbolento. Koltypin spiega che eventi geologicamente distruttivi come tsunami, eruzioni vulcaniche, movimenti tettonici e impatti meteoritici possano aver spazzato via gran parte dei resti di queste antichissime civiltà. «Senza significativi ulteriori studi da parte dei grandi gruppi di archeologi, geologi ed antropologi, rimane impossibile rispondere alle domande su queste civiltà dimenticate», conclude Koltypin. «Lo ricorderò sempre a me stesso… molti altri abitanti del nostro pianeta sono stati cancellati dalla nostra storia».(“Geologo russo: in Spagna ci sono tracce di pneumatici antiche 12 milioni di anni”, dal blog “Il Navigatore Curioso”).Fa un certo effetto ascoltare la dichiarazione del dottor Alexander Koltypin, se non altro per il fatto che si tratta di un geologo e direttore del Natural Science Research Center presso l’Università Internazionale Indipendente di Ecologia e Politologia di Mosca. Secondo il ricercatore russo, in diverse località del pianeta è possibile osservare solchi di pneumatici lasciati nel terreno da veicoli pesanti che si possono far risalire a circa 12 milioni di anni fa. Come è possibile? Certamente si tratta di un’affermazione discutibile, dal momento che l’archeologia classica fa risalire l’inizio della civiltà umana a diverse migliaia di anni fa, non milioni. Eppure, Koltypin si dice convinto che sul nostro pianeta esistono numerosi siti archeologici dove è possibile riscontrare indizi che avvalerebbero l’esistenza di civiltà vissute milioni di anni fa. Koltypin è un appassionato sostenitore di questa teoria, tanto da aver denominato il suo sito web ‘Earth before the flood: Disappared Continents and Civilizations‘ (La Terra prima del Diluvio: Continenti e Civiltà scomparse).
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Schermata blu e computer bloccato? Sono i raggi cosmici
Sono diventate tristemente famose le schermate blu della “morte” (conosciute come Bsod – Blue Screen Of Death), tanto diventare una caratteristica peculiare di Windows, il sistema operativa targato Microsoft. Quante volte ci siamo ritrovati a perdere il lavoro proprio a causa di un Bsod? Incappare in un Bsod è la cosa peggiore che possa capitare ad un utente Windows, poiché tale tipologia di crash è provocata da fattori spesso indipendenti dall’utente e dal software in uso. Ma c’è un fattore nuovo che nessuno aveva considerato: la causa delle maledette schermate blu potrebbe venire dallo spazio profondo. Secondo una recente ricerca, presentata nel corso del meeting annuale dell’American Association for the Advancement of Science, talvolta il ‘crash’ può essere indotto dall’interferenza tra la Ram del dispositivo e le particelle subatomiche cariche generate dai raggi cosmici provenienti dal di fuori del Sistema Solare. La Terra è costantemente bombardata da raggi cosmici che scontrandosi con l’atmosfera generano una cascata di particelle secondarie – neutroni energicamente carichi, muoni, pioni e particelle alfa – che travolge tutto, esseri umani compresi, come un torrente subatomico.Nonostante questo incredibile numero, le particelle in arrivo non producono nessun danno alle nostre cellule; ma a risentirne possono però essere i dispositivi elettronici: quando le particelle cariche raggiungono i circuiti integrati possono modificare i pacchetti di dati immagazzinati nella memoria e mandare in tilt il dispositivo. A farne le spese non sono solo i Pc equipaggiati con Windows, ma tutti i dispositivi elettronici più comuni, come smartphone, tablet e laptop, i quali spesso manifestano misteriosi blackout. Si tratta di un enorme problema, considerando la dipendenza della nostra società dalla tecnologia. Riconoscere questi effetti è difficilissimo, e solo indagini molto approfondite posso portare a riconoscerli; esempi noti si sono registrati nel 2003, quando in Belgio un bit “impazzito” assegnò ad un candidato un numero di voti impossibile in un’elezione politica, e nel 2008, quando il pilota automatico dell’Airbus 330 della Qantas decise di disattivarsi da solo, costringendo i piloti ad un atterraggio di emergenza.Secondo gli ultimi studi, un cellulare da 500 kilobyte di memoria può incorrere nell’errore in media una volta ogni 28 anni, un router da 25 giga è soggetto ad un’interruzione ogni 17 ore, un passeggero che voli a quota 10.000 chilometri e utilizzi un laptop con 500 kilobyte di Ram può vedere il proprio dispositivo andare in tilt una volta ogni 5 ore. Il gruppo di ricercatori che ha preso in esame gli effetti dei raggi cosmici sui chip dei computer di 8 generazioni, inclusi gli attuali che hanno transistor grandi solo 16 nanometri: le analisi confermano che il tasso di fallimento di un’operazione indotto da un cortocircuito elettrico generato dall’interferenza di una particella proveniente dallo spazio è di 1 ogni miliardo di ore/lavoro. Una percentuale bassissima ma preoccupante se consideriamo che ci sono miliardi di transistor nella maggior parte dei dispositivi che utilizziamo e miliardi di sistemi elettronici nella nostra vita.(“La maledetta schermata blu di Windows? Colpa dei raggi cosmici”, dal blog “Il Navigatore Curioso”, agosto 2017).Sono diventate tristemente famose le schermate blu della “morte” (conosciute come Bsod – Blue Screen Of Death), tanto diventare una caratteristica peculiare di Windows, il sistema operativa targato Microsoft. Quante volte ci siamo ritrovati a perdere il lavoro proprio a causa di un Bsod? Incappare in un Bsod è la cosa peggiore che possa capitare ad un utente Windows, poiché tale tipologia di crash è provocata da fattori spesso indipendenti dall’utente e dal software in uso. Ma c’è un fattore nuovo che nessuno aveva considerato: la causa delle maledette schermate blu potrebbe venire dallo spazio profondo. Secondo una recente ricerca, presentata nel corso del meeting annuale dell’American Association for the Advancement of Science, talvolta il ‘crash’ può essere indotto dall’interferenza tra la Ram del dispositivo e le particelle subatomiche cariche generate dai raggi cosmici provenienti dal di fuori del Sistema Solare. La Terra è costantemente bombardata da raggi cosmici che scontrandosi con l’atmosfera generano una cascata di particelle secondarie – neutroni energicamente carichi, muoni, pioni e particelle alfa – che travolge tutto, esseri umani compresi, come un torrente subatomico.