Archivio del Tag ‘Regno Unito’
-
Finanziarizzare la paura: dietro a Greta 118 trilioni di dollari
Che affarone, Greta Thunberg: Goldman Sacks ha appena sfornato il primo indice globale dei titoli ambientali di alto livello quotati a Wall Street, indice condiviso da tutte le maggiori banche d’affari «per attirare fondi d’investimento e sistemi pensionistici statali». Anche Tino Oldani, su “Italia Oggi”, prende nota dell’inchiesta di un veterano dell’indagine geopolitica come William Engdahl, rinomato analista statunitense e autore di bestseller sulle “guerre del petrolio”. Dirompente, il reportage sul business-Greta che Engdall ha pubblicato sul newsmagazine canadese “Global Research”, diretto dall’economista Michel Chossudovsky. «Il fallimento della conferenza Cop 25 di Madrid sul clima non deve stupire più di tanto», premette Oldani su “Italia Oggi”. «Ormai, dietro le divisioni tra gli Stati non ci sono soltanto le profonde divergenze di interessi sul divieto progressivo dei combustibili fossili, ma anche il proliferare sul web di studi contrari al mainstream mediatico sulla cosiddetta emergenza climatica». Proprio alla vigilia del vertice di Madrid, ha fatto irruzione su “Global Research” l’indagine di Engdhal, che dall’alto dei suoi 75 anni, «citando nomi e fatti precisi», espone la sua tesi clamorosa. Eccola: «La grande finanza mondiale, alleata per l’occasione con l’Onu e l’Unione Europea, si starebbe servendo in modo cinico di Greta Thunberg come icona mediatica per creare allarmismo sul riscaldamento climatico provocato dall’uomo».Global warming di origine antropica? Solo fake news, per Engdhal, diffuse a tappeto in modo globale con uno scopo preciso: «Innescare di conseguenza il business più redditizio dei prossimi decenni, il cosiddetto Green New Deal, la rivoluzione dell’economia verde». Il tutto, sintetizza Oldani, con un piano di investimenti per oltre 100 trilioni di dollari, da raccogliere con massicce emissioni di obbligazioni speculative. Ovvero: «Fondi da riversare, mediante il credito, sulle nuove imprese climatiche, anche a prescindere dal loro effettivo valore e know-how». Tutto questo, ovviamente, «a scapito dei settori dell’economia “colpevoli” di inquinare, e con duri sacrifici per milioni di lavoratori e consumatori, ma enormi profitti per gli istituti finanziari che hanno sposato questo business». Oldani riassume bene il vasto studio di Engdall. Sono due gli uomini chiave di questa “agenda verde mondiale”: il banchiere inglese Mark Carney, 54 anni, capo della Banca d’Inghilterra, e l’ex vicepresidente Usa Al Gore, 71 anni, vice di Bill Clinton (1993-2001), da sempre ambientalista, oggi ricco presidente del gruppo Generation Investment, impegnato negli investimenti a lungo termine sulla sostenibilità ambientale.Carney, sostiene Engdhal, è stato «la mente finanziaria dell’intero progetto mondiale». Nel dicembre 2015, il Financial Stability Board della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri), presieduto da Carney, ha creato una task force sulla divulgazione finanziaria legata al clima (Tcfd) per «consigliare investitori, finanziatori e assicurazioni sui rischi legati al clima». Nel 2016 questa task force si è attivata: è composta da 31 banchieri nominati dalla Bri e presieduta dal finanziere Michael Bloomberg, ora in corsa per le primarie Usa con i democratici. Insieme alla City of London Corporation e al governo del Regno Unito, ha avviato la Green Finance Initiative, con la missione di pilotare trilioni di dollari in investimenti verdi. «Tra i primi ad aderire, il principe Carlo, futuro re d’Inghilterra, che insieme alla Bank of England e alla City of London ha promosso i Green Bonds». Cosa sono? Si tratta di «strumenti finanziari verdi», studiati per «reindirizzare piani pensionistici e fondi comuni d’investimento verso progetti verdi». In pratica, aggiunge Oldani citando Engdall, «la task force ideata da Carney costituisce la cabina di regia e include i rappresentanti dei maggiori operatori finanziari del pianeta». Ci sono tutti: da Jp Morgan a BlackRock, «uno dei più grandi gestori di patrimoni del mondo».Questa ricostruzione di Engdhal, precisa sempre Oldani, trova conferma nel libro bianco “Strategia di finanza verde”, pubblicato nel luglio scorso da Philip Hammond, ex premier britannico, dove si afferma che l’iniziativa «supportata da Carney e presieduta da Bloomberg» è stata «approvata da istituzioni che rappresentano 118 trilioni di dollari di attività a livello globale». Il piano, sostiene l’analista Usa, consiste nella finanziarizzazione dell’intera economia mondiale «usando la paura di uno scenario da fine di mondo per raggiungere obiettivi arbitrari come le emissioni zero di gas serra». Più avanti si legge: «Gli eventi assumono una svolta cinica quando ci troviamo di fronte ad attivisti climatici molto popolari e fortemente promossi, come Greta Thunberg o la 29enne Alexandra Ocasio-Cortez di New York e il loro Green New Deal». Chiarisce Engdahl: «Per quanto sinceri possano essere questi attivisti, c’è una macchina finanziaria ben oliata dietro la loro promozione a scopo di lucro». In altre parole: con la scusa del “green”, a centinaia di milioni di persone verranno proposti prodotti finanziari che di “verde” non hanno nulla. A questo, sostiene Engdahl, servirà la faccia pulita dell’inconsapevole Greta Thunberg.Che affarone, Greta Thunberg: Goldman Sacks ha appena sfornato il primo indice globale dei titoli ambientali di alto livello quotati a Wall Street, indice condiviso da tutte le maggiori banche d’affari «per attirare fondi d’investimento e sistemi pensionistici statali». Anche Tino Oldani, su “Italia Oggi“, prende nota dell’inchiesta di un veterano dell’indagine geopolitica come William Engdahl, rinomato analista statunitense e autore di bestseller sulle “guerre del petrolio”. Dirompente, il reportage sul business-Greta che Engdall ha pubblicato sul newsmagazine canadese “Global Research”, diretto dall’economista Michel Chossudovsky. «Il fallimento della conferenza Cop 25 di Madrid sul clima non deve stupire più di tanto», premette Oldani su “Italia Oggi”. «Ormai, dietro le divisioni tra gli Stati non ci sono soltanto le profonde divergenze di interessi sul divieto progressivo dei combustibili fossili, ma anche il proliferare sul web di studi contrari al mainstream mediatico sulla cosiddetta emergenza climatica». Proprio alla vigilia del vertice di Madrid, ha fatto irruzione su “Global Research” l’indagine di Engdhal, che dall’alto dei suoi 75 anni, «citando nomi e fatti precisi», espone la sua tesi clamorosa. Eccola: «La grande finanza mondiale, alleata per l’occasione con l’Onu e l’Unione Europea, si starebbe servendo in modo cinico di Greta Thunberg come icona mediatica per creare allarmismo sul riscaldamento climatico provocato dall’uomo».
-
Da Rold: solo rigore e diktat, è stata l’Ue a creare la Brexit
«Nebbia sulla Manica? Il continente è isolato». Gianlugi Da Rold cita la regina Vittoria per tratteggiare l’atteggiamento verso l’Europa mostrato storicamente dal Regno Unito, «la più radicata monarchia costituzionale e la più antica democrazia liberale del mondo, dove si vota con lo stesso metodo da quasi 300 anni». Sempre stata diffidente, Londra, prima «verso i francesi usciti dal giacobinismo e dal periodo di Napoleone», e poi «verso i tedeschi, anche per via di due guerre mondiali combattute spesso in modo isolato e in prima linea». Per Da Rold, già invitato del “Corriere della Sera” e poi direttore de “L’Indipendente”, l’euroscetticismo britannico è un retroterra culturale antico: l’idea dell’unità europea non ha mai veramente affascinato gli inglesi. «Non a caso le immagini più significative, prima della Comunità del carbone e dell’acciaio (la Ceca), fino ai Patti di Roma del 1957, e ancora fino a Maastricht e alla nascita dell’Unione Europea, con l’euro mai adottato nel Regno Unito, non hanno alcun inglese come autentico protagonista». Sfilarono tedeschi come Adenauer, italiani come De Gasperi, francesi come Robert Schuman. Più tardi, «uomini come Mitterrand e Kohl attraversano gli antichi campi di battaglia e i cimiteri di guerra stringendosi la mano». Gli inglesi? Sempre in seconda fila, o all’opposizione.Nel 1985, a Milano, insieme a Mitterrand e Kohl fu Craxi a mette in minoranza «una proposta, sul futuro piuttosto vago dell’Unione Europea, di Margaret Thatcher». Tutto questo, osserva Da Rold, spiega i retroscena delle difficoltà nei rapporti tra Unione Europea e Regno Unito. E spiega in parte il clamoroso successo di un personaggio come Boris Johnson, che ha appena umiliato il Labour di Jeremy Corbyn e messo in un angolo nazionalisti scozzesi e liberal-democratici, sanzionando il via libero definitivo alla Brexit, all’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Estrema mobilità politica: alla “pelosa morale” della regina Vittoria, scrive Da Rold, si opponeva il famoso Circolo di Bloomsbury, con personaggi formidabili come le sorelle Woolf, John Maynard Keynes, lo scrittore Litton Strachey. Senza contare «grandi ribelli solitari come Oscar Wilde». Nell’ultimo dopoguerra, quando il debito inglese ammontava al 200%, «il laburista gallese Aneurin Bevan non ci pensò un attimo a varare il servizio sanitario nazionale (cure dentarie incluse)», secondo la lezione di William Beveridge, che nel 1942 gettò le basi per il super-progressista welfare inglese sotto il governo del conservatore Winston Churchill. Non lo sapevano, i “giornaloni”, che la Gran Bretagna è capace di tutto? Per loro, «la Brexit è colpa solo di un popolo che non capisce».I media, aggiunge Da Rold, avrebbero dovuto ricordare che, quando la costituzione dell’Unione Europea entrò nella fase cruciale degli anni Novanta, ancora un grande storico anglo-americano, Robert Conquest, metteva sull’avviso gli inglesi dal cadere «nelle braccia» della burocrazia e tecnocrazia poco politica di Bruxelles, «dominata soprattutto da un asse franco-tedesco fastidioso e irritante per la tradizione politico-democratica inglese». Conquest, scrive Da Rold, contrapponeva a questa idea di Europa addirittura un’alleanza transatlantica che si allargava anche agli Stati del Pacifico di origine anglosassone. Storia: «Alla fine prevalse, dopo il fallimento del comunismo e la caduta del Muro di Berlino, l’idea di un’Europa unita e protagonista nel mondo». Buona idea, ma «mal gestita». È in quel momento che, sia da parte britannica ma anche da parte franco-tedesca – dice Da Rold – si sarebbero dovute superare le antiche diffidenze per trovare un terreno di comune collaborazione. Invece, ci sono stati quasi solo incidenti: prima la crisi finanziaria del 2008 (con l’Europa ingessata dall’euro) e poi il collasso della Grecia nel 2013 «hanno ricreato profonde diffidenze nel Regno Unito».È per questa ragione, continua l’analista, che nel 2015 venne rieletto a larga maggioranza David Cameron, leader conservatore che voleva ridiscutere il ruolo della Commissione Ue, contestando Jean-Claude Juncker. Fu Cameron a volere un mandato forte, e quindi il referendum, pur schierandosi per la permanenza del Regno Unito in Europa. Il resto è cronaca: i britannici rispsero con una bocciatura e la scelta di uscire dall’Ue. «Imprudente, Cameron? Probabilmente, ma anche comprensibile». E in ogni caso: assai più democratico dei vari “soloni” europeisti di Bruxelles, «noti da anni per l’austerità, la deflazione, la crescita asfittica e le contestazioni a cui sono sottoposti dai nuovi nazionalisti, oltre che da assetti geopolitici che altre grandi potenze cercano di definire, tagliando fuori proprio l’Europa». Prima sgomenti dopo il referendum perso da Cameron, i burocrati di Bruxelles hanno alzano la posta «con una serie di dichiarazioni anti-britanniche, spalleggiate da una stampa para-comica, soprattutto in Italia». Per il Regno Unito si sarebbe avvicinata una crisi devastante, una specie di Armageddon: una canzoncina intonata per tre anni.Mentre ci sono paesi europei in grande difficoltà – osserva invece Da Rold – la Gran Bretagna ha una sterlina che prima perde valore, favorendo però le esportazioni, poi cresce meno ma cresce e soprattutto mantiene una disoccupazione al 3%. «Per ora l’Armageddon non è arrivato, le profezie oscure dell’asse franco-tedesco non si sono avverate, mentre “frau Merkel” continua a perdere consensi a ogni elezione. E Emmanuel Macron, l’uomo nuovo della supposta “nuova grandeur”, non riesce in questi giorni neppure a uscire di casa per il blocco dei trasporti in Francia, in seguito alla riforma delle pensioni». Perché stupirsi, a questo punto, della valanga anti-europeista a favore di Boris Johnson? Il leader conervatore, latinista e storico, ha scritto “Il sogno di Roma”: come altri storici inglesi, sull’esempio dell’imperatore Augusto, considera che «i veri confini della civiltà» arrivano al Reno, mentre «all’Elba è meglio non arrivare». Opinioni ovviamente azzardate, chiosa Da Rold, per il tempo che viviamo: «Ma qualche autocritica, dalle rive dell’Elba e da Bruxelles, dovrebbe essere finalmente fatta. Sul serio, senza prese in giro di vario tipo, altrimenti la povera Europa affonda veramente».«Nebbia sulla Manica? Il continente è isolato». Gianlugi Da Rold cita la regina Vittoria per tratteggiare l’atteggiamento verso l’Europa mostrato storicamente dal Regno Unito, «la più radicata monarchia costituzionale e la più antica democrazia liberale del mondo, dove si vota con lo stesso metodo da quasi 300 anni». Sempre stata diffidente, Londra, prima «verso i francesi usciti dal giacobinismo e dal periodo di Napoleone», e poi «verso i tedeschi, anche per via di due guerre mondiali combattute spesso in modo isolato e in prima linea». Per Da Rold, già invitato del “Corriere della Sera” e poi direttore de “L’Indipendente”, l’euroscetticismo britannico è un retroterra culturale antico: l’idea dell’unità europea non ha mai veramente affascinato gli inglesi. «Non a caso le immagini più significative, prima della Comunità del carbone e dell’acciaio (la Ceca), fino ai Patti di Roma del 1957, e ancora fino a Maastricht e alla nascita dell’Unione Europea, con l’euro mai adottato nel Regno Unito, non hanno alcun inglese come autentico protagonista». Sfilarono tedeschi come Adenauer, italiani come De Gasperi, francesi come Robert Schuman. Più tardi, «uomini come Mitterrand e Kohl attraversano gli antichi campi di battaglia e i cimiteri di guerra stringendosi la mano». Gli inglesi? Sempre in seconda fila, o all’opposizione.
-
Moiso: spiegate a Salvini che gli inglesi perderanno la sanità
Spiegate a Salvini che non c’è niente da festeggiare, a Londra: gli inglesi perderanno il loro welfare e tra dopo dovranno pagarla a caro prezzo, la sanità che Boris Johnson privatizzerà. Lo afferma Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt: che stupidaggine, pensare che la Brexit sia una rivolta popolare contro “l’Europa matrigna”. Secondo Moiso, gli inglesi cadranno dalla padella alla brace: dopo i diktat di Bruxelles, quelli – ancora peggiori, se possibile – dell’ultraliberismo, di cui proprio Johnson è il massimo campione britannico. Non ci credete? Male, perché è proprio lo scalpo della sanità pubblica che il simpatico Boris ha offerto, agli sponsor di Trump, da mettere sul piatto del prossimo patto commerciale anglo-americano per bilanciare l’uscita di Londra dal mercato comune europeo. Tradotto: le cure che oggi sono gratuite, domani costeranno un sacco di soldi, come negli Usa. Assicurazioni sanitarie: un business clamoroso. «La Brexit non è mai stata nient’altro che questo: un assalto del neoliberismo al welfare britannico, che è ricco e fa gola al business privato», dice Moiso. «E mi meraviglio che Salvini non se ne sia accorto: scrive “go, Boris”, sul Twitter, e non sa che a farne le spese saranno gli inglesi, a cominciare dai meno abbienti».Di professione pubblicitario, con un’azienda insediata proprio a Londra, Moiso prende le distanze dal leader della Lega: con la sua opposizione al Mes – dichiara, in un video-intervento su YouTube – Salvini ci aveva illuso di aver capito la lezione. E cioè: non può essere la tecnocrazia (che risponde ai mercati, non agli Stati e quindi agli elettori) a decidere l’assetto finanziario dei nostri paesi. «In quel modo finisce la democrazia e vince esattamente la post-democrazia instaurata dal neoliberismo». Brutta bestia: «Il pensiero neoliberale pretende di escludere e squalificare qualsiasi ideologia, spacciandosi per semplice teoria economica. Ma non è vero, perché il neoliberismo ha una natura squisitamente ideologica: è infatti l’unica ideologia rimasta al potere, e i suoi risultati disastrosi si vediamo ogni giorno. Il neoliberismo è la guerra dei pochi contro i molti». Non l’ha ancora capito, Salvini? Strano: i suoi economisti keynesiani (da Alberto Bagnai ad Antonio Maria Rinaldi) avrebbero dovuto spiegarglielo. Salvini esulta perché le elezioni inglesi le ha vinte Johnson, cioè “la destra”? «Ma questa è una regressione “tribale” della politica, di stampo calcistico: la verità è che nel Regno Unito ha perso il popolo, e presto se ne accorgerà».Per contro, va detto che – nel votare la Brexit – gli inglesi hanno manifestato una ferma volontà democratica: impossibile farsi “sgovernare” dai tecnocrati di Bruxelles, la cricca franco-tedesca che ha messo nei guai l’Italia e ridotto alla fame la Grecia. Tutto nacque dalla sfida perduta da Cameron: un referendum, per ottenere un mandato preciso. Ovvero: rinegoziare con Bruxelles le regole dell’Ue, per una governance meno autolesionistica. Contro le previsioni dell’allora premier, tre anni fa gli inglesi votarono invece per abbandonare l’Unione. E l’interregno di Theresa May è servito solo a esasperare gli animi. Johnson ha avuto buon gioco nel presentarsi come paladino del popolo e notaio dell’esito del referendum. Votandolo, gli inglesi hanno creduto di ribadire il “no all’Europa” del 2016. Il suo fragile avversario, Corbyn, non poteva seguire Johnson su quel terreno: 7 elettori laburisti su 10 erano contrari alla Brexit. E le ardite nazionalizzazioni promesse dal capo del Labour non sarebbero mai state convalidate da questa Ue. La scommessa, infatti, era: cambiare Bruxelles. Speranza sonoramente battuta, come già con Cameron. Con una differenza: ora, la Gran Bretagna si sgancerà davvero, da Bruxelles. E gli inglesi – secondo Moiso – constateranno, fuori tempo massimo, il clamoroso errore commesso nel votare Johnson.La posizione del Movimento Roosevelt sull’Europa è nota: sarebbe un suicidio rifugiarsi entro le piccole frontiere del sovranismo, avendo di fronte lo smisurato potere della finanza globalista, immensamente più forte dei singoli Stati. Di qui l’idea dell’Ue (non questa, ma i veri Stati Uniti d’Europa) come baluardo sociale e democratico contro lo strapotere del business privatizzatore. I precedenti non sono comunque lusinghieri: “L’Altra Europa” promessa da Tsipras s’è visto com’è finita, soprattutto per i greci. Dall’Europa attuale – Fiscal Compact, pareggio di bilancio, Mes, Eurozona senza eurobond, Commissione Ue non-eletta – gli inglesi scappano a gambe levate. Scopriranno che Boris Johnson si appresta a tradirli? Moiso ne è certo: «E’ palese, da parte dei conservatori, l’intenzione di privatizzare innanzitutto la sanità». Con i laburisti, il fronte democratico che sogna un’Europa diversa perde un alleato strategico. Restano i capetti come Macron, coi loro maggiordomi italiani (Conte, Gualteri, Gentiloni). Senza più gli inglesi, siamo comunque più deboli. Non lo capisce, Salvini? O davvero gli sta bene “Boris”, che svenderà il patrimonio sociale della nazione?Spiegate a Salvini che non c’è niente da festeggiare, a Londra: gli inglesi perderanno il loro welfare e tra poco dovranno pagarla a caro prezzo, la sanità che Boris Johnson privatizzerà. Lo afferma Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt: che stupidaggine, pensare che la Brexit sia una rivolta popolare contro “l’Europa matrigna”. Secondo Moiso, gli inglesi cadranno dalla padella alla brace: dopo i diktat di Bruxelles, quelli – ancora peggiori, se possibile – dell’ultraliberismo, di cui proprio Johnson è il massimo campione britannico. Non ci credete? Male, perché è proprio lo scalpo della sanità pubblica che il simpatico Boris ha offerto, agli sponsor di Trump, da mettere sul piatto del prossimo patto commerciale anglo-americano per bilanciare l’uscita di Londra dal mercato comune europeo. Tradotto: le cure che oggi sono gratuite, domani costeranno un sacco di soldi, come negli Usa. Assicurazioni sanitarie: un business clamoroso. «La Brexit non è mai stata nient’altro che questo: un assalto del neoliberismo al welfare britannico, che è ricco e fa gola al business privato», dice Moiso. «E mi meraviglio che Salvini non se ne sia accorto: scrive “go, Boris”, sul Twitter, e non sa che a farne le spese saranno gli inglesi, a cominciare dai meno abbienti».
-
Brexit straccia Corbyn, i poveri premiano il falso amico Boris
«I segnali di una sconfitta c’erano tutti, nonostante le illusioni dettate dalle piazze piene e dalle lunghe file di giovani ai seggi». Un analista come Nicola Melloni commenta così il trionfo annunciato di Boris Johnson nel Regno Unito: il consenso si sposta su posizioni estreme, e le classi sociali ignorate per decenni si sono sentite defraudate del referendum sulla Brexit. «Il fronte Brexit si è compattato intorno ai Conservatori (con l’aiuto decisivo del Brexit Party che ha eroso consensi ai Laburisti nel Nord); quello Remain si è affidato principalmente, ma non unicamente, al Labour). Corbyn? «Si è trovato in una situazione impossibile: sostenere un secondo referendum è costato una quarantina di seggi al Nord». Se non lo avesse fatto, «avrebbe dato il via libera ai Libdem come unico partito del Remain: senza poi tenere in considerazione che quasi il 70% dell’elettorato laburista è contrario alla Brexit». Quanto ai Libdem, «rappresentano interessi economici e politici ben definiti e una borghesia liberale spesso assolutamente indisponibile a votare Labour». Insomma, «qualsiasi scelta sarebbe stata perdente», come in effetti si è visto. E ora, la Gran Bretagna staccherà la spina da Bruxelles in modo drastico.«Corbyn ha provato a trasformare il “secondo referendum” sulla Brexit in una elezione normale in cui si parlasse di un programma vastamente apprezzato», per metter fine «a un drammatico decennio di governo conservatore», scrive Melloni su “Jacobin Italia”. «Non c’è riuscito, le carte le hanno date gli altri e il risultato è stato una sconfitta di proporzioni storiche». In molti, aggiunge l’analista, si domandano come sia possibile che le zone più povere del paese abbiano votato per un partito che le ha affamate e per un leader che considera la working class con disprezzo. «Il populismo attuale – spiega Melloni – non è altro che il frutto di una progressiva de-istituzionalizzazione della politica, iniziata con la stagione neoliberista». In questi decenni, «i partiti di cosiddetta sinistra hanno perso qualsiasi capacità tanto rappresentativa che di mobilitazione». Il “red wall” elettorale, dunque, «esisteva più come concetto geografico che politico – un po’ come le regioni rosse in Italia». Corbyn proponeva un programma che parlava soprattutto a quelle regioni, ma non è bastato. «Per gente e classi sociali che sono state ignorate per decenni, veder messo in discussione un voto inequivocabile come quello del referendum è stato uno schiaffo inaccettabile, l’ennesima controprova di come Westminster sia un mondo a parte rispetto ai bisogni del Nord».Johnson ha giocato proprio su questo: «Ha offerto il suo corpaccione come scudo contro il Parlamento, l’establishment, e in difesa del voto popolare», scrive Melloni. «Ha imposto la sua narrativa – d’altronde in Uk per tre anni si è parlato solo di Brexit – e ha vinto». Così, la capacità di attrazione «su una fetta di società frustrata e che si sentiva defraudata del suo potere decisionale», alla fine è risultata «molto più forte di quella nel fronte Remain (diviso e non altrettanto agguerrito)». A questo, aggiunge Melloni, si è aggiunta una campagna senza quartiere scatenata – quella sì dal vero establishment – contro Corbyn. Un uomo di specchiata onestà e rigore morale e politico «è stato dipinto come un antisemita razzista, mentre il razzismo conclamato di Johnson è stato completamente ignorato». La stessa Bbc «si è trasformata in una succursale di Rete4, con violazioni della legge elettorale, conduttori in veste di agit-prop e un coverage basato su falsità e parzialità». Il che non spiega la sconfitta, «ma spiega la bassissima popolarità di Corbyn a dispetto di un programma largamente apprezzato».Da questo, secondo Melloni, discendono inevitabilmente delle importanti lezioni per la sinistra tutta. «Da oggi, ovviamente, vorranno farvi credere che la sinistra radicale sia un inutile rottame della storia destinato inevitabilmente alla sconfitta. E che solo un programma che guarda al centro può fermare le destre». Ma questa «è una sciocchezza opportunista», protesta Melloni. «I risultati britannici dicono tutt’altro: al crollo dei laburisti è corrisposta una performance penosa dei liberaldemocratici, la cui leader non è stata neppure eletta». Non solo: «Nonostante tutta la stampa moderata dipingesse Corbyn come un novello Attila, i Libdem sono riusciti a intercettare solo una piccola percentuale dei voti laburisti in uscita». Di fatto, «non c’è nessuna voglia di centro o di ritorno al New Labour». I voti persi «sono andati tanto a destra più che al centro». E se Boris Johnson «è solo l’ennesimo estremista di destra eletto», il messaggio forte e chiaro è che «le partite non si giocano più al centro, ma sulle estreme: l’elettore mediano potrà forse ancora essere un “moderato”, ma lo schiacciamento della distribuzione porta a maggioranze radicali ed estreme, prendendo il voto degli sconfitti della globalizzazione neoliberale».La seconda lezione inglese, sempre secondo Melloni, è che non bastano programmi e candidati radicali: «Come si è visto, il programma economico e sociale più di sinistra in trent’anni non solo non è bastato ma ha perso le regioni più povere della Gran Bretagna». Da storico, Melloni cita Gramsci: il lavoro quotidiano nella società, la creazione di una “coscienza di classe”. Problema: «L’agenda è strettamente controllata dalla destra, così come i media. Ed è chiarissimo che il cosiddetto centro moderato preferisce la destra peggiore a un’alternativa di sinistra». In Italia, il “Corriere della Sera” ha rivaluto «quel simpatico mattacchione di Boris in funzione anti-socialista». E la campagna denigratoria riservata a Corbyn «sarà replicata contro qualsiasi altro candidato». Per contro, secondo Melloni, qualche segnale postivo viene dagli Usa, grazie all’attivismo di Bernie Sanders: «Le ondate di scioperi di questi anni hanno cominciato a costruire tanto una coscienza che una comunità politica di riferimento. E la sinistra è riuscita in parte a imporre una propria narrazione, dalla diseguaglianza alla critica di Wall Street fino alla sanità pubblica».Nel Regno Unito, invece, il Labour non è riuscito a fare nulla del genere: «I sindacati sono smobilitati da tre decenni, e lo slogan principale della campagna elettorale è stato la difesa della Nhs (il sistema sanitario nazionale) che, per quanto sacrosanta, è alla fine una difesa dello status quo, obiettivamente più debole della promessa di un grande cambio e del “take back control” della Brexit». Se non altro, dice Melloni, l’esperienza di Corbyn ha mostrato anche lati positivi: “Momentum”, con la sua struttura organizzativa, «ha dimostrato un’inaspettata capacità di mobilitazione, in netta controtendenza con la de-istituzionalizzazione della post-democracy». E lo stesso Corbyn ha riempito piazze, cercando di riannodare un filo con la nuova base del partito: studenti, lavoratori delle grandi città, ceto medio proletarizzato e frustrato. E’ un fatto: nonostante la batosta, il Labour rimane di gran lunga il partito di sinistra più votato in Occidente. Una rinascita della sinistra richiede trent’anni, secondo Melloni: bisogna prima «imporre una narrazione diversa», e quindi «resistere a un sistema di potere che non accetterà mai di giocare una partita regolare: hanno troppo da perdere per permetterlo». Dunque Corbyn ha stra-perso, «ma qualche cosa da insegnare ce l’ha ancora».«I segnali di una sconfitta c’erano tutti, nonostante le illusioni dettate dalle piazze piene e dalle lunghe file di giovani ai seggi». Un analista come Nicola Melloni commenta così il trionfo annunciato di Boris Johnson nel Regno Unito: il consenso si sposta su posizioni estreme, e le classi sociali ignorate per decenni si sono sentite defraudate del referendum sulla Brexit. «Il fronte Brexit si è compattato intorno ai Conservatori (con l’aiuto decisivo del Brexit Party che ha eroso consensi ai Laburisti nel Nord); quello Remain si è affidato principalmente, ma non unicamente, al Labour). Corbyn? «Si è trovato in una situazione impossibile: sostenere un secondo referendum è costato una quarantina di seggi al Nord». Se non lo avesse fatto, «avrebbe dato il via libera ai Libdem come unico partito del Remain: senza poi tenere in considerazione che quasi il 70% dell’elettorato laburista è contrario alla Brexit». Quanto ai Libdem, «rappresentano interessi economici e politici ben definiti e una borghesia liberale spesso assolutamente indisponibile a votare Labour». Insomma, «qualsiasi scelta sarebbe stata perdente», come in effetti si è visto. E ora, la Gran Bretagna staccherà la spina da Bruxelles in modo drastico.
-
Altro che clima: Greta Thunberg vale 100 trilioni di dollari
Seriamente: Greta Thunberg vale 100 trilioni di dollari. Lo afferma William Engdahl, analista geopolitico e docente di rischio strategico. Laureatosi a Princeton, Engdahl è autore di bestseller su temi come le guerre del petrolio, e scrive in esclusiva “New Eastern Outlook”. Su “Global Research”, il newsmagazine dell’economista canadese Michel Chossudovsky, Engdahl aggiorna la mappa del mostruoso business planetario che sta dietro alla ragazzina svedese, usata per creare allarmismo attorno al surriscaldamento climatico, “venduto” come prodotto umano. Passo successivo: innescare il business del secolo, il cosiddetto Green New Deal, pilotato dal gotha finanza mondiale. Il piano: riversare trilioni di dollari «verso investimenti in società “climatiche” spesso senza valore». Nel 2013, dopo anni di attenta preparazione, una società immobiliare svedese, Vasakronan, ha emesso il primo “Green Bond” aziendale. Ne sono seguiti altri, promossi da Apple, Sncf e la principale banca francese, Crédit Agricole. Nel novembre 2013 la Tesla Energy ha emesso il primo sistema di sicurezza “solare”. «Oggi, secondo una cosa chiamata Climate Bonds Initiative, oltre 500 miliardi di dollari in quelle obbligazioni verdi sono eccezionali. I creatori dell’idea obbligazionaria – scrive Engdahl – affermano che il loro obiettivo è quello di conquistare una quota importante dei 45 trilioni di dollari di attività gestite a livello globale che hanno preso l’impegno nominale di investire in progetti “climatici”».Bonnie Prince Charles, futuro “monarca” del Regno Unito, insieme a Bank of England e City of London ha promosso “strumenti finanziari verdi”, guidati da Green Bonds, «per reindirizzare piani pensionistici e fondi comuni di investimento verso progetti verdi». Un attore chiave nel collegamento delle istituzioni finanziarie mondiali con l’agenda verde è Mark Carney, capo uscente della Banca d’Inghilterra. Nel dicembre 2015, il Financial Stability Board della Bank for International Settlements, presieduto poi da Carney, ha creato la task force sulla divulgazione finanziaria legata al clima (Tcfd), per consigliare «investitori, finanziatori e assicurazioni sui rischi legati al clima». Nel 2016, continua Engdahl, il Tcfd (insieme alla City of London Corporation e al governo del Regno Unito) ha avviato la Green Finance Initiative, con l’obiettivo di incanalare trilioni di dollari in investimenti “verdi”. I banchieri centrali dell’Fsb hanno nominato 31 persone per formare il Tcfd. Presieduta dal miliardario Michael Bloomberg, la cabina di regia include le persone chiave dei maggiori operatori finanziari del pianeta. Ci sono tutti: da Jp Morgan a BlackRock, uno dei più grandi gestori patrimoniali al mondo.Nell’elenco giganteggiano Barclays e Hsbc, la banca Londra-Hong Kong (multata ripetutamente per riciclaggio di droga e altri fondi neri), Swiss Re (la seconda assicurazione più grande al mondo), la banca cinese Icvc, Tata Steel, Eni, Dow Chemical, il gigante minerario Bhp Billington e David Blood di Al Gore’s Generation Investment. «In effetti sembra che le volpi stiano scrivendo le regole per il nuovo Green Hen House», annota Engdahl. «Carney, della Bank of England, è stato anche un attore chiave negli sforzi per rendere la City di Londra il centro finanziario della Green Finance globale». Philip Hammond, già cancelliere britannico, nel luglio 2019 ha pubblicato un Libro bianco, “Strategia di finanza verde: trasformare la finanza per un futuro più verde”. Il documento afferma: «Una delle iniziative più influenti da far emergere è il Financial Stability Board Task Force del settore privato sulle comunicazioni finanziarie legate al clima (Tcfd), supportato da Mark Carney e presieduto da Michael Bloomberg. Ciò è stato approvato dalle istituzioni che rappresentano 118 trilioni di attività a livello globale». Il piano, spiega Engdahl, consiste nella finanziarizzazione dell’intera economia mondiale «usando la paura di uno scenario da fine del mondo per raggiungere obiettivi arbitrari come “emissioni zero di gas serra”».L’onnipresente regina di Wall Street, Goldman Sachs, che ha generato tra gli altri Mario Draghi e lo stesso Carney, ha appena svelato il primo indice globale di titoli ambientali di alto livello, fatto insieme al Cdp con sede a Londra, finanziato insieme a investitori come Hsbc, Jp Morgan, Bank of America, Merrill Lynch, American International Group e il fondo State Street. Il nuovo indice borsistico, denominato Cdp Environment Ew e Cdp Eurozone Ew, «mira ad attirare fondi di investimento, sistemi pensionistici statali come Calpers (il sistema pensionistico dei dipendenti pubblici della California) e Calstrs (il sistema pensionistico degli insegnanti dello Stato della California) con un combinato di 600 miliardi di attività, da investire in obiettivi scelti con cura. Le società più votate nell’indice includono Alphabet, che possiede Google, Microsoft, Ing Group, Diageo, Philips, Danone e la stessa Goldman Sachs. «A questo punto – continua Engdahl – gli eventi assumono una svolta cinica quando ci troviamo di fronte ad attivisti climatici molto popolari e fortemente promossi come la svedese Greta Thunberg o la 29enne Alexandria Ocasio-Cortez di New York e il loro Green New Deal. Per quanto sinceri possano essere questi attivisti, c’è una macchina finanziaria ben oliata dietro la loro promozione a scopo di lucro».Greta Thunberg, continua Engdahl, «fa parte di una rete ben collegata legata all’organizzazione di Al Gore», che viene «commercializzata in modo cinico e professionale e utilizzata da agenzie come le Nazioni Unite, la Commissione Europea e gli interessi finanziari dietro l’attuale agenda sul clima». Ricercatrice e attivista climatica canadese, Cory Morningstar documenta come in azione «una rete ben collegata ad Al Gore», definito «investitore e profittatore del clima enormemente ricco», presidente del gruppo Generation Investment. Il partner di Gore, David Blood, ex funzionario di Goldman Sachs, è membro del Tcfd creato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali. «Greta Thunberg, insieme alla sua amica diciassettenne americana Jamie Margolin, è stata elencata come “consulente speciale per giovani e fiduciario” della Ong svedese “We Don’t Have Time”, fondata dal suo Ceo Ingmar Rentzhog». Rentzhog è membro dei leader dell’Organizzazione per la Realtà Climatica di Al Gore, e fa parte della task force per la politica climatica europea. È stato “addestrato” nel marzo 2017 da Al Gore a Denver e di nuovo nel giugno 2018 a Berlino. Il Progetto per la Realtà Climatica di Al Gore è partner di “We Don’t Have Time”.«I legami tra i più grandi gruppi finanziari del mondo, le banche centrali e le società globali all’attuale spinta a una strategia climatica radicale per abbandonare l’economia dei combustibili fossili a favore di un’economia verde vaga e inspiegabile, a quanto pare, valgono assai più della genuina preoccupazione di rendere il nostro pianeta un ambiente pulito e sano in cui vivere». Piuttosto, scrive Engdahl, quello degli “amici” di Greta è un programma di business intimamente legato all’Agenda 2030 dell’Onu, vocata all’economia “sostenibile” («e allo sviluppo letteralmente di trilioni di dollari di nuova ricchezza per le banche globali e i giganti finanziari»). Nel febbraio 2019, Jean-Claude Juncker accolse Greta alla Commissione Europea, fingendo di impegnarsi per il clima sulla scorta della denuncia della ragazzina. In realtà, spiega Engdahl, le «centinaia di miliardi di euro per combattere i cambiamenti climatici nei prossimi 10 anni» erano già in cantiere: decisione presa in collaborazione con la Banca Mondiale un anno prima, il 26 settembre 2018, al vertice di One Planet con le fondazioni di Bloomberg. Greta serviva solo come paravento etico per il business finanziario che usa il “green” per rastrellare fondi e lanciare prodotti speculativi.Il 17 ottobre 2018, aggiunge Engdahl, Juncker ha firmato un memorandum d’intesa con Breakthrough Energy-Europe, in cui i partner «avranno accesso preferenziale a qualsiasi finanziamento». Nel club figurano Richard Branson di Virgin Air, Bill Gates, Jack Ma di Alibaba, Mark Zuckerberg di Facebook, Ray Dalio di Bridgewater. Ancora: Julian Robertson (Tiger Management) e poi David Rubenstein (Carlyle Group), nonché George Soros e il giapponese Masayoshi Son (Softbank). Avverte Engdahl: «Quando le multinazionali più influenti, i maggiori investitori istituzionali del mondo tra cui BlackRock e Goldman Sachs, le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, la Banca d’Inghilterra e altre banche centrali della Bri si schierano dietro il finanziamento di una cosiddetta “agenda verde”, è tempo di guardare dietro la superficie delle campagne degli attivisti del clima». Quello che emerge è il tentativo di riorganizzare la finanza mondiale usando il clima come pretesto. Allarme: vogliono «cercare di convincere la gente comune a compiere sacrifici indicibili per “salvare il pianeta”». Già nel 2010, il capo dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo dell’Onu sui cambiamenti climatici, Otmar Edenhofer, ammetteva: «Bisogna dire chiaramente che ridistribuiamo di fatto la ricchezza del mondo in base alla politica climatica». Parole esplicite: «Bisogna liberarsi dall’illusione che la politica internazionale sul clima sia una politica ambientale. Questo non ha quasi più nulla a che fare con la politica ambientale, con problemi come la deforestazione o il buco dell’ozono». Soldi, prima di tutto. Capito, gretini?Seriamente: Greta Thunberg vale 100 trilioni di dollari. Lo afferma William Engdahl, analista geopolitico e docente di rischio strategico. Laureatosi a Princeton, Engdahl è autore di bestseller su temi come le guerre del petrolio, e scrive in esclusiva su “New Eastern Outlook”. Su “Global Research“, il newsmagazine dell’economista canadese Michel Chossudovsky, Engdahl aggiorna la mappa del mostruoso business planetario che sta dietro alla ragazzina svedese, usata per creare allarmismo attorno al surriscaldamento climatico, “venduto” come prodotto umano. Passo successivo: innescare il business del secolo, il cosiddetto Green New Deal, pilotato dal gotha finanza mondiale. Il piano: riversare trilioni di dollari «verso investimenti in società “climatiche” spesso senza valore». Nel 2013, dopo anni di attenta preparazione, una società immobiliare svedese, Vasakronan, ha emesso il primo “Green Bond” aziendale. Ne sono seguiti altri, promossi da Apple, Sncf e la principale banca francese, Crédit Agricole. Nel novembre 2013 la Tesla Energy ha emesso il primo sistema di sicurezza “solare”. «Oggi, secondo una cosa chiamata Climate Bonds Initiative, oltre 500 miliardi di dollari in quelle obbligazioni verdi sono eccezionali. I creatori dell’idea obbligazionaria – scrive Engdahl – affermano che il loro obiettivo è quello di conquistare una quota importante dei 45 trilioni di dollari di attività gestite a livello globale che hanno preso l’impegno nominale di investire in progetti “climatici”».
-
Ong, l’industria dei Buoni: stipendi da centomila euro l’anno
Sulle Ong in affari e la questione dei migranti il mainstream chiede prove e rincara la dose: «Dobbiamo ringraziare queste organizzazioni che aiutano gli altri, che contribuiscono ad abbattere la povertà e l’analfabetismo», ci stanno ripetendo da qualche giorno in tutte le trasmissione politicizzate della televisione. Eppure, a prescindere dai dettagli sulla questione degli sbarchi, che le organizzazioni no-profit siano per alcuni assolutamente profit è un po’ il segreto di Pulcinella. Anzi, è accertato che ai piani alti del settore stia un business molto remunerativo, caratterizzato da voto di scambio e lauti stipendi. In questi ultimi dieci anni sono diverse le analisi svolte da cooperanti “insider” e giornalisti che hanno denunciato le disparità di trattamento economico nel mondo della cooperazione internazionale; gente come Tarcisio Arrighini, che al tema ha dedicato il libro “Il mercato degli aiuti”, alla veneta Valentina Furlanetto, che ha analizzato i bilanci di Onlus e Ong nel suo approfondimento “L’industria della carità”, scoprendo le montagne di soldi che circolano tra vestitini donati ai poveri, vendita di azalee e persino adozioni di bambini.Beninteso: gli stipendi dei cooperanti sono mediamente più bassi rispetto a chi lavora (sempre mediamente) nel mondo del “profit”. Vi è anche maggiore precarietà, visto che alcune attività richieste dalle associazioni sono legate al periodo, all’emergenza e, quindi, alla stagionalità. Ma nel mondo di Onlus, Ong e della cooperazione in generale non vi sono solo gli operatori semiprofesssionali e i volontari. Curiosando nel sito “Open-cooperazione”, ad esempio, si possono vedere alcune statistiche sugli stipendi del terzo settore nel 2015, dalle quali emerge come stipendio più alto registrato tra gli associati italiani del sito la cifra di 103.200 euro. Niente male, per un manager che si occupa di poveretti… Il punto da capire è questo: le organizzazioni che fanno volontariato all’estero cercano e ottengono tutta una serie di fondi, da quelli pubblici a quelli privati, anche tramite il meccanismo del “fundraising”, per il quale spesso gli organizzatori frequentano anche dei corsi di formazione.Mentre l’operatore riceve stipendi nella media o sotto la media – e spesso, soprattutto se novizio, lavora gratis magari in cambio di qualche benefit (viaggi pagati, ecc) – i manager che organizzano la struttura del servizio guadagnano una percentuale sui progetti che vengono presentati ai grandi finanziatori. E’ dunque evidente che se il finanziatore ritiene che il progetto che l’organizzatore gli presenta può essere buono in termini di “posizionamento”, immagine e indotto, può decidere di conferire altissime cifre, anche milioni di euro. Con oltre 40.000 associazioni non governative, quasi un migliaio di organizzazioni governative internazionali, milioni di milioni di capitali pubblici e privati mossi, non possiamo più fingere di non vedere che profughi e rifugiati non fanno altro che aumentare al pari del numero dei poveri, dato che la povertà si misura in rapporto alla differenza con la ricchezza. E non sarà certo l’aumento del numero delle organizzazioni, governative o non governative, o dell’entità dei finanziamenti, pubblici o privati, la strada che ci condurrà verso la soluzione.Chi afferma il contrario o non ha ben compreso di cosa si sta parlando o sta sognando. Sentite cosa scriveva “Repubblica” nel 2013 (oggi ha cambiato liena editoriale): «Amnesty International ha concesso una buonuscita d’oro al suo ex-segretario generale, Irene Khan, che ha ricevuto una liquidazione di 500 mila sterline (circa 600 mila euro), apparentemente più del doppio di quanto inizialmente stabilito dal suo contratto. Sempre Amnesty ha organizzato un evento per la raccolta di fondi di beneficenza l’anno scorso a New York con ospiti del calibro della rock band Coldplay e dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, finendo per spendere di più di quanto ha incassato: un “buco” da 750 mila sterline (900 mila euro). Save The Children, per parte sua, avrebbe evitato di criticare uno dei suoi maggiori donatori e sponsor, la British Gas, azienda fornitrice di servizi alla popolazione britannica, per le bollette troppo alte, a detta di molti commentatori, imposte alle famiglie del Regno Unito. E infine si è scoperto che Comic Relief, l’organizzazione che fa mettere un “naso rosso” da clown ai suoi rappresentanti e finanziatori, investe milioni di sterline in fondi di investimento che acquistano tra l’altro azioni di aziende che producono armamenti, alcolici e tabacco, non proprio il massimo per un’associazione che sostiene la pace e le iniziative benefiche per l’infanzia».(Massimo Bordin, “Quanto si guadagna in una Ong?”, post apparso su “Micidial” il 29 aprile 2017 e ora rilanciato dall’autore, alla luce delle recenti polemiche italiane su migranti e Ong).Sulle Ong in affari e la questione dei migranti il mainstream chiede prove e rincara la dose: «Dobbiamo ringraziare queste organizzazioni che aiutano gli altri, che contribuiscono ad abbattere la povertà e l’analfabetismo», ci stanno ripetendo da qualche giorno in tutte le trasmissione politicizzate della televisione. Eppure, a prescindere dai dettagli sulla questione degli sbarchi, che le organizzazioni no-profit siano per alcuni assolutamente profit è un po’ il segreto di Pulcinella. Anzi, è accertato che ai piani alti del settore stia un business molto remunerativo, caratterizzato da voto di scambio e lauti stipendi. In questi ultimi dieci anni sono diverse le analisi svolte da cooperanti “insider” e giornalisti che hanno denunciato le disparità di trattamento economico nel mondo della cooperazione internazionale; gente come Tarcisio Arrighini, che al tema ha dedicato il libro “Il mercato degli aiuti”, alla veneta Valentina Furlanetto, che ha analizzato i bilanci di Onlus e Ong nel suo approfondimento “L’industria della carità”, scoprendo le montagne di soldi che circolano tra vestitini donati ai poveri, vendita di azalee e persino adozioni di bambini.
-
Femminicidio, prove tecniche di criminalizzazione di massa
Sabato scorso si è svolta a Roma una manifestazione contro la “violenza di genere”, cioè la violenza maschile contro le donne. I media hanno evocato a riguardo una sorta di emergenza “femminicidio” in Italia. L’anno più recente in cui la statistica sugli omicidi in Italia risulta pienamente aggiornata è il 2017. In base a questi dati, si registrerebbe in Italia un calo costante degli omicidi, che collocherebbe il nostro paese ai gradi più bassi della graduatoria europea per reati di sangue. Non solo in paesi comparabili al nostro, come Francia, Germania e Regno Unito, il tasso di omicidi risulta superiore all’Italia, ma persino in paesi considerati “modello”, come Svezia e Danimarca, da cui non te lo aspetteresti proprio. Meno violenti dell’Italia sono invece paesi come la Repubblica Ceca, il Portogallo e la Spagna, a smentita del luogo comune del “sangre caliente”. Il costante calo degli omicidi in Italia può essere in parte spiegato con l’invecchiamento medio della popolazione, dato che è difficile fare agguati quando si è afflitti da artrosi e prostatite. La maggioranza delle vittime di omicidi è ancora costituita da uomini. La diminuzione degli omicidi legati ad attività criminali fa statisticamente risaltare la quota degli omicidi in ambito familiare, nei quali è piuttosto consistente la quota di donne uccise.Mentre la criminalità comune sposta i reati in ambiti meno cruenti, da colletti bianchi, come le frodi informatiche e il riciclaggio, la famiglia rimane invece un luogo di violenza fisica e morale nei termini tradizionali. D’altra parte se vi fosse davvero una “violenza di genere”, questa dovrebbe proiettarsi ben oltre la famiglia, ma di ciò, almeno statisticamente, non c’è ancora nessuna traccia. Le oligarchie finanziarie e industriali sono rigorosamente costituite da maschi bianchi, in maggioranza di origine anglosassone o germanica, quindi in quel caso la criminalizzazione preventiva del genere maschile non attecchisce per niente. Funziona invece benissimo in altri ambiti, come la scuola. Secondo i dati Ocse, tende ovunque a diminuire la quota maschile di insegnanti, ma il fenomeno sembrerebbe molto più significativo in Italia, dove i maschi sono stati di fatto estromessi dalla scuola elementare. Visto che non siamo più ai tempi del Maestro di Vigevano, che lasciava la scuola per inseguire sogni di arricchimento nell’industria, la causa va probabilmente ricercata in un’opinione pubblica sempre più sospettosa e ostile alla presenza di maschi a contatto con bambini.D’altra parte, gli stessi metodi utilizzati per criminalizzare preventivamente il genere maschile potranno essere reimpiegati per criminalizzare anche il genere femminile; infatti l’Ocse presenta la femminilizzazione della scuola come un problema per il processo educativo. Nella scuola primaria e nella scuola dell’infanzia la criminalizzazione degli insegnanti maschi è servita per aprire la strada alla criminalizzazione della categoria degli insegnanti nel suo complesso. Siamo già alle condanne nei confronti di maestre per la generica accusa di aver “urlato”. L’Uomo Ragno diceva che ad un grande potere corrisponde una grande responsabilità. L’Uomo Ragno è una fiaba e infatti la realtà funziona nel modo esattamente opposto: maggiore è il potere che si esercita, maggiore è la capacità di deresponsabilizzarsi e di colpevolizzare invece i deboli per ogni cosa. Il moralismo è un linguaggio del potere che ritorce l’ansia di giustizia degli oppressi contro di loro. La criminalizzazione preventiva di chi non deteneva e non detiene i mezzi per nuocere, è quindi diventata una costante dell’attuale “governance”. Si può infatti riscontrare che non colpisce solo i generi ma anche le generazioni.Mentre le oligarchie mondialiste rimangono in gran parte felicemente gerontocratiche, in ambito sociale invece gli anziani sono additati dai media come nemici e parassiti delle giovani generazioni. Viene addebitato alla responsabilità della vecchia generazione sia il debito pubblico italiano, sia il riscaldamento globale. Non a caso la propaganda ha bollato anche un’inezia come la “Quota 100” nei termini di un furto ai danni dei giovani. A ciò si aggiunge la criminalizzazione preventiva delle categorie, in particolare i lavoratori del pubblico impiego, invariabilmente catalogati come “fannulloni” e “furbetti”. La ministra delle pubblica amministrazione del passato governo, Giulia Bongiorno, aveva introdotto un sistema di rilevamento biometrico delle impronte digitali dei dipendenti pubblici per evitare le presunte frodi dei cartellini scambiati. I ministri sono solo passacarte, perciò la Bongiorno non aveva fatto altro che adeguarsi al trend imposto dalle lobby che contano.L’attuale governo sembra aver abolito la norma, riconoscendo che aveva un carattere di criminalizzazione preventiva di un’intera categoria. La sensazione però è che il provvedimento firmato dalla Bongiorno sia stato solo rimandato poiché non sono ancora a disposizione della pubblica amministrazione le infrastrutture tecnologiche per attuarla. Di fatto il concetto era passato senza che vi fossero reazioni significative da parte di una pubblica opinione ormai addestrata all’odio di categoria. È banale e forse riduttivo evocare in questo caso il “divide et impera”, poiché c’è di peggio: si educa una società ad invocare catene dai suoi carnefici. Per i prossimi anni si apre quindi uno scenario in cui la crescente criminalizzazione di ogni settore sociale andrà a legittimare forme di controllo sempre più invasive. Si prepara una “biometrizzazione” di massa?(”Prove tecniche di criminalizzazione preventiva”, da “Comidad” del 28 novembre 2019).Sabato scorso si è svolta a Roma una manifestazione contro la “violenza di genere”, cioè la violenza maschile contro le donne. I media hanno evocato a riguardo una sorta di emergenza “femminicidio” in Italia. L’anno più recente in cui la statistica sugli omicidi in Italia risulta pienamente aggiornata è il 2017. In base a questi dati, si registrerebbe in Italia un calo costante degli omicidi, che collocherebbe il nostro paese ai gradi più bassi della graduatoria europea per reati di sangue. Non solo in paesi comparabili al nostro, come Francia, Germania e Regno Unito, il tasso di omicidi risulta superiore all’Italia, ma persino in paesi considerati “modello”, come Svezia e Danimarca, da cui non te lo aspetteresti proprio. Meno violenti dell’Italia sono invece paesi come la Repubblica Ceca, il Portogallo e la Spagna, a smentita del luogo comune del “sangre caliente”. Il costante calo degli omicidi in Italia può essere in parte spiegato con l’invecchiamento medio della popolazione, dato che è difficile fare agguati quando si è afflitti da artrosi e prostatite. La maggioranza delle vittime di omicidi è ancora costituita da uomini. La diminuzione degli omicidi legati ad attività criminali fa statisticamente risaltare la quota degli omicidi in ambito familiare, nei quali è piuttosto consistente la quota di donne uccise.
-
La Fiat riapre, ma in Marocco. E Conte le regala 136 milioni
Sapete benissimo che la Fca, ex Fiat, non è più una società italiana, da anni. Ha la sede legale ad Amsterdam, in Olanda. Ha la sede fiscale nel Regno Unito e quindi paga le tasse a Londra, pur di non pagarle in Italia, ed è quotata alla Borsa di New York. Sapete anche che sta per fondersi, anzi per essere rilevata da una società francese di automotive, la Psa (Citroen-Peugeot), all’interno della quale c’è lo Stato francese. Ebbene, sapete che cosa ha fatto il ministero dello sviluppo economico, nella serata del 26 novembre? Attenti: per chi non paga le tasse in Italia, per chi ha portato all’estero le produzioni, per chi se ne fotte degli operai italiani (perché non gli dà lavoro, glielo sottrae, e li mette in cassa integrazione a spese non della Fiat, ma nostre), be’, il ministero dello sviluppo economico di questo governo ha stanziato 27 milioni di euro di agevolazioni per il gruppo Fca. Ripeto: agevolazioni per 27 milioni di euro. Ma l’investimento complessivo di questo accordo, che è stato firmato tra il ministero ed Fca, non prevede solo questi 27 milioni della prima tranche, ma ben 136,6 milioni di euro, tra il 2019 e il 2022. Quindi, tra pochi mesi, noi regaleremo un pacco di milioni a una società francese. E li stiamo già dando a una società che non paga neanche le tasse in Italia.I primi 27 milioni forniti dal ministero, hanno subito detto in una nota, serviranno all’acquisto di macchinari per l’aggiornamento degli impianti. Ma quanto ci vuole, per acquistare un macchinario, farlo arrivare e aggiornarlo? Ci vogliono un po’ di mesi. E tra poche settimane, questi soldi verrano dati a una società francese, la quale se ne sbatterà delle esigenze italiane e incasserà questi soldi. E attenzione: mentre arrivano questi nostri milioni, 27 subito e gli altri (fino a 136,6 milioni) entro il 2022, Fca ha annunciato che, insieme a Peugeot-Psa, apre una fabbrica italiana in… Marocco! Non in Basilicata o in Campania: in Marocco. E la notizia ha destato un grande entusiasmo da parte dell’industria, del commercio e dell’economia marocchina. Esulta il signor Moulay Hafid Elalamy, uomo d’affari marocchino: il Marocco si prende una nuova fabbrica della Fiat. A rivelarlo non sono giornali italiani, ma il quotidiano economico francese “Les Échos”. Ecco quindi una duplice beffa: abbiamo regalato dei milioni di euro ai francesi, i quali per tutta risposta – insieme al loro amico John Elkann – apriranno una fabbrica in Marocco.Questo è il massimo, se uno pensa alla famosa frase di Stefano Ricucci, “so’ capaci tutti de da’ i froci cor culo degli altri”: in questo caso con il nostro, e soprattutto con i soldi nostri. Complimenti quindi al ministro dello sviluppo economico, complimenti a John Elkann. E complimenti a tutti noi, che stiamo per pagare la seconda rata delle tasse, cui poi seguirà l’Imu, eccetera. Noi almeno le tasse in Italia le paghiamo, questi non le pagano: ammesso che lo facciano, le pagano a Londra o in Lussemburgo. Noi gli regaliamo 27 milioni di euro (anzi, in totale 136,6), e loro aprono lo stabilimento, con i francesi, in Marocco. Questo è il paese delle banane: non il Marocco, ma l’Italia. I 5 Stelle, ora di fronte anche al Mes? Mi meraviglio del fatto che un movimento che aveva promesso di aprire la scatoletta del tonno sia diventato più tonno del tonno. La cosa più incredibile è che si regalino milioni ad Fca proprio in un momento come questo.(Gigi Moncalvo, dichiarazioni rilasciate nella rubrica “Silenzio stampa” della trasmissione web-radio “Forme d’Onda” il 28 novembre 2019. L’attuale ministro dello sviluppo economico, citato da Moncalvo, è il grillino Stefano Patuanelli).Sapete benissimo che la Fca, ex Fiat, non è più una società italiana, da anni. Ha la sede legale ad Amsterdam, in Olanda. Ha la sede fiscale nel Regno Unito e quindi paga le tasse a Londra, pur di non pagarle in Italia, ed è quotata alla Borsa di New York. Sapete anche che sta per fondersi, anzi per essere rilevata da una società francese di automotive, la Psa (Citroen-Peugeot), all’interno della quale c’è lo Stato francese. Ebbene, sapete che cosa ha fatto il ministero dello sviluppo economico, nella serata del 26 novembre? Attenti: per chi non paga le tasse in Italia, per chi ha portato all’estero le produzioni, per chi se ne fotte degli operai italiani (perché non gli dà lavoro, glielo sottrae, e li mette in cassa integrazione a spese non della Fiat, ma nostre), be’, il ministero dello sviluppo economico di questo governo ha stanziato 27 milioni di euro di agevolazioni per il gruppo Fca. Ripeto: agevolazioni per 27 milioni di euro. Ma l’investimento complessivo di questo accordo, che è stato firmato tra il ministero ed Fca, non prevede solo questi 27 milioni della prima tranche, ma ben 136,6 milioni di euro, tra il 2019 e il 2022. Quindi, tra pochi mesi, noi regaleremo un pacco di milioni a una società francese. E li stiamo già dando a una società che non paga neanche le tasse in Italia.
-
Putin: addio all’Ue entro il 2028, farà la stessa fine dell’Urss
Il presidente Putin crede che l’Ue si disintegrerà completamente in soli 10 anni, lo stesso tempo impiegato dall’Urss per dissolversi nel giorno di Santo Stefano 1991. Le sue osservazioni fanno capire che l’inizio della fine è già cominciato. Rendendo pubbliche le sue perplessità sul fatto o meno che l’Ue sia in grado mantenersi nella sua forma attuale fino al 2028, ha citato la Brexit tra le principali cause del crollo di Bruxelles, aggiungendo che questo è il motivo per cui segue «con preoccupazione ciò che sta accadendo lì», in riferimento alla stessa Ue. Ha aggiunto che, dal momento che l’Ue è il principale partner commerciale della Russia, è per questo che Mosca è interessata a far sì che tutto «vada per il meglio». Ha dichiarato: «Entro il 2028, alcuni paesi dell’Europa Orientale raggiungeranno un livello di sviluppo tale da non ricevere più sostegno dal bilancio europeo, ma dovranno pagare, come il Regno Unito ha fatto e continua a fare. Probabilmente emergeranno le stesse iniziative che si vedono oggi nel Regno Unito».Ha anche affermato che i leader europei stanno prendendo in considerazione diversi scenari per raggiungere «forme di integrazione più stabili». Ha aggiunto: «Non so se ci riusciranno. In ogni caso, auguro il successo a questa loro iniziativa». Le parole del presidente Putin arrivano dopo voci secondo cui starebbe usando il suo crescente carisma per ricostruire l’Urss e incrementare il potere dello Stato russo. L’ultima mossa del presidente russo è stato l’invio dei sistemi missilistici Pantsir-S in Serbia, volto a rafforzare i legami con l’amministrazione autocratica di Belgrado, guidata dal presidente Aleksandar Vucic. Putin ha già concluso importanti accordi di carattere militare con lo Stato balcanico, fornendo sistemi d’arma sia terrestri che aerei, inclusi jet da combattimento, elicotteri d’attacco e carri armati. L’accordo si è concluso nonostante gli avvertimenti dell’amministrazione Trump sul fatto che Washington avrebbe imposto severe sanzioni alla Serbia in caso di acquisto di armi letali (dalla Russia).La Serbia non è però l’unico paese nella regione balcanica a subire il fascino del Cremlino. Paul Stronski sottolinea nel suo articolo “Il gioco della Russia nei Balcani” che l’influenza del Cremlino nei Balcani Occidentali è volta a minare le speranze di questi paesi di aderire all’Unione Europea e alla Nato. Questo obiettivo viene perseguito accentuando l’instabilità della regione, in modo da diminuire le probabilità che queste nazioni vengano accettate nelle alleanze occidentali, man mano che aumentano i timori per la sicurezza. I “sei paesi balcanici occidentali” (Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia) mirano tutti ad aderire all’Ue, ma, di recente, due di questi paesi hanno visto diminuire le loro speranze quando il loro processo di integrazione ha incontrato la resistenza interna del blocco europeo. Il presidente francese Emmanuel Macron è stato l’unico leader dell’Ue ad opporsi all’entrata della Macedonia del Nord nel blocco, mentre la Francia è stata affiancata dalla Danimarca e dai Paesi Bassi nel contrastare i tentativi dell’Albania di unirsi ai 28 attuali stati membri.Sembrerebbe che l’influenza di Putin, unita alla presenza cinese nella regione, stia ostacolando gli Stati balcanici nella loro ricerca di stabilità. Putin aveva espresso in più occasioni i suoi sentimenti negativi nei confronti del crollo dell’Unione Sovietica, in un forum del 2018, quando gli era stato chiesto che cosa avrebbe cambiato della storia russa, aveva risposto: «Il crollo dell’Unione Sovietica». Come sottolinea Stronski, nei Balcani esistono importanti connessioni storiche, culturali e religiose dovute agli stretti legami tra l’Urss e la Jugoslavia che risalgono ai tempi della Guerra Fredda. Probabilmente, la mossa politica più controversa di Putin nell’Europa Orientale era stata l’annessione illegale della Crimea dall’Ucraina nel 2014, un punto critico ancora non del tutto risolto. Sono in corso anche conflitti con la Georgia e campagne di disinformazione negli Stati Baltici, mentre Mosca cerca di rilanciare la narrativa sovietica in Lettonia e in Lituania.(Carly Read, “Putin prevede il crollo dell’Ue entro 10 anni e lo paragona a quello dell’Unione Sovietica”, da “Express” del 21 novembre 2019, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Il presidente Putin crede che l’Ue si disintegrerà completamente in soli 10 anni, lo stesso tempo impiegato dall’Urss per dissolversi nel giorno di Santo Stefano 1991. Le sue osservazioni fanno capire che l’inizio della fine è già cominciato. Rendendo pubbliche le sue perplessità sul fatto o meno che l’Ue sia in grado mantenersi nella sua forma attuale fino al 2028, ha citato la Brexit tra le principali cause del crollo di Bruxelles, aggiungendo che questo è il motivo per cui segue «con preoccupazione ciò che sta accadendo lì», in riferimento alla stessa Ue. Ha aggiunto che, dal momento che l’Ue è il principale partner commerciale della Russia, è per questo che Mosca è interessata a far sì che tutto «vada per il meglio». Ha dichiarato: «Entro il 2028, alcuni paesi dell’Europa Orientale raggiungeranno un livello di sviluppo tale da non ricevere più sostegno dal bilancio europeo, ma dovranno pagare, come il Regno Unito ha fatto e continua a fare. Probabilmente emergeranno le stesse iniziative che si vedono oggi nel Regno Unito».
-
Addio Taranto, Mittal si porta via i clienti Ilva: era scontato
Rilevare stabilimenti, acquisirne i clienti e poi chiuderli. E’ la specialità di ArcelorMittal, colosso mondiale dell’acciaio. «Il risultato di questi giorni sulla questione Ilva era del tutto prevedibile», scrive Roberto Hechich: «Solo che la gente, i politici e la classe dirigente hanno la memoria corta». Mentre Taranto piange, con 10.000 posti di lavoro a rischio (e l’intera industria meccanica italiana senza più acciaio fatto in casa), sul blog del Movimento Roosevelt l’analista ricorda che Arcelor si difese strenuamente contro l’aggressiva offerta pubblica d’acquisto lanciata in Borsa da Mittal: a fine febbraio 2006 le quotazioni dei due gruppi arrivarono ad equivalersi, e Mittal riuscì ad assorbire Arcelor per un valore di 28,6 miliardi di euro. Promesse vane, sul rilancio: «A qualche mese dalla fusione cominciò a delinearsi chiaramente quella che era la strategia di politica industriale del gruppo: chiudere gli stabilimenti in Europa per fermare la concorrenza e acquisire gli ordini di Arcelor, facendo produrre l’acciaio in paesi terzi». Cominciarono anni di lotte tra il gruppo, i governi (Francia e Lussemburgo) e i sindacati: Mittal fu definito da un ministro francese come un «bugiardo senza limiti» che sapeva bene, al momento del lancio dell’Opa, quali sarebbero state le politiche da portare avanti in Europa.Nel 2003, infatti – continua Hechich – Arcelor aveva cominciato a contrattare con le parti sociali un piano di ristrutturazione di sei impianti in Europa e la cessazione di alcune attività. Nel 2006, Mittal firmò l’acquisto impegnandosi a non chiudere gli altoforni di Liegi (Belgio) e Florange (Francia). Obiettivo dichiarato: metterli a norma immediatamente per rinforzarne la competitività e assicurare l’ambientalizzazione. «La posta in gioco era molto alta, perché gli stabilimenti della Lorena fornivano l’acciaio alle case automobilistiche Bmw e Mercedes». E invece «non avvenne nulla di quanto stabilito, e nel 2009 lo stabilimento di Grandrange (Francia) chiuse senza mai aver beneficiato di quel piano che Mittal aveva promesso allo Stato francese». Aggiunge Hechich: «Buona parte degli stabilimenti sono stati acquistati al solo fine di distruggere la concorrenza europea, acquisire i contratti per poi lasciare gli impianti abbandonati». Non ci voleva un genio per capire che consegnare Taranto nelle mani del gruppo ArcelorMittal avrebbe voluto dire la fine della città: «La sola ragione per la quale un imprenditore spregiudicato come Mittal potrebbe accollarsi uno stabilimento obsoleto e al centro di una questione giudiziaria come l’Ilva di Taranto sarebbe il voler acquisire le commesse Ilva e chiudere, così come ha fatto nel resto d’Europa, senza bonifiche e senza alcun reimpiego degli operai».Nessuno si sorprenda, se oggi siamo ai titoli di coda: bastava consultare il web per vedere come avesse operato, la multinazionale, in giro per il mondo. E se anche avessimo voluto vendere Taranto ai tedeschi «sarebbe stata la stessa cosa, probabilmente». Infatti, «se gli indiani vogliono far fuori la concorrenza europea, i tedeschi avrebbero voluto far fuori la concorrenza italiana, visto che l’Ilva è il più grande stabilimento d’acciaio d’Europa ed è fondamentale per l’industria manufatturiera italiana, che poi dovrebbe rifornirsi dalla Germania a prezzi maggiori». Lo Stato italiano riuscirà nel miracolo di tirar fuori gli attributi, facendosi carico della questione e risolvendola una volta per tutte? «Certo, Di Maio farebbe una malinconica tenerezza, se non fosse per il fatto che ci va di mezzo la vita lavorativa ed economica di migliaia di famiglie». L’esponente 5 Stelle, allora ministro del lavoro, aveva annunciato di aver «risolto la questione in meno di tre mesi». Chiosa Hechich: in realtà bastava ancora meno – 5 minuti – per scoprire, consultando Google, dove sarebbe andato a parare, il gruppo ArcelorMittal.Nato nel 2006 dalla fusione tra il colosso europeo Arcelor (Spagna, Francia e Lussemburgo) e l’indiana Mittal Steel Company, il gruppo – basato in Lussemburgo – è il maggior produttore d’acciaio al mondo: con oltre 200.000 dipendenti, di cui metà in Europa, rifornisce l’industria automobilistica e i settori delle costruzioni, degli elettrodomestici e degli imballaggi. Opera in Lussemburgo, Spagna, Italia, Polonia, Romania, Bosnia-Erzegovina e Repubblica Ceca. Tanti gli stabilimenti nel resto del mondo: Sudafrica, Messico, Canada, Brasile, Algeria, Indonesia e Kazakhstan. Il gigante ArcelorMittal è quotato in Borsa a Parigi, Amsterdam, New York, Bruxelles, Lussemburgo e Madrid, e le sue azioni sono incluse in più di 120 indici borsistici. L’acquisizione di Arcelor da parte di Mittal (per 33 miliardi di dollari) venne effettuata attraverso un’offerta pubblica di acquisto ostile, lanciata dopo il fallimento di una precedente fusione pianificata da Arcelor. Oggi il gruppo produce il 10% dell’acciaio mondiale, cosa che lo rende la più grande azienda siderurgica del pianeta: già nel 2007, i ricavi ammontavano a 105 miliardi di dollari. Nel 2016 la società è stata multata dal Sudafrica per aver “fatto cartello”, fissando i prezzi attraverso informazioni aziendali riservate (la sanzione inflitta all’azienda: 110 milioni di dollari).La produzione è arrivata a 114 milioni di tonnellate di acciaio ogni anno. Con la crisi del comparto i numeri sono calati, ma il fatturato 2016 superava i 50 miliardi di euro (fruttando alla proprietà un miliardo e mezzo di utili). Cifre peraltro facilmente reperibili, anche su Wikipedia: nel 2018 i ricavi hanno superato i 76 miliardi di dollari (8 miliardi più dell’anno precedente), con un utile netto di oltre 5 miliardi. Tradotto: il profitto cresce, tagliando il lavoro, anche se si contrae il fatturato. Oggi, avverte il “Fatto Quotidiano”, il colosso dell’acciaio è in fuga, e non solo da Taranto: ArcelorMittal chiude stabilimenti in Sudafrica, Polonia e Usa, sostenendo che il mercato si starebbe deteriorando, data la contrazione della domanda. Dal 23 novembre, stop a tre altoforni tra Cracovia e Dabrowa Gornicza. Spente anche una fornace vicino a Chicago e l’acciaieria sudafricana di Baia di Saldanha. Oltre a Taranto, ArcelorMittal ha centri di servizio e sedi operative a Monza, Rieti, Avellino, Milano, Torino e Saronno (Varese). Gli stabilimenti ex Ilva, a parte quello pugliese, sono dislocati a Genova e Novi Ligure (Alessandria), Racconigi (Cuneo), Marghera (Venezia) e Salerno. Se si mette il naso fuori dall’Italia, si scopre che lo stabilimento di Zenica, in Bosnia, acquisito da ArcelorMittal con 22.000 dipendenti, oggi ha appena 3.000 operai.Uomo chiave dell’azienda è il multimiliardario indiano Lakshmi Mittal: presidente e amministratore delegato, detiene il 37.4% del gruppo. Nato in un villaggio indiano del Rajasthan, vive a Kensington, Londra, dove nel 2004 ha acquistato dal magnate britannico Bernie Ecclestone, allora patron della Formula 1, una sontuosa residenza da 70 milioni di sterline, costruita con uno stile che ricorda il Taj Mahal. Il “Financial Times” lo ha nominato uomo dell’anno nel 2006, e nel 2010 il “Sunday Times” lo ha eletto uomo più ricco del Regno Unito con un patrimonio netto superiore a 22 miliardi di sterline. Per “Forbes”, Lakshmi Mittal è stato nel 2015 l’82°uomo più ricco del mondo (e il quinto più ricco dell’India) con un patrimonio di 13,5 miliardi di dollari. Sempre secondo “Forbes”, tra le persone più potenti del pianeta, nel 2014 si è piazzato al 57º posto. Nel 2007, ricorda ancora Wikipedia, ha donato circa 3 milioni di sterline al Partito Laburista. Personaggio poliedrico e azionista anche nel calcio (Queens Park Rangers), per i suoi due figli Mittal ha organizzato matrimoni sfarzosi, spendendo rispettivamente 30 e 65 milioni di dollari. Questo è l’uomo che Luigi Di Maio avrebbe “messo in riga”, un anno fa, e contro cui oggi tentano di fare la voce grossa l’avvocato Conte, il ministro Patuanelli e il sindacalista Landini.Il controllo sulla società, ha raccontato il “Sole 24 Ore”, viene esercitato dai Mittal attraverso sei “trust”, un particolare tipo di società utilizzato da imprese e individui molto ricchi per pagare meno tasse. I sei trust hanno sede nell’isola di Jersey, paradiso fiscale del Regno Unito nel Canale della Manica. Queste società – riassume “Il Post” – sono l’ultimo anello di una lunga catena dove, dopo un lungo giro tra fiduciarie e holding con sede a Gibilterra e in altri paradisi fiscali, arrivano i soldi della famiglia Mittal. All’altro capo della catena rispetto ai trust si trova ArcelorMittal, la multinazionale vera e propria (con sede in Lussemburgo, altro paese con un regime fiscale molto vantaggioso per le imprese). «Grazie a queste complicate strutture, ArcelorMittal è in grado di pagare pochissime tasse», aggiunge il “Post”. «Le sue pratiche di elusione fiscale sono state raccontate in un’inchiesta del sito francese “MediaPart”. La società ha ricevuto accuse di evasione fiscale anche da diversi governi, come quelli di Ucraina e Bosnia, oltre che accuse di aver compiuto violazioni ambientali e aver agito con mano pesante sulle comunità locali in molti dei paesi dove opera».Nel 2018, ArcelorMittal si era presentata alla gara per acquistare l’Ilva di Taranto e gli altri due impianti espropriati alla famiglia Riva, accusata di aver violato per anni le leggi di sicurezza e quelle ambientali. «Nonostante la sua reputazione, la sua offerta è stata giudicata migliore di quella della cordata rivale, Acciaitalia, capeggiata da un’altra società indiana, Jindal». L’assegnazione della vittoria ad ArcelorMittal, avvenuta ufficialmente il primo novembre 2018, è stata piuttosto controversa, ricorda sempre il “Post”: «Già all’epoca, diversi osservatori accusavano la multinazionale di non avere intenzione di rilanciare gli impianti italiani, ma di avere come unico obiettivo sottrarli a un potenziale concorrente». Altri invece hanno difeso la società, sostenendo che era l’unica disposta ad investire le cifre necessarie (circa 2 miliardi di euro) a mettere in sicurezza l’impianto di Taranto, e in particolare i suoi estesi parchi dove sono depositati i minerali di ferro, attualmente esposti al maltempo che spesso ne soffia le polveri sulla città di Taranto. A condurre la gara e le trattative con ArcelorMittal fu prima l’allora ministro Carlo Calenda, con il governo Gentiloni, e poi Luigi Di Maio, durante il primo governo Conte.Di Maio era contrario all’accordo, ma alla fine ha accettato l’offerta della multinazionale. «Con il contratto raggiunto con il governo italiano, ArcelorMittal si è impegnata a investire più di 4 miliardi di euro nella società, ha promesso di occuparsi delle bonifiche dell’impianto di Taranto e di mantenere al lavoro tutti i diecimila dipendenti della società». Da allora però il mercato dell’acciaio è peggiorato. «Anche se nell’ultimo trimestre i conti di ArcelorMittal si sono rivelati migliori del previsto – scrive il “Post” – il 2019 dovrebbe chiudersi con un bilancio molto peggiore rispetto all’anno precedente». Inoltre, alcuni altoforni dell’impianto di Taranto rischiano di dover essere spenti per ordine della magistratura, mentre il governo ha cambiato spesso idea sul cosiddetto “scudo penale” che, in teoria, serve a proteggere manager e dirigenti dell’azienda dal rischio di cause legali per le violazioni commesse dalle gestioni precedenti. Ora siamo al capolinea: ArcelorMittal lascia Taranto a annuncia lo spegimento degli impianti. Secondo Carlo Mapelli, docente del Politecnico di Milano, se ne va il 30% della siderurgia italiana. Da sola, l’Ilva vale l’1,5% del Pil.Rilevare stabilimenti, acquisirne i clienti e poi chiuderli. E’ la specialità di ArcelorMittal, colosso mondiale dell’acciaio. «Il risultato di questi giorni sulla questione Ilva era del tutto prevedibile», scrive Roberto Hechich: «Solo che la gente, i politici e la classe dirigente hanno la memoria corta». Mentre Taranto piange, con 10.000 posti di lavoro a rischio (e l’intera industria meccanica italiana senza più acciaio fatto in casa), sul blog del Movimento Roosevelt l’analista ricorda che Arcelor si difese strenuamente contro l’aggressiva offerta pubblica d’acquisto lanciata in Borsa da Mittal: a fine febbraio 2006 le quotazioni dei due gruppi arrivarono ad equivalersi, e Mittal riuscì ad assorbire Arcelor per un valore di 28,6 miliardi di euro. Promesse vane, sul rilancio: «A qualche mese dalla fusione cominciò a delinearsi chiaramente quella che era la strategia di politica industriale del gruppo: chiudere gli stabilimenti in Europa per fermare la concorrenza e acquisire gli ordini di Arcelor, facendo produrre l’acciaio in paesi terzi». Cominciarono anni di lotte tra il gruppo, i governi (Francia e Lussemburgo) e i sindacati: Mittal fu definito da un ministro francese come un «bugiardo senza limiti» che sapeva bene, al momento del lancio dell’Opa, quali sarebbero state le politiche da portare avanti in Europa.
-
Moncalvo: silenzio assordante sulla fuga della Fiat in Francia
«Tutti parlano giustamente del problema dell’Ilva e dei posti di lavoro a rischio a Taranto, ma nessuno – sottolineo, nessuno – parla dei posti che salteranno per la vicenda Fca-Psa». Perché nessuno ne parla? Molto semplice, risponde Gigi Moncalvo: «Nessuno osa rispondere al seguente interrogativo: quando ci sarà da decidere la sorte, la chiusura degli stabilimenti in Italia (Pomigliano d’Arco, Termini Imerese, Melfi e chi più ne ha, più ne metta), secondo voi prevarrà la volontà e la decisione dei 6 consiglieri (su 11) della corporation francese, oppure prevarrà la tesi di una società che ormai è olandese, londinese e americana?». Ormai l’ex Fiat – per decenni sorretta finanziariamente dallo Stato italiano – è infatti una società di diritto olandese con domiciliazione fiscale nel Regno Unito (e domiciliazione borsistica negli Usa). Insiste Moncalvo, dai microfoni della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”: «Che cosa gliene importerà, all’ex Fiat, ormai olandese, londinese e americana, della sorte di Pomigliano d’Arco, Melfi, Termini Imerese e tutto il resto?». L’accusa di Moncalvo è esplicita: «I media tacciono, sull’accordo franco-italiano, perché la Fiat continua a riversare fior di soldi, in termini pubblicitari, su giornali e televisioni». Un modo per avere “buona stampa”, cioè in questo caso stimolare il silenzio dei giornalisti?Categoria alla quale peraltro appartiene lo stesso Moncalvo, cronista di rango, già attivo su alcune tra le maggiori testate italiane (collaboratore di Maurizio Costanzo, Piero Ottone e Guglielmo Zucconi) nonché giornalista sulle reti Mediaset e infine dirigente Rai. Negli ultimi anni, con esplosivi libri-inchiesta (”I lupi e gli Agnelli”, “Agnelli segreti”, spariti dalle librerie ma disponibili attraverso il sito dell’autore), Moncalvo si è concentrato nello scavare tra “ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia”. Fino a scoprire cosa? Questo: che un potere-ombra, finanziario e anglosassone, si sarebbe impossessato del controllo politico della Fiat già dal dopoguerra, fino poi a “imporre” che l’eredità di Gianni Agnelli finisse a John Elkann, il quale – giovanissimo – alla scomparsa dell’Avvocato mise l’impero Fiat nelle mani del manager finanziario Sergio Marchionne, campione del neoliberismo americano. Moncalvo evoca anche «rabbini francesi e grembiulini» nell’orbita di John Elkann, alludendo al ruolo del padre, il giornalista e scrittore Alain Elkann, membro del potentissimo Jewish Institute e figlio del banchiere, industriale e rabbino francese Jean-Paul Elkann. Dietro alla “real casa” torinese, attraverso il ramo Elkann oggi al comando, aleggia il potere del B’nai B’rith, elusiva massoneria sionista?Ne parlò il saggista e massone Gianfranco Carpeoro, a proposito della strana fine di Edoardo Agnelli nel 2000: il figlio “ribelle” dell’Avvocato, che in un’intervista al “Manifesto” aveva annunciato l’intenzione di volersi occupare del destino della Fiat, si sarebbe convertito all’Islam, e addirittura alla confraternita mistica dei Sufi. Una foto lo ritrae a Teheran in una sessione di preghiera guidata dall’ayatollah Alì Khamenei, guida suprema della ierocrazia sciita. Fu proprio l’Iran ad accusare il Mossad, il servizio segreto israeliano, della morte di Edoardo Agnelli, precipitato da un viadotto autostradale in circostanze mai del tutto chiarite. Forse per motivi di pura propaganda politica anti-sionista, Teheran accusò la “lobby ebraica” di aver sostanzialmente propiziato l’eliminazione di Edoardo Agnelli (caso archiviato come suicidio) per poter poi mettere completamente le mani sull’impero Fiat dopo la morte di Gianni Agnelli. Dietrologie, semplici illazioni, addirittura insinuazioni senza fondamento? Dal lavoro di Moncalvo, incentrato per lo più sulla imbarazzante “guerra” familiare per l’eredità dell’Avvocato (seguita dall’ancora più imbarazzante silenzio dei media), emerge in sostanza l’impenetrabilità della governance Fiat, retta da logiche che ricordano quelle delle antiche monarchie.Carte giudiziarie alla mano, Moncalvo ha scoperto che il grosso del “tesoro” degli Agnelli è depositato all’estero, lontano dall’Agenzia delle Entrate (a Panama e in un caveau dell’aeroporto di Ginevra), e che i due uomini-ombra dell’Avvocato, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, manovrarono – insieme ai notai, e d’intesa con la vedova Agnelli, Marella Caracciolo – per favorire in modo esclusivo l’allora giovanissimo John Elkann, entrato nel board Fiat a soli 21 anni. Oggi, ragiona Moncalvo, la Exxor (finanziaria di famiglia) è stata stra-premiata con un “bonus” di oltre 5 miliardi dai futuri partner francesi, che in cambio però prenotano il controllo del colosso Fca-Psa, che verrebbe affidato a Carlos Tavares, l’uomo-Peugeot. Una maxi-buonuscita agli Elkann per lasciare il timone alla Francia, il cui governo oltretutto controlla il 13% del gruppo che include Peugeot, Citroen e Opel? Secondo “Money.it”, Fca porta in dote 102 stabilimenti e un fatturato da oltre 110 miliardi, con marchi come Fiat e Jeep, Lancia, Abarth, Alfa Romeo, Maserati, Chrysler, Dodge, Fiat Professional e Ram. Da canto suo, Psa (che possiede anche Ds Automobiles e Vauxhall) mette sul piatto appena 45 stabilimenti e un giro d’affari da 74 miliardi, inferiore quindi a quello dell’ex Fiat.In sostanza: i francesi offrirebbero di meno ma otterrebbero di più, dopo aver “premiato” a suon di miliardi i torinesi, forse ansiosi – da tempo – di disimpegnarsi dal settore auto? Se è presto per trarre conclusioni, visto che ogni giorno emergono precisazioni sullo sviluppo dell’accordo, ancora in corso nella sua definizione, è sconcertante – rileva Moncalvo – il silenzio assordante del sistema-Italia, di fronte a una notizia di questa portata. Gli stessi sindacati si limitato a mormorare: forse, auspica Landini, la fusione rafforzerà il comparto industriale. Certezze, nessuna: quand’era a capo della Fiom, Landini si vide beffare dall’inesistente Fabbrica Italia, il piano di rilancio solo vagheggiato da Marchionne. Ma ancora più clamoroso è il silenzio dei media nazionali e della stessa politica, evidenziato dall’assenza totale – nella vicenda – del governo Conte. E se chiuderanno gli stabilimenti del centro-sud? Visto che a decidere saranno i francesi, come possono dormire sonni tranquilli gli operai di Melfi, Pomigliano e Termini Imerese? Nessuno sembra domandarselo: silenzio di tomba. Muti i giornali, zitti i partiti, non pervenuto Palazzo Chigi. Purtroppo, la cosa non stupisce: solo in Italia, ricorda Moncalvo con amarezza, nel 1991 – per timore di dispiacere ai signori della Fiat – fu tradotto col titolo “Il silenzio degli innocenti” il film-kolossal di Jonathan Demme, con Jodie Foster e Anthony Hopkins. Nel resto del mondo, il titolo originale (”The silence of the lambs”) fu tradotto correttamente: il silenzio degli agnelli.«Tutti parlano giustamente del problema dell’Ilva e dei posti di lavoro a rischio a Taranto, ma nessuno – sottolineo, nessuno – parla dei posti che salteranno per la vicenda Fca-Psa». Perché nessuno ne parla? Molto semplice, risponde Gigi Moncalvo: «Nessuno osa rispondere al seguente interrogativo: quando ci sarà da decidere la sorte, la chiusura degli stabilimenti in Italia (Pomigliano d’Arco, Termini Imerese, Melfi e chi più ne ha, più ne metta), secondo voi prevarrà la volontà e la decisione dei 6 consiglieri (su 11) della corporation francese, oppure prevarrà la tesi di una società che ormai è olandese, londinese e americana?». Ormai l’ex Fiat – per decenni sorretta finanziariamente dallo Stato italiano – è infatti una società di diritto olandese con domiciliazione fiscale nel Regno Unito (e domiciliazione borsistica negli Usa). Insiste Moncalvo, dai microfoni della trasmissione web-radio “Forme d’Onda“, ripreso anche su YouTube: «Che cosa gliene importerà, all’ex Fiat, ormai olandese, londinese e americana, della sorte di Pomigliano d’Arco, Melfi, Termini Imerese e tutto il resto?». L’accusa di Moncalvo è esplicita: «I media tacciono, sull’accordo franco-italiano, perché la Fiat continua a riversare fior di soldi, in termini pubblicitari, su giornali e televisioni». Un modo per avere “buona stampa”, cioè in questo caso stimolare il silenzio dei giornalisti?
-
Tutti i politici italiani che hanno sempre preso soldi stranieri
In Europa c’è un paese, Metternich avrebbe detto “un’espressione geografica”, che nel XIX secolo ha preso soldi dalle banche inglesi. Lo sostiene lo storico Aldo Mola, quando scrive che «nella spedizione dei Mille, il ruolo della massoneria inglese fu determinante, con un finanziamento di tre milioni di franchi e il monitoraggio costante dell’impresa»; ma lo ha affermato anche il ben più noto Sergio Romano, basandosi su testi di Arrigo Petacco, quando scriveva che «le ragioni dell’atteggiamento britannico furono in parte culturali, in parte strettamente politiche. I liberali inglesi erano favorevoli ai moti nazionali europei. Il loro leader, William Gladstone, scrisse un feroce pamphlet contro il Regno delle due Sicilie. Londra accolse generosamente Mazzini e contribuì a fare di lui un grande personaggio europeo. Il viaggio di Garibaldi a Londra fu un successo e suggerì alle aziende di ceramica dello Staffordshire la costruzione di statuette variopinte del generale che hanno decorato da allora i caminetti delle case del Regno Unito». Certo, direte voi, ma questa è roba vecchia, vecchissima, e che risale all’Ottocento. E poi, che male c’è? Gli inglesi ci hanno aiutato contro i Borbone e contro l’Imperatore d’Austria, e hanno fatto bene. Sì, ma…In Europa c’è un paese che si è fatto finanziare dagli stranieri anche dopo, ad Italia unificata. Il Duce d’Italia, Benito Mussolini, fu finanziato dagli inglesi e dagli americani, e chi lo ha seguito al governo del paese dopo la guerra lo fece in modo anche più esplicito. E’ il caso di un certo Alcide de Gasperi, trentino, che prese un aereo per gli Stati Uniti al fine di ottenere il placet e agevolazioni finanziarie. Poi arrivò il celeberrimo Piano Marshall, un fondo basato sul finanziamento in dollari, la cui “generosità” è oggi ampiamente contestata, dato che la ripresa in Europa “occidentale” si era già avviata da sola e la politica dei prezzi americana fu pilotata per indurre gli europei a vincolarsi al sostegno americano. Non sono nessuno per avvalorare questa linea storiografica; ma, anche volendola rifiutare, al mondo solo gli zulù non ammetterebbero che ci furono finanziamenti all’Italia. E non furono sempre trasparenti come il Piano Marshall. Sereno Freato, stretto collaboratore di Aldo Moro, negli anni Novanta dichiarava ad un giudice: «Mi meraviglio, è la scoperta dell’acqua calda: i finanziamenti del governo Usa alla Democrazia Cristiana ci sono sempre stati! Ho incassato di persona un assegno da 60 milioni dal capo-stazione della Cia a Roma, un assegno destinato alle casse dello scudo crociato nei primi anni ‘60».Vabbè, direte voi, ma questa era la Dc, il partito di maggioranza relativa che doveva combattere una guerra, seppur fredda. Va bene, come osservazione ci sta, peccato che in Europa c’è un paese ove anche le opposizioni si sono fatte finanziare dagli stranieri. E mica tanti anni fa. C’era l’Urss, e quindi parliamo di soli 30 anni or sono. In un libro del 1993 apparso presso Baldini e Castoldi (“L’oro di Mosca”), Gianni Cervetti racconta di essere stato per un certo periodo il procuratore del partito, incaricato di bussare ogni anno alla porta dell’ufficio di un omino magro, taciturno, con la testa pelata e la vivacità espressiva di un busto di marmo (la descrizione è mia) che si chiamava Boris Ponomariov. Cervetti gli rappresentava le esigenze del Pci e, dopo qualche considerazione sull’entità della cifra, incassava un assegno in dollari. La pratica durò sino alla fine degli anni Settanta quando Enrico Berlinguer, allora segretario del partito, decise di mettervi fine. Vi sarebbero stati altri contributi del Pcus (Partito comunista dell’Unione Sovietica) negli anni successivi, ma destinati al «membro della direzione del Partito comunista italiano compagno Cossutta», e sarebbero serviti ad ammonire il Pci che la definitiva rottura con Mosca avrebbe comportato un rischio di scissione.L’informazione su questi ultimi finanziamenti è in un altro libro, “Oro da Mosca”, di Valerio Riva, pubblicato da Mondadori qualche anno dopo l’apparizione del libro di Cervetti. Dunque, anch’io con questo breve (e parziale) excursus storico ho scoperto l’acqua calda: governi e partiti di “quel paese in Europa” (che si chiama Italia) si sono fatti sempre SEMPRE finanziare dagli stranieri. Ora si scopre che (forse) un altro partito italiano, la Lega, si sarebbe fatto finanziare da stranieri, precisamente da industriali russi. Ricalcando la propagadanda Usa contro Trump, anche in Italia si accendono i riflettori sul Russiagate, nonostante tutti i politici italiani di centro, di destra e di sinistra sempre SEMPRE si siano fatti finanziare dagli stranieri. Chiedo allora agli illustrissimi giuristi che si buttano per terra e si contorcono in preda agli spasmi quando leggono di industriali russi che avrebbero promesso fondi ad un partito filorusso: dove accidenti sta scritto che questa cosa non si possa fare? Siamo forse in guerra con la Russia? Non lo sapevo!Sapevo di italiani in guerra contro la Russia negli anni Quaranta, quando le presero di santa ragione sul Don, ma non sapevo che anche oggi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte avessero messo in piedi un’Armir. perché solo in caso di guerra con la Russia sarebbe scandaloso un finanziamento di russi a politici italiani. Ad inizio 2018 si è completata la transizione dal finanziamento pubblico a quello (quasi) totalmente privato, come previsto dal decreto Letta del 2013. La legge non pone alcun veto al finanziamento da parte di soggetti esteri, se non con alcuni limitati distinguo a partire dall’aprile 2019, quando il governo gialloverde (no, dico… il governo gialloverde!!!), ha ridimensionato questa possibilità limitandola a fondazioni e associazioni. La verità è che, in mancanza di euro, dovrebbero consentirci di ripagare il debito pubblico in bufale: lo avremo ripianato da un pezzo.(Massimo Bordin, “Russiagate, dove diavolo è scritto che non si può?”, dal blog “Micidial” del 23 ottobre 2019).In Europa c’è un paese, Metternich avrebbe detto “un’espressione geografica”, che nel XIX secolo ha preso soldi dalle banche inglesi. Lo sostiene lo storico Aldo Mola, quando scrive che «nella spedizione dei Mille, il ruolo della massoneria inglese fu determinante, con un finanziamento di tre milioni di franchi e il monitoraggio costante dell’impresa»; ma lo ha affermato anche il ben più noto Sergio Romano, basandosi su testi di Arrigo Petacco, quando scriveva che «le ragioni dell’atteggiamento britannico furono in parte culturali, in parte strettamente politiche. I liberali inglesi erano favorevoli ai moti nazionali europei. Il loro leader, William Gladstone, scrisse un feroce pamphlet contro il Regno delle due Sicilie. Londra accolse generosamente Mazzini e contribuì a fare di lui un grande personaggio europeo. Il viaggio di Garibaldi a Londra fu un successo e suggerì alle aziende di ceramica dello Staffordshire la costruzione di statuette variopinte del generale che hanno decorato da allora i caminetti delle case del Regno Unito». Certo, direte voi, ma questa è roba vecchia, vecchissima, e che risale all’Ottocento. E poi, che male c’è? Gli inglesi ci hanno aiutato contro i Borbone e contro l’Imperatore d’Austria, e hanno fatto bene. Sì, ma…