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Pornografia e feticismo, la postmodernità delle anime morte
La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.Schiavitù economica contrabbandata come libertà per i singoli, ma fino a un certo punto, perché si mina alla base il concetto di uguaglianza (perché dovremmo essere uguali? L’individuo non deve essere uguale a nessun altro) per favorire l’individualismo thatcheriano. Negli ultimi 10 anni si sono diffuse in Europa vari tipi di forze politiche, che sono state definite dal potere “populismi”: Indignados, Sovranisti, Podemos, M5S. Ma secondo l’ordine simbolico e linguistico imposto dal potere, con il solo obiettivo di rinsaldare il proprio dominio sui dominati, è necessario controllare la popolazione, e mantenere la massa schiavizzata in una condizione di subalternità, in modo tale che la neolingua possa diventare veicolo di potenziamento dei valori del neoliberismo. Dal 1989 il capitale ha adottato una nuova neolingua, e chiunque metta in discussione il potere oligarchico viene demonizzato come disfattista, complottista, o populista. La categoria di populista serve esattamente a diffamare ogni prospettiva che assuma la parte del Servo e non del Signore (“Fenomenologia dello spirito”, W. Friedrich Hegel).Oggi viene diffamato chiunque prenda la difesa dei lavoratori precarizzati e schiavizzati, perché ciò contraddice il potere, che vuol contrabbandare i propri dogmi ideologici come fossero interessi universali: concorrenza, competitività, globalizzazione, delocalizzazione, cancellazione dell’articolo 18, licenziabilità senza giusta causa, flessibilità. Chiunque abbia il coraggio di svelare il vero significato oscurato della neolingua viene silenziato come populista e complottista, incapace di accettare la mera ricostruzione dei fatti e degli eventi prospettata dalla mediatizzazione della realtà, che il potere ci mostra quotidianamente sugli schermi televisivi. Il termine “populismo” o “antipolitica”, viene quindi usato dal potere con toni spregiativi e diffamatori, è diventato una specie di parolaccia. E i media ci presentano una realtà confusa e distorta, Grillo come Trump, Raggi come Obama, l’imperatore buono, Premio Nobel per la pace, in realtà ha sostenuto 7 guerre in contemporanea (Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria).Modernità e Postmodernità. Termini che indicano lo spirito di una civiltà, nel suo divenire storico, antropologico e culturale. La distinzione va ricercata secondo un’analisi marxista, l’aforisma di Marx, per cui «la cultura dominante coincide perfettamente con la cultura della classe dominante» (Karl Marx, “Ideologia tedesca”). Le realtà virtuali, l’iperrealtà, sono la matrice della Postmodernità, strettamente correlate all’uso di macchine creatrici di virtualità: Pc, Tablet, iPhone… Se la “produzione” è la cifra della Modernità, la “simulazione” è quella della Postmodernità. La Postmodernità ridimensiona la produzione per favorire la simulazione, sposta ingenti masse di salariati dalle fabbriche al terziario o oltre, azzera quella middle class che era il volano dell’economia dei consumi, chiude impianti produttivi. La disoccupazione di massa è la vera piaga della postmodernità: felicità virtuale e disperazione reale.L’Illuminismo aveva concentrato l’attenzione sull’impatto politico della nuova mentalità scientifica, che inneggiava all’“Homo faber fortunae suae”, e aveva indotto i nuovi uomini a sostenere le prime grandi rivoluzioni della storia, Rivoluzione Americana 1776, Rivoluzione Francese 1789. Il background filosofico culturale entro cui nasce il populismo è dunque l’età postmoderna, che propone una narrazione sempre più inquieta e socialmente devastante, dove le solide narrazioni della modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale globalizzato, sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica. Diversi autori hanno percepito in anticipo l’avvento del postmoderno, e lo hanno interpretato attraverso la loro acuta sensibilità, a partire dagli anni ’70: Jean-François Lyotard, Guy Debord, Jean Baudrillard, Marc Augé, Zygmunt Bauman. Al popolo postmoderno non interessa la “verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le narrazioni, favole illusionistiche, simulacri evanescenti, emersi direttamente dal nuovo oscuro inconscio collettivo, e dalla società dello spettacolo.Le nuove minacce metropolitane sono: migranti e clandestini che invadono il paese, offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam; politiche di austerity che massacrano l’economia dell’Italia, divenuta il Sud Europa. La “notizia” della postmodernità è una fake news, consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a informare sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta deformandoli, proprio per oscurarli completamente (Marco Travaglio, “La scomparsa dei fatti”). Jean-François Lyotard, nel suo testo “La condizione postmoderna” (1979), conia il nuovo termine di “postmoderno” per definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Lo sviluppo tecnologico diventa sempre più invasivo per il benessere neurovegetativo umano (“Psyche e Techne”, Umberto Galimberti). La pornografia dei media produce la molteplicità dei linguaggi, la contaminazione degli stili, un citazionismo ossessivo (film di Quentin Tarantino), tipico di un’epoca che non ha più nulla da dire, se non ripetere all’infinito, in modalità sempre diverse, le stesse tematiche.Ne è derivata la perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato (federalismo), la perdita di sovranità (euro, Ue), un aumento dei “processi di disgregazione dello Stato Nazione”. L’Occidente sta vivendo una stagione sconcertante, attraversata dalle rapidissime trasformazioni scientifico-tecnologiche. Con grande lucidità, Lyotard propone una partizione storiografica tra l’epoca moderna (secoli XVII e XX) e l’epoca post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della realtà, antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è il progresso umano, essi concepiscono la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie facoltà. L’idea forte della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la negazione della capacità umana di produrre il progresso, una sorta di nichilismo dei valori. Ne segue la negazione della scuola e dell’università come agenti di socializzazione e orientamento di valori. La perdita di potere e di funzione sociale dell’intellettuale, che a partire dall’età dei Lumi era stato la coscienza della modernità. Tutto molto strano per quella che viene definita la «società della conoscenza».Guy Debord, di formazione hegeliana e marxista, è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali avanzate. L’incipit della “Società dello Spettacolo” (1967) riprende a un secolo di distanza quello del “Capitale” (1867) di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci». L’incipit dell’opera di Debord è: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (“La Società dello Spettacolo”). Secondo Debord, La caratteristica principale del capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale, nell’espansione delle tecnologie della comunicazione, e nel «feticismo delle merci». Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione sociale più opprimente» («Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»). Tuttavia lo spettacolo è necessariamente falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società.«Per il fatto stesso che lo spettacolo è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza». Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. E poi, giacché la comunicazione dei media è unilaterale, il Potere giustifica se stesso attraverso un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte. «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere». Lo spettacolo del capitalismo presuppone quindi l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. «Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento». Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato.È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini l’alienazione del consumatore: «Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». In una società mercificata, sostiene Debord, è la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.Questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”. Alle regionali siciliane Vittorio Sgarbi si presenta con un movimento, “Rinascimento siciliano”, insieme a Morgan e Giulio Tremonti, proponendo un trinomio decisamente bizzarro, composto da vecchi arnesi della politica spettacolo, camuffati da nuova proposta rinascimentale. La società è completamente dominata da immagini falsificate che sostituiscono la realtà, facendo scomparire qualsiasi verità al di là della falsificazione continua. Ciò determina una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo e quindi anche della democrazia. La finzione di democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo del terrorismo. «Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati».La mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma d’importanza decisiva. «Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza». Si può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo». Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato dovrebbe riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.Jean Baudrillard poi, altro acuto osservatore del postmoderno, ha illustrato la frammentazione dell’identità e l’immagine frammentata del mondo e dell’uomo, confezionata dai mass media contemporanei, i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare. Per lo spettatore dei media tutto si riduce ad apprezzare l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri. Baudrillard inizia con la critica polemica verso il capitalismo. Smantellate le grandi teorie che guardavano alla realtà come un sistema complesso ma ordinato e descrivibile (“Idealismo o Positivismo”), il presente diventa ora un insieme di segni. Oggi predomina una iperrealtà virtuale, fatta di segni e simulacri (“Simulacri e simulazioni”, 1981). Ad essere messo in discussione è il concetto di realtà, non di verità, come spesso era accaduto in passato. Lo sguardo di Baudrillard che si proietta sul quotidiano è pessimistico, per non dire tragico e drammatico. La cultura produce qualcosa senza significato, e la sola branca del reale che è in grado di tenere in mano le sorti dell’uomo è l’industria, la società dei consumi.I nuovi media hanno giocato un ruolo cruciale nella fabbricazione del significato o finto valore della realtà. Nel suo libro “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?” (1996), Baudrillard ha spiegato come la televisione abbia sostituito la realtà. Tutto ciò che vediamo attraverso lo schermo è una comunicazione artificiale, un reale contraffatto, che diventa la vera realtà. Consideriamo Disneyland, Las Vegas, dove tutto è incastrato in un meccanismo di funzionamento invidiabilmente impeccabile, un mondo finto che però funziona alla perfezione. Ci rechiamo volontariamente in tali luoghi perché attratti dalla spettacolarità magnetica della ri-creazione, della meraviglia, del simulacro. Siamo assorbiti dalla manipolazione dei media, dei programmi informatici e delle psicologie commerciali. Qual è l’originale realtà per noi? Viviamo di segni e simulacri realtà virtuali o siamo in grado di coglierne la differenza con criticità? Viviamo nei non-luoghi, definiti così da Marc Augé nel libro “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Gli spazi privi di identità, relazioni e storia: autostrade, svincoli e aeroporti, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, sale d’aspetto, ascensori… ecc ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, senza entrare in contatto, senza discutere, parlare, guardarsi, dialogare… l’esatto contrario dell’agorà di Atene, culla della democrazia. Sospinti solo dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare viaggi e percorsi.I nonluoghi sono prodotti della società della postmodernità, dove i luoghi della memoria sono confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Le differenze culturali sono massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente, caratterizzato dalla precarietà assoluta dalla provvisorietà, dal viaggio, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Nel film “The Terminal” di Steven Spielberg, il protagonista, Tom Hanks, un cittadino di un immaginario Stato dell’Europa orientale, atterra a New York e dopo aver scoperto che nel suo paese è avvenuto un colpo di Stato, diviene improvvisamente un uomo senza nazionalità, e perciò impossibilitato sia a uscire nella tanto agognata New York, sia a fare ritorno a casa, quindi resta prigioniero e si integra perfettamente nel nonluogo. I nonluoghi sono presenti anche sulla moneta Euro, con l’effigie di edifici e monumenti privi di identità e di storia, a differenza delle immagini presenti sulla Lira di Caravaggio, Verdi, Montessori, Galileo, Marconi, Colombo…Gli utenti si accontentano della sicurezza di poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Da qui un paradosso: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi (“Villaggio globale”, Marshall McLuhan). Il rapporto fra i nonluoghi e i suoi abitanti avviene solitamente tramite simboli, parole o voci preregistrate. L’esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche di cittadino e i suoi ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o utente. Non vi è un riconoscimento delle classi sociali, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell’entrata o dell’uscita dal nonluogo; per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli altri utenti/ passeggeri/ clienti/ consumatori che si ritrovano a recitare una parte che implica il rispetto delle regole.La società che si vuole democratica non pone limiti all’accesso ai nonluoghi. Farsi identificare come consumatori solvibili, attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, fruire del prodotto e pagare. Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: i grandi “nonluoghi” posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. Il più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno. Scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: «Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland». Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città è stata ridotta a stereotipo di richiamo turistico. Nell’Europa che tenta di fermare l’ingresso dei migranti, si crea un’ambivalenza dei nonluoghi: quelli dell’abbondanza, e quelli della miseria, come campi profughi, centri di detenzione dei migranti et similia. In essi però l’identità è pericolosa per chi ci si trova, poiché espone al rischio di espulsione o incarcerazione.Zigmunt Bauman è stato forse il pensatore, che ha meglio interpretato il disorientamento contemporaneo. Molti saggi di grande successo, a partire da “Dentro la globalizzazione” del 1998, o “Modernità liquida” del 2000, lo hanno decretato il guru del pensiero della postmodernità. La modernità liquida, concetto fra i più noti del sociologo, ci dice che con la fine delle grandi narrazioni del secolo scorso sono finite anche le certezze del passato in ogni ambito, dal welfare al lavoro fisso, dalla sanità pubblica alle pensioni, la postmodernità le ha smontate tutte, dissacrandole e mescolandole a pulsioni nichilistiche. L’unica comunità dell’individuo è diventata il consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo tutti noi senza più una missione comune (“Amore liquido”, 2003 o “Vita liquida”, 2005). La fase che viviamo è propizia alla nascita dei populismi, che nascono dall’indignazione. Dagli Indignados ad Occupy Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene fortemente contestato, con istanze naturalmente diverse ma sempre antisistema. La modernità poggiava sull’etica del lavoro, perché il capitalismo produttivo aveva bisogno di quadri dirigenziali, che facessero funzionare le industrie, fonte del proprio profitto, quindi c’era necessità di welfare, scuola pubblica, benessere per la collettività destinata a gestire le fabbriche.Al contrario, la postmodernità esalta l’estetica del consumo, che trasforma il mondo in un “immenso campo di sensazioni sempre più intense”. Un mondo spesso investito dalla pubblicità o dal venditore di turno. L’esasperazione della soggettività, trova anche incredibili attuazioni tecnologiche come la realtà virtuale (“La solitudine del cittadino globale”, 1999). Bauman in particolare nel libro “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida” del 2014, parla di un approccio del tutto diverso rispetto alle strutture di potere. Jeremy Bentham e Michel Foucault avevano parlato di Panopticon, inteso come carcere centralizzato che controlla migliaia di detenuti, e in cui bastano pochi agenti di sicurezza per la custodia, metafora evidente del potere centralizzato della modernità e del suo controllo sulla società moderna. Bauman invece parla di un modello di società in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque del consumo, in cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali finiscono i dati e le persone, o meglio le loro emanazioni digitali, i cui rischi più elevati sono la privacy, la libertà di azione e di scelta. La novità postmoderna è che questo spazio del controllo ha perso i muri, e a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono a collaborare al loro stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per individuare l’aspetto oscuro nascosto sotto a quello seduttivo.La globalizzazione è dunque un processo intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri settori della vita, in pratica è una nuova forma d’imperialismo finanziario, impadronirsi dell’economia degli Stati, della loro moneta e della loro sovranità. Le forze economiche, infatti, hanno trasceso la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio, dettano legge e non si prefigurano più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come sistema auto-referenziale, fine a se stesso. Le corporation trasnazionali muovono in uno spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello Stato nazionale, fino ad oggi strumento di rappresentazione delle identità sociali, eludendo ogni sorta di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche, politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni. Il potere della globalizzazione economica è ormai senza volto e senza luogo, introduce la flessibilità come dogma e preannuncia l’incertezza delle esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per rimanere nella società dei consumi. Il potere ci tiene in scacco lasciandoci soli, levandoci qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione futura.Nascere in Italia 40 anni fa significava avere buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la speranza di trovare un lavoro vicino a casa, di conoscere i propri concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro. Oggi, si nasce in luoghi che mediamente vengono lasciati nella prima adolescenza, i giovani seguono opportunità di lavoro fugaci, sempre più volatili ed evanescenti, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un momento all’altro potrebbero delocalizzare. Le spinte all’individualismo e alla competizione determinano questo stile di vita veloce che porta con sé nuova alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Per il cittadino globale la leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo virtuale, senza barriere né confini. Anche le relazioni umane, dice Bauman, si adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno.Nella postmodernità è nata una nuova immagine di società, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più divisi e soli nelle proprie vite. Aumenta poi costantemente il divario tra la condizione dei poveri e quello dei ricchi. Il populismo, in modo particolare il M5S, per quanto riguarda la situazione italiana, è quindi la reazione culturale e politica rispetto alle condizioni sociali drasticamente mutate nel tempo della postmodernità, dopo il golpe messo in atto dalla nuova classe sociale dominante, quell’aristocrazia finanziaria che mira a distruggere i diritti del lavoro, a proletarizzare la middle class, a desovranizzare gli Stati, ad americanizzare l’Europa. Data la potenza propagandistica dei media, riuscirà veramente a vincere le prossime elezioni politiche e a prendere il potere? Oppure sarà costretto inevitabilmente ad abbandonare istanze essenziali delle proprie battaglie, soggiogato dalla potenza della restaurazione liberista?(Rosanna Spadini, “Populismi e postmodernità”, da “Come Don Chisciotte” del 28 settembre 2017).La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.
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Ha inghiottito il mondo, è il mostro chiamato neoliberismo
Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul “Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 ha coinciso con la crisi della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.All’indomani della crisi finanziaria del 2008, scrive Metcalf in un articolo ripreso da “Voci dall’Estero”, il termine neoliberismo è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle: non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato. Per i democratici Usa e i laburisti inglesi, questa cessione è stata descritta come un grottesco tradimento dei loro principi: Bill Clinton e Tony Blair, è stato detto, hanno abbandonato gli impegni tradizionali della sinistra, in particolare nei confronti dei lavoratori, a favore di un’élite finanziaria globale e di politiche autoritarie (che li hanno arricchiti). E nel fare questo, hanno permesso un terribile aumento delle diseguaglianze. Ormai l’accusa di neoliberismo è un’arma retorica, «un modo per la gente di sinistra di gettare le colpe su quelli che stanno anche un centimetro alla loro destra». Ma il neoliberismo, osserva Metcalf, è anche un filtro attraverso cui guardare il mondo: «I pensatori politici più ammirati da Thatcher e da Reagan hanno contribuito a modellare l’ideale della società come una sorta di mercato universale (e non, ad esempio, una polis, una sfera civile o una sorta di famiglia) e gli esseri umani come dei calcolatori di profitti e perdite (e non come beneficiari di previdenze o titolari di diritti e doveri inalienabili)».Naturalmente, si trattava di «indebolire lo Stato sociale e l’obiettivo della piena occupazione», nel frattempo abbattendo le tasse e spianando la strada al business senza regole. E’ anche e soprattutto «un modo per riordinare la realtà sociale, e ripensare il nostro status come individui isolati». Basta vedere «in quale maniera pervasiva siamo invitati a pensare a noi stessi come proprietari dei nostri talenti e iniziative, con quanta disinvoltura ci viene detto di competere e adattarci». Lo stesso linguaggio, prima limitato alle semplificazioni didattiche che descrivono i mercati delle materie prime (concorrenza, trasparenza, comportamenti razionali) ora «è stato applicato a tutta la società, fino a invadere la realtà della nostra vita personale», ridotta a marketing permanente. Neoliberismo non significa solo «politiche a favore del mercato o compromessi col capitalismo finanziario fatti dai partiti socialdemocratici falliti». È anche «la denominazione di una premessa che, silenziosamente, è arrivata a regolare tutta la nostra pratica e le nostre credenze», come se la concorrenza fosse «l’unico legittimo principio di organizzazione dell’attività umana».Non appena il neoliberismo – certificato come reale – ha «reso evidente l’ipocrisia universale del mercato», allora «i populisti e i fautori dell’autoritarismo sono arrivati al potere». Negli Usa, Hillary Clinton, cioè «il super-cattivo dei neoliberal», ha perso nei confronti di Trump, «un uomo che sapeva solo quanto basta per fingere di odiare il libero scambio». Contro la globalizzazione, scrive Metcalf, si è riaffermata l’identità nazionale nel modo più duro possibile: da una parte la Brexit e, oltreoceano, «un folle a ruota libera» alla Casa Bianca. «Non è solo che il libero mercato produce una piccola squadra di vincitori e un enorme esercito di perdenti – e i perdenti, in cerca di vendetta, si sono rivolti alla Brexit e a Trump. C’era, sin dall’inizio, una relazione inevitabile tra l’ideale utopistico del libero mercato e il presente distopico in cui ci troviamo; tra il mercato come dispensatore unico di valore e tutore della libertà, e la nostra attuale caduta nella post-verità e nell’illiberalismo», afferma l’analista inglese, secondo cui – per capire bene il fenomeno – è meglio archiviare i Clinton e tornare alla radice del male: «C’era una volta un gruppo di persone che si definivano neoliberali, e lo facevano con molto orgoglio, e ambivano a una rivoluzione totale nel pensiero».Il più importante fra di loro, l’economista austriaco Friedrich von Hayek, «non pensava di conquistare una posizione nello spettro politico, o di giustificare i ricchi, o aggrapparsi ai margini della microeconomia: pensava di risolvere il problema della modernità». Per Hayek, «il mercato non agevolava semplicemente il commercio di beni e servizi: rivelava la verità». Solo che «la sua ambizione si è rovesciata nel suo opposto». Ovvero: «Grazie alla nostra venerazione sconsiderata del libero mercato, la verità potrebbe essere scacciata del tutto dalla vita pubblica», scrive Metcalf. Quando nel 1936 Friedrich Hayek ebbe “l’illuminazione”, pensò di aver incontrato qualcosa di inedito: «Come può la combinazione di frammenti di conoscenze esistenti in menti diverse – ha scritto – portare a risultati che, se dovessero essere perseguiti deliberatamente, richiederebbero una conoscenza da parte del regista che nessuno può possedere?». Non era tecnicismo economistico, né una polemica reazionaria contro il collettivismo: «Era un modo di far nascere un mondo nuovo», sostiene Metcalf. «Con crescente eccitazione, Hayek capì che il mercato potrebbe essere considerato come una sorta di mente».La “mano invisibile” di Adam Smith ci aveva già consegnato la concezione moderna del mercato: una sfera autonoma dell’attività umana e quindi, potenzialmente, un oggetto valido di conoscenza scientifica. Ma Smith era un moralista del XVIII secolo, «pensava che il mercato fosse giustificato solo alla luce della virtù individuale, e temeva che una società governata da nient’altro che dall’interesse personale allo scambio non fosse affatto una società». Il neoliberismo? «E’ Adam Smith senza il suo timore», dice Metcalf. «Che Hayek sia considerato il padre del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all’economia – è un po’ assurdo, dato che era un economista mediocre. Era solo un giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla London School of Economics per competere con la stella nascente di John Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla». Il piano fallì, e l’Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” di Keynes, pubblicata nel 1936, fu accolta come un capolavoro. «Dominava la discussione pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione, per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente, rappresentava un modello ideale».Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, continua Metcalf, molti eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da svolgere nella gestione di un’economia moderna. L’eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Più tardi, lo stesso Hayek ammise addirittura di aver sperato che il suo lavoro di critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato. Nel 1936 era un accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. «Adesso viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di Keynes». Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore dell’università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del sistema dei prezzi è «un’impresa penetrante e originale, alla pari della microeconomia del XX secolo», nonché «la cosa più importante da imparare oggi in un corso di economia». Il pensiero di Keynes, un uomo che non ha vissuto né previsto la guerra fredda, era comunque «riuscito a penetrare in tutti gli aspetti del mondo della guerra fredda». Allo stesso modo, osserva Metcalf, «anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di Hayek».L’economista austriaco aveva una visione globale: un modo di strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia col dire che le attività umane sono una forma di calcolo economico e possono così assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio, costo – e soprattutto: prezzo. «I prezzi sono un mezzo per allocare le risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base alla domanda e all’offerta». Perché il sistema dei prezzi funzioni in modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. «Da quando Smith aveva immaginato l’economia come una sfera autonoma – prosegue Metcalf – esisteva la possibilità che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel suo complesso». Uomini e donne che «hanno bisogno solo di seguire il proprio interesse personale e competere per le risorse scarse». Attraverso la concorrenza diventa possibile, per citare il sociologo Will Davies, «discernere chi e che cosa ha valore». E così, rileva Metcalf , nel pensiero di Kayek non ha più alcun posto «tutto ciò che una persona che conosce la storia vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento: una classe media prospera e una sfera civile, istituzioni libere, suffragio universale, libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e stampa».In Hajek viene mancare «il riconoscimento di fondo che l’individuo è portatore di dignità». L’austriaco, infatti, «ha incorporato nel neoliberalismo l’ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione necessaria contro l’unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato. Quest’ultimo è ciò che rende il neoliberalismo “neo”. È una modifica fondamentale della credenza precedente in un mercato libero e uno Stato minimo, noto come “liberalismo classico”». Nel liberalismo classico, infatti, i commercianti semplicemente chiedevano allo Stato di “lasciar fare” a loro. Il neoliberismo, invece, «riconosce che lo Stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato». E quindi, «le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente». Per questo, «lo Stato deve essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo». E non è tutto: «Ogni aspetto della politica democratica, dalle scelte degli elettori alle decisioni dei politici, deve essere sottoposto ad un’analisi puramente economica. Il legislatore è obbligato a lasciare abbastanza le cose come stanno per non distorcere le azioni naturali del mercato e così, idealmente, lo Stato fornisce un quadro giuridico fisso, neutrale e universale in cui le forze di mercato operano spontaneamente».La direzione consapevole del governo non è mai preferibile ai “meccanismi automatici di aggiustamento“, cioè il sistema dei prezzi, che non è solo efficiente, ma massimizza la libertà, o l’opportunità per gli uomini e le donne di fare scelte libere sulla propria vita. «Mentre Keynes volava tra Londra e Washington, creando l’ordine del dopoguerra, Hayek se ne stava imbronciato a Cambridge». Era stato mandato lì durante le evacuazioni di guerra, e si lamentava di essere circondato da «stranieri» e «orientali di tutti i tipi», nonché da «europei di praticamente tutte le nazionalità, ma solo pochissimi dotati di una reale intelligenza». Bloccato in Inghilterra, senza alcuna influenza o credibilità, Hayek aveva solo la sua idea a consolarlo: «Un’idea così grande che un giorno avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Keynes e a qualsiasi altro intellettuale». Lasciato libero di funzionare, il sistema dei prezzi funziona come una sorta di mente: «E non come una mente qualsiasi, ma una mente onnisciente: il mercato calcola ciò che gli individui non possono afferrare».Rivolgendosi a lui come a un compagno d’armi intellettuale, il giornalista americano Walter Lippmann scrisse a Hayek dicendo: «Nessuna mente umana ha mai colto l’intero schema di una società. Nella migliore delle ipotesi, una mente può cogliere la propria versione dello schema, qualcosa di molto più limitato, che sta alla realtà come una sagoma sta a un uomo reale». Affermazione forte: il mercato è un sistema per conoscere le cose che supera radicalmente la capacità di ogni mente individuale. «Un tale mercato non è tanto una convenzione umana, da manipolare come qualsiasi altra cosa, quanto una forza da studiare e da placare», scrive Metcalf. «L’economia cessa di essere una tecnica – come credeva Keynes – per raggiungere fini sociali desiderabili, come la crescita o la stabilità del valore della moneta. L’unico fine sociale è il mantenimento del mercato stesso. Nella sua onniscienza, il mercato costituisce l’unica forma legittima di conoscenza, davanti alla quale tutti gli altri modi di riflessione sono parziali, in entrambi i sensi della parola: comprendono solo un frammento di un intero e rispondono a un interesse particolare. A livello individuale, i nostri valori sono solo personali, o semplici opinioni; a livello collettivo, il mercato li converte in prezzi, o fatti oggettivi».Via dall’ateneo, Hayek non ebbe mai un incarico permanente che non fosse pagato da grandi sponsor aziendali. «Anche i suoi colleghi conservatori dell’università di Chicago – l’epicentro globale del dissenso libertario negli anni ’50 – consideravano Hayek come un portavoce reazionario, un “uomo di squadra della destra” con uno “sponsor di squadra della destra”, come si suol dire». Ancora nel 1972, quando un amico andò a trovare Hayek a Salisburgo, «trovò un uomo anziano prostrato nell’autocommiserazione, convinto che il lavoro della sua vita era stato inutile: nessuno si interessava a quello che aveva scritto!». C’era, però, qualche segno di speranza: Hayek era il filosofo politico preferito di Barry Goldwater e a quanto si dice anche di Ronald Reagan. Poi c’era Margaret Thatcher, che «esaltava Hayek di fronte a tutti e prometteva di mettere insieme la sua filosofia del libero mercato con una ripresa dei valori vittoriani: famiglia, comunità, lavoro duro». Hayek si incontrò privatamente con la “lady di ferro” nel 1975, proprio nel momento in cui lei, appena nominata leader dell’opposizione, si stava preparando a mettere in pratica la sua Grande Idea per consegnarla alla storia.L’incontro durò mezz’ora. Al termine, lo staff della Thatcher chiese ad Hayek cosa ne pensasse. «Per la prima volta in 40 anni, il potere restituiva a Friedrich von Hayek la tanto preziosa immagine che egli aveva di se stesso, l’immagine di un uomo che poteva sconfiggere Keynes e ricostruire il mondo». Rispose: «Lei è veramente bella». La Grande Idea di Hayek non è granché, come idea, fino a che non la ingigantisci. Continua Metcalf. «Processi organici, spontanei ed eleganti che, come un milione di dita sul tavolo di una seduta spiritica, si coordinano per creare risultati che altrimenti sarebbero accidentali. Applicata ad un mercato reale – il mercato della pancetta di maiale o i futures del granturco – questa rappresentazione dei fatti è poco più che un’ovvietà. Può essere ampliata per descrivere come i vari mercati, delle materie prime e del lavoro e anche lo stesso mercato della moneta, compongano quella parte della società conosciuta come “l’economia“. Questo è meno banale, ma ancora irrilevante; un keynesiano accetta tranquillamente questa rappresentazione. Ma cosa succede se le facciamo fare un passo avanti? Cosa succede se concepiamo tutta la società come una sorta di mercato?».Più l’idea di Hayek si espande, più diventa reazionaria, più si nasconde dietro la sua pretesa di neutralità scientifica – e più permette alla scienza economica di collegarsi alla tendenza intellettuale più importante dell’Occidente sin dal 17° secolo, continua Metcalf. «L’ascesa della scienza moderna ha generato un problema: se il mondo universalmente obbedisce alle leggi naturali, cosa significa essere esseri umani? L’essere umano è semplicemente un oggetto nel mondo, come qualsiasi altra cosa?». Tutta la cultura politica del dopoguerra gioca a favore di Keynes e di un forte ruolo dello Stato nella gestione dell’economia. Ma tutta la cultura accademica postbellica si trova a favore della Grande Idea di Hayek. «Prima della guerra, anche l’economista più conservatore pensava al mercato come lo strumento per un obiettivo limitato, l’efficiente allocazione delle risorse scarse. Fin dai tempi di Adam Smith a metà del 1700, e fino ai membri fondatori della scuola di Chicago negli anni del dopoguerra, vi era la credenza comune che gli obiettivi finali della società e della vita, si trovavano nella sfera non-economica». Lo scrive nel 1922 il saggio “Etica e interpretazione economica” di Frank Knight, che giunse a Chicago due decenni prima di Hayek: «La critica economica razionale dei valori dà risultati ripugnanti per il buon senso: l’uomo economico è egoista e spietato, degno di condanna morale».Gli economisti, prosegue Metcalf, avevano dibattutto aspramente per 200 anni su come considerare i valori sui quali si organizza una società mercantile, al di là di un semplice calcolo e interesse personale. Knight, insieme ai suoi colleghi Henry Simon e Jacob Viner, si trovava davanti a Franklin Delano Roosevelt e agli interventi sul mercato del New Deal. Quegli economisti «fondarono l’università di Chicago facendone quel tempio intellettualmente rigoroso dell’economia del libero mercato che rimane ancora oggi». Tuttavia, Simons, Viner e Knight iniziarono tutti la loro carriera prima che l’inarrivabile prestigio dei fisici atomici riuscisse a far fluire enormi somme di denaro nel sistema universitario e lanciasse la moda postbellica per la scienza “dura”. «Non adoravano le equazioni o i modelli, e si preoccupavano di questioni non scientifiche. Più esplicitamente, si preoccupavano di questioni di valore, dove il valore era assolutamente distinto dal prezzo». Non che fossero meno dogmatici di Hayek o più disposti a “perdonare” lo Stato per e le tasse e la spesa pubblica. «Semplicemente, riconoscevano come principio fondamentale che la società non era la stessa cosa del mercato, e che il prezzo non era la stessa cosa del valore».Questo, continua Metcalf, ha fatto sì che Simons, Viner e Knight venissero completamente dimenticati dalla storia. «È stato Hayek che ci ha mostrato come arrivare dalla condizione senza speranza della relatività umana alla maestosa oggettività della scienza. La Grande Idea di Hayek funge da anello mancante tra la nostra natura umana soggettiva e la natura stessa. Così facendo, pone qualsiasi valore che non possa essere espresso come un prezzo – il verdetto del mercato – su un piano incerto, come nient’altro che un’opinione, una preferenza, folklore o superstizione». Ma più di chiunque altro, «anche più di Hayek stesso», è stato il grande economista del dopoguerra di Chicago, Milton Friedman, che «ha contribuito a convertire i governi e i politici al potere alla Grande Idea di Hayek». Prima, però, ha dovuto rompere con i due secoli precedenti e dichiarare che l’economia è «in linea di principio indipendente da qualsiasi posizione etica particolare o da giudizi normativi», e che è «una scienza oggettiva, nello stesso senso di qualsiasi scienza fisica». I valori del vecchio ordine mentale normativo erano viziati, erano «differenze su cui gli uomini alla fine possono solo combattere». Detto con altre parole, da una parte c’è il mercato, e dall’altra il relativismo. «I mercati possono essere facsimili umani di sistemi naturali, e come l’universo stesso, possono essere senza autori e senza valore».Ma l’applicazione della Grande Idea di Hayek ad ogni aspetto della nostra vita, sottolinea Metcalf, nega ciò che di noi è più caratteristico: «Nel senso che assegna ciò che è più umano degli esseri umani – la nostra mente e la nostra volontà – agli algoritmi e ai mercati, lasciandoci meccanici, come zombi, rappresentazioni rattrappite di modelli economici». Espandere l’idea di Hayek sino a promuovere radicalmente il sistema dei prezzi a una sorta di “onniscienza sociale” significa «ridimensionare radicalmente l’importanza della nostra capacità individuale di ragionare, la nostra capacità di trovare le giustificazioni delle nostre azioni e credenze e valutarle». Di conseguenza, la sfera pubblica, cioè lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri, «cessa di essere lo spazio della deliberazione e diventa un mercato di click, “like” e “retweet”». Internet? «E’ la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo: uno spazio pseudo-pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”».«Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati», sostiene Metcalf. «Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, “ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale». A parte l’utilità straordinaria della tecnologia digitale, «una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori». Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute, dice il il filosofo ed economista Albert Hirschman: un gusto che si può contestare diventa un valore. Uomini e donne, dice Hirschman, hanno anche la capacità di rivedere i loro desideri, volontà e preferenze, per chiedersi se valga la pena di volere quelle cose. E’ decisivo: «Modelliamo noi stessi e le nostre identità sulla base di questa capacità di riflessione».Ragiona Metcalf: «L’uso del potere di riflessione del singolo individuo è la ragione; l’uso collettivo di questi poteri di riflessione è la ragione pubblica; l’uso della ragione pubblica per approvare le leggi e la linea politica è la democrazia. Quando forniamo ragioni per le nostre azioni e credenze, ci realizziamo: individualmente e collettivamente, decidiamo chi e che cosa siamo». Secondo la logica della Grande Idea di Hayek, invece, queste espressioni della soggettività umana senza la ratifica del mercato sono senza significato – come ha detto Friedman, «non sono altro che relativismo, ogni cosa risultando buona come qualsiasi altra». Quando l’unica verità oggettiva è determinata dal mercato, tutti gli altri valori hanno lo status di mere opinioni; tutto il resto è aria fritta relativistica. Ma il “relativismo” di Friedman «è un insulto assurdo, visto che tutte le attività umane sono “relative”, a differenza delle scienze». Sono relative alla condizione (privata) di avere una mente, e alla necessità (pubblica) di ragionare e comprendere, anche quando non possiamo aspettarci delle prove scientifiche. E quando i nostri dibattiti non sono più risolte con ragionamenti, allora l’esito sarà determinato dall’arbitrio del potere. «È qui che il trionfo del neoliberismo si traduce nell’incubo politico che viviamo oggi».Il grande progetto di Hayek, concepito negli anni ’30 e ’40 per impedire di ricadere nel caos politico e nel fascismo, «ha sempre coinciso con questo abominio stesso che voleva impedire che accadesse», rivela Metcalf. Era un’idea «fin dall’inizio intrisa della cosa stessa da cui sosteneva di proteggereci», anche perché «la società riconcepita come un gigante mercato porta ad una vita pubblica ridotta a uno scontro tra mere opinioni, finché il pubblico frustrato non si rivolge, infine, ad un uomo forte come ultima risorsa per risolvere i suoi problemi, altrimenti ingestibili». Nel 1989, un giornalista americano bussò alla porta di un ormai novantenne Hayek. «Non era più l’uomo di una volta, sprofondato nella sconfitta per mano di Keynes». La Thatcher gli aveva appena scritto, con un tono di trionfo epocale, che niente di ciò che lei e Reagan avevano compiuto «sarebbe stato possibile senza i valori e le idee che ci hanno portato sulla strada giusta e fornito la giusta direzione». Hayek ora era soddisfatto di se stesso e ottimista sul futuro del capitalismo. Vedeva «un maggiore apprezzamento per il mercato tra le giovani generazioni». Diceva: «Oggi i giovani disoccupati di Algeri e Rangoon non protestano per uno Stato sociale pianificato a livello centrale, ma per le opportunità: la libertà di acquistare e vendere – jeans, automobili, qualunque cosa – a qualsiasi prezzo che il mercato possa sostenere».Sono passati trent’anni, e si può giustamente dire che la vittoria di Hayek non ha rivali, conclude Metcalf: viviamo in un “paradiso” costruito dalla sua Grande Idea. E’ vero, purtroppo: ogni giorno «ci sforziamo di diventare più perfetti come acquirenti e venditori, isolati, discreti, anonimi, e ogni giorno consideriamo il desiderio residuo di essere qualcosa di più di un consumatore come un’espressione di nostalgia, o di elitismo». Tutto era iniziato come una visione intellettuale «onestamente apolitica», ma quel pensiero si è trasformato «in una politica ultra-reazionaria». Aggiunge Metcalf, amaramente: «Quando abbiamo abbandonato, per il suo imbarazzante residuo di soggettività, la ragione come una forma di verità e abbiamo reso la scienza l’unico arbitro del reale e del vero, abbiamo creato un vuoto che la pseudo-scienza è stata ben felice di riempire». L’autorità del professore, del riformatore, del legislatore o del giurista «non deriva dal mercato, ma da valori umanistici come la passione civile, la coscienza o il desiderio di giustizia». Ma queste figure erano state private di rilevanza molto tempo prima che Trump cominciasse a squalificarle. E’ una storia ormai lunga quasi un secolo: e non c’è ancora in circolazione un vaccino efficace contro il virus mortale, il veleno psico-economico del neoliberismo.Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul “Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 ha coinciso con la crisi della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.
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La fabbrica delle notizie gonfiate: come nella Corea del Nord
Un fatto di cronaca, una deprecabile testata di un presunto criminale finora incensurato a un giornalista – una notizia che avrebbe meritato un titolo in cronaca – tiene banco da svariati giorni e da giorni diventa apertura dei telegiornali e dei quotidiani. Una stupida e crudele manipolazione di una foto di Anna Frank per cazzeggi sportivi diventò per giorni e giorni una tragedia nazionale con mobilitazione delle istituzioni, preghiere e letture negli stadi e nelle scuole per riparare alla profanazione e denunciare la rinascita del solito razzismo e nazismo. E più indietro, una scritta sui muri sul tema diventò argomento di apertura dei giornali e dei tg con relativa denuncia del pericolo fascista tornante. Lo stupro compiuto da un magrebino ai danni di una ragazza che si era ubriacata e si era accompagnata a lui, assume rilevanza nazionale ma solo per deprecare il prete che ha usato parole troppo dure per dire una cosa giusta: se vi sballate e vi accompagnate agli sconosciuti poi non lamentatevi. Ho citato solo i primi che mi sono venuti alla mente, ma la dilatazione di una parola, di un gesto, di un atto violento da bullo di periferia al rango di Evento Nazionale, di Dramma Epocale è ormai roba di ogni giorno. Analoghi o più gravi fatti ma di segno diverso passano inosservati o relegati nelle pagine interne.Non ci sono in queste vicende né morti né stragi, deportazioni di popoli, violenze di massa, minacce alla sicurezza; sono fatti di cronaca che avrebbero meritato un titolo sui giornali ma non il lutto nazionale e l’allarme generale. Ma servono tutti per tenere vivo e dominante il Grande Racconto Ideologico, per alimentare la religione del politically correct. Dove i fatti spariscono e restano le “narrazioni” che aspirano a dimostrare una sola cosa: mafia, fascismo, razzismo, fanatismo, violenza anche sportiva, sono la stessa cosa. A nulla vale obbiettare che “il testa” è un sinti e non un fascio italiano, che simpatizzava per Grillo e magari pure per il Pd, e comunque è irrilevante la sua opinione politica, ha reagito violentemente perché non voleva la troupe addosso e non per motivazione “politica”. E a nulla vale aggiungere che Ostia è come un migliaio di comuni italiani sotto attacco o infiltrazione della malavita, tra mafia, camorra, ‘ndrangheta, simili e derivati. Nel resto dei comuni non comandano i puffi, sono ben inseriti i ladri comuni, i corrotti comuni, i comitati d’affari di ogni giorno. Ma a Ostia si vota, CasaPound ha preso un sacco di voti, è in gara un candidato di destra; ergo la vigilanza democratica e antifascista deve raggiungere il massimo grado di attenzione. E a proposito di mafia & fascismo a nulla vale ricordare per la verità storica che l’unico momento in cui la mafia fu cacciata dall’Italia e poi tornò nel ’43 con gli americani fu – ma guarda un po’ – durante il fascismo.Ora mi chiedo: ma che messaggio diamo ai cittadini, ai lettori, agli ascoltatori se i fatti principali sono questi e servono tutti a una pedagogia ideologica di massa? Poi vi lamentate delle fake news, ma è già la fabbrica delle notizie gonfiate e manipolate a drogare i fatti per veicolare l’opinione pubblica e distorcere la realtà. In uno stupro il colpevole dovrebbe essere lo stupratore, quindi in seconda battuta è complice la leggerezza delle ragazze che si sballano e si accompagnano a gente così. Invece per i media il colpevole è il prete che ha usato un linguaggio troppo aspro per dire una cosa sensata e vera. Ma la verità non esiste nel panorama balengo della disinformazione di massa. Se la prendono coi titoli urlati di “Libero” ma la realtà, la verità, la priorità delle notizie è stuprata ogni giorno anche dall’informazione di Stato. I nostri notiziari sembrano la versione occidentale di quelli coreani. Solo che da noi la dittatura non è nelle mani di Kim ma del politically correct. E giù censure a chi non la pensa così. Poi vi lamentate se la gente trova un alibi per disertare l’informazione, per non comprare i giornali, per barricarsi con le cuffie e i telefonini nella propria egoistica privacy.Un fatto di cronaca, una deprecabile testata di un presunto criminale finora incensurato a un giornalista – una notizia che avrebbe meritato un titolo in cronaca – tiene banco da svariati giorni e da giorni diventa apertura dei telegiornali e dei quotidiani. Una stupida e crudele manipolazione di una foto di Anna Frank per cazzeggi sportivi diventò per giorni e giorni una tragedia nazionale con mobilitazione delle istituzioni, preghiere e letture negli stadi e nelle scuole per riparare alla profanazione e denunciare la rinascita del solito razzismo e nazismo. E più indietro, una scritta sui muri sul tema diventò argomento di apertura dei giornali e dei tg con relativa denuncia del pericolo fascista tornante. Lo stupro compiuto da un magrebino ai danni di una ragazza che si era ubriacata e si era accompagnata a lui, assume rilevanza nazionale ma solo per deprecare il prete che ha usato parole troppo dure per dire una cosa giusta: se vi sballate e vi accompagnate agli sconosciuti poi non lamentatevi. Ho citato solo i primi che mi sono venuti alla mente, ma la dilatazione di una parola, di un gesto, di un atto violento da bullo di periferia al rango di Evento Nazionale, di Dramma Epocale è ormai roba di ogni giorno. Analoghi o più gravi fatti ma di segno diverso passano inosservati o relegati nelle pagine interne.
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‘Edoardo Agnelli era un Sufi, ma con parenti nel B’nai B’rith’
Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il cui capostipite fa parte del B’nai B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che pubblica su Facebook una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste», scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica. Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi». Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli, trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa. Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».L’impatto sulla famiglia, di una scelta così radicale? «Per l’Avvocato, bastava che Edoardo non mettesse piede in azienda», dichiara Carpeoro a Fabio Frabetti di “Border Nigths”. «Poi lì c’è un entourage, però, che mal sopportava questo, sicuramente». E aggiunge: oggi siamo passati da un Sufi a una famiglia il cui capostipite, «che poi è il marito di Margherita Agnelli», cioè lo scrittore e giornalista Alain Alkann, appartiene al B’nai B’rith, espressione «di un certo sionismo reazionario che ha fatto tanti danni alla cultura israeliana». Il primo che si è scagliato contro questo tipo di potere «è un grande personaggio della cultura ebraica che si chiama Moni Ovadia», dice Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. B’nai B’rith? Per Wikipedia, si tratta di una innocua loggia di ebrei, di prevalente origine tedesca, nata un secolo prima dello Stato di Israele: fondata il 13 ottobre del 1843 a New York. Da allora, i “figli dell’alleanza” hanno una missione ufficiale: assistere i poveri. «L’organizzazione partecipa a numerose attività legate ai servizi sociali, tra cui la promozione dei diritti degli ebrei, l’assistenza negli ospedali e alle vittime dei disastri». Inoltre, la “lega dei fratelli” stanzia premi per gli studenti di scuole ebraiche e combatte l’antisemitismo tramite il suo Center for Human Rights and Public Policy.Oltre alle sue attività sociali, continua Wikipedia, il B’nai B’rith è anche un sostenitore dello Stato di Israele: insieme all’Aipac, potente lobby ebraica di Washington, la super-massoneria ebraica ha finanziato associazioni giovanili e studentesche. Ma, secondo Carpeoro, non sono soltanto umanitari gli scopi del B’nai B’rith, che apparterrebbe a pieno titolo al panorama delle potentissime superlogge internazionali, in strettissimo contatto con il Mossad, l’intelligence di Tel Aviv: sempre secondo Carpeoro, oltre ad Alain Elkann (cognato di Edoardo Agnelli), al B’nai B’rith apparteneva l’anziano Lion Klinghoffer, ucciso dal commando palestinese che dirottò la nave la crociera Achille Lauro nel 1985, da cui poi la crisi di Sigonella, con i carabinieri inviati da Craxi a proteggere i dirottatori, che i marines volevano catturare. Una tensione senza precedenti, in ambito Nato, che probabilmente costò il futuro politico dello stesso Craxi: «La sua telefonata con Reagan – racconta Carpeoro, allora vicino al leader socialista – fu deliberatamente mal tradotta, in diretta, dal politologo statunitense Michael Ledeen: cosa che Craxi non gli perdonò mai, perché compromise i suoi rapporti col presidente Usa».Di Ledeen, Carpeoro ha parlato spesso, anche nel suo saggio (uscito nel 2016) che denuncia la manipolazione atlantica dell’opaco neo-terrorismo europeo targato Isis. Ledeen? «All’epoca era vicino a Craxi, ma al tempo stesso anche a Di Pietro. Poi, in tempi assai più recenti, è stato al fianco di Renzi ma anche del grillino Di Maio». L’altra notizia? «Lo stesso Ledeen è un autorevole esponente del B’nai B’rith». Dunque il giovane Edoardo Agnelli, già scomodo anche per la Fiat (durissima una sua lettera al padre, all’epoca di Tangentopoli) poteva non essere più facilmente tollerato in una famiglia con componenti fortemente sioniste? La verità è più complessa, spiega Carpeoro, ricordando che Gianni Agnelli ha sposato la principessa Marella Caracciolo, sorella del fondatore de “L’Espresso”: «La linea materna di Edoardo è particolare: colta, raffinata, un po’ decadente». Il giovane Agnelli, semplicemente, «era molto più simile al ramo di sua madre che non a quello di suo padre». Lo conferma, nel modo più estremo possibile, il motto dei Sufi: “Nel mondo, ma non del mondo – nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”.Quando a Torino si impose il ramo Elkann, ricorda Lapo in un’intervista rilasciata a Giovanni Minoli per “La Storia siamo noi”, Edoardo Agnelli era già stato “bruciato” una prima volta dalla scelta del cugino Giovannino (Giovanni Alberto, figlio di Umberto Agnelli) come successore dell’Avvocato al vertice dell’impero Fiat. Poi Giovannino morì e al suo posto, pochi giorni dopo il funerale nel dicembre 1997, ricorda Gigi Moncalvo su “Lo Spiffero”, nel consiglio di amministrazione della Fiat venne nominato John Elkann, che di anni ne aveva appena 22 e nemmeno era laureato. Nella sua ultima intervista, rilasciata a Paolo Griseri per il “Manifesto”, il 15 gennaio 1998, Edoardo Agnelli boccia la designazione di “Jaky”: «Considero quella scelta uno sbaglio e una caduta di stile, decisa da una parte della mia famiglia, nonostante e contro le perplessità di mio padre». E aggiunge: «Non si nomina un ragazzo pochi giorni dopo la morte di Giovanni Alberto, per riempire un posto». E ancora: «Si è preferito farsi prendere dalla smania con un gesto che io considero offensivo anche per la memoria di mio cugino».Nel documentario di Minoli, è lo stesso Lapo Elkann – non ancora travolto dal suo secondo scandalo sessuale, quello di New York – ad avere parole umanissime per Edoardo Agnelli: «Era una persona bella dentro e bella fuori. Molto più intelligente di quanto molti l’hanno descritto: un insofferente che soffriva, che alternava momenti di riflessività e momenti istintivi». Nella villa di famiglia a Villar Perosa, in val Chisone, non lontano dal Sestriere, «ci sono state tante gioie ma anche tanti dolori». Dice Lapo, di Gianni Agnelli: «Con tutto l’affetto e il rispetto che ho per lui e con le cose egregie che ha fatto nella vita, mio nonno era un padre non facile. Quel che ci si aspetta da un padre – dei gesti di tenerezza, non parlo di potere: i gesti normali di una famiglia normale – probabilmente mancavano». Lapo Elkann riconosce quanto abbia pesato, su Edoardo, l’indicazione di far entrare suo fratello, John Elkann, nell’impero Fiat: «Credo che la parte difficile sia stata prima, la nomina di Giovanni Alberto. Poi, “Jaky” è stata come una seconda costola tolta. Ma Edoardo si rendeva conto che non era una posizione per lui», così portato per l’introspezione filosofica e religiosa – addirittura pervasa del misticismo Sufi, quello dei Dervisci rotanti, la confraternita iniziatica fondata dal sommo poeta afghano Rumi nel 1200.A ben altra scuola esoterica, secondo Carpeoro, appariene invece l’ebreo Alain Elkann, classe 1950, nato a New York da padre francese e madre italiana, giornalista e scrittore, docente universitario in Pennsylvania. Suo padre, il rabbino Jean-Paul Elkann, banchiere e industriale, è stato presidente del Concistoro ebraico di Parigi. La madre di Alain, Carla Ovazza, discende da una famiglia di banchieri torinesi (e nel 1976 fu vittima di un sequestro di persona). Un suo zio, il banchiere Ettore Ovazza, fascista fino al 1938 e amico di Mussolini, aveva fondato il giornale ebraico antisionista “La Nostra Bandiera”, prima di essere assassinato nel 1943 dai nazisti. Giornalista e scrittore, Alain Elkann è stato sodale di Alberto Moravia e Indro Montanelli. Ha scritto romanzi e saggi, anche in collaborazione con personaggi prestigiosi come Elio Toaff, storico rabbino capo emerito di Roma, nonché l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini e il Re di Giordania Abdullah. Tema a lui caro: la fede ebraica in rapporto alle altre religioni, e l’essere ebrei oggi. Dal 2004 è presidente della Fondazione del Museo Egizio di Torino, e ha collaborato con l’allora ministro Sandro Bondi (beni culturali).Alain Elkann è membro della Fondazione Italia-Usa e fa parte del comitato scientifico del Meis di Ferrara, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, nonché di istituzioni universitarie italo-americane. Nel 2009 è stato anche insignito della Legion d’Onore, massima onorificenza francese. Ma ovviamente nel suo curriculum non c’è traccia dell’appartenenza al B’nai B’rith. Suo figlio, John, è oggi il reggente dell’impero industriale Fca, Fiat-Chrysler. Suo cognato Edoardo Agnelli morì suicida, senza un cenno di addio, o fu assassinato? E’ la domanda irrisolta a cui cerca di rispondere Minoli, nel suo reportage televisivo. «Se qualcuno mi dimostrasse che Edoardo è stato ucciso ne sarei in qualche modo felice, perché significherebbe che non era così disperato da fare questo gesto», dice il cugino, Lupo Rattazzi, convinto però che Edoardo fosse proprio deciso a farla finita. «L’inchiesta giornalistica sulla figura dell’erede mancato della famiglia Agnelli, e sulla sua tragica scomparsa – scrive Mario Baudino sulla “Stampa” – mette in fila tutti gli elementi, anche quelli controversi, di un avvenimento che, data la notorietà del protagonista, ha avuto negli anni anche interpretazioni assai dietrologiche».Soprattutto, aggiunge il giornalista, Minoli ricostruisce una personalità complessa e tormentata, e una vicenda umana dolorosa. A tenere aperto il giallo sulla fine di Edoardo Agnelli è la testimonianza di un pastore, che la mattina del 15 novembre del 2000 pascolava i suoi animali sulle rive del fiume Stura di Demonte: l’uomo sostiene di aver visto il cadavere di Edoardo Agnelli verso le 8.30, cioè molto prima che l’auto – abbandonata sul viadotto soprastante – avesse varcato il casello autostradale. Ma l’ex capo dei Ris di Parma, Luciano Garofalo, non dà credito alla testimonianza: la ritiene un tipico caso di auto-inganno della memoria. Se invece il pastore avesse ragione, scrive Baudino, «bisognerebbe pensare che sulla Croma di Edoardo Agnelli ci fosse, in quel momento, qualcun altro; anzi, che ci fosse sempre stato qualcun altro a bordo. Un giallo troppo complicato e inverosimile». C’è poi la tesi di una televisione iraniana, che aveva fatto scalpore con un documentario in cui prospettava l’ipotesi di un omicidio “sionista”, «commesso per eliminare un erede della dinastia italiana convertitosi all’Islam». Edoardo Agnelli, ricorda Baudino, era affascinato dalle fedi: si era laureato in storia delle religioni, con una tesi su quelle orientali. Era «affascinato dalla mistica Sufi», anche se «nessuno degli amici più intimi ha mai avuto il più lontano sentore che fosse diventato musulmano». A ricordarlo, oggi, c’è invece quella foto inequivocabile, postata su Facebook da Carpeoro.Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il cui capostipite fa parte del B’nai B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che pubblica su Facebook una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste», scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica. Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi». Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli, trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa. Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».
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Dieudonné e le reti dell’orrore: bambini uccisi dai potenti
Fate tacere quel comico: svela l’esistenza di reti di pedofili satanisti dietro i massimi vertici del potere. E’ il caso del controverso Dieudonné, nome completo M’bala M’bala, umorista francese di origine camerunense, balzato anche in Italia agli onori delle cronache per il suo presunto antisemitismo dopo la strage di Charlie Hebdo. Mesi prima era finito nelle indagini della magistratura francese, che aveva ordinato il boicottaggio del suo spettacolo “Il muro” nei teatri delle più importanti città. Durante lo show, scrive Federica Francesconi sul blog “La strage degli innocenti”, Dieudonné «denunciava apertamente le reti dei pedofili che agiscono in Francia indisturbate grazie alle coperture della classe dirigente del paese». Dopo la circolare emanata dal ministero dell’interno, che imponeva lo stop allo spettacolo che il comico avrebbe dovuto recitare in tutta la Francia, i teatri transalpini gli hanno revocato uno dopo l’altro il permesso andare in scena. «Alcuni movimenti e gruppi hanno denunciato l’intervento delle autorità francesi come un vero e proprio attacco alla libertà di espressione sancita dalla Costituzione». A preoccupare i censori erano «le rivelazioni che Dieudonné aveva fatto durante i suoi show satirici sull’esistenza in territorio francese di radicate e pericolosissime reti pedofile».Non è difficile mettere fuori gioco Dieudonné, che è «dichiaratamente antisemita». La stessa Francesconi premette: «Non condivido tutto quello che il comico sostiene sugli ebrei». Ma il punto è un altro: la questione non riguarda “gli ebrei”, o meglio i sionisti, ma i bambini. Spesso sequestrati, violati e abusati. Torturati, e infine “sacrificati”. «Durante i suoi spettacoli il comico francese ha parlato più volte dei bambini che vengono violati durante disgustosi rituali sessuali praticati dai “grandi” di questo mondo», avverte la blogger. Per cui, «vi è il legittimo sospetto che questa possa essere la vera ragione dell’interdizione dei suoi spettacoli». In particolare, Dieudonné si è occupato del caso dei fratelli Roche: un caso di malagiustizia che in anni recenti ha suscitato molto clamore in Francia e ha fatto venire allo scoperto le strette connessioni tra pedofilia e magistratura deviata. I due fratelli, Charles-Louis e Diane Roche, hanno denunciato il coinvolgimento di politici e magistrati francesi in pratiche pedofile “controiniziatiche”, a cui pare fosse legato anche il loro padre, il magistrato di Tolosa Pierre Roche. La rivelazione: il potere di una magistratura “nera”, incaricata di insabbiare le indagini e proteggere gli “orchi”, tutti insospettabili.Poco prima di morire di cancro, l’uomo aveva confidato ai figli il terribile segreto che per anni aveva custodito: l’esistenza di una costola deviata della magistratura, «il cui obiettivo segreto è di insabbiare tutte le inchieste e le indagini che provano l’esistenza delle reti pedocriminali e che tentano di fare luce sulle coperture istituzionali di cui i pedofili godono». Bingo: nel suo spettacolo, Dieudonné aveva ospitato uno dei due fratelli, Charles-Louis, «che ha potuto esprimersi liberamente in una sorta di monologo durante il quale ha denunciato i loschi traffici di cui è a conoscenza e in cui pare fosse implicato anche il padre». Il comico ha bollato senza mezzi termini le reti pedofile dell’orrore, definendole «reti sataniste», a capo delle quali vi sarebbe un «gruppo segreto», meglio conosciuto come «élite mondialista». Che cosa ha rivelato di così destabilizzante per i poteri occulti il figlio del defunto magistrato Pierre Roche? Durante lo spettacolo di Dieudonné, «Charles-Louis ha testimoniato sulle confessioni fattegli dal padre che riguardavano i crimini di cui si era macchiato durante l’esercizio della sua carica».In particolare, in punto di morte, Pierre Roche avrebbe «rivelato al figlio di aver partecipato a delle orge nella regione di Tolosa, in compagnia di altre personalità francesi altolocate». Durante queste orge «i partecipanti abusavano di prostitute, di vagabondi rapiti per strada e di bambini». Attenzione: erano «orge che finivano sempre con l’uccisione rituale delle piccole vittime, dopo averle sottoposte a ogni tipo di tortura». Federica Francesconi definisce quelle atroci serate «cerimonie controiniziatiche». Un’allusione precisa: viene chiamato “contro-iniziato” un soggetto che abbia ricevuto un’iniziazione esoterica (per esempio massonica) e che poi faccia un uso distorto, capolvolto, delle conoscenze che gli sono state trasmesse. Per la massoneria democratico-progressista sono “contro-iniziati” gli uomini del massimo potere, aderenti a superlogge internazionali che nei fatti rinnegano gli ideali della stessa tradizione massonica (libertà, uguaglianza, fratellanza) per “pervertire” in senso neo-oligarchico l’ordine mondiale, retto da una casta più o meno occulta di super-potenti, assolutamente reazionari, contrari cioè ai diritti, al benessere e al progresso del 99% della popolazione.Per alcuni di essi si tratta di una vera e propria forma di religione, scrive Gianfranco Carpeoro nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, in cui illustra la dottrina ottocentesca del marchese Saint-Yves d’Alveidre: in base alla teoria della “sinarchia”, l’élite (“illuminata” per auto-elezione) ha il diritto-dovere di governare le masse, visto che il popolo – rozzo e ignorante – non avrebbe gli strumenti per decidere da sé. In altre parole, la democrazia è una bestemmia. E proprio allo svuotamento sostanziale della democrazia si è dedicata l’élite eurocratica, che secondo Dieudonné è anche rigorosamente pedofila. Uccidere un bambino mediante un sacrificio rituale significa “uccidere” il futuro che non ti piace, quello degli altri, al tempo stesso propiziando il tuo: lo sostiene Giuseppe Genna, tra le pagine del romanzo “Nel nome di Ishmael” che svela una realtà abominevole: quella dell’omicidio “rituale” dei bambini, abusati dai pedofili, come viatico “magico” per sanguinosi attentati politici organizzati dall’oligarchia tramite settori deviati dei servizi segreti. Un incubo, simile a quello descritto da Charles-Louis Roche nello spettacolo di Dieudonné. E quelle orge francesi, dice il figlio del giudice, erano quasi sempre filmate, «verosimilmente per ricattare a vita i partecipanti», ne deduce la Francesconi.«I partecipanti alle serate orgiastiche erano tutti membri della massoneria deviata francese la quale, tramite i filmati, teneva sotto scacco i suoi affiliati per obbligarli a lasciarsi manovrare nell’esercizio dei rispettivi ruoli pubblici», aggiunge la blogger. «La testimonianza dei due fratelli Roche è molto importante perché per la prima volta, tramite i suoi figli, un notabile, uno dei membri di questi gruppi occulti che governano i sistemi istituzionali di quasi tutti gli Stati, viola il voto di segretezza e omertà a cui è obbligato per rivelare al mondo i segreti inconfessabili dell’élite satanista». La terribile ricostruzione è proposta anche da un documentario su Dieudonné ripreso da YouTube. Il documento conferma che Charles-Louis Roche ha approfittato dell’ospitalità del comico per rendere pubblica la testimonianza del genitore, e quindi denunciare l’esisternza delle «reti dell’orrore» delle quali padre, magistrato di alto grado, è stato membro, prima di morire. O meglio: «Prima di essere assassinato», si afferma, sostenendo che il giurista non sarebbe morto in modo naturale. E dai media «silenzio totale», visto che gli organi di stampa «eseguono gli ordini».Secondo Charles Louis-Roche, l’ideologia del gruppo cui aveva appartenuto il padre «consiste in un progetto culturale, a cominciare dalla legge, dalla morale e dalla discendenza che ha come scopo la violazione, la tortura e la morte di bambini di età compresa tra i pochi mesi di vita e i 10 anni». Ne parla anche la sorella, Diane Roche: «Reti pedofile, sataniste e mafiose all’interno delle quali dei bambini vengono filmati e contemporaneamente torturati, violati e uccisi». Nello spettacolo di Dieudonné, Charles-Louis Roche ha dichiarato che il padre gli aveva rivelato che a tali reti pedofile «appartengono esponenti del mondo della politica, gli editori, la finanza, i medici». Quali sono le attività di questi circoli? «Consistono nell’organizzare serate estreme, alcune delle vere e proprie rappresentazioni teatrali, che sono di due tipi». Il primo tipo consiste in una “storia della pesca di Cristo”, forse un rituale controiniziatico: «Per festeggiare la Natura, la serata degenera nel sadomasochismo e nel consumo di stupefancenti, che servono per aumentare il piacere dei partecipanti e che costituiscono un doppio premio». Vengono utilizzate anche prostitute e ragazze provenienti da famiglie disagiate: «Sono le candidate ideali per sparire senza lasciare traccia».E chi sarebbero i protettori di queste reti pedofile? Charles-Louis Roche elenca i nomi di 71 magistrati francesi attualmente in carica: li definisce «corrotti» e sostiene che facciano «esattamente ciò che il potere politico ordina loro di fare». Dentro a queste reti esisterebbe un metodo comune di dissuasione, per evitare che troppe verità scomode vengano divulgate. «Questo metodo – denuncia il documentario – consiste nell’ostacolare e nel ricorrere a minacce molto dissuasive per ridurre al silenzio grandi uomini come Dieudonné, il belga Marc Vervloesem ed altri, che hanno rivelato alcune verità e che quindi costituiscono per questi mostri, questi assassini di bambini, un pericolo». Costoro avrebbero «minacciato di rapire i figli di Dieudonné, che ha contribuito a denunciare queste reti pedofile sataniche». Aggiungono gli autori del video: «Sono perfettamente al corrente che Dieudonné conosce l’esistenza di queste reti pedofile, che ha contribuito a denunciare». Si parla di personaggi potentissimi e protetti da impunità assoluta: «Sono coloro che attualmente detengono il potere sulla Terra». Le chiavi del potere, per loro, sarebbero «l’adorazione di Moloch, una delle rappresentazioni di Lucifero simboleggiato da un gufo o da una civetta», nonché il più prosaico «controllo privato della moneta».«Secondo i loro precetti satanici – continuano i documentaristi francesi – l’adorazione del diavolo deve manifestarsi attraverso rituali e cerimonie che coinvolgono bambini, rituali che si rivelano alla presenza di alcuni simboli che li rappresentano». Il filmato accusa in particolare un prestigioso avvocato di origine ebraica, Alain Jacubowicz, che avrebbe minacciato Dieudonné, invitandolo (sinistramente) a «ridere bene con i suoi figli». Jacubowicz è il presidente della Licra, la Lega antirazzista francese, specializzata nella lotta contro l’antisemitismo, che «ha fatto di Dieudonné il bersaglio preferito di una diffamazione mediatica imbastita per screditare il comico e le sue denunce pubbliche contro i poteri occulti», scrive Federica Francesconi. «Jacubowicz è anche colui che ha difeso il B’nai B’rith e il Concistoro israelita durante i processi “Barbie”, “Touvier” e “Papon”, criminali e torturatori nazisti che durante la Seconda Guerra Mondiale si resero responsabili dell’uccisione di migliaia di ebrei». Il B’nai B’rith è un’associazione ebraica di stampo massonico, mentre il Concistoro israelita è l’istituzione rappresentativa degli ebrei di Francia.Quindi Jacubowicz è uno dei massini rappresentanti della comunità ebraica francese, «ma non un personaggio esattamente limpido se, come denunciato da Dieudonné, in un’aula del tribunale, davanti a decine di persone, ha minacciato di nuocere ai suoi figli pronunciando quell’inequivocabile frase dal sapore satanista», aggiunge Francesconi: “ridere bene coi propri figli” può essere un’allusione ai riti infernali di chi “ride” uccidendo bambini? «Ma si sa: a certi personaggi è permesso dire di tutto», aggiunge Francesconi. Certi big «godono dell’immunità pressoché integrale della magistratura», quindi non temono che il loro prestigio sociale possano essere scalfito. «E’ curioso che pochi mesi prima della strage del presunto commando jihadista contro la redazione di Charlie Ebdo, in Francia un disegnatore satirico, Plantu, sia stato assolto in un processo che lo vedeva accusato di incitamento all’odio religioso e alla violenza», aggiunge la blogger, dopo aver disegnato in una vignetta l’allora pontefice Benedetto XVI nell’atto di sodomizzare un bambino. Palntu era stato assolto: quella vignetta «era soltanto una denuncia dell’omertà e del silenzio dei vertici ecclesiastici sul fenomeno sommerso della pedofilia nella Chiesa», e non già un atto di accusa indiscriminato contro tutti i cattolici. «Peccato che la stessa libertà di espressione non venga riconosciuta anche a Dieudonné, forse perché, a differenza di Plantu, punta il dito contro l’onnipotente e tentacolare comunità ebraica? A voi la risposta».Fate tacere quel comico: svela l’esistenza di reti di pedofili satanisti dietro i massimi vertici del potere. E’ il caso del controverso Dieudonné, nome completo M’bala M’bala, umorista francese di origine camerunense, balzato anche in Italia agli onori delle cronache per il suo presunto antisemitismo dopo la strage di Charlie Hebdo. Mesi prima era finito nelle indagini della magistratura francese, che aveva ordinato il boicottaggio del suo spettacolo “Il muro” nei teatri delle più importanti città. Durante lo show, scrive Federica Francesconi sul blog “La strage degli innocenti”, Dieudonné «denunciava apertamente le reti dei pedofili che agiscono in Francia indisturbate grazie alle coperture della classe dirigente del paese». Dopo la circolare emanata dal ministero dell’interno, che imponeva lo stop allo spettacolo che il comico avrebbe dovuto recitare in tutta la Francia, i teatri transalpini gli hanno revocato uno dopo l’altro il permesso andare in scena. «Alcuni movimenti e gruppi hanno denunciato l’intervento delle autorità francesi come un vero e proprio attacco alla libertà di espressione sancita dalla Costituzione». A preoccupare i censori erano «le rivelazioni che Dieudonné aveva fatto durante i suoi show satirici sull’esistenza in territorio francese di radicate e pericolosissime reti pedofile».
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Globalizzati e sempre più poveri: come nell’Impero Romano
I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.In Europa occidentale questo è un po’ meno evidente, o forse è solo in ritardo, ma con il globalismo e il neoliberismo, che sono ancora le religioni economiche dominanti, non ci sarà via d’uscita. Che è successo? Beh, noi non facciamo più le cose. Ecco tutto. Dobbiamo comprare da altri tutte le cose che ci servono: sempre di più. E di conseguenza non abbiamo nemmeno le competenze per fare altre cose. Siamo diventati dipendenti, per la nostra sopravvivenza, da nazioni che stanno dall’altra parte del pianeta. Dipendenti da nazioni che sono interessate solo a venderci le loro cose, se le possiamo pagare. Nazioni che vedono le richieste di salario interno salire e che – dovranno – farci pagare i loro prodotti a prezzi sempre più alti. E noi non avremo altra scelta che pagare. Ma possiamo pagare solo con quello che possiamo prendere in prestito – come nazioni, come imprese e come individui. Dobbiamo prendere in prestito perché, come nazioni, come società e come individui noi non facciamo più le cose. È un circolo vizioso con cui la globalizzazione ci ha benedetto. E da cui – ci viene detto – potremo uscire solo se riusciremo a crescere ancora. Cosa che non possiamo fare, perché noi non facciamo nulla.Quindi ci affidiamo ai banchieri centrali per gestire la crisi. Perché ci viene detto che loro sanno come gestirla. Non lo sanno, ma fingono di saperlo. Però, a leggere bene tra le righe, ammettono la loro ignoranza. A Janet Yellen, poche settimane fa, è scappato di dire che non ha idea del motivo per cui l’inflazione è debole. Mario Draghi ha detto più o meno la stessa cosa. Perché non lo sanno? Perché conoscono solo i modelli attuali, che non vanno più bene, perché non si adattano. E i modelli sono tutti quelli che hanno. Nel settore bancario centrale i modelli economici sono più importanti del buon senso. La Fed ha almeno un migliaio di dottorati PhDs sotto contratto. Ma la Yellen, il loro capo, continua a sostenere che “forse” sono sbagliati i modelli che dicono che se cresce l’inflazione aumentano i salari. Non hanno idea del perché i salari non crescano. Perché i modelli dicono che invece dovrebbero crescere. Perché loro hanno tutti un lavoro – i 1000 dottoroni ben pagati. E questo è tutto quello che hanno da dire. Dicono che il fatto che i salari non aumentano è un mistero.Io dico che quelli per cui questo è un mistero non sono le persone giuste per fare il lavoro che fanno. Se si esportano milioni di posti di lavoro in Asia, si sposta anche il potere negoziale dei lavoratori e li si spinge a fare dei lavori di merda e senza nessun benefit, allora c’è solo un risultato possibile. E questo risultato non include né inflazione, né crescita dei salari. L’unico risultato possibile, invece, è una erosione continua delle economie. Il mantra globalista afferma che riempiremo lo spazio che perdono le nostre economie offrendo posti di lavoro migliori, nel settore dei servizi e nel settore della conoscenza. Ma la realtà non segue il mantra. La maggior parte dei nuovi posti di lavoro non sono sicuramente “migliori”. E mentre aspettiamo di vedere questi posti di lavoro migliori, salutiamo i clienti di Wal-Mart, vediamo che i robot cominciano a prendersi cura di quel poco che ci rimane della nostra capacità produttiva e i servizi pronta consegna eliminano dagli scaffali anche quello che restava nei nostri magazzini di mattoni e di calce. Sì, questo significa che stiamo perdendo anche i lavori “di minor qualità”.Nel frattempo i cinesi, che ora fanno i nostri vecchi lavori, sono stati capaci di farli grazie ad una folle quantità di inquinamento prodotto. E come se non fosse abbastanza, recentemente, solo per mantenere in vita il loro nuovo magico paradiso produttivo, sono stati costretti a prendere in prestito tanto quanto abbiamo preso in prestito noi – a livello statale, a livello di governo locale e ora anche a livello individuale. In Cina, le funzioni del credito sono come gli oppiacei in America. Milioni di persone che non erano mai entrate in contatto con le cose – e avrebbero continuato a viver bene anche se non ci fossero mai entrate in contatto – ora sono state agganciate. Ma sono stati agganciati anche i governi locali, che hanno creato un sistema bancario ombra che minaccerà presto Pechino; ma per i cittadini, questo, è un fenomeno relativamente nuovo. E si vede gente che dice cose come: “Se non compri un appartamento oggi, non te lo potrai mai più permettere”; oppure: “Una persona senza un appartamento non ha futuro a Shenzhen”.Sappiamo tutti che è sbagliato, ma i cinesi sono gente che ha visto solo che i prezzi dei beni salgono, e che non ha mai pensato che esistono delle città fantasma, e che ha pochi altri modi per parcheggiare i soldi che si guadagna, grazie al lavoro importato dagli Stati Uniti e dall’Europa. Pensano, senza avere mai dubbi, che i loro salari continueranno a crescere, proprio come il “valore” degli appartamenti. E’ gente che non ha mai visto i prezzi scendere. Ma se noi dobbiamo prendere soldi in prestito per permetterci di comprare i prodotti che (i cinesi) fanno per ripagare i soldi che hanno preso in prestito per comprare i loro appartamenti, allora siamo tutti in difficoltà, siamo tutti in mezzo ai guai. E allora è la stessa globalizzazione ad essere in difficoltà. I beneficiari assoluti, i proprietari della globalizzazione saranno in mezzo ai guai. Anche se lo saranno non prima di essersi pappati la maggior parte dei frutti del nostro lavoro. Che cosa ci farete, poi, con tutti i vostri miliardi, quando il tipo di società che avevate conosciuto quando siete cresciuti saranno state sradicate dal processo stesso che vi ha permesso di fare quei miliardi? Da qualche parte però, quei miliardi dovranno andare!Se quei 1000 dottoroni vogliono studiare un nuovo modello, potrebbero cominciare da qui. La globalizzazione provoca molti problemi. Il fatto che il lavoro scompaia dalle società – in modo che i cittadini di queste società possano però acquistare gli stessi prodotti per pochi centesimi di meno, se vengono in Cina – è un grande problema. Ma il problema principale della globalizzazione è quello finanziario: i soldi svaniscono continuamente dalle società, che devono indebitarsi sempre più per non regredire. La globalizzazione, come qualsiasi tipo di centralizzazione, fa questo: chiede soldi lontano, li chiede alle “periferie”. Il modello di Wal-Mart, McDonald’s, Starbucks ha già portato via lavoro, negozi e soldi incalcolabili dalle nostre società, ma non abbiamo ancora visto nulla. L’avvento di Internet farà prendere gli steroidi a quel modello; ma perché bisogna lasciare che un gruppo di capitalisti-avventurieri di Silicon Valley gestisca certi affari, come Uber o Airbnb, anche nel posto in cui viviamo noi, quando noi potemmo farlo benissimo e utilizzare i profitti di questi affari per migliorare la nostra comunità, invece di lasciarla diventare più povera?Vedo che, nel Regno Unito, Jeremy Corbyn ci aveva già pensato, e aveva fatto bene. La Gran Bretagna può diventare la prima grande vittima del lato oscuro della centralizzazione e, dopo essere uscita dall’organizzazione che l’appoggia – l’Unione Europea – l’idea di Corbyn di creare una cooperativa locale per sostituire Uber è proprio il modo di pensare di cui avrà bisogno. Ma perché devi accentrare tanti soldi e tanta capacità produttiva e poi lasciare tutto nel posto in cui si vive? Non si riuscirà mai a correre abbastanza velocemente, e non si deve farlo. Questo è il succo del dibattito sulla centralizzazione dell’Impero Romano. Anche se i Romani non spingevano mai le loro periferie a smettere di produrre i beni essenziali, però chiedevano di versare a Roma una parte. Il loro problema era che, verso la fine dell’Impero, la quota-parte che richiedevano (con la forza) divenne sempre più grande. Fino a che le periferie non si ribellarono – anche loro con forza.Il club delle banche centrali del mondo presto avrà delle nuove leadership. La Yellen potrebbe andar via, così come Kuroda in Giappone e Zhou in Cina; la Bce e Mario Draghi – della Goldman – cambieranno un po’ più tardi. Ma non c’è nessun segnale che le religioni economiche a cui aderiscono tutti saranno sostituite; così si andrà avanti con la centralizzazione. E se non dovesse funzionare, imporranno ancora più centralizzazione. Come finiranno i giochi in questo processo è dolorosamente ovvio già dall’inizio. La centralizzazione alimenta forze centrali, siano esse governative, militari o commerciali, pagate con i frutti del lavoro delle popolazioni locali, delle periferie. Questo è un processo che, sempre e inevitabilmente, andrà a sbattere contro un muro, perché sono troppi i frutti di quel lavoro che vengono tolti. Troppo è il peso di quei frutti che continuano a scorrere verso il centro, sia verso la Silicon Valley, sia verso Wall Street o sia verso Roma Antica. Non c’è nessuna differenza. Ci sono cose che si possono tranquillamente centralizzare (come le trattative di pace), ma non si possono centralizzare beni essenziali come il cibo, la casa, i trasporti, l’acqua, l’abbigliamento. Hanno un costo troppo alto a livello locale per essere centralizzati. Oppure tutti e ovunque finiremo per romperci l’osso del collo solo per sopravvivere. E’ molto facile, forse perché nessuno ci fa caso.(Raul Ilargi Meijer, “La globalizzazione è povertà”, da “The Automatic Earth” del 16 ottobre 2017, post ripreso da “Come Con Chisciotte” con traduzione di Bosque Primario).I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.
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Ishiguro: amate i miei robot, state diventando come loro
È possibile innamorarsi di un oggetto? Può l’intelligenza artificiale simulare la coscienza al punto tale da far sembrare davvero umano un androide? Domande sempre più rilevanti nella crescente robotizzazione della società. Il paese all’avanguardia nel campo è da sempre il Giappone, costantemente proiettato nell’indagine di cos’è davvero un robot e, di riflesso, cos’è un umano. Uno degli scienziati più affascinanti in quest’ambito è da più di 15 anni Hiroshi Ishiguro, che nei suoi laboratori di Osaka ha creato una fabbrica di androidi in costante evoluzione. Nel 2002 iniziò con la replica di sua figlia Risa, 9 anni: un pupazzo di gomma dalle movenze rigide e troppo meccaniche che faceva scattare l’effetto “Uncanny Valley”, la repulsione nel vedere qualcosa di smaccatamente verosimile all’umano. Un po’ come i manichini nei film horror. Così Ishiguro affinò il progetto Geminoid, gemello-androide, nel tentativo di creare copie da un calco originale umano, basandosi sull’idea che poiché gli umani riescono ad avere intimità con altri esseri umani, la strada giusta è quella dell’imitazione e dei replicanti alla “Blade Runner”.Così s’ispirò, nel 2005, a una conduttrice di tg giapponese per creare Repliee Q1. Ancora troppo rigida e surreale. Allora ebbe l’intuizione geniale che gli regalò la fama: un’autoritratto robotico. Nacque Geminoid HI-1, dalle sue iniziali. Uguale in tutto e per tutto al professor Ishiguro, con ciuffo cotonato da rockabilly, espressione torva, mani curate, camicia e pantaloni attillati neri. Il tutto sfocia dal suo convincimento che le emozioni umane non sono null’altro che risposte a stimoli. E quindi manipolabili. Il suo obiettivo, come quello dello scienziato pazzo nel film “Ex machina”, è creare l’androide perfetto che non solo diventerà una badante efficace, o una funzionaria credibile, ma anche, e molto a breve, un’amante perfetta e forse anche una moglie. Dopotutto, per rispondere alla domanda se sia possibile innamorarsi di un oggetto, basta pensare alla passione dilagante per gadget elettronici, macchine da corsa, gioielli. Si può amare un involucro di cavi, acciaio e microchip ricoperto di gomma riscaldata per farla somigliare a carne e pelle umana? Ishiguro ne è convinto e con lui molti altri scienziati e imprenditori.Il passo successivo, per vincere la repulsione per un manichino animato è stato andare in tutt’altra direzione creando, nel 2011, il fantasmino Telenoid, un incrocio tra un robot-bambino e un elfo, con braccia a moncherino e al posto delle gambe un inquietante sedere a 360° gradi. Eppure, portandolo nelle case di riposo, Telenoid fece scattare emozioni immediate e gli anziani lo vollero tenere in braccio e parlargli. Ora Ishiguro è tornato all’attacco con la vera sfida della somiglianza, creando Erica. Non più un pupazzo animato a distanza da una sala di regia come se ne trovano nei musei di Tokyo, ma il primo androide pienamente autonomo. Erica può sostenere autonomamente una vera conversazione che dura fino a 10 minuti. Ha la possibilità di riconoscere la voce, i raggi infrarossi per seguire i movimenti degli umani, un sintetizzatore vocale e un generatore di movimento naturale.Fin dal 17esimo secolo, in Giappone costruivano le “karakuri”, bambole meccanizzate per servire il tè e per cerimonie religiose. Cent’anni dopo, il cecoslovacco Karel Capek scrisse l’opera teatrale che per prima utilizzò il nome robot, che in ceco significa “schiavo”. Ma questi schiavi tecnologici sono già usati nella roboterapia e come “chat bot” da compagnia per vincere il senso d’isolamento che continua a crescere nel nostro rapporto di dipendenza con la tecnologia. Un toccasana tecnologico a un male accresciuto dalla tecnologia stessa: medicina omeopatica, insomma. Non è un caso che finora l’androide di Ishiguro che ha avuto più credibilità sia una ragazza-robot messa in vetrina in un grande magazzino. Non parla con nessuno, sta lì seduta a fare il solletico a uno smartphone. Ogni tanto alza lo sguardo e sorride. Il robot sembra più umano quando interagisce con Internet. Proprio come l’umano sembra sempre di più un robot con lo smartphone saldato alla mano.(Carlo Pizzati, “Giappone, il signore dei robot: vi innamorerete di loro”, da “La Stampa” del 24 ottobre 2017).È possibile innamorarsi di un oggetto? Può l’intelligenza artificiale simulare la coscienza al punto tale da far sembrare davvero umano un androide? Domande sempre più rilevanti nella crescente robotizzazione della società. Il paese all’avanguardia nel campo è da sempre il Giappone, costantemente proiettato nell’indagine di cos’è davvero un robot e, di riflesso, cos’è un umano. Uno degli scienziati più affascinanti in quest’ambito è da più di 15 anni Hiroshi Ishiguro, che nei suoi laboratori di Osaka ha creato una fabbrica di androidi in costante evoluzione. Nel 2002 iniziò con la replica di sua figlia Risa, 9 anni: un pupazzo di gomma dalle movenze rigide e troppo meccaniche che faceva scattare l’effetto “Uncanny Valley”, la repulsione nel vedere qualcosa di smaccatamente verosimile all’umano. Un po’ come i manichini nei film horror. Così Ishiguro affinò il progetto Geminoid, gemello-androide, nel tentativo di creare copie da un calco originale umano, basandosi sull’idea che poiché gli umani riescono ad avere intimità con altri esseri umani, la strada giusta è quella dell’imitazione e dei replicanti alla “Blade Runner”.
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Magaldi: dite a Civati che i big progressisti erano massoni
Massoni? No, grazie. «Mi sarebbe piaciuto dibattere con Massimo D’Alema, che credo abbia molte responsabilità nella perdita di credibilità delle politiche progressiste nel nostro paese, essendo stato l’interprete italiano della pessima “terza via” altrove declinata da Blair e Clinton, poi sposata dal sedicente centrosinistra». Ma Gioele Magaldi non avrà l’onore di discutere con D’Alema, a Londra: entrambi non saranno presenti al dibattito promosso da esponenti della sinistra italiana anti-Renzi di stanza nella capitale inglese, alle prese con «una sorta di manifesto per rinnovare la politica italiana, come se la rigenerazione della politica debba passare per forza per la rigenerazione della sinistra, anziché della democrazia, cioè dell’interesse del popolo». L’irritazione di Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, nasce dal “niet” sulla sua presenza giunto da Pippo Civati: Magaldi lasciamolo a casa, perché è massone. «Il tutto, dopo settimane di collaborazione tra civatiani e “rooseveltiani” londinesi». Ma sa di cosa parla, Civati? E’ estremanente diretto, Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”: si rende conto, l’onorevole Civati, che erano massoni tutti i fondatori dell’Italia nonché il presidente della commissione che partorì il testo della Costituzione repubblicana, Meuccio Ruini?Pietra dello scandalo, la polemica accesa da Magaldi contro la “caccia alle streghe” della Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi con accanto il suo vice Claudio Fava, «che nei mesi scorsi ha chiesto le liste dei massoni per valutare presunte infiltrazioni mafiose». Ha protestato il gran maestro del Goi, Stefano Bisi: ma perché non si chiedono anche le liste degli iscritti a partiti, sindacati e associazioni varie? «Una volta tanto ne ha detta una giusta anche Bisi», dice Magaldi, mai tenero col Grande Oriente d’Italia. «Evidentemente c’è una cultura massonofobica, di grande ignoranza e grande pregiudizio», sostiene Magaldi, «tant’è che Claudio Fava è stato anche uno degli estensori di una proposta di legge liberticida, che sarà cassata come incostituzionale fintanto che l’Italia resterà un paese democratico: si vorrebbe vietare ai massoni di ricoprire incarichi pubblici». Per Magaldi, una discriminazione inaccettabile e pericolosa: «Il massone “buono” è sempre quello segreto e occulto, se invece sei un massone a viso aperto devi essere discriminato». Magaldi, peraltro, non è indulgente nemmeno con i “fratelli” in grembiulino: ne ha messi alla berlina a decine, nel bestseller “Massoni” pubblicato da Chiarelettere a fine 2014, un libro che denuncia i maneggi delle Ur-Lodges, le superlogge al vertice del potere mondiale.L’incidente diplomatico di Londra? Non privo di retroscena movimentati: «Ho rifiutato subito la location, una sala intitolata a Karl Marx», dice Magaldi: «Rispetto Marx come analista economico e grande filosofo, ma aborro l’ideologia marxista perché autoritaria, non democratica, foriera di esiti totalitari e liberticidi». Tra i promotori dell’incontro, oltre a Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt, i “terminali” britannici delle svariate “famiglie” italiane della neo-sinistra antirenziana: dai citaviani di “Possibile” fino al soggetto politico di Anna Falcone e Tomaso Montanari (teatro Brancaccio), fino ad “Articolo 1 Mdp” (D’Alema, Bersani e Speranza). Tra i volti nuovi, una giovane di talento come Rosa Fioravante, legata alla fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema. «Lavorando con Moiso – dice Magaldi – hanno gustato il cibo sapido della proposta ideologica “rooseveltiana”: il loro manifesto era insipido, noioso e verboso, tipico di chi pensa di recuperare categorie ottocentesche nella contrapposizione tra capitale e lavoro». In più, la Fioravante ha appena pubblicato un post “rooseveltiano” contro l’ideologia neoliberista della “fine dello Stato”. E s’è messa pure a parlare di Olof Palme, il leader svedese assassinato nel 1986, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano, a febbraio.«A proposito: Rita Fioravante e i suoi sapevano che Olof Palme era un illustre massone, oltre che un politico progressista?». Massone, proprio come Magaldi e gli altri, che Civati vorrebbe mettere alla porta. «Noi parliamo da mesi, di Olof Palme, il convegno di Milano servirà a risvegliare i valori socialisti», annuncia Magaldi. «E adesso arriva costei, la Fioravante, e scrive un pezzo proprio su Olof Palme». Strana contaminazione culturale, a tempo di record? E la “fatwa” di Civati sull’ingombrate Magaldi, messo alla porta come massone? «Ci sarà rimasto male: una volta, richiesto di un parere su di lui, ho detto che non mi sembrava un fulmine di guerra», ammette il fondatore del Movimento Roosevelt. «Del resto, il suo consigliere economico all’epoca della battaglia per la segreteria Pd passò armi e bagagli con Renzi: quanto poteva divergere la politica economica di Civati da quella di Renzi? Poi Civati ha contrasato il Jobs Act renziano, è vero. Ma non è che prima del Jobs Act avessimo la piena occupazione, in Italia: la crisi dura da 25 anni, questo è un paese in declino». E poi: qual è la visione democratica e liberale della cittadinanza, per il “massonofobico” Civati?«Non è possibile una persona che rappresenta le istituzioni (Civati è tuttora deputato), dopo aver elaborato con i suoi un programma comune per un evento comune a Londra, dica, ipocritamente: non vado a un incontro con Magaldi perché è massone». Un giudizio netto, da Magaldi: «C’è ipocrisia, perché Civati sapeva benissimo che io fossi massone. E c’è ignoranza, perché mi dicono che Civati sia laureato in filosofia rinascimentale. Spero che non abbia studiato sui Bignami e che abbia qualche cognizione dell’esoterismo rinascimentale che poi si istituzionalizza tra ‘600 e ‘700 e diventa massoneria». Infierisce Magaldi: «Dato che mi pare sia tra quanti vogliono difendere la Costituzione e attuarla a dovere, spero che Civati sappia, per esempio, che il presidente della “commissione dei 75” che ha redatto il testo costituzionale, Meuccio Ruini, era un noto e conclamato massone». Senza contare, aggiunge, che i padri della patria italiana, «quelli che hanno fatto sì che Civati non sia nato nel regno lombardo-veneto ma in Italia», erano tutti massoni.Era massone Giuseppe Garibaldi, primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, e così Cavour, Mazzini e i tanti patrioti, anche lombardi, che si distinsero sin dalle “giornate di Milano” per il loro patriottismo e per la loro militanza massonica e carbonara. Insiste Magaldi, sempre a “Colors Radio”: «Civati non avrebbe dibattuto con il padre della patria Meuccio Ruini? Non avrebbe dibattuto con colui che ha liberato l’Europa dal nazifascismo, Franklin Delano Roosevelt, massone conclamato al pari di Eleanor Roosevelt, madrina dei diritti umani? E non avrebbe collaborato, Civati, con Martin Luther King, Gandhi o Arthur Meier Schlesinger, l’ideologo della New Frontier kennediana? E ancora: non avrebbe interoquito con John Maynard Keynes, le cui teorie economiche sono alla base della socialdemocrazia europea?». A Civati, Magaldi addebita «ignoranza e insipienza storico-critica». Spiacevole, per «un parlamentare laureato in filosofia, che ignora il ruolo dell’esoterismo rinascimentale e poi massonico nell’elaborazione dei valori di democrazia e libertà, e si permette il lusso di porre una discriminante verso qualcuno per ragioni di appartenza spirituale, filosofica, meta-religiosa».Massoni? No, grazie. «Mi sarebbe piaciuto dibattere con Massimo D’Alema, che credo abbia molte responsabilità nella perdita di credibilità delle politiche progressiste nel nostro paese, essendo stato l’interprete italiano della pessima “terza via” altrove declinata da Blair e Clinton, poi sposata dal sedicente centrosinistra». Ma Gioele Magaldi non avrà l’onore di discutere con D’Alema, a Londra: entrambi non saranno presenti al dibattito promosso da esponenti della sinistra italiana anti-Renzi di stanza nella capitale inglese, alle prese con «una sorta di manifesto per rinnovare la politica italiana, come se la rigenerazione della politica debba passare per forza per la rigenerazione della sinistra, anziché della democrazia, cioè dell’interesse del popolo». L’irritazione di Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, nasce dal “niet” sulla sua presenza giunto da Pippo Civati: Magaldi lasciamolo a casa, perché è massone. «Il tutto, dopo settimane di collaborazione tra civatiani e “rooseveltiani” londinesi». Ma sa di cosa parla, Civati? E’ estremanente diretto, Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”: si rende conto, l’onorevole Civati, che erano massoni tutti i fondatori dell’Italia nonché il presidente della commissione che partorì il testo della Costituzione repubblicana, Meuccio Ruini?
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D’Annunzio ‘antifascista’ precipitò dal balcone: coincidenze?
La sera del 13 agosto 1922 Gabriele D’Annunzio cadde dal balcone della stanza della musica del Vittoriale, e rimase fra la vita e la morte per molti giorni. Il fatto sembrò subito molto strano; la versione ufficiale comunicata alla stampa affermava che il poeta, mentre stava cercando un po’ di fresco nella serata afosa, era stato colto da un capogiro. Il 17 agosto seguente il giornale “Il Comunista” insinuò che la caduta fosse dovuta a un fatto doloso. Altri ventilarono l’ipotesi che il poeta avesse tentato il suicidio, e non mancò chi sostenne che la caduta non fosse mai avvenuta. Ad oggi la versione è che D’Annunzio cadde mentre ascoltava la musica suonata al pianoforte per lui da Luisa Baccara, appoggiato a una finestra, vicino alla sorella della pianista, la giovane Jolanda. La caduta sarebbe stata causata da una spinta datagli da Jolanda per opporsi a qualche avance focosa del poeta. Sembra che, in stato di semi-incoscienza, il 21 agosto, il poeta abbia mormorato una frase significativa appuntata dal medico curante: «E Joio? Jolanda, si sarà spaventata e sarà scappata a Venezia».Questo il bollettino dei medici Antonio Duse, Francesco d’Agostino, Davide Giordano, Mario Donati, Raffaele Bastianelli, Augusto Murri subito dopo il ricovero in ospedale: «Segni manifesti di frattura della base del cranio estesa all’orbita destra. Commozione cerebrale. Stato d’incoscienza. Segni di compressione cerebrale dubbi. Disturbi di motilità e di sensibilità non manifesti. Ferite lievi escoriate all’arto inferiore destro. Leggera contusione a destra del torace. Ambe le mani sono incolumi. Non v’è indicazione urgente di atto chirurgico. Polso regolare 67. Respiro regolare 25. Temperatura 37,8. Prognosi tuttavia riservata». Fu disposta un’inchiesta riservata affidata al commissario Giuseppe Dosi, lo stesso che poi indagherà sul caso del povero Gino Girolimoni che nel 1927, a Roma, sarà accusato ingiustamente dello stupro di sette bambine e dell’omicidio di cinque di loro; delitti avvenuti tra il 1924 e il 1927. Un caso davvero inquietante, nel quale entrò anche un prete (anglicano) inglese, Ralph Lyonel Brydges, probabilmente il vero assassino.Giuseppe Dosi si presentò in incognito al Vittoriale, facendosi passare per un ex ufficiale della Legione Cecoslovacca, addirittura parlando tedesco e italiano con accento straniero. Chiese di frequentare il Vittoriale per dipingere paesaggi, e ne approfittò per interrogare il personale e la gente dei dintorni. Conversò con lo stesso D’Annunzio, fino a quando il poeta capì di avere a che fare con uno sbirro e gli impose di andarsene. D’Annunzio all’epoca abitava al Vittoriale in una specie di Aventino, dedicandosi alla sua arte, avendo scelto di tenersi lontano dalla vita pubblica. Ex legionari legati ad Alceste De Ambris, che era stato capo di gabinetto di D’annunzio a Fiume, cercavano di richiamare il poeta all’impegno pubblico e di fargli assumere una posizione antifascista in un momento nel quale il fascismo, soprattutto in campo sindacale, stava mietendo successi. I fascisti guardavano al poeta come un rivoluzionario combattentista, pensando alla suggestione che la sua figura poteva esercitare sull’intero popolo italiano. Lo stesso Mussolini era consapevole che la figura di D’Annunzio era un polo d’attrazione per gli ambienti squadristi del suo movimento.Nell’aprile del 1921 vi era stato un incontro fra D’Annunzio e Mussolini. Il poeta aveva appoggiato la candidatura di De Ambris alle elezioni di quell’anno, e vi erano state alcune iniziative promosse dai sindacalisti dannunziani in chiave antifascista. Il 3 agosto 1922, a Milano, D’Annunzio fece un improvvisato discorso dal balcone di Palazzo Marino dopo il fallimento dello “sciopero legalitario” promosso dalla Alleanza del Lavoro contro la violenza fascista. In quello stesso periodo furono avviati abboccamenti tra D’Annunzio, Mussolini e Francesco Saverio Nitti, che avrebbero dovuto portare ad una riconciliazione pubblica fra i tre uomini destinati a portare, in prospettiva, a un governo di pacificazione nazionale. L’incontro avrebbe dovuto aver luogo il 15 agosto in una villa toscana. L’improvvisa caduta di D’Annunzio, proprio alla vigilia dell’incontro, il 13 agosto, ne impedì la realizzazione. Nitti scrisse nelle sue memorie: «Se D’annunzio non fosse caduto dalla finestra e l’incontro con lui, Mussolini e me fosse avvenuto, forse la storia dell’Italia moderna avrebbe seguito un altro cammino».Certo è che, per la pena del contrappasso, chi sale troppo in alto poi cade. Dopo l’incidente, con la proclamazione del 4 novembre come festa nazionale, alcuni esponenti della vecchia classe politica liberale pensarono di sfruttare D’Annunzio in chiave antifascista, facendolo partecipare a una grande manifestazione patriottica che si sarebbe dovuta svolgere a Roma, all’Altare della Patria, nell’anniversario della vittoria. La marcia su Roma del 28 ottobre 1922 fece cadere il progetto. Dopo la marcia su Roma, D’Annunzio al Vittoriale sarà un osservato speciale, e forse prigioniero. Visse in una specie di esilio dorato, sorvegliato, spiato, seguito e trattato come un incapace. Gli affiancarono un’infermiera tedesca che non lo perdeva mai d’occhio. Il Vate morirà anni dopo, il 1° marzo 1938, a settantacinque anni, per un’emorragia celebrale. Curiosa coincidenza, in una lettera del 1935 a Mussolini, il poeta aveva scritto: «Il mio cranio di lucido cristallo può incrinarsi facilmente». E nel febbraio 1938 a Tom Antongini scrisse: «Credo che sono morto come il cavalier Baiardo all’assedio di Brescia… L’anniversario cadrà poco prima del mio marzo funebre».Il Vate morirà proprio nel marzo previsto nella sua ultima missiva, col capo chino sul suo scrittoio nella Zambracca, la stanza che usava al Vittoriale per comporre i suoi poemi, con il dito ad indicare la data esatta, cerchiata di rosso, del lunario Barbanera che vaticinava per quel giorno «la morte di un italiano illustre». Uno scena che molti lessero come un suicidio. La morte per emorragia cerebrale risulta dal certificato medico stilato dal dottor Alberto Cesari, primario dell’ospedale di Salò, e dal dottor Antonio Duse, medico curante del poeta. I funerali furono organizzati con estrema rapidità. D’Annunzio morì il martedì sera verso le 20 e Mussolini partì da Roma per Gardone Riviera la mattina dopo, il tempo strettamente necessario per disdire gli appuntamenti di Stato e organizzare il treno presidenziale che lo portò a Desenzano con i ministri Ciano, Starace, Alfieri, Benni e il segretario particolare Sebastiani. Le esequie furono celebrate la mattina di giovedì 3 marzo, attorno alle 8,30. Non fu eseguita alcuna autopsia o altri accertamenti che approfondissero le cause del decesso. La morte fu certificata come emorragia celebrale solo in base a reperti esterni, clinici, non supportati da esami autoptici. Forse certificò tutto l’infermiera tedesca che da anni lo “seguiva” da vicino. Il 12 marzo 1938 Hitler annette l’Austria alla Germania nazista. Iniziano i “preparativi” per la seconda tragica guerra mondiale.(Lara Pavanetto, “Quando il Vate volò dalla finestra e predisse la sua morte”, dal blog della Pavanetto del 13 settembre 2017”. Fonti: Raffaele K. Salinari, “Le tre morti di Gabriele D’Annunzio”, da “Il Manifesto” del 5 ottobre 2013; Ennio Di Francesco, “Il Vate e lo Sbirro”, Edizioni Solfanelli, 2017).La sera del 13 agosto 1922 Gabriele D’Annunzio cadde dal balcone della stanza della musica del Vittoriale, e rimase fra la vita e la morte per molti giorni. Il fatto sembrò subito molto strano; la versione ufficiale comunicata alla stampa affermava che il poeta, mentre stava cercando un po’ di fresco nella serata afosa, era stato colto da un capogiro. Il 17 agosto seguente il giornale “Il Comunista” insinuò che la caduta fosse dovuta a un fatto doloso. Altri ventilarono l’ipotesi che il poeta avesse tentato il suicidio, e non mancò chi sostenne che la caduta non fosse mai avvenuta. Ad oggi la versione è che D’Annunzio cadde mentre ascoltava la musica suonata al pianoforte per lui da Luisa Baccara, appoggiato a una finestra, vicino alla sorella della pianista, la giovane Jolanda. La caduta sarebbe stata causata da una spinta datagli da Jolanda per opporsi a qualche avance focosa del poeta. Sembra che, in stato di semi-incoscienza, il 21 agosto, il poeta abbia mormorato una frase significativa appuntata dal medico curante: «E Joio? Jolanda, si sarà spaventata e sarà scappata a Venezia».
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Crisi e terrore, ma il Nuovo Ordine Mondiale lo farà la Cina
Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.«Il destino profetizzato dai consulenti del Club di Roma è stato previsto anche da altri ricercatori, che hanno puntato in particolare sulla forza economica e finanziaria della Cina che negli ultimi anni si sta accaparrando le risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole, insidiando così le zone d’influenza che appartenevano all’Occidente», afferma Enrica Perucchietti in un’intervista su “Letture.org” in occasione dell’uscita dell’edizione aggiornata dal saggio “Governo globale, la storia segreta del nuovo ordine mondiale” (Arianna), scritto insime a Gianluca Marletta. «Credo che nonostante gli sforzi dell’imperialismo mondialista di portare avanti i propri progetti, nel giro di qualche anno lo scettro passerà di mano e probabilmente il centro del potere si sposterà in Cina», ribadisce la Perucchietti, pur ammettendo che le variabili imprevedibili sono comunque molte, «così come sono da prendere in considerazione delle anomalie che si sono registrate come l’elezione Trump e la Brexit, che sono state evidentemente sottostimate». Tuttavia, come segnala lo stesso Paolo Barnard, colpisce l’arma segreta di Pechino: il suo “capitalismo di Stato” con moneta sovrana mette il governo al riparo dallo strapotere della finanza mondialista non allineata agli oligarchi del partito unico.La riflessione sul futuro “cinese” del mondo conclude un’analisi che la giornalista affronta partendo dallo studio del Nwo, inizialmente liquidato come fiaba cospirazionista. «Oggi la sensazione che sia in atto un progetto di mondialismo (seguente alla globalizzazione delle merci) è comunemente accettato: pensiamo per esempio a Henry Kissinger che ha dato un’opera dal titolo altisonante come “World Order”». Sempre più politici, ministri, capi di Stato e pontefici, aggiunge Perucchietti, negli ultimi decenni hanno parlato pubblicamente dell’esigenza di costituire un “nuovo ordine mondiale”. Lei e Marletta, nel libro, ricostruiscono la storia (documentata) di questo progetto, e le tappe che arrivano fino a noi. «Al di là delle confusioni generate dalla cultura web, lungi dall’essere il delirio di una manciata di paranoici, il nuovo ordine mondiale è al contrario un argomento serissimo, che merita di essere indagato». L’elezione di Trump? «Ha illuso alcuni di poter condurre a una battuta d’arresto del progetto mondialista, ma nei mesi abbiamo assistito a una “normalizzazione” del neo-presidente e l’anacronistico ritorno alla guerra fredda, che ha portato anche alla comparsa di un nuovo nemico sullo scacchiere geopolitico, la Corea del Nord».Se Pyongyang è solo l’ultimo apparente “nemico pubblico” da gettare in pasto alla società per distrarla dalla crisi e «compattarla rispetto a una emergenza esterna», visto che ormai «la Russia non poteva più rispecchiare quel ruolo, dato che la figura di Putin desta sempre maggior consenso o comunque meno diffidenza», posto che un conflitto contro la Corea del Nord «sarebbe non solo inutile, ma svantaggioso e pericoloso», dato che «non apporterebbe nemmeno benefici da un punto di vista geopolitico», vale la pena inquadrare anche questo capitolo («solo teatrale», anche secondo Gioele Magaldi) come parte dello stesso copione mondialista che sta tenendo in scacco il pianeta da ormai moltissimo tempo. Per comprendere che cosa sia il nuovo ordine mondiale, secondo Enrica Perucchietti, è necessario ricostruire le tappe storiche che hanno portato, attraverso i secoli, allo sviluppo dell’ideologia globalista, riscoprendone le radici e i presupposti filosofici, spirituali e teologici. «L’ideologia del Nwo, infatti, attinge la sua linfa vitale da un preciso contesto storico, identificabile con il mondo protestante dei secoli XVII e XVIII. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità trova adesione, sostegno e suoi primi “profeti”».Un progetto, rileva la giornalista, che è nato inizialmente come contraltare all’universalismo della nemica Chiesa cattolica e dell’Impero Asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo in Nord Europa. L’ideologia mondialista ha recepito e rielaborato nei secoli anche altri tipi di influssi: sull’originario substrato protestante-anglosassone, infatti, si innestano successivamente almeno altre due correnti politico-spirituali: l’ideologia universalistica di matrice massonica (su cui si innestano alcune derive occultistiche) e un certo neo-messianismo di matrice sionista. «Queste correnti così diverse tra loro troveranno una convergenza fondata sull’elitismo di chi (gli Usa in primis) si sente in diritto e in dovere di promuovere anche con la forza il proprio imperialismo e assoggettare il resto del mondo ai propri interessi». L’autrice respinge la tesi del Grande Complotto Universale: è storicamente indimostrabile e serve solo a screditare chi indaga seriamente sul mondialismo. Però, «se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del Nwo, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale che lega, attraverso i decenni e persino i secoli, una serie di “forze” e “poteri” in una complicità di interessi e di azioni».Non esiste un Grande Complotto unico, monolitico? «Esiste però una dottrina di base e una “confluenza di interessi” che spingono verso la costituzione del mondialismo, così come esistono i suoi profeti e “architetti” che ne hanno scritto e parlato anche pubblicamente». Ovvero: «Dalla rete inestricabile dei poteri occulti, delle logge e delle sette, dei potentati economici e dei gruppi di pressione impegnati da tempo a promuovere il progetto del nuovo ordine mondiale, emergono con una frequenza non casuale, nomi, realtà e concreti gruppi di potere che nel nostro “Governo Globale” definivamo il “volto visibile del Nwo” di cui trattiamo ampiamente nella prima parte del saggio». Il progetto mondialista? «Nasce in ambito anglosassone ed è quindi naturale che esso abbia avuto, nella potenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il perno della sua potenza (a cui si è aggiunto, a partire dal secondo dopoguerra, il fattore geopolitico costituito dallo Stato di Israele). Quando parliamo del potere di queste nazioni, tuttavia, ci riferiamo a certe strutture di potere che rimangono invariate nel tempo». Nel suo saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi le chiama Ur-Lodges, superlogge: sarebbero la chiave segreta del back-office del potere mondiale, ormai esteso anche alla Cina nel disegno condiviso della globalizzazione autoritaria.Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, osserva Perucchietti, esistono alcune costanti fondamentali alla base del progetto mondialista, e alcuni interessi specifici: per esempio, l’aspirazione a costituire una res-pubblica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite. «Quindi la creazione di un governo elitario, di pochi». Inoltre, si registra «la diffusione o imposizione di un pensiero omologato, tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di pensiero unico globale». Il progetto di costituzione di un mondo nuovo, infatti, richiede anche «un uomo nuovo, che sia omologato e omologabile, facilmente controllabile», magari anche attraverso l’ideologia gender, di cui la Perucchietti ha parlato in libri come “La fabbrica della manipolazione” e “Unisex”. A cascata, pesano «la conseguente lotta contro le “identità forti” difficilmente omologabili alla cultura mondialista e l’abbattimento dei valori tradizionali». Non solo: ci sono anche «censura e psicoreato, ossia il controllo della comunicazione, dei mass media ma anche delle menti e dell’espressione dei cittadini, di cui la recente battaglia contro le “fake news” è un lampante esempio».E’ all’opera una strategia d’azione che privilegia «l’utilizzo strumentale della politica (una sorta di vera e propria criptopolitica basata su ricatti e complotti per lo più sotterranei)», di cui – come vetta dell’iceberg – abbiamo vaghe notizie, attraverso sigle come la Trilaterale o il Bilderberg, cenacoli «i cui membri si riuniscono a porte chiuse per discutere del destino dell’umanità». Alcuni aspetti ideologici restano imprescindibili, «come il neomalthusianesimo che considera l’eccesso delle nascite nelle classi povere come un problema per la qualità di vita». E infatti «gli architetti del Nwo sono ossessionati dal contenimento/riduzione della popolazione». Nell’immaginario collettivo, il Nwo «ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali che ne sono, per certi versi, l’espressione più visibile». E non è tutto: c’è anche «una visione prometeica e luciferina che convoglia nel Transumanesimo e nelle sue applicazioni cibernetiche, virtuali e tecnologiche: l’idea di fondo è che l’uomo può farsi Dio e abbattere la natura, arrivando a derive post-umane finora impensabili». Nel frattempo, le masse occidentali (e mediorientali, manipolate anch’esse) possono “godersi” l’orrore del terrorismo, una macchina infernale che genera paura, «e la paura è un potente strumento di controllo».Riflette Enrica Perucchietti: «Manipolando le persone in fase di shock, sull’ondata emotiva degli eventi, è possibile introdurre misure liberticide fino a quel momento impensabili, lasciando credere ai cittadini che i provvedimenti scelti siano per il loro bene e la loro sicurezza». Terrorismo ed estremismo «vengono sfruttati abilmente, evocati quotidianamente, politicizzati per poterne sfruttare l’ondata d’urto emotiva». Citando Orwell, la sensazione è che la “guerra al terrore” sia stata concepita come perenne per «poter mantenere intatta la struttura della società» e introdurre uno Stato di polizia. «La guerra non deve cioè aver fine, ma deve servire per poter legittimare misure estreme». Per questo, aggiunge l’analista, «non si può distruggere Al-Qaeda senza pensare che spunti un altro pericolo, Isis o altra organizzazione terroristica che sia». E il terrore «doveva finire per divampare anche in Europa», perché «si stava affievolendo la tolleranza del popolo ad accettare sacrifici per “esportare” la democrazia in paesi lontani». Sicché, «l’unico modo per poterlo spingere a continuare a oliare la macchina da guerra era far assaggiare all’Occidente quel genere di “paura” che noi italiani conosciamo bene: gli anni di piombo».Gli artefici del mondialismo, conclude Perucchietti, «hanno sfruttato con cura occasioni tragiche e non si sono fatti problemi a inscenare od ordire attentati, o comunque a strumentalizzarli per creare i presupposti per poi poter raccogliere e sfruttare delle opportunità calcolate con cura». In questo contesto «rientrano anche le cosiddette “false flag”», ovvero le operazioni “sotto falsa bandiera” come quelle che hanno funestato la Francia con sinistra, cronometrica precisione. Lo rileva Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, secondo cui – nella Francia che ha imposto il silenzio alle indagini su Charlie Hebdo (segreto militare, dopo la scoperta del possibile ruolo dell’intelligence nell’armamento del commando), l’opaco neo-terrorismo ha colpito Nizza il 14 luglio, giorno “sacro” per i massoni progressisti anti-oligarchici, e Parigi il 13 novembre (Bataclan), nell’anniversario di una giornata infausta per i Templari perseguitati nel ‘300, a cui evidentemente i mandanti dell’Isis, mondialisti e atlantici, vorrebbero richiamarsi, firmando il loro sanguinoso delirio. Dove finiremo, di questo passo? A Pechino, risponde Enrica Perucchietti: sarà probabilmente a Cina a mandare in fumo i giochi “illuminati” dell’élite nera, insediando sul trono del pianeta – diversamente mondializzato, ma sempre senza democrazia – da una futura élite “gialla”.Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.
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Ma senza ideologie (oneste) subiamo l’unica rimasta, la loro
Sono ormai decenni che in rete vi parliamo del fatto che questo liberismo sfrenato, ammantato del portato positivo di un concetto di cui tutti si appropriano per i fini più disparati, la “libertà”, era solo un modo per togliervi i diritti faticosamente accumulati dalle generazioni dei nostri padri e dei nostri nonni, dalla rivoluzione industriale in poi. Un modo di rimettervi le catene e legarle nuovamente ai neo schiavisti che tutto hanno a cuore tranne il rispetto della vita, soprattutto di quella umana. Sono decenni che ve lo si dice in tutti i modi, ma voi niente. Volete cambiare lo smartphone ogni sei mesi, volete andarvi a comperare le bottiglie di vino anche alle due di notte, volete (anzi dovete) fare la spesa la domenica perché gli altri giorni siete sequestrati dal caposquadra della nave negriera a remare fino allo stremo delle forze, volete le fragole e le more a gennaio e le arance a luglio, rinunciate all’essenziale ma non al superfluo che vi pagate a rate. Rinunciate persino alla vostra vita, pur di vivere quella degli altri, la sera, a pagamento (si intende).Lo sapevate, ma alla fine vi siete fatti convincere lo stesso che la famiglia è un vincolo, che le tradizioni sono un ostacolo, che la religione è per gli ignoranti, che i confini sono inutili, che le razze sono un’illusione, che le ideologie sono pericolose, che i sessi non esistono, che studiare non serve, che imparare a memoria è sterile, che l’edonismo, il protagonismo e il voyuerismo sono valori, che competere è un dovere, che è perfettamente normale ricomprarvi la salute che vi tolgono assumendo medicinali a vita. Vi siete fatti togliere tutto quello che faceva di voi esseri umani, e avete continuato a votare sempre le stesse persone che vi stavano lentamente consegnando alla casta predatoria, come lotti di schiavi ceduti all’ingrosso: qualche milione di italiani all’asta della Fornero, qualche altro milione all’asta con il Job Act di Renzi, mentre le scudisciate di Monti sfessavano la vostra capacità di opporvi (loro la chiamano “distruzione della domanda interna”).E adesso siete soli. La famiglia non c’è più, è un disvalore. Avete permesso che venisse svilita e spezzata, e ora che al posto dell’acqua avete solo un atomo di ossigeno e due di idrogeno, vagate nel nulla alla ricerca di un legame qualunque, per poi lamentarvene. Eppure era proprio il legame familiare la prima roccaforte che vi difendeva dall’assalto dei barbari invasori. Perché le famiglie si difendono, al loro interno. E per meglio riuscirvi, si alleano con altre famiglie, creano gruppi di interesse, associazioni di quartiere, si uniscono nel nome di un bene superiore, quell’anelito alla trascendenza senza il quale tutto perde di significato. L’amore che le unisce vuole essere rivendicato e pretende di avere il tempo di esprimersi compiutamente. Sì, la famiglia era la più grande minaccia per i proprietari degli allevamenti intensivi di esseri umani.E così, con la celebrazione del rito quotidiano individualistico, e con la riduzione dell’esistenza, operata dallo scientismo, a mera relazione di causa effetto misurabile con il microscopio, tutti i valori, i simboli, i principi, le idee superiori, cioè il carburante di cui brucia ogni scatto di orgoglio, ogni anelito di dignità, si sono progressivamente inariditi, fino a restare un pallido riflesso, una leggenda metropolitana che rivive nei colossal storici alla Spartaco, che non a caso da un lato ci emozionano, dall’altro ci appagano, come se tenessimo di più al destino di qualche centinaia di schiavi vissuti duemila anni fa, piuttosto che al nostro e a quello dei nostri figli.E dopo avervi tolto ogni scudo, ogni difesa, ogni faro cui guardare, nella speranza di riceverne un’indicazione, un conforto che rinvigorisse il desiderio di combattere, dopo avere cioè distrutto ogni riferimento culturale che potesse dare un senso alla ribellione, ora stanno scassinando l’ultima serratura che ancora, in maniera pur dubbia e riformabile, si frappone tra i lupi e gli agnelli, cioè tra le sfrenate élite di capitalisti del globalismo finanziario-speculativo e voi, piccoli lavoratori, il cui ideale più elevato che vi è concesso coltivare è cercare di far quadrare i conti a fine mese, mentre il famoso 1% che ora vuole tenervi in coma farmacologico con il reddito di cittadinanza si gode una vita dal tenore per voi inimmaginabile, disponendo di risorse illimitate al punto da poter essere sprecate infinite volte. Vi stanno cioè togliendo anche le ultime protezioni che potevano garantirvi i sindacati, entrati nel mirino delle marionette della politica ormai da qualche anno.Smantellare i sindacati, senza sostituirli con fortificazioni più efficienti, è l’ultimo passo per avervi totalmente alla loro mercé, come miliardi di formiche impazzite sotto alla percussione pianificata delle possenti zampe dell’elefante globale. E così, mentre le pecore inneggiano all’uccisione del cane pastore, su istigazione dei lupi che nel frattempo si apparecchiano ad un luculliano banchetto, sotto ai nostri occhi ormai accadono cose che avrebbero fatto inorridire i nostri padri, prima ancora dei nostri nonni, ma che a noi sembrano quasi normali, perché il valore della vita è stato completamente svuotato e sostituito con il concetto vuoto della produttività. Non si lavora più per vivere, si vive per lavorare, affinché altri possano vivere senza lavorare. E se osi metterlo in discussione, vieni immediatamente calpestato dalle zampe dell’elefante. Tanto possono farlo, perché sei rimasto solo. Sei stato talmente stupido da farti convincere che “soli” era meglio.È quello che accade ormai dappertutto, e se non ci credete leggete quello che sta succedendo adesso all’Outlet Mc Arthur Glen di Castel Romano, nel servizio del “Manifesto”. Ci sono mamme costrette a lavorare sempre, domeniche comprese. Tutte le domeniche. E siccome osano accordarsi per fare una turnazione in modo che, almeno una domenica sì e quattro no, possano stare a casa con i loro bambini, con la loro famiglia, vengono trasferite a 50 chilometri di distanza o sono costrette ad andarsene, mentre capi senza scrupoli, senza cuore e forse ancora meno consapevoli della loro condizione, rispondono alle mamme imploranti che «bisogna scegliere tra lavoro e famiglia», e ai responsabili aziendali della Calvin Klein è concesso dire impunemente che «la linea dell’azienda è questa. La domenica si lavora, sempre. E basta. E non mi parlate di sindacati perché io non li considero neanche».Questo è il progresso che volevate? Questa è la libertà che desideravate? Essere liberi di scegliere se farvi sfruttare come africani nelle piantagioni di cotone dei secoli scorsi, oppure restare senza lavoro e senza il latte per i vostri figli? E tutto per cosa? Perché qualche ricco turista cinese e russo possa spruzzarsi le ascelle sudate con l’ultimo profumo Calvin Klein? Altro che “le ideologie sono superate“! Qui vanno recuperate, e anche in fretta, perché con la storiella del sogno americano, che tutti possono diventare miliardari e dunque se non lo diventano è solo colpa loro, abbiamo partorito mamme che non importa quanto siano brave sul lavoro: non potranno mai, mai e poi mai andare a vedere i loro bambini tirare calci ad un pallone la domenica mattina. Guardate l’orologio: che ora è? Quanto manca prima che li mandiate tutti affanculo?(Claudio Messora, “Quanto manca prima che li mandiamo tutti affanculo?”, dal blog “ByoBlu” del 20 ottobre 2017).Sono ormai decenni che in rete vi parliamo del fatto che questo liberismo sfrenato, ammantato del portato positivo di un concetto di cui tutti si appropriano per i fini più disparati, la “libertà”, era solo un modo per togliervi i diritti faticosamente accumulati dalle generazioni dei nostri padri e dei nostri nonni, dalla rivoluzione industriale in poi. Un modo di rimettervi le catene e legarle nuovamente ai neo schiavisti che tutto hanno a cuore tranne il rispetto della vita, soprattutto di quella umana. Sono decenni che ve lo si dice in tutti i modi, ma voi niente. Volete cambiare lo smartphone ogni sei mesi, volete andarvi a comperare le bottiglie di vino anche alle due di notte, volete (anzi dovete) fare la spesa la domenica perché gli altri giorni siete sequestrati dal caposquadra della nave negriera a remare fino allo stremo delle forze, volete le fragole e le more a gennaio e le arance a luglio, rinunciate all’essenziale ma non al superfluo che vi pagate a rate. Rinunciate persino alla vostra vita, pur di vivere quella degli altri, la sera, a pagamento (si intende).
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Berlino trema: lo stragista Amri fu incoraggiato dalla polizia
«Vai, ammazza la gente per strada. E mi raccomando: prima di scappare, lascia il passaporto ben in vista sul sedile». Fondamentale, il documento: perché poi – quando gli spareranno, per farlo tacere per sempre – nessuno dubiti che a cadere sia il vero colpevole, lo stragista. «Anis Amri fu istigato da un informatore della polizia», titola l’“Huffington Post”, svelando «l’indagine che fa tremare l’intelligence tedesca». Lui, il giovane tunisino responsabile della strage al mercatino di Natale, a Berlino, il 19 dicembre scorso, venne ucciso quattro giorno dopo, a Sesto San Giovanni, in un conflitto a fuoco con la polizia di Milano. La notizia? Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di far strage di passanti nella capitale tedesca. Semmai, avrebbe voluto andare a combatte in Siria nelle file dell’Isis. A convincerlo a uccidere (12 vittime e 56 feriti) sarebbe stata una “persona di fiducia” della polizia tedesca. Lo affermano due media, il “Berliner Morgenpost” e la radio “Rbb”. Hanno scoperto che a istigare il giovane sarebbe stata una “persona di fiducia” (Vertrauensperson) che per conto della polizia del Nordreno Westfalia s’era infiltrata tra i frequentatori del predicatore Abu Wala, un reclutatore dell’Isis arrestato nel novembre 2016, un mese prima della strage del mercatino.Pare che la “persona di fiducia” abbia dovuto faticare a convincere Amri. Gli disse: «Ammazziamo questi miscredenti». Insisteva: «Abbiamo bisogno di uomini di buona volontà per fare questi attentati qui in Germania». A citare il fatale colloquio è un ex frequentatore degli stessi circoli, «che dice di essere stato avvicinato alla stessa persona per fare l’attentato in Germania», scrive Maurizio Blondet sul suo blog. Come altri, il testimone aveva rifiutato perché voleva combattere in Siria. E ha confermato che l’informatore della polizia avrebbe insistito nel cercare un «un uomo affidabile per un attacco con un camion». Dunque “l’uomo di fiducia” della polizia tedesca era un agente provocatore: al soldo dell’Isis o dei servizi di Berlino? «La polizia sapeva da luglio che Anis Amri progettava una strage», scriveva “Globalist” già il 22 dicembre. Avverte oggi l’emittente “Rbb”: «Un siriano ex coinquilino di Amri aveva avvertito ben due volte la polizia prima dell’attentato». Ma l’allarme non diede esito, racconta il “Morgenpost”: «Amri è stato tenuto sotto osservazione solo nei giorni feriali. Nei fine settimana e nei giorni festivi il controllo cessava. E l’ufficio del procuratore generale non è mai stato informato della cessazione dell’osservazione».Le autorità tedesche, riassume Blondet, avevano impedito la rapida espulsione di Amri (non presentando alle autorità tunisine le sue impronte digitali, che pure avevano). In più, le forze di sicurezza «gli avevano fatto sapere di essere sotto controllo, e più volte». Lo avevano persino «aspettato alla fermata dell’autobus da Dortmund». Secondo lo “Spiegel”, «il dossier su Amri è stato grossolanamente falsificato, posticipando date e celando un arresto». Se la storia del passaporto abbandonato sul camion-kamikaze è la fotocopia di altre analoghe vicende, da Charlie Hebdo alla strage di Nizza, Blondet fa notare che le modalità di reclutamento di Anis Amri sono le medesime di un altro maghrebino in azione in Francia, Mohammed Merah, che scatenò il terrore a Tolosa nel 2012: «I servizi francesi stavano per reclutare Merah un mese prima dei suoi delitti», ha dichiarato alla Corte d’Assise l’ex capo della sicurezza tolosana. Per il “Foglio”, lo “stragista di Al-Qaeda”, era «un’operazione dell’intelligence francese finita male». E’ saltato fuori anche un video-testamento del giovane: «Sono innocente. Ho scoperto che il mio miglior amico Zouheir lavora per i servizi segreti francesi».Zouheir, scrive il quotidiano “Le Monde”, fece anche parte della squadra di negoziatori che cercò di convincere Merah alla resa durante l’assedio all’appartamento. Il giovane gli si ribellò con queste parole: «Mi hai mandato in Iraq, Pakistan e Siria per aiutare i musulmani. E ora ti riveli essere un criminale e un capitano dei servizi francesi. Non lo avrei mai creduto». Adesso, aggiunge Blondet, la deposizione giudiziaria del capo dei servizi a Tolosa conferma: Merah fu avvicinato da un settore dell’intelligence, la Dgcri (Direction Centrale du Reinseignement Interieur) dopo un viaggio in Pakistan. Ma in realtà, precisa il funzionario, i servizi francesi lo conoscevano bene fin dal 2006, quando Merah era ancora un ragazzino: lo avevano schedato insieme a suo fratello Abdelkadher, dopo un viaggio in Egitto compiuto «apparentemente per imparare l’arabo». Poi, nel 2010, al ritorno dal viaggio in Pakistan, lo interrogano «perché sospettato di aver ricevuto addestramento militare». Sempre nel 2010, arrestato dalla polizia afghana a Kandahar, Merah viene «sottoposto a “debriefing” da due specialisti francesi», i quali «hanno giudicato che, dato il suo carattere curioso e viaggiatore, lo si poteva orientare verso un reclutamento».Un rapporto dei servizi risalente al 21 febbraio 2012, un mese prima del primo omicidio presunto di Merah, recita: «Mohamed Merah ha spirito aperto e astuto. Non ha alcuna relazione con una rete terrorista, ha un profilo viaggiatore». Conclusione: conviene «verificarne l’affidabilità», raccomanda il rapporto. «E’ un approccio di reclutamento», ha spiegato l’ex funzionario dei servizi di Tolosa. Sembra l’accurata formazione di un agente professionale, a cui si impartiscono competenze linguistiche e militari, da avviare alla carriera di infiltrato. «Sappiamo anche che Merah ha cercato di arruolarsi nell’esercito francese nel 2008, e poi nella Legione Straniera, respinto per i suoi precedenti penali», conclude Blondet: «Povero, tragico patriota Merah, usato e distrutto come jihadista perché bisognava addossargli delitti le cui vere ragioni sono inconfessabili». Forse, anche attraverso la giustizia francese e le indagini giornalistiche tedesche, sta cominciando a sbriciolarsi un muro di menzogne sanguinose. Osservando in controluce gli attentati “islamisti” che hanno martoriato l’Europa colpendo sempre e solo nel mucchio (popolazione inerme: mai obbiettivi-simbolo del potere), nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” Gianfranco Carpeoro legge le “firme nascoste” – non islamiche, ma occidentali e massoniche – dello stragismo affidato a manovalanza jihadista. E oggi dice: «Entro un paio d’anni, magari attraverso fonti come Wikileakes, emergerà la prova che l’Isis è un’emanazione diretta dei servizi atlantici che fanno capo ai Bush».«Vai, ammazza la gente per strada. E mi raccomando: prima di scappare, lascia il passaporto ben in vista sul sedile». Fondamentale, il documento: perché poi – quando gli spareranno, per farlo tacere per sempre – nessuno dubiti che a cadere sia il vero colpevole, lo stragista. «Anis Amri fu istigato da un informatore della polizia», titola l’“Huffington Post”, svelando «l’indagine che fa tremare l’intelligence tedesca». Lui, il giovane tunisino responsabile della strage al mercatino di Natale, a Berlino, il 19 dicembre scorso, venne ucciso quattro giorno dopo, a Sesto San Giovanni, in un conflitto a fuoco con la polizia di Milano. La notizia? Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di far strage di passanti nella capitale tedesca. Semmai, avrebbe voluto andare a combatte in Siria nelle file dell’Isis. A convincerlo a uccidere (12 vittime e 56 feriti) sarebbe stata una “persona di fiducia” della polizia tedesca. Lo affermano due media, il “Berliner Morgenpost” e la radio “Rbb”. Hanno scoperto che a istigare il giovane sarebbe stata una “persona di fiducia” (Vertrauensperson) che per conto della polizia del Nordreno Westfalia s’era infiltrata tra i frequentatori del predicatore Abu Wala, un reclutatore dell’Isis arrestato nel novembre 2016, un mese prima della strage del mercatino.