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Rampini: il grande ritorno dei Padroni dell’Universo
C’é un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».“Time Magazine” invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta: «L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto», scrive Rampini su “Repubblica” in un’analisi ripresa da “Micromega”. Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. «È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini». Intanto, “Time” saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica “Forbes” dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali».La sua carriera, ricorda Rampini, cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, “Barbari alle porte”). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs. «E qui viene la sorpresa: invece di assalire Apple con una delle solite scorribande finanziarie mordi-e-fuggi, Icahn si fa il paladino di interessi generali», perché «Apple non è una banca». Icahn vuole che la regina degli iPhone e iPad la smetta di accumulare cash inutilizzato (ben 150 miliardi di dollari, una montagna di liquidità tanto impressionante quanto assurda) e lo distribuisca a tutti gli azionisti – lui incluso, ovviamente, che nel capitale di Apple ha investito due miliardi. Ma l’operazione che Icahn pretende da Apple distribuirebbe benefici anche ai piccoli risparmiatori. «I Padroni dell’Universo si sono convertiti come dei Robin Hood? Tutt’altro. Ma almeno il loro è un capitalismo vero, un’economia di mercato non ingessata».Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. «È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni». Fondata nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. «Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (Jp Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble». Una peculiarità di Blackrock la distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street: «Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa». Soprattutto, Blackrock investe capitali che le vengono affidati anche dai piccoli risparmiatori, per esempio attraverso fondi pensione. «Dunque, a differenza della famigerata e defunta Lehman Brothers o di altre banche d’affari che si rivelarono fragilissime, un investitore istituzionale come Blackrock ha poco “rischio sistemico”».In un certo senso, continua Rampini, la Blackrock ha obbedito anticipatamente alla nuova regola varata solo da poche settimane dall’amministrazione Obama, quella Volcker Rule che vieta ai banchieri di fare speculazioni rischiose coi propri capitali. «È un altro caso di Padrone dell’Universo che può aiutare l’economia di mercato a evitare catastrofi come quella del 2008? Di certo l’universo capitalistico in cui si muove Blackrock dista anni-luce dalla realtà italiana. Per quanto sia un colosso, e grosso azionista di gruppi come Apple, Google, Shell e Nestlè, Toyota e Novartis, in nessuna di queste aziende la sua quota configura una “minoranza di blocco”. Né fa parte di patti di sindacato, che generalmente non esistono a Wall Street e nei mercati più evoluti. Blackrock può usare la frusta verso un management che giudica inefficiente, ma non ha poteri di veto né si può permettere di paralizzare una grande azienda».Il ritorno dei Padroni dell’Universo, aggiunge Rampini, è un fenomeno dalle molte facce. «L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008», in particolare «la finanziarizzazione dell’economia e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata». Larry Summers, ex consigliere economico di Obama, in un importante discorso al Fmi ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.Il “lato positivo” di Wall Street, se esiste, forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza: «Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale». Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera 200.000 nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che «ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere». La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. «Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione».In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, conclude Rampini: è la “macchina del mercato” che, negli Usa, «ha ripreso a girare a pieno ritmo».C’è un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».
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Jekyll Island: il golpe dei banchieri che crearono la Fed
Jekyll Island, 1910, ovvero l’isola dei pirati di lusso. Un gruppo di banchieri e politici sbarca nell’isola di Jekyll (Georgia) dopo un viaggio segreto in treno. Provengono dalla stazione di Hoboken, nel New Jersey, dove i giornalisti li avevano appena intravisti. Se li erano lasciati sfuggire, costernati, ma non potevano sapere che la “delegazione” era svicolata con un vagone ermeticamente chiuso, tendine abbassate, per una destinazione sconosciuta. Il senatore Nelson Aldrich guida la delegazione, in qualità di capo della Commissione Monetaria Nazionale. Tre anni prima, c’era stato un panico tragico per la crisi finanziaria e nel 1908, il presidente Theodor Roosevelt aveva creato una Commissione per stabilizzare il sistema monetario nella federazione, e Aldrich aveva condotto i membri della Commissione per una tournée in Europa di due anni: costo, 300.000 dollari dell’epoca, naturalmente a spese del contribuente americano. Dopo tanto tempo, nel 1910, Aldrich non aveva né redatto il rendiconto del viaggio né – meno che mai – abbozzato la riforma bancaria.Alla stazione di Hoboken, Aldrich era accompagnato da suo segretario particolare, Shelton, dal Segretario aggiunto al tesoro, Piatt Andrew, dal presidente della National City Bank, Frank Vanderlip, dall’associato della J.P Morgan, Henry Davison, dal presidente della First National Bank, Charles Norton, da un altro rappresentante della J.P. Morgan, Benjamin Strong, e da Paul Warburg, della banca Kuhn, Loeb &Co. di New York. Si imbarcarono su una vedetta misteriosa, diretta a Jekyll Island, e non tutti sapevano la portata né la durata del soggiorno laggiù. Il senatore Aldrich aveva confidato solo a Henry, Frank, Paul e Piatt che la delegazione sarebbe rimasta in clausura nell’isola sino a quando non avesse elaborato un sistema monetario “scientifico” per gli Stati Uniti.Il Club di Jekyll lsland lavorerà per due settimane. Nell’isola è già rappresentato un sesto dell’intera ricchezza mondiale. Non è gente che si accontenta. Ha bisogno di assicurarsi l’eternizzazione dell’immenso potere finanziario e politico acquisito. Vedremo in un prossimo articolo il percorso che farà il lavoro da cospiratori, sino al fatidico dicembre 1913, durante il primo anno del presidente Woodrow Wilson. Sono dunque passati cento anni dalla nascita del Federal reserve system, che non è né federale, né riserva, ma semplicemente un potere di alcuni oligarchi di creare moneta e credito per il proprio profitto.(Agostino Alciator, “Fed, centenario di un colpo di Stato”, da “Megachip” del 1° gennaio 2014. Già diplomatico, console italiano in Francia, Alciator è responsabile esteri di “Alternativa”, laboratorio politico fondato da Giulietto Chiesa).Jekyll Island, 1910, ovvero l’isola dei pirati di lusso. Un gruppo di banchieri e politici sbarca nell’isola di Jekyll (Georgia) dopo un viaggio segreto in treno. Provengono dalla stazione di Hoboken, nel New Jersey, dove i giornalisti li avevano appena intravisti. Se li erano lasciati sfuggire, costernati, ma non potevano sapere che la “delegazione” era svicolata con un vagone ermeticamente chiuso, tendine abbassate, per una destinazione sconosciuta. Il senatore Nelson Aldrich guida la delegazione, in qualità di capo della Commissione Monetaria Nazionale. Tre anni prima, c’era stato un panico tragico per la crisi finanziaria e nel 1908, il presidente Theodor Roosevelt aveva creato una Commissione per stabilizzare il sistema monetario nella federazione, e Aldrich aveva condotto i membri della Commissione per una tournée in Europa di due anni: costo, 300.000 dollari dell’epoca, naturalmente a spese del contribuente americano. Dopo tanto tempo, nel 1910, Aldrich non aveva né redatto il rendiconto del viaggio né – meno che mai – abbozzato la riforma bancaria.
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Energia, iniziata la grande corsa ai forzieri dell’Artico
Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.L’economia della Russia è fortemente dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas, e il governo conta molto su queste vendite per il reddito nazionale. Fino a poco tempo fa, per soddisfare le loro esigenze energetiche, i russi potevano attingere dai giacimenti nella Siberia occidentale, ma ora, considerato il declino di molti di questi depositi, fanno molto affidamento alle riserve artiche per mantenere gli attuali livelli di produzione. «Il nostro compito principale è di rendere l’Artico la prima risorsa per la Russia del 21° secolo», dichiarò nel 2008 l’allora presidente Dmitrij Medvedev. I russi hanno esplorato le varie opzioni di trivellazione in diverse aree offshore dell’Artico. Nel Mare Pechora, a nord della Siberia nordoccidentale, il gigante dell’energia russo Gazprom ha installato la sua piattaforma Prirazlomnaya — proprio quella che gli attivisti di Greenpeace hanno preso d’assalto. Più a est, nel Mar Kara, il gruppo statale Rosneft sta collaborando con la Exxon Mobil per lo sviluppo di giacimenti molto promettenti.Rosneft si è anche associata alla Statoil norvegese e all’Eni Italiana per esplorare il potenziale di sfruttamento nel Mar di Barents. Ma è molto difficile che sia solo la Russia a tentare di aprire i forzieri dell’Artico. La Norvegia, come la Russia, trae gran parte delle sue entrate proprio dalle esportazioni di gas e petrolio, e punta molto sullo sfruttamento delle riserve del Mar di Barents per compensare la forte contrazione produttiva rilevata nei suoi giacimenti nei Mari del Nord e della Norvegia. Ci sono anche altre zone dell’Artico nel mirino di altri paesi: la Cairn Energy di Edimburgo ha appena aperto dei pozzi di esplorazione nelle acque a largo della Groenlandia, ad esempio, mentre la Royal Dutch Shell sta tentando l’esplorazione di campi a largo dell’Alaska.Nonostante tutte le sue promesse, l’Artico non cederà facilmente le sue ricchezze. In inverno, il ghiaccio copre costantemente le superfici marine e tempeste violente e frequenti sono un continuo pericolo. Il riscaldamento globale potrebbe, in qualche modo, contribuire a ridurre il ghiaccio nei periodi estivi e autunnali, permettendo così trivellazioni più prolungate, ma allo stesso tempo potrebbe causare condizioni meteorologiche inusuali e incontrollate ed altri pericoli correlati. Altro rischio che si aggiunge: molte delle linee di confine nella regione artica, sono ancora da demarcare e alcuni paesi artici hanno già minacciato di ricorrere alla forza militare nel caso in cui le compagnie energetiche occupino aree che considerate di loro sovranità.Le ardue sfide che l’Artico pone al suo sfruttamento hanno già intimorito la Shell, che ha speso 4,5 miliardi di $ per l’esplorazione offshore in Alaska, ma che ancora non è riuscita a trivellare un solo pozzo. Alcune di queste sfide sono perfettamente legali – comunità indigene e ambientalisti, nel timore di contaminazioni delle loro acque e danni alla natura, hanno già diffidato le compagnie dal trivellare. Inoltre, l’Artico in sé ha già dato prova di essere un avversario formidabile. Nell’estate del 2012, durante il primo tentativo della Royal Dutch Shell di sondare i depositi artici, le operazioni di trivellazione furono interrotte da venti battenti e placche di ghiaccio galleggianti. Diversi mesi dopo, quando una delle teste dei pozzi franò al suolo durante una violenta tempesta, la Shell annunciò che avrebbe sospeso le operazioni offshore in Alaska e che, prima di procedere ulteriormente, avrebbe rafforzato le proprie capacità operative nella zona.Le disavventure della Shell hanno anche consolidato il timore che trivellare nell’Artico ponga alla regione una minaccia considerevole. Nell’evento di una importante fuoriuscita petrolifera, il danno conseguente sarebbe molto più grave e distruttivo di quello causato nel Golfo del Messico dalla Deepwater Horizon nell’aprile 2010, sia per la mancanza di adeguate capacità di risposte operative, sia per la probabilità che il ghiaccio impedisca seriamente le operazione di bonifica. Mentre sempre più compagnie si spingeranno nell’Artico accelerando le loro attività esplorative, aumenteranno di conseguenza le probabilità di incidenti e fuoriuscite. Il fatto che la Shell – una delle compagnie petrolifere tecnologicamente più avanzate – si sia finora dimostrata incapace di superare questi rischi, accresce la preoccupazione che in quelle acque pericolose si trovino presto ad operare altre compagnie meno preparate ed efficienti.Cresce anche il rischio di conflitti sulla proprietà di territori contesi. Cinque paesi artici hanno già rivendicato diritti esclusivi di trivellazione su aree di confine rivendicate anche da altri paesi, mentre resta ancora controverso il controllo sulla regione polare in generale. In un’area «con un potenziale energetico che rappresenta un quarto delle riserve mondiali inesplorate di gas e petrolio», ha detto recentemente il ministro della difesa statunitense Chuck Hagel, «è prevedibile che l’ondata di interesse nell’esplorazione energetica nell’area possa aumentare le tensioni su altri argomenti controversi». Fino ad oggi nessuna di queste dispute ha provocato una risposta di tipo militare, e gli Stati artici si sono impegnati ad astenersi dal farlo in futuro. Tuttavia, quasi tutti i paesi artici hanno anche affermato il loro diritto di difesa dei propri territori offshore con la forza, e hanno anche preso le necessarie misure per rafforzarsi in questo senso. La Russia, ad esempio, ha recentemente annunciato dei programmi definiti “di infrastruttura militare di punta” nell’Artico.Niente, comunque, potrebbe scoraggiare altri paesi interessati. Considerando l’altissima richiesta mondiale di petrolio e l’incapacità dei pozzi esistenti di soddisfarla, le maggiori compagnie energetiche tenteranno ogni possibile strada per aumentare la produzione. E’ quindi essenziale che siano posti subito dei limiti chiari e rigorosi alle operazioni di trivellazione nell’Artico, in modo da ridurre le tensioni esistenti nell’area. Sono stati fatti dei progressi nell’ambito del Consiglio Artico, un foro di consultazione delle nazioni artiche. Ma resta ancora molto da risolvere. Un modo per stabilire formalmente delle regole precise potrebbe essere l’adozione di un Trattato Artico, sulla falsariga del Trattato Antartico del 1959. Come avvenne per quest’ultimo, un accordo siglato dai paesi artici stabilirebbe dei precisi confini marittimi e dei limiti alle attività militari. Potrebbe anche imporre delle regole ambientali e garantire un passaggio sicuro alle imbarcazioni civili che navigano sui mari artici. E infine, diciamolo: nessun gas e nessun petrolio potrà mai giustificare la distruzione della natura locale o una corsa agli armamenti nell’Artico.(Michael T. Klare, “E’ iniziata la corsa ai forzieri dell’Artico”, dal “New York Times” dell’8 dicembre 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.
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Nuova Resistenza, contro chi ha tradito l’Italia per l’Ue
La Costituzione italiana del 1948 fu il prodotto di un processo costituente reso necessario dal tradimento delle classi dirigenti che avevano abbandonato la guida del paese e svenduto la sua sovranità a interessi e paesi stranieri. Fu anche il tentativo di rimettere in piedi un progetto condiviso tra forze politiche, sociali, culturali e religiose diverse ma concordanti su alcuni punti centrali di pace, di giustizia sociale, di valorizzazione delle risorse nazionali e di rilancio di un contributo autonomo dell’Italia alla realizzazione di questi obiettivi in e con la solidarietà di altri paesi. Il progetto europeo fu il prodotto di queste scelte e di questo clima politico, e non certo d’illuminati europei delle cancellerie degli Stati o di intellettuali impegnati nella elaborazione delle teorie sulla pace universale.L’Europa di Ernesto Rossi e di Altiero Spinelli nacque dal bisogno di contrapporre all’idea nazista della Grande Europa l’idea internazionalista di un’Europa di pace e solidarietà. La rottura del patto costituzionale, già incrinato dalle imposizioni della Guerra Fredda, si realizza dagli anni Novanta con la scelta di parti importanti delle élite politiche di svendere la sovranità politica del paese e le ricchezze nazionali per inserirsi nel gioco dei nuovi centri internazionali del potere militare, economico e finanziario. I passaggi principali di questo trasfigurazione del patto costituzionale sono noti e documentati. L’ex ministro delle finanze Giuseppe Guarino ne ha dato un resoconto puntuale nel suo scritto “Un saggio di verità sull’Europa e sull’euro” nel quale data al 1999 il “colpo di Stato” attuato dai poteri europei contro gli Stati nazionali espropriandoli della loro sovranità economica.L’euro è parte integrante di questa operazione resa possibile dal trasformismo (Mauro Fotia, “Il consociativismo infinito”, 2011) di parte delle élite nazionali dei paesi europei, e dell’adesione corporativa a questo piano da parte di sindacati, sinistra europea, organi separati del potere (istituzioni, magistratura, ecc.) interessati a negoziare la propria adesione alla nuova struttura del potere con la conservazione dei propri privilegi (Giulio Sapelli, “Chi comanda in Italia”, 2013). Sono gli anni in cui si organizza scientificamente la conquista del potere da parte della borghesia globale, mettendo fuori gioco le istituzioni democratiche esistenti mediante la loro delegittimazione sistematica, fino allo stravolgimento del sistema politico italiano attuato su direttiva della Troika e dei nuovi poteri finanziari nel 2011 (governo Monti e seguenti).Questo piano si realizza con la copertura del polverone mediatico che utilizza le sue armi di confusione di massa per dividere le opposizioni e le voci critiche su falsi obiettivi: pro o contro l’Europa, pro o contro l’euro, pro o contro la Costituzione, pro o contro la democrazia, pro o contro la corruzione. Su queste false divisioni si realizza l’unità delle nuove élite europee che assorbono le élite politiche nazionali dentro il nuovo meccanismo del potere trasversale ai partiti e ai poteri economici. Mentre l’attenzione si concentra sui “faccendieri”, sui “furbetti” sul “bunga bunga”, le P4 o P5, la Troika consolida il proprio potere sparando nel mucchio e rimuovendo con l’appoggio di pezzi delle istituzioni da incarichi istituzionali le persone “inaffidabili” al nuovo sistema di potere (da Baffi a Fazio).Si consolida così un sistema di potere autoritario in grado di controllare le politiche e le economie di tutti i paesi europei dei quali prende sempre più in presa diretta la gestione del potere. Un sistema di potere “criminale” del “capitalismo predatorio”, secondo la definizione utilizzata da James K. Galbraith per descriverne l’equivalente negli Stati Uniti. La resistenza a tutto questo c’è stata dagli anni Ottanta anche nel campo della cultura e della società civile. Tre voci a noi ben note, definite “gli innominati” della politica e dell’economia, sono state quelle di Federico Caffè, di Augusto Graziani e di Paolo Sylos Labini. Tre voci rapidamente isolate e marginalizzate da una sinistra e forze della società civile impegnate a ritagliarsi spazi “critici” e di proprio inserimento e sopravvivenza dentro le nuove strutture del potere. Tre voci che non hanno mai confuso il diritto con l’economia, le teorie con il progetto politico, ma che hanno tentato e potentemente contribuito a servirsi di questi strumenti per tenere la dritta di un processo di costruzione democratica e sociale.La loro biografia documenta la loro attiva partecipazione e intreccio con il processo costituzionale. Il loro impegno di studio ha contribuito in modo veramente innovativo, con una innovazione a servizio dei cittadini e non del principe o dei baroni di turno, ad aprire nuove vie alla riflessione e alla elaborazione politica. Basta ricordare qui il contributo di Federico Caffè a creare le basi teoriche per una economia sociale e uno spirito civico di solidarietà sul quale far convergere pezzi diversi e importanti della cultura economica e civile italiana, al di fuori delle schematizzazione delle scuole accademiche. Uno sforzo ostacolato da chi allora propugnava approcci più o meno marxisti e che ritroviamo oggi nelle file del pensiero liberista e nei posti del potere economico e finanziario.Interrompendo due decenni di contrapposizioni teoriche sull’analisi di classe della società italiana, con le quali i partiti e il sindacato hanno reso impossibile ogni strategia politica di alleanze sociali che non fosse quella del loro schema preferito della “compartecipazione” al potere dominante, Paolo Sylos Labini produsse una riflessione sulle classi sociali in Italia a metà degli anni Settanta nel tentativo di riaprire uno spazio di iniziativa politica non corporativa e non trasformistica alla creazione di un sistema politico di alleanze popolari in Italia. Impegno contrastato da gran parte della cultura istituzionale e di sinistra in Italia. Infine è utile richiamare anche il contributo di Augusto Graziani, un economista di chiara impostazione marxista, che mai ha piegato l’analisi della questione meridionale alle mode sociologiche di sinistra degli anni Ottanta-Novanta orientate ad addomesticare il problema sociale e di classe del Mezzogiorno ai nuovi bisogni del potere che si è cercato di legittimare con la tesi della scomparsa della questione meridionale, dei distretti chiavi in mano importati dal nord, ecc.; tesi sostenute da chi è passato dalle posizioni di sinistra di riviste come i “Quaderni Piacentini”, “Stato e Mercato” a quelle di “Meridiana” e, poi, a posizioni accademiche e politiche di potere.Noi vogliamo ripartire da qui, dalla consapevolezza che il tradimento che ancora una volta si è consumato in questi anni, e che vede oggi coinvolte forze politiche, economiche e “sindacali”, richiede la nascita di una nuova resistenza, l’unione di tutte le forze popolari che vi si oppongono. Sarà la partecipazione a questa nuova resistenza a segnare i confini dell’appartenenza dei movimenti e dei partiti al nuovo arco costituzionale, all’elaborazione di un patto costituzionale così come fu dopo il 1945. Non esistono scorciatoie giuridiche o economiche per riappropriarsi della sovranità nazionale e del progetto europeo. Quanto è accaduto non è il frutto di ingordigia, di ignoranza, ma di una rapina annunciata e scientificamente attuata del potere.Non siamo in presenza di errori o di fallimenti, ma del pieno successo delle strategie messe in campo. La crisi ha segnato in modo chiaro i confini geografici e sociali delle forze in campo; partendo da questi deve ripartire la formazione di un blocco sociale e politico europeo e nazionale. Le proposte su come affrontare la situazione esistono. Non si tratta di aggiungere buone idee a quelle esistenti, di continuare nella gara sulle “buone pratiche” o della scoperta risolutiva dell’uovo di Colombo, ma di uscire dall’illusione del tecnicismo e del tatticismo. È necessario un grande sforzo di verità che sappia fondere insieme, così come fu con la Resistenza e la Costituente, proposte e movimenti popolari, scegliendo le idee sulla loro capacità di camminare sulle gambe delle persone coinvolte. Così come avvenne nel 1945 è necessario riproporre un progetto europeo di pace e di solidarietà che contrasti e travolga quello della Grande Germania, oggi espresso dalle istituzioni dell’Unione Europea.(Bruno Amoroso, “Un sistema europeo autoritario, quale alternativa”, dal blog “Insightweb”, ripreso da “Megachip” il 21 dicembre 2013).La Costituzione italiana del 1948 fu il prodotto di un processo costituente reso necessario dal tradimento delle classi dirigenti che avevano abbandonato la guida del paese e svenduto la sua sovranità a interessi e paesi stranieri. Fu anche il tentativo di rimettere in piedi un progetto condiviso tra forze politiche, sociali, culturali e religiose diverse ma concordanti su alcuni punti centrali di pace, di giustizia sociale, di valorizzazione delle risorse nazionali e di rilancio di un contributo autonomo dell’Italia alla realizzazione di questi obiettivi in e con la solidarietà di altri paesi. Il progetto europeo fu il prodotto di queste scelte e di questo clima politico, e non certo d’illuminati europei delle cancellerie degli Stati o di intellettuali impegnati nella elaborazione delle teorie sulla pace universale.
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Ortaggi vietati, sul nostro cibo l’ultimo diktat dell’Ue
Semi proibiti e nuovi vincoli per l’orticoltura. L’11 dicembre è scaduto il termine che i deputati del Parlamento Europeo avevano per presentare emendamenti al testo con il quale la Commissione di Barroso intende introdurre una nuova regolamentazione per il mercato delle sementi. Un testo molto criticato dalle associazioni che raccolgono le realtà contadine di base che si battono per un’agricoltura sostenibile, per la libera circolazione dei semi e per la preservazione della biodiversità. Il nuovo regolamento, infatti, punta a sostituire 12 precedenti direttive europee. Secondo l’associazione europea “Seed Freedom”, sono in arrivo «condizioni ancora più limitative e ulteriore standardizzazione delle sementi». Lo scambio dei semi «conoscerà nuove restrizioni». Conseguenza: «Ciò che costituisce la base del nostro cibo diventerà parte di regole di mercato». Per le varietà locali, gli ortaggi rari e i frutti antichi, il nuovo regolamento «significherà barriere burocratiche ed economiche che saranno molto difficili da oltrepassare», mentre «diventerà più complicato anche l’accesso alle varietà biologiche».Probabilmente, spiega Giovanni Fez su “Il Cambiamento”, la commissione agricoltura del Parlamento voterà sul testo a gennaio 2014 e qualche mese dopo ci sarà la votazione in plenaria prima che venga adottata la decisione definitiva dal Consiglio d’Europa. “Seed Freedom” chiama quindi a raccolta tutti i cittadini affinché facciano pressione sulle istituzioni europee per non far passare il testo così com’è stato redatto: «Con queste modalità spesso si arriva ad ignorare la salute pubblica, la biodiversità e gli aspetti etici della produzione alimentare e degli interessi comuni». E’ in pericolo anche l’economia locale dei territori, quella delle filiere corte. «Chi si prenderà a cuore gli interessi della società civile, dei cittadini, degli agricoltori biologici e dei consumatori?». Attenzione: «L’uniformità genetica delle sementi non potrà mai risolvere il problema della fame nel mondo; in molti casi questi semi non riescono ad adattarsi alle condizioni locali e hanno bisogno di grandi quantità di pesticidi e fertilizzanti». Al contrario, «l’agricoltura biologica, biodinamica e tradizionale cerca di sviluppare varietà che diano risposte alle esigenze del luogo e che si adattino alle condizioni specifiche per produrre in maniera sostenibile».Lo dimostra un recente progetto co-finanziato dalla stessa Unione Europea attraverso il programma Alcotra (cooperazione franco-italiana), che in due anni ha creato “una rete per le biodiversità transfrontaliere”, varietà locali di ortaggi tradizionalmente coltivati in Piemonte e in Provenza, grazie all’impegno di agricoltori-custodi che hanno salvaguardato le specie, scongiurandone l’estinzione. Può apparire un impegno hobbystico, ma non lo è: la lotta contro l’erosione genetica degli ortaggi garantisce un’offerta più ampia verso il consumatore locale, fatta di prodotti veramente a chilometri zero, con un taglio netto al costo dei trasporti e all’impatto negativo – anche ecologico – della grande distribuzione, a tutto vantaggio delle economie locali e degli stessi consumatori, a cui si offrono prodotti sani, di stagione, coltivati senza pesticidi. A coordinare il progetto sono stati centri di ricerca francesi come il Grab di Avignone (agricoltura biologica) e la stessa Aiab, associazione italiana per l’agricoltura biologica. Obiettivo del progetto: il libero scambio di semi tra contadini italiani e francesi, per mettere al riparo – una volta per tutte – l’immensa ricchezza costituita dalla biodiversità coltivata negli orti.In Italia a battersi per la modifica del testo di Bruxelles è ora la Rete Semi Rurali. «La revisione attuata dalla Commissione Europea deve tenere in considerazione quegli agricoltori e quei cittadini-consumatori che, ad oggi, sono stati dimenticati dalla legislazione». Infatti, «chi cerca varietà locali, tradizionali, non uniformi o con particolari caratteristiche organolettiche o qualitative non può trovarle sul mercato, a causa di una legislazione troppo restrittiva». Inoltre, la nuova normativa sementiera «deve rispettare gli obblighi internazionali firmati dall’Unione Europea e in particolare il trattato Fao sulle risorse genetiche agricole per l’alimentazione e l’agricoltura, favorendo l’uso sostenibile della diversità agricola, tutelando i diritti degli agricoltori e garantendo l’accesso facilitato per fini di ricerca e sperimentazione alle varietà commercializzate». Le grandi lobby del cibo, comprese le multinazionali degli Ogm, vedono la sovranità alimentare dei territori come fumo degli occhi. Il guaio è che Bruxelles si limita a prendere ordini da loro. Non resta che una mobilitazione per tentare di sbarrare la strada a chi vuole cancellare la concorrenza locale al grande business. Ora, riassume “Il Cambiamento”, i prossimi mesi saranno decisivi: dopo la tappa di gennaio «ci si giocherà veramente tanto, perché non dimentichiamolo: chi controlla i semi, controlla il cibo e quindi la vita».Semi proibiti e nuovi vincoli per l’orticoltura. L’11 dicembre è scaduto il termine che i deputati del Parlamento Europeo avevano per presentare emendamenti al testo con il quale la Commissione di Barroso intende introdurre una nuova regolamentazione per il mercato delle sementi. Un testo molto criticato dalle associazioni che raccolgono le realtà contadine di base che si battono per un’agricoltura sostenibile, per la libera circolazione dei semi e per la preservazione della biodiversità. Il nuovo regolamento, infatti, punta a sostituire 12 precedenti direttive europee. Secondo l’associazione europea “Seed Freedom”, sono in arrivo «condizioni ancora più limitative e ulteriore standardizzazione delle sementi». Lo scambio dei semi «conoscerà nuove restrizioni». Conseguenza: «Ciò che costituisce la base del nostro cibo diventerà parte di regole di mercato». Per le varietà locali, gli ortaggi rari e i frutti antichi, il nuovo regolamento «significherà barriere burocratiche ed economiche che saranno molto difficili da oltrepassare», mentre «diventerà più complicato anche l’accesso alle varietà biologiche».
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Bergoglio: no al liberismo, la tirannia che svuota lo Stato
«Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in Borsa». I media italiani ne hanno parlato poco, ma la nuova “esortazione apostolica” di Papa Francesco, “Evangelii Gaudium” (la gioia del vangelo) contiene una potente critica al capitalismo finanziario. «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”», scrive Bergoglio. «Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole». Conseguenza: «Grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita». Aggiunge il pontefice: «Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive».
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Un Comitato di Liberazione Nazionale contro le euro-tasse
Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.«La tragedia dell’economia attuale, quella del tuo reddito, del tuo mutuo e del futuro di tuo figlio – scrive Barnard nel suo blog – è che una generazione di miserabili economisti prezzolati a suon di parcelle dal Potere ha fatto dimenticare a tutti il Dna dell’economia per l’Interesse Pubblico, quella che veramente creò la ricchezza moderna. Così ci hanno guadagnato quattro porci di speculatori, sulla pelle di milioni». Ed è successo. «Immaginate: è come se Maria De Filippi, il Gabibbo, Jovanotti e Mammuccari ci avessero fatto dimenticare che il Dna della lingua italiana sono Dante, Petrarca, Foscolo, Carducci o Pavese e Moravia – infatti è successo anche questo, e la lingua che parliamo è una cosa abominevole». Barnard cita un economista democratico di 70 anni fa, Michal Kalecki: «Basterebbe ricordare che razza di genio illuminato era costui e che cuore aveva per l’interesse della gente». Meglio si capirebbe che «la penicillina della salvezza delle nostre vite economiche è stata annientata, nascosta, con risultati orripilanti sulla vita di tutti noi».Nel 2013, l’Italia si ritrova un governo «illegittimo», sorretto da un uomo come Napolitano, accusato di “cestinare” la Costituzione. «Il potere deve tornare ai cittadini», dice Barnard, attraverso un nuovo Cln come quello sorto nel 1943. Obiettivo, abbattere il “fascismo finanziario” di Bruxelles. Come? Con una sorta di rivolta fiscale. «Azione numero 1: Il reato di evasione fiscale è abolito. Lo decidono gli italiani per legittima difesa. Evaderemo tasse fino al raggiungimento del 9% di deficit, poiché le identità macroeconomiche dimostrano oltre ogni dubbio che il deficit dello Stato è la ricchezza di cittadini e aziende per la salvezza nazionale. O l’alza il governo (unitamente a un taglio delle tasse), o l’alziamo noi con l’evasione. Vita o morte dell’Italia è in gioco». Un appello che Barnard considera patriottico: «Nel nome della patria e della Costituzione italiana, oggi la salvezza del paese passa per l’evasione fiscale delle tasse dell’Economicidio impostoci dal fascismo tecnocratico europeo».Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.
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Liberarsi dall’euro, non-moneta fraudolenta e totalitaria
La nostra maledizione? Si chiama euro. «Più che una moneta, è un metodo di governo occulto, elitario, illegittimo, autoritario e antidemocratico». Una minaccia «che divide, anziché unire i popoli europei, col terrorismo della miseria (fuori dall’euro) e la promessa della prosperità (dentro l’euro)». Un mito, «falsificato in diverse varianti, a seconda della realtà socio-economica interna di ciascun paese». L’inizio della fine? Lo storico divorzio tra governi e banche centrali, dove queste ultime hanno cessato di fungere da “bancomat” degli Stati per sostenere la spesa pubblica. Di qui le “riforme strutturali” che prevedono stangate fiscali e misure recessive, privatizzazioni dei servizi, devastazione del lavoro con flessibilità, precarizzazione e licenziamenti facili. Era un piano preciso: togliere ossigeno agli Stati, azzoppando le economie democratiche a vantaggio delle élite. Lo spread? «Chiaramente pilotato dalla Bce, come “clava di ultima istanza” per costringere i governi periferici a imporre l’amara medicina».Obiettivo: smantellare lo Stato democratico – garante dei cittadini – per privatizzare tutto, a beneficio di pochi ricchissimi. E tutto questo, osserva Alberto Conti su “Megachip”, grazie a un alibi come il «falso dogma dell’indipendenza della politica monetaria ai fini della stabilità». Così, si è formata l’euro-burocrazia al servizio delle lobby economico-finanziarie, che di fatto si arrogano il diritto d’interpretare il processo di unificazione europea, «falsamente presentato con la persuasiva immagine progressista dei padri fondatori di un sogno, che in realtà si è trasformato in un incubo», soprattutto per paesi come l’Italia. Col maturare della crisi, «l’euro mostra sempre più la sua vera natura di moneta fraudolenta, con la funzione di idrovora della ricchezza pompata dal basso verso l’alto». Ma la cosa peggiore è che questi falsi ideologici «alimentano odio e false contrapposizioni d’interesse tra i popoli, in nome della “competitività nei liberi mercati”, senza mai specificare se fisici o finanziari, in una logica di commistione diabolica dove per salvare gli uni occorre distruggere gli altri».Che l’euro sia una non-moneta, continua Conti, lo testimonia il suo disegno strutturale fin dalla nascita (Maastricht, Bundesbank, Deutsche Bank), i cui esiti nefasti si stanno manifestando dopo poco più di un decennio dalla sua entrata in vigore, precipitati e aggravati dalla crisi finanziaria globale che ha il suo epicentro a Wall Street. Basta un raffronto dell’euro col dollaro – i debiti sovrani europei e quello federale Usa – per capire le analogie e le differenze della “nostra” (si fa per dire) moneta con quella di riferimento globale, cioè il dollaro di Bretton Woods, dal 1971 divenuto «la principale arma di contrapposizione ostile e violenta dell’impero col resto del mondo». Quanto all’euro, «da promessa di simbolo e motore economico dell’Unione Europea», si è presto rivelato essere il suo esatto opposto, cioè «strumento di prevaricazione di pochi sempre più ricchi sulle masse impoverite». Una vera «forza disgregatrice dell’Unione Europea, dopo i primi illusori anni». La catastrofe della periferia, però, è di tali proporzioni da travolgere di seguito anche il centro, che però un risultato lo ha comunque ottenuto: consolidare l’economia della Germania riunificata, “stabilizzando” un alleato strategico degli Usa.«Si pronuncia euro, copyright della Bce, ma si legge “potere della finanza globale neoliberista”», realizzato «attraverso la longa manus di un sistema bancario privatizzato e asservito agli interessi dell’élite, come già le corporation che monopolizzano i mercati fisici e il sistema mediatico che disinforma e addormenta le masse». Dunque, che fare? Abbattere questo “mostro” o riformarlo, mettendolo al servizio dei popoli? Per Conti, «la natura non riformabile di questa sovrastruttura tecno-politica può pur sempre trasfigurare in positivo semplicemente abrogandone la sua caratteristica principale, il totalitarismo progressivamente istituzionalizzato, cioè il fatto di essere una “moneta unica” non nel senso che è comune (10 paesi dell’Ue non l’hanno mai adottata), ma nel senso che non ammette altre valute là dove invece è stata introdotta nel 2000». Tecnicamente basterebbe aggiungere in ogni paese dell’Eurozona una nuova moneta nazionale (Euro-lira, Euro-marco, Euro-pesetas), inizialmente nel rapporto 1:1 con l’euro; la nuova moneta sostituirebbe quella della Bce per la fiscalità e i pagamenti interni al paese, lasciando all’euro la funzione di pagamento nelle transazioni tra paesi diversi. Decisivo il rapporto dei cambi: andrebbe aggiornato periodicamente «sotto il controllo di un nuovo Parlamento Europeo, finalmente dotato della dignità di un vero governo di competenza strettamente confederale, che governa la Bce collegialmente».Questa misura, per avere il successo sperato e traghettare l’Europa fuori dalla crisi, dovrebbe essere accompagnata da un decalogo di cambiamento radicale. Mai più cessioni improprie di sovranità nazionale, a cominciare da quella monetaria interna. Mai più obbedienza cieca, sotto ricatto, ai diktat del circo della finanza globalizzata. Mai più salvataggi pubblici dei crack degli speculatori privati, grandi o piccoli. Mai più la primazia del profitto privato sulla difesa del lavoro. Mai più il contrasto alla recessione con misure recessive. E mai più libera circolazione di merci e capitali contro gli equilibri e gli interessi leciti dell’economia locale. Inoltre, aggiunge Conti, bisognerebbe bloccare gli attacchi speculativi eterodiretti alla valuta nazionale, impedire che i “debiti sovrani” finiscano fuori controllo. Mai più interferenze delle lobby, le grandi mafie che oggi dettano ai governi le misure da infliggere ai cittadini. Obiettivo possibile, a patto che risorga lo Stato democratico come “attore dell’economia”, con «funzioni di stimolo e di controllo sistemico». Dalla dignità dello Stato dipende quella dei cittadini, quindi la democrazia: serve «una forte volontà politica» per globalizzare i diritti, verso un futuro di pace che ci liberi dall’incubo.La nostra maledizione? Si chiama euro. «Più che una moneta, è un metodo di governo occulto, elitario, illegittimo, autoritario e antidemocratico». Una minaccia «che divide, anziché unire i popoli europei, col terrorismo della miseria (fuori dall’euro) e la promessa della prosperità (dentro l’euro)». Un mito, «falsificato in diverse varianti, a seconda della realtà socio-economica interna di ciascun paese». L’inizio della fine? Lo storico divorzio tra governi e banche centrali, dove queste ultime hanno cessato di fungere da “bancomat” degli Stati per sostenere la spesa pubblica. Di qui le “riforme strutturali” che prevedono stangate fiscali e misure recessive, privatizzazioni dei servizi, devastazione del lavoro con flessibilità, precarizzazione e licenziamenti facili. Era un piano preciso: togliere ossigeno agli Stati, azzoppando le economie democratiche a vantaggio delle élite. Lo spread? «Chiaramente pilotato dalla Bce, come “clava di ultima istanza” per costringere i governi periferici a imporre l’amara medicina».
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Vandana Shiva: perché la crescita è nemica della vita
La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (Pil), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il Pil si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita” misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci. Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi.I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate. L’acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene fornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l’acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma questa crescita è basata sulla creazione di povertà – sia per la natura sia per le comunità locali. L’acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una penuria d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l’acqua è diventata 10 chilometri, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l’impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.Nella stessa ottica, l’evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprarne di più ad ogni stagione. La natura si impoverisce, la biodiversità è erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L’acquisto di semi ogni anno è una ricetta per l’indebitamento dei poveri contadini dell’India. E da quando è stato istituito il monopolio dei semi, l’indebitamento degli agricoltori è aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso e la gente diventa più povera. Sia l’ecologia che l’economia sono nate dalla stessa radice – “oikos”, la parola greca per “casa”. Fino a quando l’economia è stata incentrata sulla famiglia, riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all’interno di questi limiti. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l’espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.Il modello dominante di sviluppo economico è infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari – ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani. Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell’economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo è la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo è la violenza contro l’uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo è la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.L’aumento del flusso di denaro attraverso il Pil si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone – la loro terra e l’acqua, le foreste e i semi. Questa sete li conduce all’ultima goccia d’acqua e all’ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia. Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen hanno riconosciuto che il Pil non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo è il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la “felicità nazionale lorda” al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il Pil, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per ringiovanire la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita è la vita stessa.(Vandana Shiva, “Come la crescita economica è diventata nemica della vita”, intervento pubblicato dal “Guardian” e ripreso il 4 novembre 2013 da “Come Don Chisciotte”).La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (Pil), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il Pil si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita” misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci. Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi.
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Gallino: banche e governi, colpo di Stato contro di noi
Curare la recessione con diktat recessivi? E’ il paradosso dell’Unione Europea, dal 2010 in poi: costringere le vittime della crisi – milioni di cittadini – a pagare i danni che la stessa crisi ha provocato. Una colossale serie di errori commessa da governi ottusi? No, purtroppo: impossibile pensare che non sapessero che l’austerità sarebbe stata «una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico». In realtà, accusa Luciano Gallino, i governanti europei «sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata». Il problema è un altro: «Il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l’economia: è piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto». Un meccanismo spietato, «in corso da oltre trent’anni». Gallino lo chiama: il colpo di Stato di banche e governi.Il nemico da smascherare è proprio l’élite, «messa in pericolo dal fallimento delle politiche economiche fondate sull’espansione senza limiti del debito e della creazione di denaro privato a opera delle banche, diventato palese con l’esplosione della crisi finanziaria nel 2007». I cittadini europei e americani, scrive Gallino nel suo ultimo libro pubblicato da Einaudi e anticipato da “Micromega”, hanno già sopportato pesanti oneri, «prima per il processo di espropriazione cui sono stati sottoposti», e in seguito «per le conseguenze dirette della crisi». Il problema dei governi è diventato: stroncare qualsiasi opposizione allo smantellamento del welfare. Due le mosse decisive: incolpare lo Stato (spesa pubblica) per i guasti di una crisi innescata in realtà dal sistema bancario, e inchiodare i cittadini alla paura, nella logica dell’emergenza. «Così come in caso di guerra non si tengono elezioni per stabilire chi e come debba razionare i viveri, di fronte all’emergenza denominata “debito eccessivo dei bilanci pubblici” le misure da intraprendere per sopravvivere sono concepite da ristretti organi centrali: a partire dal Consiglio Europeo, formato dai capi di Stato o di governo degli Stati membri».Al “piano di guerra” collaborano la Commissione Europea (il cui presidente fa parte del Consiglio) e naturalmente la Bce, con l’immancabile apporto del Fmi. In altre parole, la Troika: quella che emana diktat che i governi dovranno semplicemente ratificare ed eseguire. «Cosi è avvenuto per molti documenti: il memorandum inviato alla Grecia, il pacchetto di misure – mirate espressamente a smantellare lo stato sociale – chiamato Euro Plus, il cosiddetto “patto fiscale” ovvero Trattato sulla stabilità, la creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità». Il trucco: «Essendo l’approvazione “chiesta dall’Europa”, i Parlamenti obbediscono, come è costretto a fare un organo politico in situazione di emergenza». Così, grazie a una super-casta composta da «poche dozzine di persone», la democrazia in Europa è «in corso di rapido svuotamento».Persino il Trattato della Ue, più attento al “libero mercato” che non alla democrazia, ormai «appare aggirato sotto il profilo legale e costituzionale dai dispositivi autoritari messi in atto di recente dai governi e dalla Troika». La libertà è finita: «Alle centinaia di milioni di cittadini della Ue, ciò che quel ristretto gruppo decide è presentato come “alternativlos”, cioè privo di qualsiasi alternativa: pena, minacciano i governi, il crollo dell’euro, dei bilanci sovrani, dell’intera economia europea». Di fronte a simili minacce, «che i media ripropongono ogni giorno a tamburo battente», i cittadini degli Stati-cardine della Ue hanno finora «subito a capo chino gli interventi dell’autoritarismo emergenziale dei loro governi e della Troika di Bruxelles», che ormai stanno assumendo il profilo di «un colpo di Stato a rate».Curare la recessione con diktat recessivi? E’ il paradosso dell’Unione Europea, dal 2010 in poi: costringere le vittime della crisi – milioni di cittadini – a pagare i danni che la stessa crisi ha provocato. Una colossale serie di errori commessa da governi ottusi? No, purtroppo: impossibile pensare che non sapessero che l’austerità sarebbe stata «una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico». In realtà, accusa Luciano Gallino, i governanti europei «sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata». Il problema è un altro: «Il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l’economia: è piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto». Un meccanismo spietato, «in corso da oltre trent’anni». Gallino lo chiama: il colpo di Stato di banche e governi.
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L’oro di Berlino contro il dollaro? Finiremo nella bufera
Giusto il tempo di chiudere il capitolo “guerra in Siria” sbattendo la porta in faccia all’ambasciatore di Al-Qaeda, il capo dei servizi segreti sauditi Bandar Bin Sultan, ed ecco che la violenza terrorista esplode simultaneamente al confine con l’Iran, a Volgograd in Russia e in piazza Tienanmen a Pechino, cioè a casa dei sostenitori di Assad che hanno appena fermato i missili Nato nel Mediterraneo. L’America di Obama? Infangata dagli imbarazzi del Datagate e decisa a farla pagare cara a Snowden e Assange, il quale – fra le rituali proteste dei governi europei, coinvolti fino al collo nello spionaggio Usa – rivela che «un ministro dell’Ue collabora attivamente con la Cia». Il clamore per lo scandalo planetario, sostiene Antonio De Martini, in realtà nasconde la vera “bomba” in arrivo, e cioè la crisi dell’euro. E se collassa l’Europa, salta in aria l’unico soggetto «in grado di competere con gli Usa a livello mondiale», e di mettere in crisi l’arma principale del dominio americano: il dollaro.Nel clamore generale, scrive De Martini sul “Corriere della Collera”, l’unica cosa che i leader europei hanno certamente capito è «che persino le loro telefonate più private – anche quelle sentimentali delle signore – sono state registrate». Quindi, un “leak” potrebbe «tradire i loro più riposti rapporti con il governo americano». Faranno meglio a tenerlo a mente, aggiunge De Martini, il giorno – ormai non lontano – in cui collasserà l’insostenibile Eurozona. «L’attuale quotazione dell’euro non è così forte da provocare una grave crisi diplomatica con gli Usa, ma è abbastanza forte da provocare un restringimento della base occupazionale e delle esportazioni dei paesi europei». Attenzione: questa crisi farà traboccare il vaso, perché «si aggiunge alla crisi della bolla Internet, a quella dei subprime, a quella immobiliare, a quella bancaria, a quella produttiva e a quella occupazionale». Il detestato euro, la moneta che doveva unire il continente, rischia di spezzarlo, lasciando l’Europa totalmente indifesa di fronte al declinante dominio dell’impero americano.Ormai, un euro vale quasi un dollaro e mezzo. E’ considerato troppo forte dagli acquirenti mondiali di beni industriali, cosa che penalizza le esportazioni europee (non certo quelle statunitensi). «In pratica è come se le imprese americane vendessero col 40% di sconto rispetto a noi». L’inflazione, in Eurozona? «Praticamente inesistente: il tasso d’interesse della Bce è ormai dello 0%», quindi la banca centrale «non è in grado di stimolare l’economia». Contraccolpi: i bond italiani franano, la Francia continua a perdere 50.000 posti di lavoro al mese. Il solo ossigeno possibile, dice De Marini, è il “quantitative easing”, che il governo Letta rifiuta, preferendo la ricetta tedesca: più tasse e meno spesa pubblica. «La Germania, forte di un surplus commerciale quasi triplo in termini reali e assoluti rispetto alla stessa Cina, vuole tornare al Gold Standard», anche se questa scelta antinflazionistica penalizza i paesi come l’Italia, che dispone sì della quarta riserva aurea mondiale, ma ha i conti pubblici devastati.Secondo De Martini, la scelta tedesca di puntare sull’oro «comporta il crollo americano», profilando scenari da guerra mondiale. Gli Usa, ricorda l’analista, abbandonarono il vincolo aureo per la quotazione del dollaro nel 1971: stampare tanto denaro quanto necessario al rilancio dell’economia significa considerare che «la vera ricchezza su cui misurare un paese è il suo apparato produttivo e la sua capacità di penetrazione commerciale nel mondo». Oggi, gli Usa stampano 85 miliardi di dollari al mese. «Questo potrebbe creare un problema di credibilità nell’ipotesi di una richiesta di rientro dal debito, ma nessuno si sogna di chiedere il rientro a un debitore manesco che domina i mari del globo con diciannove portaerei». Durante la recente crisi per l’approvazione del bilancio americano, in cui aleggiava lo spettro del default, i tassi d’interesse del debito Usa non si sono mossi di un millimetro: «Chi spera nel default del dollaro si disilluda», avverte De Martini. «La legge per i forti non è la stessa nostra. Il ferro pesa più dell’oro».Insieme agli Usa, a non temere più il rischio-inflazione per decenni agitato dai neoliberisti sono oggi Gran Bretagna e Giappone. «Alla lunga, dicono gli economisti ortodossi, il default è inevitabile». Alla lunga, appunto: mentre il respiro corto dell’Europa “tedesca”, quell’euro tenuto al guinzaglio dalla Bce, segna già oggi la fine economica di tutto ciò che non è Germania. I riflessi geopolitici dello scontro che si profila sono di vastissima portata, scrive De Martini: al confronto planetario tra Usa, Cina e Russia si aggiunge ora la collisione economica e ideologica fra «la triade del quantitative easing», cioè Usa, Regno Unito e Giappone, e la Germania, «attorniata dai vari paesi della Ue, alcuni dei quali stanno dando segnali di esaurimento economico e politico». La Russia «non sfida apertamente il dominio del dollaro», mentre i cinesi cercano di affermare la loro valuta sugli scambi internazionali, per ora solo bilaterali, con India, Indonesia e Giappone. E mentre un paese come l’Italia è alla canna del gas, la Merkel continua a barare: dopo averci tenuto col fiato sospeso in attesa del traguardo elettorale tedesco «facendoci soffrire in attesa di un momento di sollievo», ora attende le elezioni europee «per distinguere gli alleati buoni dai cattivi e i fedeli dagli infedeli». Ma ormai «sono in molti a ritenere che stia tirando troppo la corda».Giusto il tempo di chiudere il capitolo “guerra in Siria” sbattendo la porta in faccia all’ambasciatore di Al-Qaeda, il capo dei servizi segreti sauditi Bandar Bin Sultan, ed ecco che la violenza terrorista esplode simultaneamente al confine con l’Iran, a Volgograd in Russia e in piazza Tienanmen a Pechino, cioè a casa dei sostenitori di Assad che hanno appena fermato i missili Nato nel Mediterraneo. L’America di Obama? Infangata dagli imbarazzi del Datagate e decisa a farla pagare cara a Snowden e Assange, il quale – fra le rituali proteste dei governi europei, coinvolti fino al collo nello spionaggio Usa – rivela che «un ministro dell’Ue collabora attivamente con la Cia». Il clamore per lo scandalo planetario, sostiene Antonio De Martini, in realtà nasconde la vera “bomba” in arrivo, e cioè la crisi dell’euro. E se collassa l’Europa, salta in aria l’unico soggetto «in grado di competere con gli Usa a livello mondiale», e di mettere in crisi l’arma principale del dominio americano: il dollaro.
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Perché vogliono eliminare il denaro contante (il nostro)
Si può ancora pagare in contanti fino a un tetto di 1.000 euro? Troppi, dice il ministro ed ex banchiere Saccomanni, preannunciando che quella soglia verrà ulteriormente ridotta, in favore della moneta elettronica. Vecchia storia, protesta Paolo Cardenà: le banche finanziano sottobanco i politici, che in cambio proteggono gli istituti di credito. La cui paura, oltre al fallimento, è proprio la corsa agli sportelli da parte dei correntisti che chiedano indietro soldi veri, banconote. Il denaro contante? Semplice e pratico, veloce, economico. Ridurlo o eliminarlo significa costringere chiunque a passare sempre attraverso lo sportello. Di colpo, il cittadino verrebbe privato anche dell’unica forma di dissenso a sua disposizione nei confronti del sistema bancario. Per contro, le banche festeggiano: smaterializzato il denaro (sostituito con un algoritmo astratto e intangibile), viene meno anche il pericolo che la popolazione possa chiedere la restituzione di ciò che non esiste.Nel corso dei secoli, ricorda Cardenà in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, la necessità della politica di contare sempre più sull’appoggio del sistema bancario per il finanziamento degli abusi di spesa della macchina statale e dei privilegi di politici (spesso corrotti e incapaci) ha favorito l’instaurarsi di una connivenza simbiotica tra politica e banche. Reciproca convenienza, scambio di favori – compreso il quadro normativo, “amico” degli affari quando vanno bene e pronto a rimediare con denaro pubblico in caso di dissesti. «Il denaro, per il sistema bancario, è elemento sul quale fonda i propri affari: in buona sostanza è la merce da vendere. Avere il controllo e la gestione di tutto il denaro, per la banca, è un moltiplicatore del proprio business e quindi di redditività». In un sistema basato sulla riserva frazionaria, quale è il nostro, accade che i 1.000 euro che vengono depositati in banca possono diventare (per il sistema bancario) fino a 100.000, ossia cento volte tanto.E’ l’effetto moltiplicativo dei depositi: dato che la banca è tenuta ad accantonare solo l’1% del deposito per far fronte a esigenze di cassa, il 99% viene immesso nel sistema, mediante la concessione di prestiti, con sviluppo esponenziale degli interessi. Il giochino rende fino al giorno in cui la banca dovrà restituire – per davvero – il deposito iniziale. Molto meglio se invece la massa monetaria resta “virtuale”: «Tanto meno sarà il contante in circolazione, tanto più elevata sarà la possibilità riservata alle banche di incrementare il proprio giro d’affari e aumentare la redditività prodotta, che si traduce in bonus milionari pagati ai super manager». Così, il sistema bancario «deterrebbe in deposito la maggior parte della ricchezza del paese», e – oltre a titoli, azioni, obbligazioni e gioielli custoditi nelle cassette di sicurezza – avrebbe “sotto chiave” anche il denaro obbligatoriamente depositato sul conto corrente, non più “invisibile” al fisco.«Il pericolo è proprio quello di essere obbligati, tramite un provvedimento di legge, a privarsi dell’utilizzo del contante per rendere la macchina coercitiva del fisco ancora più efficiente, funzionale, perfetta e micidiale», scrive Cardenà. «Tra qualche giorno, le banche italiane dovranno trasmettere all’anagrafe tributaria tutte le movimentazioni dei nostri conti correnti. Lo Stato, con un semplice click, potrà conoscere in tempo reale ogni vostra ricchezza: sia la sua collocazione che la sua dimensione complessiva. Ricchezza incrementata, ovviamente, dai depositi di denaro contante che, oltre a far aumentare la base imponibile da colpire con un’eventuale imposizione patrimoniale, offre allo Stato la garanzia del buon esito della sua pretesa tributaria». Tutto sotto controllo: significa poter “tosare” i risparmiatori col prelievo forzoso, magari risparmiando i soliti noti e «i privilegi del manipolo di gerarchi da un’eventuale bancarotta». E’ appena accaduto a Cipro, ma accadde già nel ’92 in Italia col governo Amato. Oggi si riparla di “patrimoniale”, ma senza chiarire: quali “grandi patrimoni” potrebbero essere colpiti? «La banca diverrebbe una gigantesca camera di compensazione, soggetto giuridico al servizio dello Stato per espropriare ricchezza». Il perché è chiaro: «Per rendere solvibile il debitore non c’è via più semplice che quella di compensare debiti del debitore con i crediti del creditore. E il gioco è fatto».Si può ancora pagare in contanti fino a un tetto di 1.000 euro? Troppi, dice il ministro ed ex banchiere Saccomanni, preannunciando che quella soglia verrà ulteriormente ridotta, in favore della moneta elettronica. Vecchia storia, protesta Paolo Cardenà: le banche finanziano sottobanco i politici, che in cambio proteggono gli istituti di credito. La cui paura, oltre al fallimento, è proprio la corsa agli sportelli da parte dei correntisti che chiedano indietro soldi veri, banconote. Il denaro contante? Semplice e pratico, veloce, economico. Ridurlo o eliminarlo significa costringere chiunque a passare sempre attraverso lo sportello. Di colpo, il cittadino verrebbe privato anche dell’unica forma di dissenso a sua disposizione nei confronti del sistema bancario. Per contro, le banche festeggiano: smaterializzato il denaro (sostituito con un algoritmo astratto e intangibile), viene meno anche il pericolo che la popolazione possa chiedere la restituzione di ciò che non esiste.