Archivio del Tag ‘Regno Unito’
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Soldati italiani in Niger, a proteggere l’uranio dei francesi
Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».In Niger c’è anche Arlit, una delle capitali mondiali della produzione di uranio impoverito, continua il newsmagazine. E’ proprio il pericolosissimo materiale «che provocò la morte dei soldati italiani al ritorno dalle missioni coloniali in Kosovo, Afghanistan e Jugoslavia (340 morti, 4000 malati, una strage silenziata al massimo dai media, con D’Alema e Mattarella, all’epoca ministro della difesa, che in materia negarono l’impossibile)». Ma in Niger, continua “Senza Soste”, «se si scrive uranio si legge Areva, una multinazionale francese a proprietà pubblica, con un proprio distinto grattacielo al quartiere parigino della Défense». Il campo si fa quindi più chiaro: resta in mano francese lo sfuttamento e l’export dell’uranio del Niger, i cui proventi non vanno certo ad una popolazione ben al di sotto del livello di povertà. «L’export di uranio del Niger, oltre a non fruttare niente per il popolo di quel paese e inquinarne pesantemente le acque, fornisce energia per il 50 per cento della popolazione francese». E’ evidente quindi che «lo sviluppo drammaticamente ineguale in Niger è un affare interno della Francia». Ma anche esterno, «perchè nella fornitura di energia atomica in Ue, che è circa un terzo di quella complessiva, l’uranio permette alla Francia di essere la principale produttrice di energia del continente, con una quota del 17,1% sulla produzione totale Ue e davanti a Germania (15,3%) e Regno Unito (in calo, ma al 13,9%)».Così è tutto più chiaro, scrive “Senza Soste”: «Gli scafisti di un paese senza sbocco al mare c’entrano poco, se non come fake news all’amatriciana». L’Italia? Forse potrebbe ricavarne, in cambio, anche una quota di energia. Ma, al netto degli eventuali appalti per Roma – una possibile fetta dei 23 miliardi concessi in “aiuti” – il blog segnala che le nostre truppe saranno inserite in un disegno, interamente francese, di ristrutturazione “coloniale” dell’area, dopo la crisi apertasi nel 2011 per Areva, costretta a rivedere una serie di reattori dopo il disastro giapponese di Fukushima. Il 2011, ricorda la “Bbc”, è anche l’anno del cosiddetto “uranium-gate”, che coinvolge l’Areva in fenomeni di corruzione in Niger, con fondi neri finiti in Russia e in Libano, fuori dal controllo di Parigi. Altro obiettivo, per la Francia: contrastare la presenza della Cina sul terreno: «E visto che in Africa i cinesi non esistono, sul piano militare, non c’è niente di meglio che ristrutturare Areva dall’interno e far valere la propria presenza sul campo in termini di truppe, con l’aiuto dell’Italia». Il rischio? La guerriglia: dopo la sollevazione dei Tuareg che ha minacciato proprio le miniere di uranio, si è già fatta sentire una guerriglia definita “islamista”, che ha già colpito siti francesi nel 2013.«Secondo fonti africane in lingua inglese, la guerra dell’uranio in Niger sembra essere appena cominciata: una guerra con gli Usa che forniscono i droni, mentre la Francia e l’Italia sono sul campo – la prima a difendere i propri interessi diretti, la seconda a supporto», cercando di rimediare appalti o magari una posizione privilegiata nella produzione di energia. Gruppi islamisti? In un articolo seguito all’uccisione di quattro soldati americani nell’area, il “Guardian” parla di gruppi in grado di colpire ma difficili da identificare, «in una delle più remote e caotiche zone di guerra del pianeta». Ed è in questo tipo di zona che la Francia vuol rimettere ordine, con l’aiuto italiano, anche per fronteggiare la minacciosa concorrenza del Kazakhstan, super-produttore di uranio. «Se ne può stare certi: le mosse legate al Niger vedranno un piano di decisione politico, su più capitali dell’Occidente, e uno legato alla situazione sui mercati finanziari. Poi si potrà raccontare degli scafisti, dei progressi contro la guerriglia islamista», a beneficio dei grandi media e del loro pubblico ignaro. Non a caso, è già partito il ritornello degli “aiuti” per fronteggiare la devastante emergenza-siccità che sta flagellando l’area. «Per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza».Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger, aggiunge “Senza Soste”, vediamo che non comprende solo quel paese ma anche tutta la grande fascia sub-sahariana, dalla Mauritania all’Eritrea. E spesso, le zone toccate dalla crisi idrica coincidono con quelle interessate dalla cosiddetta guerriglia islamica: è il caso del Mali, oggetto di intervento francese a inizio 2013. «Parigi interviene, quando la crisi economica e politica precipita, per “stabilizzare” economia e situazione politica del paese e far valere gli interessi francesi. La novità è che, stavolta, interviene anche l’Italia», coinvolta anche nell’intricato dopoguerra in Libia. Riusciranno a pesare sulla crisi, i maxi-appalti in arrivo? «A essere cinici – scrive “Senza Soste” – con 150 milioni annui, e qualche cerimonia militare, l’Italia si dovrebbe garantire un po’ di appalti, per una cifra magari 20 o 30 volte superiore, per le proprie imprese dal settore infrastrutture a quello della fornitura». Secondo Gianandrea Gaiani di “Analisi Difesa”, non è né garantito l’affrancamento dalla subalternità militare a Parigi, già evidenziatosi con la crisi libica del 2011, né il processo di razionalizzazione dei flussi migratori. La politica italiana? Considera “naturale” «l’assenza di qualsiasi visione strategica sull’Africa, continente la cui sinergia tra miseria e boom demografico è ottima candidata ad essere un futuro problema per l’Europa».Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».
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Israele in Patagonia, coi soldi inglesi. E quel sommergibile
Perché un miliardario britannico Joe Lewis sta acquistando terre in Patagonia, dove Israle sta mandando “in vacanza” migliaia di soldati, proprio di fronte al mare – affacciato sull’Antartide – dove è scomparso il sommergibile argentino San Juan, alle prese con una imprecisata “missione segreta” di cui però gli inglesi erano al corrente? Se lo domanda un giornista internazionale come Thierry Meyssan, di stanza in Libano: «Probabilmente il San Juan è esploso: la stampa argentina è convinta che abbia urtato una mina o sia stato distrutto da missile nemico». E gli immensi territori in via di acquisizione sud dell’Argentina e anche nel vicino Cile? Per il momento, ragiona Meyssan, «è impossibile stabilire se Israele abbia avviato un programma di sfruttamento dell’Antartide o se stia costruendo una base in cui ripiegare in caso di disfatta in Palestina». Ma il reporter si interroga sulle possibili connessioni “invisibili” che sembrano legare Patagonia e Antartide, Tel Aviv e Londra, la guerra in Siria e la strana sparizione del sottomarino, scomparso (in fondo al mare?) dopo l’ultima comunicazione con la terraferma, il 15 novembre, con a bordo 44 marinai.Nel XIX secolo, ricorda Meyssan su “Rete Voltaire” in un post ripreso da “Megachip”, il governo britannico era indeciso se istallare lo Stato di Israele nell’attuale Uganda, in Argentina o in Palestina. «All’epoca l’Argentina era controllata dal Regno Unito e, per iniziativa del barone francese Maurice de Hirsch, era diventata terra di accoglienza per gli ebrei che fuggivano dai pogrom dell’Europa centrale». Nel XX secolo, dopo il colpo di Stato militare contro il generale Juan Domingo Peron, presidente democraticamente eletto, nelle forze armate si affermò una corrente antisemita: «Questa fazione dell’esercito diffuse una brochure in cui accusava il nuovo Stato d’Israele di preparare un’invasione della Patagonia, il Piano Andinia». Oggi emerge che, «nonostante l’esagerazione dei fatti dell’estrema destra degli anni ’70», esisteva davvero un progetto di insediamento (e non di invasione) in Patagonia, sottolinea Meyssan. «Tutto cambiò con la guerra delle Malvine del 1982, quando la giunta militare argentina tentò di rientrare in possesso delle isole Malvine, della Georgia del Sud e del Sandwich del Sud, territori dal suo punto di vista occupati da un secolo e mezzo dai britannici».L’Onu riconobbe la legittimità della rivendicazione dell’Argentina, ma il Consiglio di Sicurezza ne condannò il ricorso alla forza al fine di recuperare i territori contesi. «La posta in gioco era considerevole», spiega il giornalista francese, «perché le acque territoriali di questi arcipelaghi danno accesso alle ricchezze del continente antartico». Alla fine della guerra delle Malvine, che fece oltre un migliaio di morti (i numeri ufficiali britannici sono di molto inferiori), Londra impose a Buenos Aires un trattato di pace particolarmente duro, che riduceva al minimo le forze armate argentine. «In particolare, all’Argentina venne sottratto il controllo dello spazio aereo del sud del paese e dell’Antartico, che passò alla Royal Air Force». Inoltre, continua Meyssan, ancora oggi «Buenos Aires deve informare il Regno Unito di ogni sua operazione militare». E non tutto è andato liscio, da quelle parti, dopo la guerra della Falkland: «Nel 1992 e nel 1994 due misteriosi attentati, particolarmente sanguinosi e devastanti, distrussero l’ambasciata d’Israele e la sede dell’associazione israelita Amia». Il primo attentato, rivela Meyssan, avvenne subito dopo che i capi della sezione dell’intelligence israeliana per l’America Latina avevano lasciato l’edificio.Il secondo attentato ebbe luogo durante le ricerche congiunte egiziano-argentine per i missili balistici Condor. «Nello stesso periodo la fabbrica principale dei Condor esplose, e i figli dei presidenti Carlos Menem e Hafez al-Assad morirono entrambi in incidenti. Le numerose inchieste che seguirono furono inquinate da una serie di manipolazioni». Dopo aver designato la Siria come responsabile dei due attentati, aggiunge Meyssan, il procuratore Alberto Nisman passò all’Iran, accusandolo di esserne il committente, e a Hezbollah, accusandolo di esserne l’esecutore. «L’ex presidente peronista Cristina Kirchner fu accusata di aver negoziato la chiusura del procedimento contro l’Iran in cambio di un prezzo vantaggioso per il petrolio». Poco dopo, però, «il procuratore Nisman è stato trovato morto in casa e la presidente Kirchner è stata incolpata di alto tradimento». La settimana scorsa, infine, «un nuovo colpo di scena ha mandato all’aria quello che si dava per certo: l’Fbi ha tirato fuori analisi del Dna che dimostrano che il presunto terrorista non era tra le vittime e che tra queste vi era invece un corpo mai identificato». Morale: «Venticinque anni dopo, non si sa ancora nulla degli attentati di Buenos Aires».E intanto, l’interesse anglo-israeliano per il Sud dell’Argentina non ha fatto che aumentare: «Nel XXI secolo, approfittando dei vantaggi ottenuti con il Trattato della guerra delle Malvine, Regno Unito e Israele intraprendono un nuovo progetto in Patagonia. Le sue proprietà si estendono ormai su una superficie più volte multipla dello Stato d’Israele», avverte Meyssan. «Si trovano nella Terra del Fuoco, all’estremo Sud del continente. In particolare, circondano il Lago Escondido, cui impediscono l’accesso nonostante un’ingiunzione della magistratura argentina». Il miliardario inglese Joe Lewis «ha costruito un aeroporto privato con una pista di due chilometri, su cui possono atterrare aerei di trasporto civile e militare». Dalla fine della guerra delle Malvine, l’esercito israeliano organizza in Patagonia “campi di vacanza” (sic) per i suoi soldati. «Ogni anno, da 8.000 a 10.000 soldati trascorrono due settimane nelle proprietà di Joe Lewis». Se negli anni ’70 l’esercito argentino lanciò l’allarme per 25.000 nuovi alloggi rimasti inabitati, dando vita al mito del piano Andinia, oggi ne sono stati costruiti centinaia di migliaia. «È impossibile verificare lo stato di avanzamento dei lavori perché, essendo proprietà privata, Google Earth oscura le fotografie satellitari della zona, così come fa per le istallazioni militari dell’Alleanza Atlantica».Poi c’è il ruolo del vicino Cile, aggiunge Meyssan, che «ha ceduto una base di sottomarini a Israele, dove sono stati scavati tunnel per sopravvivere al rigore dell’inverno polare». Gli indiani Mapuche, che abitano la Patagonia argentina e cilena, sono rimasti sorpresi nell’apprendere che a Londra è stata riattivata la Resistencia Ancestral Mapuche (Resistenza Ancestrale Mapuche – Ram), misteriosa organizzazione che rivendica l’indipendenza. «Inizialmente accusata di essere una vecchia associazione rispolverata dai servizi segreti argentini, la Ram è ora considerata dalla sinistra un movimento secessionista legittimo e dai leader Mapuche un’iniziativa finanziata da George Soros». Infine, in questo scenario opaco, si è inserita la sparizione del sommergibile San Juan, con il quale la marina argentina ha perso i contatti il 15 novembre 2017, dichiarandolo poi “inabissato in mare”. Era uno dei due sottomarini diesel-elettrici Tr 1700, fiore all’occhiello della difesa argentina. «Alla fine il governo ha dovuto ammettere che il sottomarino era in “missione segreta”, non meglio specificata, di cui Londra era a conoscenza». L’esercito statunitense ha partecipato alle ricerche e la marina russa ha inviato un drone in grado di scandagliare i fondali marini a 6.000 metri di profondità, che però non ha trovato nulla. Che sta succedendo, dunque, all’estremo confine meridionale del pianeta?Perché il miliardario britannico Joe Lewis sta acquistando terre in Patagonia, dove Israele sta mandando “in vacanza” migliaia di soldati, proprio di fronte al mare – affacciato sull’Antartide – dove è scomparso il sommergibile argentino San Juan, alle prese con una imprecisata “missione segreta” di cui però gli inglesi erano al corrente? Se lo domanda un giornalista internazionale come Thierry Meyssan, di stanza in Libano: «Probabilmente il San Juan è esploso: la stampa argentina è convinta che abbia urtato una mina o sia stato distrutto da missile nemico». E gli immensi territori in via di acquisizione nel sud dell’Argentina e anche nel vicino Cile? Per il momento, ragiona Meyssan, «è impossibile stabilire se Israele abbia avviato un programma di sfruttamento dell’Antartide o se stia costruendo una base in cui ripiegare in caso di disfatta in Palestina». Ma il reporter si interroga sulle possibili connessioni “invisibili” che sembrano legare Patagonia e Antartide, Tel Aviv e Londra, la guerra in Siria e la strana sparizione del sottomarino, scomparso (in fondo al mare?) dopo l’ultima comunicazione con la terraferma, il 15 novembre, con a bordo 44 marinai.
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Morire di carne: stiamo letteralmente suicidando la Terra
Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».Attualmente, negli Stati Uniti, 157 milioni di tonnellate di cereali, legumi e proteine vegetali potenzialmente utilizzabili dall’uomo sono destinate alla zootecnia: è una produzione di 28 milioni di tonnellate di proteine animali che l’americano medio consuma in un anno, riassume Sabbadini su “Disinformazione.it”. «In tutto il mondo la domanda di cereali per la zootecnia continua a crescere perché le multinazionali cercano di capitalizzare sulla richiesta di carne proveniente dai paesi ricchi». Fra il 1950 e il 1985, gli anni boom dell’agricoltura, negli Stati Uniti e in Europa, due terzi dell’aumento di produzione di grano sono stati destinati alla fornitura di cereali d’allevamento, per lo più bovino. «E’ stata la decisione più iniqua della storia quella di usare la terra per creare una catena alimentare artificiale che ha portato alla miseria centinaia di milioni di esseri umani nel mondo», sostiene Sabbadini. «È importante tenere a mente che un acro di terra coltivato a cereali produce proteine in misura cinque volte maggiore rispetto ad un acro di terra destinato all’allevamento di carni; i legumi e le verdure possono produrne rispettivamente 10 e 15 volte tanto». Le grandi multinazionali producono semi e prodotti chimici per l’agricoltura, allevano bestiame e controllano mattatoi, canali di marketing e distribuzione della carne: «Hanno tutto l’interesse di pubblicizzare i vantaggi del bestiame allevato a cereali».Purtroppo, la carne fa ancora tendenza: «La pubblicità e le campagne di vendita destinate ai paesi in via di sviluppo equiparano e associano all’allevamento di bovini nutriti a foraggio il prestigio di quel dato paese. Salire la “scala delle proteine” è diventato un simbolo di successo che assicura l’entrata in un club elitario di produttori che sono in cima alla catena alimentare mondiale». Il periodico americano “Farm Journal” riflette con queste parole i pregiudizi della comunità agro-industriale: «Incrementare e diversificare le forniture di carne sembra essere il primo passo di ogni paese in via di sviluppo». Iniziano tutti con l’allevamento di polli e con l’installazione di attrezzature per la produzione delle uova: è il modo più veloce ed economico che permette di produrre proteine non vegetali. «Poi, quando le loro economie lo permettono, salgono “la scala delle proteine” e spostano la loro produzione verso carne suina, latte, latticini, manzo nutrito al pascolo. Per poi arrivare, in alcuni casi, al manzo allevato con grano raffinato». Ma incoraggiare altri paesi a salire la “scala delle proteine”, avverte Sabbadini, promuove solo gli interessi degli agricoltori occidentali (americani soprattutto) e delle società agro-industriali.Molti paesi in via di sviluppo hanno iniziato a salire la “scala delle proteine” all’apice del boom agricolo, con molto grano in eccesso. Nel 1971 la Fao suggerì di passare al grano grezzo, che poteva essere consumato più facilmente dal bestiame. Il governo americano, prosegue “Disinformazione.it”, incoraggiò ulteriormente i suoi programmi di aiuti all’estero, collegando gli aiuti alimentari allo sviluppo sul mercato dei cereali foraggieri. «Società come la Ralston Purina e la Cargill hanno ricevuto finanziamenti governativi a basso tasso di interesse per la gestione di aziende avicole e l’uso di cereali foraggeri nei paesi in via di sviluppo, iniziando queste nazioni al viaggio che le avrebbe condotte verso la scala delle proteine. Molte nazioni hanno seguito il consiglio della Fao e si sono sforzate di rimanere in cima a questa scala». Risultato: «Negli ultimi 50 anni la produzione mondiale di carne si è quintuplicata». E il passaggio dal cibo al mangime «continua velocemente in molti paesi in modo irreversibile, nonostante il crescente numero di persone che muoiono di fame». Un caso emblematico? La crisi in Etiopia nel 1984, con migliaia di vittime denutrite. «L’opinione pubblica non era al corrente del fatto che in quel momento l’Etiopia stesse utilizzando parte dei suoi terreni agricoli per la produzione di panelli di lino, di semi di cotone e semi di ravizzone da esportare nel Regno Unito e in altri paesi europei come cereali foraggieri destinati alla zootecnia».Le statistiche sono sconcertanti: l’80% dei bambini che nel mondo soffrono la fame vive in paesi che di fatto generano un surplus alimentare prodotto sotto forma di mangime animale, di conseguenza utilizzato solo da consumatori benestanti. La corsa alla carne sta travolgendo i paesi in fase di sviluppo come la Cina, dove la quota di grano destinato alla zootecnia è triplicata. Nel solo Messico, dal 1960 ad oggi, la percentuale di grano da allevamento è cresciuta dal 5 al 45% per cento, mentre in Egitto è passata dal 3 al 31% e in Thailandia dall’uno al 30%. Ironia della sorte: «Milioni di ricchi consumatori dei paesi industrializzati muoiono a causa di malattie legate all’abbondanza di cibo (attacchi di cuore, infarti, cancro, diabete – malattie provocate da un’eccessiva e sregolata assunzione di grassi animali), mentre i poveri del Terzo Mondo muoiono di malattie poiché viene loro negato l’accesso alla terra per la coltivazione di grano e cereali destinati all’uomo». Le statistiche parlano chiaro, sottolinea Sabbadini: sarebbero 300.000 gli americani che ogni anno muoiono prematuramente a causa di problemi di sovrappeso, ed è un numero destinato ad aumentare. «Secondo gli esperti, nel giro di qualche anno, se continuano le attuali tendenze, sempre più americani moriranno prematuramente più per cause di obesità che per il fumo delle sigarette».Attualmente è sovrappeso il 61% degli americani, insieme a oltre la metà degli europei. La colpa, accusa l’Oms, è dell’hamburger. Gli obesi nel mondo sono il 18%, più o meno quanto gli individui denutriti. «Mentre i consumatori dei paesi ricchi letteralmente fagocitano se stessi fino alla morte, seguendo regimi alimentari carichi di grassi animali, nel resto del mondo circa 20 milioni di persone l’anno muoiono di fame e di malattie collegate». Secondo le stime, la fame cronica contribuisce al 60% delle morti infantili. Ma i consumatori di carne non sanno, né vogliono sapere. «I consumatori di carne dei paesi più ricchi – scrive Sabbadini – sono così lontani dal lato oscuro del circuito grano-carne che non sanno, né gli interessa sapere, in che modo le loro abitudini alimentari influiscano sulle vite di altri esseri umani e sulle scelte politiche di intere nazioni». Obiettivamente: «Chi mangia carne consuma le risorse della terra quattro volte di più di chi non lo fa». Ogni volta che si mangia una bistecca, aggiunge il blogger, «bisognerebbe essere consapevoli dei liquami che filtrano nelle falde acquifere, delle foreste disboscate, del deserto conseguente, dell’anidride carbonica e del metano che intrappolano il globo in una cappa calda. Ogni bistecca equivale a 6 metri quadrati di alberi abbattuti e a 75 chili di gas responsabili dell’effetto serra».Bisognerebbe essere consapevoli anche delle tonnellate di grano e soia usate per dar da mangiare alla fonte delle bistecche, non dimenticandosi «degli 840 milioni di persone che nel mondo hanno fame e dei 9 milioni che ne hanno tanta da morirne». Mangiare meno carne, o magari non mangiarne più? «Una scelta sociale, solidale con chi ha fame e con il futuro del pianeta». E non è tutto: «Ogni volta che addentiamo un hamburger si perdono venti o trenta specie vegetali, una dozzina di specie di uccelli, mammiferi e rettili. Dal 1960 a oggi, oltre un quarto delle foreste del Centro America è stato abbattuto per far posto a pascoli; in Costa Rica i latifondisti hanno abbattuto l’80% della foresta tropicale e in Brasile c’è voluto l’omicidio di Chico Mendes, il raccoglitore di gomma assassinato dagli allevatori per una disputa sull’uso della foresta pluviale, per accorgersi dell’esistenza di una “bovino connection”». E ancora: «In Amazzonia la foresta pluviale è stata divorata da 15 milioni di ettari di pascolo, eppure è in questo habitat che dimora il 50% delle specie viventi e da qui deriva un quarto di tutti i farmaci che usiamo». Dove prima c’erano migliaia di varietà viventi ora ci sono solo mandrie.«Vacche ovunque», scrive Rifkin nel suo “Ecocidio”: «Attualmente il nostro pianeta è popolato da ben oltre un miliardo di bovini. Quest’immensa mandria occupa, direttamente o indirettamente, il 24% della superficie terrestre e consuma una quantità di cereali sufficiente a sfamare centinaia di milioni di persone». Per farvi posto occorre terreno da pascolo. E deforestazione per creare pascoli significa desertificazione: dopo tre o quattro, il suolo calpestato e divorato da milioni di bovini (ogni capo libero ingurgita 400 chili di vegetazione al mese) finisce esposto a sole, piogge e vento, quindi diventa sterile. E i ruminanti si devono spostare dissacrando altri ettari di foresta. «Ci vorranno da 200 a mille anni perché quei terreno ritorni fertile». E che dire dell’acqua? «Quasi la metà dell’acqua dolce consumata negli States è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame: è stato calcolato che un chilo di manzo si beve 3.200 litri d’acqua». Risultato: le falde acquifere del Midwest e delle Grandi Pianure statunitensi si stanno esaurendo. Non solo: l’allevamento richiede ingenti quantità di sostanze chimiche tra fertilizzanti, diserbanti, ormoni, antibiotici: «Tutti prodotti dalle stesse, poche multinazionali che detengono il monopolio dei semi usati per coltivare cereali e legumi destinati ad alimentare il bestiame», fa notare Enrico Moriconi, veterinario e ambientalista, nelle pagine del suo “Le fabbriche degli animali” (Edizioni Cosmopolis).«Ogni anno in Europa gli animali da allevamento consumano 5.000 tonnellate di antibiotici, di cui 1.500 per favorirne la crescita, e tutti vanno a finire nelle falde acquifere», incalza Marinella Correggia, attivista della Global Hunger Alliance e autrice di “Addio alle carni” (Lav). Roberto Marchesini, docente di bioetica e zoo-antropologia, autore di “Post-human” (Bollati Boringhieri) svela che nel bacino del Po, ogni anno, «vengono riversate 190.000 tonnellate di deiezioni animali: contengono metalli pesanti, antibiotici e ormoni». Con quali conseguenze? Per esempio, le alghe abnormi nell’Adriatico. Marchesini parla di «fecalizzazione ambientale». E Rifkin ci illumina sulla portata del problema: un allevamento medio produce 200 tonnellate di sterco al giorno. «C’è dell’altro: i bovini sono responsabili dell’effetto serra tanto quanto il traffico veicolare del mondo intero a causa dell’uso di petrolio (22 grammi per produrre un chilo di farina contro 193 per uno di carne), delle emissioni di metano dovute ai processi digestivi (60 milioni di tonnellate ogni anno) e dell’anidride carbonica scatenata dal disboscamento».E’ la stessa Fao a fornire un elenco agghiacciante dei problemi causati dagli allevamenti intensivi: riduzione della bio-diversità, erosione del terreno, effetto serra, contaminazione delle acque e dei terreni, piogge acide a causa delle emissioni di ammoniaca. E tutto questo per cosa? Per quelle che Frances Moore Lappé, autrice di “Diet for a small planet”, definisce «fabbriche di proteine alla rovescia». Occorre un chilo di proteine vegetali per avere 60 grammi di proteine animali. «Per produrre una bistecca che fornisce 500 calorie», spiegano gli autori di “Assalto al pianeta” (Bollati Boringhieri), «il manzo deve ricavare 5.000 calorie, il che vuoi dire mangiare una quantità d’erba che ne contenga 50.000». Attenzione: «Solo un centesimo di quest’energia arriva al nostro organismo: il 99% viene dissipata, usata per il processo di conversione e per il mantenimento delle funzioni vitali, espulsa o assorbita da parti che non si mangiano, come ossa o peli». Il bestiame? E’ una fonte di alimentazione altamente idrovora ed energivora, una massa bovina che ingurgita tonnellate di acqua ed energia. E lo fa per nutrire solo il 20% della popolazione globale del pianeta: quel 20% che sfrutta l’80% delle risorse mondiali, per non rinunciare alla sua bistecca quotidiana. «Nel mondo c’è abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’ingordigia di alcuni», diceva Gandhi.Ingordigia che ha raggiunto livelli esorbitanti: dal dopoguerra a oggi, in Europa, siamo passati da circa 7-15 chili di consumo pro capite all’anno a 85-90 (110-120 negli States), riferisce Marchesini. Secondo Moore Lappé, le tonnellate di cereali e soia che nutrono gli animali da carne basterebbero per dare una ciotola di cibo al giorno a tutti gli esseri umani per un anno. E la Fao conferma: una dieta vegetariana mondiale potrebbe dar da mangiare a 6,2 miliardi di persone, mentre un’alimentazione che limiti la carne al 25% può sfamarne solo 3,2 miliardi. La spiacevole sorpresa? La domanda di carne sta crescendo. «Paesi come la Cina stanno abbandonando riso e soia a favore di abitudini occidentali», scrive Sabbadini: «Stiamo esportando il nostro modello alimentare (e che modello!)». Secondo l’Ifpri, entro il 2020 la domanda di carne nei paesi in via di sviluppo aumenterà del 40%: questo significherà oltre 300 milioni di tonnellate di bistecche. E raddoppierà, sempre nei paesi in via di sviluppo, la domanda di cereali zootecnici: fino a raggiungere 445 milioni di tonnellate di carne. «Richieste incompatibili con la salute del pianeta e con un equo sfruttamento delle risorse». Una slavina inarrestabile, globalizzata. Si chiama: rivoluzione zootecnica. «Significa spostare nel Sud del mondo la produzione di carne».La Banca Mondiale sovvenziona, in Cina, l’industria dell’allevamento e della macellazione. «Ma sbaglia: suolo e acqua non bastano per sfamare il mondo a suon di bistecche e hamburger», scrive “Disinformazione.it”. «Con un terzo della produzione di cereali destinata agli animali e la popolazione mondiale in crescita deI 20% ogni dieci anni», prevede Rifkin, «si sta preparando una crisi alimentare planetaria». Rincara la dose Correggia: «E’ stato calcolato che l’impronta ecologica di una persona che mangia carne, cioè suo il consumo di risorse, di 4.000 metri quadrati di terreno, contro i mille sufficienti a un vegetariano». Allo stato attuale, «la disponibilità di terra coltivabile per ogni abitante della terra è di 2.700 metri quadrati». Ancora: un ettaro di terra a cereali per il bestiame dà 66 chili di proteine, che diventano 1.848 (28 volte di più!) se lo stesso terreno viene coltivato a soia. Ancora Rifkin: «Ogni chilo di carne è prodotto a spese di una foresta bruciata, di un territorio eroso, di un campo isterilito, di un fiume disseccato, di milioni di tonnellate dì anidride carbonica e metano rilasciate nell’atmosfera».La nuova dimensione del male, ragiona Sabbadini, è intimamente connessa con il complesso bovino moderno, che ha acquisito i caratteri di un male occulto, inflitto a distanza: è un male camuffato da strati sovrapposti di veli tecnologici e istituzionali. «Un male cosi lontano, nel tempo e nel luogo, da chi lo commette e da chi lo subisce, da non lasciar sospettare o avvertire alcuna relazione causale». E’ un male che non può essere avvertito, data la sua natura impersonale. «E’ probabile che i proprietari dei negozi in cui si vende carne di bovini nutriti a cereali non avvertano mai, personalmente, la disperazione delle vittime della povertà, di quei milioni di famiglie allontanate dalla propria terra per fare spazio a coltivazioni di prodotti destinati esclusivamente all’esportazione. E che i ragazzi che divorano cheeseburger in un fast-food non siano consapevoli di quanta superficie di foresta pluviale sia stata abbattuta e bruciata per mettere a loro disposizione quel pasto». Il consumatore che acquista una bistecca al supermercato non si sente responsabile dell’immensità del dolore che il suo gesto provoca. «Abbiamo appiattito la ricchezza organica dell’esistenza, trasformando il mondo che ci circonda in astratte equazioni algebriche, statistiche e standard di performance economica».Il male occulto? Viene perpetuato da istituzioni e individui: il mercato, la globalizzazione del profitto. In un mondo di questo genere, conclude Sabbadini, ci sono ben poche occasioni per essere in sintonia con l’ambiente e proteggere i diritti delle future generazioni. «L’effetto sull’uomo e sull’ambiente del modo moderno di pensare e di strutturare le relazioni è stato quasi catastrofico: ha indebolito gli ecosistemi e minato alla base la stabilità e la sostenibilità delle comunità umane. La grande sfida che dobbiamo affrontare è rappresentata dal lato oscuro della moderna visione del mondo: dobbiamo reagire al male occulto che sta trasformando la natura e la vita in risorse economiche che possono essere mediate, manipolate e ricostruite tecnologicamente, per adeguarle ai ristretti obiettivi dell’utilitarismo e dell’efficienza economica». Primo passo necessario: «Diventare consapevoli dei meccanismi di sfruttamento del pianeta di cui siamo complici». Il secondo passo «non è fare la rivoluzione, e non è neanche aderire a questa o quest’altra organizzazione alternativa (per quanto possa essere positivo), ma è far seguire conseguenti e coerenti azioni personali in armonia con una vita etica e rispettosa dell’ambiente e del prossimo. Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo iniziare da noi stessi».Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».
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Farmaco, Italia beffata: tutte al Nord Europa le agenzie Ue
Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.A fare la parte del leone nel computo delle agenzie sono da un lato il Benelux, triangolo fondatore dell’Unione perno del Nord Europa e incardinato nell’asse franco-tedesco: Belgio, Olanda e Lussemburgo. Poi la Francia e il satellite mediterraneo della Germania, la Spagna, che con il suo tradimento nella votazione sull’Ema ha pregiudicato il successo di Milano. Le briciole finiscono all’Italia, agli altri paesi del Mediterraneo e all’Europa dell’Est. Il risultato è un’Europa sbilenca, sbilanciata a Nord. Sulla quale aleggia un ormai maturo «basta!». Le agenzie, in 24 dei 28 paesi, ci costano 1,2 miliardi di euro, pari allo 0.8 per cento del budget europeo. Ma regalano con l’indotto una torta miliardaria ai paesi che le ospitano. A Bruxelles, che già ospita Parlamento e Commissione, ce ne sono 9, comprese l’Agenzia europea per la Difesa (Eda) e il Comitato unico di risoluzione delle crisi bancarie. Hanno base nella capitale belga il grosso delle Agenzie esecutive a tempo, da quella per le Piccole e medie imprese (Easme) a quella per l’Educazione, audiovisivo e cultura, e per la Ricerca.Il Lussemburgo (che già esprime il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, tedesco di formazione, lingua e affinità politica, zavorrato a sua volta da un capo di gabinetto germanico, Martin Selmayr, da molti considerato il vero presidente, più potente dello stesso Juncker) ospita l’Agenzia esecutiva Ue per i Consumatori, salute, agricoltura e cibo. Ma anche la Banca europea di investimenti. E la Corte europea di giustizia, da non confondere con la Corte per i diritti dell’uomo con sede all’Aja, Olanda, emanazione del Consiglio d’Europa che travalica gli stretti confini europei. Nei Paesi Bassi ci sono, sempre all’Aja, gli uffici Europol e Eurojust, rispettivamente per la collaborazione tra le forze di polizia e giudiziaria. Adesso, ad Amsterdam, per fare l’en plein andrà pure l’Ema, anche se il primo mattone della nuova sede dev’essere ancora gettato (investimento previsto, 250-300 milioni). Altra mattatrice la Francia, con 5 agenzie tra cui l’Esma che regola il mercato borsistico, ora pure quella che fissa le regole bancarie dopo il suicidio brexistico del Regno Unito, attribuita tramite sorteggio a Parigi per lo spareggio con l’Irlanda (Dublino).Parigi non si fa mancare l’Agenzia spaziale europea e quella per le Ferrovie. A Copenaghen, Danimarca, l’Agenzia per l’Ambiente. In Germania, a prima vista, solo 2 agenzie: per la sicurezza aerea e l’Autorità per le assicurazioni e pensioni aziendali e professionali. Ma vale più agenzie, a Francoforte, la Banca centrale europea (Bce), guidata dall’italiano Mario Draghi. E una sezione del Tribunale unificato dei brevetti a Monaco, strappata proprio a Milano perché l’Italia, all’epoca, si era battuta per il mantenimento dell’italiano come lingua ufficiale dell’Unione. L’altra sezione si trova a Londra: potrebbe diventare il contentino per Milano a cui si riferiva l’altro ieri Maroni? Ad Alicante, Spagna, opera l’ufficio per i marchi, la proprietà intellettuale, con uno staff di 913 persone e un budget di oltre 384 milioni. Ed è uno dei tanti, troppi (in proporzione) enti europei che si è accaparrata Madrid con la sua politica ancellare rispetto all’asse franco-tedesco, con l’Agenzia per la Pesca a Vigo, quella per la sicurezza sul lavoro, il Centro satellitare europeo, e a Barcellona lo Sviluppo dell’energia atomica. Non proprio bazzecole.Paradossali per dislocazione le attribuzioni della cyber-sicurezza a Creta o l’agenzia Frontex per il controllo delle frontiere Ue a Varsavia, dove i boat-people sono una leggenda esotica. La Francia beneficia inoltre dello sdoppiamento del Parlamento tra Bruxelles e Strasburgo. A proposito, qui il segretario generale e il suo vice sono entrambi tedeschi. E tedesco è il maggior numero di direttori generali della Commissione. Raccontano i funzionari Ue che ci sono riunioni del lunedì tra capi di gabinetto che istruiscono la riunione dei commissari il mercoledì, in cui tra capi e vice i tedeschi arrivano a essere 15 su 28. Sono loro le figure chiave, quelle che gestiscono i fondi dell’Unione. Cruciale la casella occupata da Gunther Oettinger al bilancio e alle risorse umane. Dal 2014 il governo italiano ha puntato su un riequilibrio, arrivando a 2 capi di gabinetto e 4 vice, più 24 italiani nei gabinetti dei commissari. Quattro i direttori generali, anzi 3 dopo che uno, Kessler, si è dimesso. Parecchi, circa il 10 per cento, i vincitori italiani ai concorsi per entrare negli organismi della Ue. Segno che i nostri giovani si fanno valere. Ma la strada per riequilibrare gli assetti è in salita.Le figure di spicco della burocrazia europea che parlano italiano sono Marco Buti agli Affari economici e finanziari, Roberto Viola al Mercato unico digitale e Stefano Manservisi alla cooperazione allo Sviluppo. Scarsa la nostra presenza nei gabinetti dei portafogli economici. E veniamo agli scampoli. Per restare sul tema delle agenzie, l’Italia ne conta realmente solo due (e mezzo). La Sicurezza alimentare a Parma, risultato di una battaglia all’ultimo sangue con la Finlandia, e quella (poco rilevante) per la Formazione a Torino, più il Centro per la meteorologia che si sposterà dal Regno Unito a Bologna, forte di un mega-computer. E a Varese l’Ispra, Istituto superiore per la Protezione e la ricerca ambientale. Bruscolini. Secondarie le agenzie dislocate nel resto d’Europa, nel Sud e all’Est. Siamo 28, ma il cuore e il portafogli battono a Nord. Ma l’Europa si è ristretta al Grande Benelux?(Marco Ventura, “Ma cosa ci stiamo a fare in Ue se si pappa tutto l’Europa del Nord?”, dal “Messaggero” del 23 novembre 2017, articolo ripreso da “Dagospia”).Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.
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Delitto Matteotti: vero mandante il Re, socio dei petrolieri
Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.Era lui, Vittorio Emanuele III, il vero dominus del business petrolifero, e quindi anche del delitto Matteotti. A gettare nuova luce sul “peccato originale” del fascismo sono le carte dell’obbedienza massonica di Piazza del Gesù, il Rito Scozzese italiano, di cui lo stesso Carpeoro è stato “sovrano gran maestro”. «Attenzione: lo stesso Matteotti era un 33° grado del Rito Scozzese», premette l’autore, presentando alcune anticipazioni del libro nel corso della diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Massone Matteotti, e massoni i “fratelli” inglesi che lo informarono dell’affare Sinclair Oil, spiegandogli – carte alla mano – che a intascare il grosso della colossale tangente petrolifera (addirittura una ingente quota azionaria della compagnia) non sarebbe stato il Duce, ma direttamente il numero uno di casa Savoia. A indagare sul ruolo occulto della massoneria all’origine del fascismo è anche il recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, del giovane Enrico Montermini, suffragato da un politologo del calibro di Giorgio Galli.Montermini ricostruisce il ruolo delle società segrete nell’affermazione del fascismo “antemarcia”, a partire dalla manifestazione di piazza San Sepolcro, fino al macabro epilogo di piazzale Loreto, dove il cadavere del Duce viene simbolicamente “capovolto”, appeso a testa in giù, dopo esser stato fotografato con in mano uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e poi un ramo di acacia, inequivocabile “firma” massonica. Carpeoro conferma: prima di concorrerre ad abbattere il Duce, «la massoneria ha certamente appoggiato il primo fascismo, anche perché era Mussolini stesso a presentarsi come “vero socialista”». Poi, come sappiamo, il dittatore – mai iniziato alla libera muratoria – arrivò a mettere al bando le logge, in ossequio agli accordi di potere con il Vaticano che avrebbero portato ai Patti Lateranensi. C’era stato un piccolo precedente antimassonico del Duce, quando ancora era un dirigente socialista: impegnò il partito a escludere i massoni dai propri ranghi. «Ma era solo una ritorsione: Mussolini aveva ripetutamente chiesto di essere accolto, nella massoneria, ma non era stato accettato».Un’anomalia episodica, quell’improvvisa allergia socialista per i grembiulini: «E’ stata proprio la massoneria a partorire il socialismo», sostiene Carpeoro: «Anche all’epoca del fascismo, erano massoni i maggiori esponenti del partito socialista, a cominciare dal leader storico, Filippo Turati». Autore di accurati studi sui Rosacroce, leggendaria confraternita iniziatica, Carpeoro spiega che furono proprio i manifesti rosacrociani – come la “Fama Fraternitatis” del 1614 – a delineare l’orizzonte sociale egualitario (la fine dei privilegi di casta) che peraltro si riverbera in opere altrettanto “rosacrociane” del periodo, come “Utopia” di Thomas More, “La nuova Atlantide” di Francis Bacon e “La città del sole” di Tommaso Campanella. La stessa “Fama Fraternitatis” accenna, per la prima volta, a un mondo senza più la proprietà privata né i confini tra le nazioni: sono gli albori del futuro internazionalismo socialista, che riflette le sue luci persino nel primissimo fascismo delle origini, quello di piazza San Sepolcro, tenuto a battesimo dal Grande Oriente d’Italia (Domizio Torrigiani) e poi anche da Piazza del Gesù, il cui gran maestro era Raoul Palermi – ma il vero capo del Rito Scozzese, ipotizza lo stesso Montermini, probabilmente era il sovrano in persona, Vittorio Emanuele III.Di origine scozzese è la stessa famiglia Sinclair: gli antenati dei petrolieri coinvolti nell’affare costato la vita a Matteotti, racconta Carpeoro, in qualità di eminenti rappresentanti del network rosacrociano britannico, alla fine del ‘700 avrebbero fatto segretamente tradurre nel Regno Unito le spoglie del “confratello” Mozart, ufficialmente sepolto in una fosse comune in Austria. Ma, a parte i Sinclair – passati dalla musica al petrolio – il saggio di Carpeoro ricostruisce i passaggi cruciali (e occulti) all’origine del fascismo, mettendo a fuoco il ruolo della massoneria, e non solo. Se Montermini accende i riflettori sulle società segrete che allevarono il regime fascista, Carpeoro segnala il ruolo dell’altro grande potere, antagonista della massoneria eppure suo “socio in affari” durante il ventennio: il Vaticano. Entrambi i centri potere, quello massonico e quello cattolico, puntarono su Mussolini e cercarono di pilotarlo. E il Duce, «peraltro già a libro paga dei servizi segreti inglesi, nonché collaboratore dell’intelligence statunitense e di quella francese», tentò a sua volta di destreggiarsi, ritagliandosi una sua autonomia: «Si passò così dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo seguente», quello dei Patti Lateranensi.Figura cruciale e onnipresente, in quegli anni di precario equilibrio, il massone Filippo Naldi, che Carpeoro definisce «il Licio Gelli dell’epoca», capace di passare con disinvoltura da un tavolo all’altro, uscendone sempre indenne e traendone il massimo vantaggio personale. Carpeoro ricorda una celebre intervista televisiva all’anziano Naldi, a cura del grande Sergio Zavoli: «Riuscì a ottenere quell’intervista perché era massone anche Zavoli», rivela Carpeoro, che ricostruisce un altro momento decisivo della parabola del Duce, la destituzione del 25 luglio ‘43: «Era un piano progettato dallo stesso Mussolini, che voleva farsi arrestare per poi uscire dall’alleanza con Hitler, instaurando a Salò una vera repubblica di orientamento socialista». Ma fu tradito, Mussolini, proprio dall’uomo-ombra della massoneria (e della monarchia), che svelò gli intenti del Duce alla segreteria pontificia. A sua volta, la diplomazia vaticana si rivolse prontamente ai nazisti: temenva che a Salò potesse davvero nascere una repubblica anticlericale.“Il fascio, il compasso e la mitra” getta luce sui retroscena più oscuri del ventennio mussoliniano, rivelando il peso dei due superpoteri – massoneria e Vaticano – nelle decisioni del governo Mussolini. Anche la monarchia giocò le sue carte, comprese quelle (coperte) su cui aveva messo le mani Giacomo Matteotti. «Io il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparate il discorso funebre per me», disse il deputato ai colleghi socialisti, in aula, consapevole che gli sarebbe costata carissima la sua clamorosa denuncia sui brogli elettorali. «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere», rispose Mussolini, mesi dopo, di fronte alle proteste per l’insabbiamento delle indagini sull’omicidio. Ma non si trattò solo di una denuncia politica sulla regolarità delle elezioni del ‘24: il primo a rivelarlo, alla fine degli anni ‘80, è stato un ricercatore fiorentino, Paolo Paoletti, dopo aver scovato negli archivi di Washington una lettera in cui Dumini, il capo del commando omicida, rivela che Matteotti fu ucciso soprattutto per impedirgli di mettere in piazza lo scandalo petrolifero, che coinvolgeva Arnaldo Mussolini.Poche settimane prima del delitto, proprio alla Sinclair Oil (John Davison Rockefeller), il governo italiano aveva concesso l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento per 50 anni di tutti i giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia. La compagnia aveva ottenuto condizioni di esclusivo vantaggio, tra cui l’esenzione da imposte. Per questo Matteotti doveva essere ucciso: aveva saputo della super-tangente. Tesi confermata dallo storico Mauro Canali nel ‘97 e poi da un ex dirigente Eni, Benito Li Vigni, nel saggio “Le guerre del petrolio” uscito nel 2004. All’inizio degli anni Venti, in Italia, l’80% del fabbisogno di idrocarburi era garantito dalla Standard Oil, tramite la “Società Italo-Americana pel Petrolio”, mentre la restante quota era fornita dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell. Secondo Canali, la Standard Oil avrebbe stipulato un accordo sottobanco con la Sinclair Oil, delegando ad essa un’operazione strategica: bloccare la temuta espansione del Regno Unito sul mercato italiano. Guardando al Medio Oriente, a Londra faceva gola la posizione geografica dell’Italia, nel cuore del Mediterraneo: perfetta, per il trasporto del greggio. Per questo gli inglesi avevano sviluppato progetti con l’Italia, anche l’impianto di una raffineria, al punto da preoccupare gli Usa – che a quel punto risposero mettendo in campo la Sinclair Oil, a suon di dollari pagati sottobanco.Lo stesso Canali documenta come a intascare una maxi-rata dell’affare Sinclair fu Filippo Filippelli, un personaggio molto influente, legato ad Arnaldo Mussolini e fondatore del “Corriere Italiano”, giornale a cui – fra l’altro – era stato intestato il noleggio dell’auto con cui venne prelevato Matteotti. Gli accordi con la Sinclair Oil furono stipulati il 29 aprile del ‘24: sempre in cambio di cospicue mazzette, la compagnia ottenne dall’Italia la garanzia che nessun ente petrolifero statale avrebbe intrapreso trivellazioni nel deserto libico. All’accordo, Londra reagì a modo suo: tramite politici laburisti, rivelò a Matteotti i veri termini dell’accordo. Lo stesso Canali conferma che il leader socialista acquisì le carte che provavano la corruzione del governo italiano. Dopo l’omicidio, il “Daily Herald” accusò apertamente Arnaldo Mussolini di essere tra i politici destinatari di una tangente di 30 milioni di lire pagata dalla Sinclair Oil per ottenere la concessione. Sulla rivista “English Life” venne pubblicato (postumo) un articolo dello stesso Matteotti, in cui il deputato affermava di avere la certezza che vi era stata corruzione tra la Sinclair Oil e alcuni esponenti del governo.Tutto giusto? Sì, ma è una verità incompleta, spiega Carpeoro: perché finora le ricostruzioni sul delitto Matteotti non hanno inquadrato il principale colpevole, il Re d’Italia. «Mettendo a disposizione i killer, Mussolini ha fatto un favore innanzitutto alla monarchia», afferma Carpeoro, nel colloquio in streaming su YouTube con Fabio Frabetti. «Matteotti aveva fiutato che sull’Italia, tramite il fascismo, stavano mettendo le mani determinati poteri, in particolare petroliferi – uno su tutti, quello della Siclair Oil». Il leader socialista, continua Carpeoro, «andò a Londra con regolari referenze massoniche e venne accolto con tutti gli onori da una loggia inglese». Loggia che gli mise a disposizione una documentazione decisiva, che gli permise di scoprire «che la Sinclair Oil aveva dato delle quote azionarie a Vittorio Emanuele III». Tornò in patria di corsa, per far scoppiare lo scandalo. «E guardacaso, venne assassinato proprio al ritorno da quel viaggio quasi clandestino». Il regista dell’assassinio? «E’ colui che affittò le auto a noleggio e si fece dare da Mussolini i manovali del delitto: il massone Filippo Naldi, rappresentante degli interessi della Sinclair Oil in Italia ma, soprattutto, fedelissimo del Re».Lui, l’uomo-ombra: «E’ vero che Naldi aiutò Mussolini a uscire dal Psi e gli finanziò il “Popolo d’Italia”, ma sempre e soltanto per conto di poteri forti che volevano che in Italia rimanesse la monarchia e ci fosse sempre un certo tipo di regime». Tant’è vero che i soldi per finanziare il “Popolo d’Italia”, oltre a quelli della Sinclair Oil, sono quelli di Eridania (colosso mondiale dello zucchero) e di Ansaldo, leader dell’acciaio. «Sono i soldi che creano il fascismo, ma lo creano per mantenere un preciso assetto politico rispetto a forze che rischiavano di metterlo in discussione, come i socialisti e i repubblicani». Baricentro del potere, la monarchia. Clamorosa, la rivelazione di Carpeoro: sua maestà in persona era addirittura diventato socio della Sinclair, mentre il governo Mussolini si apprestava a favorire la compagnia. E da dove ricava, Carpeoro, le sue esplosive informazioni? Ovvio: dagli stessi archivi (massonici) ai quali, nel 1924, ebbe accesso l’eroe socialista Giacomo Matteotti, massone del 33° grado del Rito Scozzese.Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.
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Globalizzati e sempre più poveri: come nell’Impero Romano
I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.In Europa occidentale questo è un po’ meno evidente, o forse è solo in ritardo, ma con il globalismo e il neoliberismo, che sono ancora le religioni economiche dominanti, non ci sarà via d’uscita. Che è successo? Beh, noi non facciamo più le cose. Ecco tutto. Dobbiamo comprare da altri tutte le cose che ci servono: sempre di più. E di conseguenza non abbiamo nemmeno le competenze per fare altre cose. Siamo diventati dipendenti, per la nostra sopravvivenza, da nazioni che stanno dall’altra parte del pianeta. Dipendenti da nazioni che sono interessate solo a venderci le loro cose, se le possiamo pagare. Nazioni che vedono le richieste di salario interno salire e che – dovranno – farci pagare i loro prodotti a prezzi sempre più alti. E noi non avremo altra scelta che pagare. Ma possiamo pagare solo con quello che possiamo prendere in prestito – come nazioni, come imprese e come individui. Dobbiamo prendere in prestito perché, come nazioni, come società e come individui noi non facciamo più le cose. È un circolo vizioso con cui la globalizzazione ci ha benedetto. E da cui – ci viene detto – potremo uscire solo se riusciremo a crescere ancora. Cosa che non possiamo fare, perché noi non facciamo nulla.Quindi ci affidiamo ai banchieri centrali per gestire la crisi. Perché ci viene detto che loro sanno come gestirla. Non lo sanno, ma fingono di saperlo. Però, a leggere bene tra le righe, ammettono la loro ignoranza. A Janet Yellen, poche settimane fa, è scappato di dire che non ha idea del motivo per cui l’inflazione è debole. Mario Draghi ha detto più o meno la stessa cosa. Perché non lo sanno? Perché conoscono solo i modelli attuali, che non vanno più bene, perché non si adattano. E i modelli sono tutti quelli che hanno. Nel settore bancario centrale i modelli economici sono più importanti del buon senso. La Fed ha almeno un migliaio di dottorati PhDs sotto contratto. Ma la Yellen, il loro capo, continua a sostenere che “forse” sono sbagliati i modelli che dicono che se cresce l’inflazione aumentano i salari. Non hanno idea del perché i salari non crescano. Perché i modelli dicono che invece dovrebbero crescere. Perché loro hanno tutti un lavoro – i 1000 dottoroni ben pagati. E questo è tutto quello che hanno da dire. Dicono che il fatto che i salari non aumentano è un mistero.Io dico che quelli per cui questo è un mistero non sono le persone giuste per fare il lavoro che fanno. Se si esportano milioni di posti di lavoro in Asia, si sposta anche il potere negoziale dei lavoratori e li si spinge a fare dei lavori di merda e senza nessun benefit, allora c’è solo un risultato possibile. E questo risultato non include né inflazione, né crescita dei salari. L’unico risultato possibile, invece, è una erosione continua delle economie. Il mantra globalista afferma che riempiremo lo spazio che perdono le nostre economie offrendo posti di lavoro migliori, nel settore dei servizi e nel settore della conoscenza. Ma la realtà non segue il mantra. La maggior parte dei nuovi posti di lavoro non sono sicuramente “migliori”. E mentre aspettiamo di vedere questi posti di lavoro migliori, salutiamo i clienti di Wal-Mart, vediamo che i robot cominciano a prendersi cura di quel poco che ci rimane della nostra capacità produttiva e i servizi pronta consegna eliminano dagli scaffali anche quello che restava nei nostri magazzini di mattoni e di calce. Sì, questo significa che stiamo perdendo anche i lavori “di minor qualità”.Nel frattempo i cinesi, che ora fanno i nostri vecchi lavori, sono stati capaci di farli grazie ad una folle quantità di inquinamento prodotto. E come se non fosse abbastanza, recentemente, solo per mantenere in vita il loro nuovo magico paradiso produttivo, sono stati costretti a prendere in prestito tanto quanto abbiamo preso in prestito noi – a livello statale, a livello di governo locale e ora anche a livello individuale. In Cina, le funzioni del credito sono come gli oppiacei in America. Milioni di persone che non erano mai entrate in contatto con le cose – e avrebbero continuato a viver bene anche se non ci fossero mai entrate in contatto – ora sono state agganciate. Ma sono stati agganciati anche i governi locali, che hanno creato un sistema bancario ombra che minaccerà presto Pechino; ma per i cittadini, questo, è un fenomeno relativamente nuovo. E si vede gente che dice cose come: “Se non compri un appartamento oggi, non te lo potrai mai più permettere”; oppure: “Una persona senza un appartamento non ha futuro a Shenzhen”.Sappiamo tutti che è sbagliato, ma i cinesi sono gente che ha visto solo che i prezzi dei beni salgono, e che non ha mai pensato che esistono delle città fantasma, e che ha pochi altri modi per parcheggiare i soldi che si guadagna, grazie al lavoro importato dagli Stati Uniti e dall’Europa. Pensano, senza avere mai dubbi, che i loro salari continueranno a crescere, proprio come il “valore” degli appartamenti. E’ gente che non ha mai visto i prezzi scendere. Ma se noi dobbiamo prendere soldi in prestito per permetterci di comprare i prodotti che (i cinesi) fanno per ripagare i soldi che hanno preso in prestito per comprare i loro appartamenti, allora siamo tutti in difficoltà, siamo tutti in mezzo ai guai. E allora è la stessa globalizzazione ad essere in difficoltà. I beneficiari assoluti, i proprietari della globalizzazione saranno in mezzo ai guai. Anche se lo saranno non prima di essersi pappati la maggior parte dei frutti del nostro lavoro. Che cosa ci farete, poi, con tutti i vostri miliardi, quando il tipo di società che avevate conosciuto quando siete cresciuti saranno state sradicate dal processo stesso che vi ha permesso di fare quei miliardi? Da qualche parte però, quei miliardi dovranno andare!Se quei 1000 dottoroni vogliono studiare un nuovo modello, potrebbero cominciare da qui. La globalizzazione provoca molti problemi. Il fatto che il lavoro scompaia dalle società – in modo che i cittadini di queste società possano però acquistare gli stessi prodotti per pochi centesimi di meno, se vengono in Cina – è un grande problema. Ma il problema principale della globalizzazione è quello finanziario: i soldi svaniscono continuamente dalle società, che devono indebitarsi sempre più per non regredire. La globalizzazione, come qualsiasi tipo di centralizzazione, fa questo: chiede soldi lontano, li chiede alle “periferie”. Il modello di Wal-Mart, McDonald’s, Starbucks ha già portato via lavoro, negozi e soldi incalcolabili dalle nostre società, ma non abbiamo ancora visto nulla. L’avvento di Internet farà prendere gli steroidi a quel modello; ma perché bisogna lasciare che un gruppo di capitalisti-avventurieri di Silicon Valley gestisca certi affari, come Uber o Airbnb, anche nel posto in cui viviamo noi, quando noi potemmo farlo benissimo e utilizzare i profitti di questi affari per migliorare la nostra comunità, invece di lasciarla diventare più povera?Vedo che, nel Regno Unito, Jeremy Corbyn ci aveva già pensato, e aveva fatto bene. La Gran Bretagna può diventare la prima grande vittima del lato oscuro della centralizzazione e, dopo essere uscita dall’organizzazione che l’appoggia – l’Unione Europea – l’idea di Corbyn di creare una cooperativa locale per sostituire Uber è proprio il modo di pensare di cui avrà bisogno. Ma perché devi accentrare tanti soldi e tanta capacità produttiva e poi lasciare tutto nel posto in cui si vive? Non si riuscirà mai a correre abbastanza velocemente, e non si deve farlo. Questo è il succo del dibattito sulla centralizzazione dell’Impero Romano. Anche se i Romani non spingevano mai le loro periferie a smettere di produrre i beni essenziali, però chiedevano di versare a Roma una parte. Il loro problema era che, verso la fine dell’Impero, la quota-parte che richiedevano (con la forza) divenne sempre più grande. Fino a che le periferie non si ribellarono – anche loro con forza.Il club delle banche centrali del mondo presto avrà delle nuove leadership. La Yellen potrebbe andar via, così come Kuroda in Giappone e Zhou in Cina; la Bce e Mario Draghi – della Goldman – cambieranno un po’ più tardi. Ma non c’è nessun segnale che le religioni economiche a cui aderiscono tutti saranno sostituite; così si andrà avanti con la centralizzazione. E se non dovesse funzionare, imporranno ancora più centralizzazione. Come finiranno i giochi in questo processo è dolorosamente ovvio già dall’inizio. La centralizzazione alimenta forze centrali, siano esse governative, militari o commerciali, pagate con i frutti del lavoro delle popolazioni locali, delle periferie. Questo è un processo che, sempre e inevitabilmente, andrà a sbattere contro un muro, perché sono troppi i frutti di quel lavoro che vengono tolti. Troppo è il peso di quei frutti che continuano a scorrere verso il centro, sia verso la Silicon Valley, sia verso Wall Street o sia verso Roma Antica. Non c’è nessuna differenza. Ci sono cose che si possono tranquillamente centralizzare (come le trattative di pace), ma non si possono centralizzare beni essenziali come il cibo, la casa, i trasporti, l’acqua, l’abbigliamento. Hanno un costo troppo alto a livello locale per essere centralizzati. Oppure tutti e ovunque finiremo per romperci l’osso del collo solo per sopravvivere. E’ molto facile, forse perché nessuno ci fa caso.(Raul Ilargi Meijer, “La globalizzazione è povertà”, da “The Automatic Earth” del 16 ottobre 2017, post ripreso da “Come Con Chisciotte” con traduzione di Bosque Primario).I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.
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Crisi e terrore, ma il Nuovo Ordine Mondiale lo farà la Cina
Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.«Il destino profetizzato dai consulenti del Club di Roma è stato previsto anche da altri ricercatori, che hanno puntato in particolare sulla forza economica e finanziaria della Cina che negli ultimi anni si sta accaparrando le risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole, insidiando così le zone d’influenza che appartenevano all’Occidente», afferma Enrica Perucchietti in un’intervista su “Letture.org” in occasione dell’uscita dell’edizione aggiornata dal saggio “Governo globale, la storia segreta del nuovo ordine mondiale” (Arianna), scritto insime a Gianluca Marletta. «Credo che nonostante gli sforzi dell’imperialismo mondialista di portare avanti i propri progetti, nel giro di qualche anno lo scettro passerà di mano e probabilmente il centro del potere si sposterà in Cina», ribadisce la Perucchietti, pur ammettendo che le variabili imprevedibili sono comunque molte, «così come sono da prendere in considerazione delle anomalie che si sono registrate come l’elezione Trump e la Brexit, che sono state evidentemente sottostimate». Tuttavia, come segnala lo stesso Paolo Barnard, colpisce l’arma segreta di Pechino: il suo “capitalismo di Stato” con moneta sovrana mette il governo al riparo dallo strapotere della finanza mondialista non allineata agli oligarchi del partito unico.La riflessione sul futuro “cinese” del mondo conclude un’analisi che la giornalista affronta partendo dallo studio del Nwo, inizialmente liquidato come fiaba cospirazionista. «Oggi la sensazione che sia in atto un progetto di mondialismo (seguente alla globalizzazione delle merci) è comunemente accettato: pensiamo per esempio a Henry Kissinger che ha dato un’opera dal titolo altisonante come “World Order”». Sempre più politici, ministri, capi di Stato e pontefici, aggiunge Perucchietti, negli ultimi decenni hanno parlato pubblicamente dell’esigenza di costituire un “nuovo ordine mondiale”. Lei e Marletta, nel libro, ricostruiscono la storia (documentata) di questo progetto, e le tappe che arrivano fino a noi. «Al di là delle confusioni generate dalla cultura web, lungi dall’essere il delirio di una manciata di paranoici, il nuovo ordine mondiale è al contrario un argomento serissimo, che merita di essere indagato». L’elezione di Trump? «Ha illuso alcuni di poter condurre a una battuta d’arresto del progetto mondialista, ma nei mesi abbiamo assistito a una “normalizzazione” del neo-presidente e l’anacronistico ritorno alla guerra fredda, che ha portato anche alla comparsa di un nuovo nemico sullo scacchiere geopolitico, la Corea del Nord».Se Pyongyang è solo l’ultimo apparente “nemico pubblico” da gettare in pasto alla società per distrarla dalla crisi e «compattarla rispetto a una emergenza esterna», visto che ormai «la Russia non poteva più rispecchiare quel ruolo, dato che la figura di Putin desta sempre maggior consenso o comunque meno diffidenza», posto che un conflitto contro la Corea del Nord «sarebbe non solo inutile, ma svantaggioso e pericoloso», dato che «non apporterebbe nemmeno benefici da un punto di vista geopolitico», vale la pena inquadrare anche questo capitolo («solo teatrale», anche secondo Gioele Magaldi) come parte dello stesso copione mondialista che sta tenendo in scacco il pianeta da ormai moltissimo tempo. Per comprendere che cosa sia il nuovo ordine mondiale, secondo Enrica Perucchietti, è necessario ricostruire le tappe storiche che hanno portato, attraverso i secoli, allo sviluppo dell’ideologia globalista, riscoprendone le radici e i presupposti filosofici, spirituali e teologici. «L’ideologia del Nwo, infatti, attinge la sua linfa vitale da un preciso contesto storico, identificabile con il mondo protestante dei secoli XVII e XVIII. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità trova adesione, sostegno e suoi primi “profeti”».Un progetto, rileva la giornalista, che è nato inizialmente come contraltare all’universalismo della nemica Chiesa cattolica e dell’Impero Asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo in Nord Europa. L’ideologia mondialista ha recepito e rielaborato nei secoli anche altri tipi di influssi: sull’originario substrato protestante-anglosassone, infatti, si innestano successivamente almeno altre due correnti politico-spirituali: l’ideologia universalistica di matrice massonica (su cui si innestano alcune derive occultistiche) e un certo neo-messianismo di matrice sionista. «Queste correnti così diverse tra loro troveranno una convergenza fondata sull’elitismo di chi (gli Usa in primis) si sente in diritto e in dovere di promuovere anche con la forza il proprio imperialismo e assoggettare il resto del mondo ai propri interessi». L’autrice respinge la tesi del Grande Complotto Universale: è storicamente indimostrabile e serve solo a screditare chi indaga seriamente sul mondialismo. Però, «se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del Nwo, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale che lega, attraverso i decenni e persino i secoli, una serie di “forze” e “poteri” in una complicità di interessi e di azioni».Non esiste un Grande Complotto unico, monolitico? «Esiste però una dottrina di base e una “confluenza di interessi” che spingono verso la costituzione del mondialismo, così come esistono i suoi profeti e “architetti” che ne hanno scritto e parlato anche pubblicamente». Ovvero: «Dalla rete inestricabile dei poteri occulti, delle logge e delle sette, dei potentati economici e dei gruppi di pressione impegnati da tempo a promuovere il progetto del nuovo ordine mondiale, emergono con una frequenza non casuale, nomi, realtà e concreti gruppi di potere che nel nostro “Governo Globale” definivamo il “volto visibile del Nwo” di cui trattiamo ampiamente nella prima parte del saggio». Il progetto mondialista? «Nasce in ambito anglosassone ed è quindi naturale che esso abbia avuto, nella potenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il perno della sua potenza (a cui si è aggiunto, a partire dal secondo dopoguerra, il fattore geopolitico costituito dallo Stato di Israele). Quando parliamo del potere di queste nazioni, tuttavia, ci riferiamo a certe strutture di potere che rimangono invariate nel tempo». Nel suo saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi le chiama Ur-Lodges, superlogge: sarebbero la chiave segreta del back-office del potere mondiale, ormai esteso anche alla Cina nel disegno condiviso della globalizzazione autoritaria.Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, osserva Perucchietti, esistono alcune costanti fondamentali alla base del progetto mondialista, e alcuni interessi specifici: per esempio, l’aspirazione a costituire una res-pubblica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite. «Quindi la creazione di un governo elitario, di pochi». Inoltre, si registra «la diffusione o imposizione di un pensiero omologato, tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di pensiero unico globale». Il progetto di costituzione di un mondo nuovo, infatti, richiede anche «un uomo nuovo, che sia omologato e omologabile, facilmente controllabile», magari anche attraverso l’ideologia gender, di cui la Perucchietti ha parlato in libri come “La fabbrica della manipolazione” e “Unisex”. A cascata, pesano «la conseguente lotta contro le “identità forti” difficilmente omologabili alla cultura mondialista e l’abbattimento dei valori tradizionali». Non solo: ci sono anche «censura e psicoreato, ossia il controllo della comunicazione, dei mass media ma anche delle menti e dell’espressione dei cittadini, di cui la recente battaglia contro le “fake news” è un lampante esempio».E’ all’opera una strategia d’azione che privilegia «l’utilizzo strumentale della politica (una sorta di vera e propria criptopolitica basata su ricatti e complotti per lo più sotterranei)», di cui – come vetta dell’iceberg – abbiamo vaghe notizie, attraverso sigle come la Trilaterale o il Bilderberg, cenacoli «i cui membri si riuniscono a porte chiuse per discutere del destino dell’umanità». Alcuni aspetti ideologici restano imprescindibili, «come il neomalthusianesimo che considera l’eccesso delle nascite nelle classi povere come un problema per la qualità di vita». E infatti «gli architetti del Nwo sono ossessionati dal contenimento/riduzione della popolazione». Nell’immaginario collettivo, il Nwo «ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali che ne sono, per certi versi, l’espressione più visibile». E non è tutto: c’è anche «una visione prometeica e luciferina che convoglia nel Transumanesimo e nelle sue applicazioni cibernetiche, virtuali e tecnologiche: l’idea di fondo è che l’uomo può farsi Dio e abbattere la natura, arrivando a derive post-umane finora impensabili». Nel frattempo, le masse occidentali (e mediorientali, manipolate anch’esse) possono “godersi” l’orrore del terrorismo, una macchina infernale che genera paura, «e la paura è un potente strumento di controllo».Riflette Enrica Perucchietti: «Manipolando le persone in fase di shock, sull’ondata emotiva degli eventi, è possibile introdurre misure liberticide fino a quel momento impensabili, lasciando credere ai cittadini che i provvedimenti scelti siano per il loro bene e la loro sicurezza». Terrorismo ed estremismo «vengono sfruttati abilmente, evocati quotidianamente, politicizzati per poterne sfruttare l’ondata d’urto emotiva». Citando Orwell, la sensazione è che la “guerra al terrore” sia stata concepita come perenne per «poter mantenere intatta la struttura della società» e introdurre uno Stato di polizia. «La guerra non deve cioè aver fine, ma deve servire per poter legittimare misure estreme». Per questo, aggiunge l’analista, «non si può distruggere Al-Qaeda senza pensare che spunti un altro pericolo, Isis o altra organizzazione terroristica che sia». E il terrore «doveva finire per divampare anche in Europa», perché «si stava affievolendo la tolleranza del popolo ad accettare sacrifici per “esportare” la democrazia in paesi lontani». Sicché, «l’unico modo per poterlo spingere a continuare a oliare la macchina da guerra era far assaggiare all’Occidente quel genere di “paura” che noi italiani conosciamo bene: gli anni di piombo».Gli artefici del mondialismo, conclude Perucchietti, «hanno sfruttato con cura occasioni tragiche e non si sono fatti problemi a inscenare od ordire attentati, o comunque a strumentalizzarli per creare i presupposti per poi poter raccogliere e sfruttare delle opportunità calcolate con cura». In questo contesto «rientrano anche le cosiddette “false flag”», ovvero le operazioni “sotto falsa bandiera” come quelle che hanno funestato la Francia con sinistra, cronometrica precisione. Lo rileva Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, secondo cui – nella Francia che ha imposto il silenzio alle indagini su Charlie Hebdo (segreto militare, dopo la scoperta del possibile ruolo dell’intelligence nell’armamento del commando), l’opaco neo-terrorismo ha colpito Nizza il 14 luglio, giorno “sacro” per i massoni progressisti anti-oligarchici, e Parigi il 13 novembre (Bataclan), nell’anniversario di una giornata infausta per i Templari perseguitati nel ‘300, a cui evidentemente i mandanti dell’Isis, mondialisti e atlantici, vorrebbero richiamarsi, firmando il loro sanguinoso delirio. Dove finiremo, di questo passo? A Pechino, risponde Enrica Perucchietti: sarà probabilmente a Cina a mandare in fumo i giochi “illuminati” dell’élite nera, insediando sul trono del pianeta – diversamente mondializzato, ma sempre senza democrazia – da una futura élite “gialla”.Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.
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Zero crescita: peggio dell’Italia solo Grecia e Centrafrica
Nel mese di maggio, qui su “The Sounding Line”, abbiamo sottolineato che l’economia greca si è ridotta del 9% da quando ha adottato l’euro nel 2002, dimostrando che la Grecia non ha tratto sostanzialmente alcun beneficio economico dall’ingresso nell’euro e ha perso l’equivalente di un’intera generazione di crescita e prosperità. «L’economia greca oggi è ridotta del 9 % rispetto a quando la Grecia ha adottato l’euro, nel 2002. Solo per questo fatto l’economia greca ha sperimentato una delle peggiori performance di “crescita” economica a lungo termine di tutto il mondo». L’affermazione che la Grecia ha sperimentato una delle peggiori performance economiche del mondo potrebbe sembrare un’iperbole, ma purtroppo non è così. Per illustrare ulteriormente questo punto, abbiamo analizzato il prodotto interno lordo reale (Pil) di ogni paese del mondo dal 2000 al 2016 in valuta locale, tenuto conto dell’inflazione in base ai dati della Banca Mondiale. Gli unici paesi che mancano sono quella manciata di Stati per i quali i dati economici pertinenti non erano disponibili per queste cause: conflitti militari (Somalia, Afghanistan, Siria); nel 2000 non esistevano (Sud Sudan); sono micro-Stati (Monaco, Andorra); oppure, nel caso del Venezuela e della Corea del Nord, hanno un tasso di inflazione che non è più calcolabile o è sconosciuto. In definitiva, i dati sono risultati disponibili per 181 paesi.Escludendo i paesi di cui sopra, la Grecia ha sperimentato la maggior riduzione assoluta del Pil reale rispetto a qualsiasi paese al mondo nel 21 ° secolo e (insieme con la Repubblica Centrafricana) il terzo peggior tasso di crescita economica di qualsiasi paese. Gli evidenti effetti negativi dell’appartenenza all’Eurozona non sono limitati alla Grecia. Subito dopo la Grecia e la Repubblica Centrafricana viene l’Italia, che ha visto la quarta più lenta crescita economica di tutto il mondo nel 21° secolo, una crescita a malapena dell’1% nel corso degli ultimi 16 anni. Non molto lontano, il Portogallo risulta la sesta economia più lenta al mondo, con una crescita negli ultimi 16 anni del 3%. Da notare che tra i 25 paesi con la crescita economica più lenta del mondo, sette sono paesi dell’Eurozona, tra cui la Germania (un po’ sorprendente), i Paesi Bassi, la Finlandia e la Francia. La Danimarca, che è nell’Ue, ma non nell’area dell’euro (però ha la moneta agganciata all’euro), è anche lei tra i 25 paesi con la crescita più lenta al mondo. Comunque possiamo congratularci con i leader economici dell’Eurozona per avere ridotto l’economia della Grecia meno (parlando di percentuali) di quanto ha fatto un dittatore di 93 anni come Robert Mugabe nello Zimbabwe e delle varie fazioni che governano lo Yemen lacerato dalla guerra.In altre parole, negli ultimi 17 anni la crescita economica greca, italiana e portoghese è stata peggiore rispetto a: Iraq (nonostante 15 estenuanti anni di guerra e insurrezione), Iran (nonostante gli anni di schiaccianti sanzioni internazionali), Ucraina (nonostante il suo conflitto con la Russia), Liberia (nonostante la guerra civile e migliaia di persone uccise da Ebola), Sudan (nonostante anni di genocidio, guerra civile e la divisione in due del paese) e di quasi tutti gli altri paesi del mondo. Naturalmente, mantenere elevati tassi di crescita è più difficile per le grandi economie sviluppate. Tuttavia, questa non è una scusa per la crescita negativa o vicina a zero osservata in Grecia, Italia e Portogallo. Tutte le grandi economie sviluppate al di fuori dell’Eurozona infatti sono cresciute notevolmente nello stesso periodo. Questo è particolarmente vero visto che anche l’economia – famigerata per la sua lentezza – del Giappone è cresciuta di un relativamente veloce 13%, la Svizzera del 31%, il Regno Unito del 32%, gli Stati Uniti del 33%, il Canada del 36%, l’Australia del 59%, la Russia del 71% e la Cina di un incredibile 325%. Sebbene la crescita economica non sia l’unica misura importante per giudicare un’economia, né garantisca che la ricchezza economica sia distribuita in modo equo, in assenza di crescita, semplicemente, non è possibile avere sostanziali miglioramenti economici per la popolazione di un paese.Ciò che sta succedendo in diverse economie dell’Eurozona non può essere attribuito a un rallentamento economico ciclico, né a un recupero lento dalla crisi finanziaria del 2008, né è semplicemente una conseguenza inevitabile per un’economia sviluppata. Lo smentiscono le prestazioni migliori di praticamente qualsiasi altro paese sulla Terra, dai più grandi paesi avanzati ai paesi del Terzo mondo che hanno affrontato guerre, genocidi, epidemie, corruzione e rivoluzioni. Grecia, Italia, Portogallo e alcuni altri paesi dell’Eurozona soffrono di profondi problemi strutturali (per esempio una moneta strutturalmente sopravvalutata) e di una gestione economica tra le più incapaci del mondo. Forse è giunto il momento di iniziare a considerare i leader economici dell’autodichiarata élite che gestisce l’eurozona responsabili dei risultati che hanno ottenuto. E, dato che la Grecia continua a lottare per sostenere il suo debito sovrano non ripagabile, vale la pena di notare che i sette paesi africani e centroamericani che hanno scelto di fare default sui propri debiti sovrani a partire dal 2000, sono tutti cresciuti più della Grecia (con la probabile eccezione del Venezuela). Forse la Grecia dovrebbe cogliere il suggerimento.(Taps Coogan, “Crescita economica mondiale 2000-2016: Grecia e Italia agli ultimissimi posti”, da “The Sounding Line”, dell’11 agosto 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Nel mese di maggio, qui su “The Sounding Line”, abbiamo sottolineato che l’economia greca si è ridotta del 9% da quando ha adottato l’euro nel 2002, dimostrando che la Grecia non ha tratto sostanzialmente alcun beneficio economico dall’ingresso nell’euro e ha perso l’equivalente di un’intera generazione di crescita e prosperità. «L’economia greca oggi è ridotta del 9 % rispetto a quando la Grecia ha adottato l’euro, nel 2002. Solo per questo fatto l’economia greca ha sperimentato una delle peggiori performance di “crescita” economica a lungo termine di tutto il mondo». L’affermazione che la Grecia ha sperimentato una delle peggiori performance economiche del mondo potrebbe sembrare un’iperbole, ma purtroppo non è così. Per illustrare ulteriormente questo punto, abbiamo analizzato il prodotto interno lordo reale (Pil) di ogni paese del mondo dal 2000 al 2016 in valuta locale, tenuto conto dell’inflazione in base ai dati della Banca Mondiale. Gli unici paesi che mancano sono quella manciata di Stati per i quali i dati economici pertinenti non erano disponibili per queste cause: conflitti militari (Somalia, Afghanistan, Siria); nel 2000 non esistevano (Sud Sudan); sono micro-Stati (Monaco, Andorra); oppure, nel caso del Venezuela e della Corea del Nord, hanno un tasso di inflazione che non è più calcolabile o è sconosciuto. In definitiva, i dati sono risultati disponibili per 181 paesi.
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Un pericolo si aggira per l’Italia, la candidatura di Tajani
Ci sono disgrazie che lo Stellone italiano riesce ad evitare: ad esempio Macron, figura di arrogante e fondamentalmente insulso europeista che si sono aggiudicati in Francia, mentre ce ne sono altre che aleggiano sul nostro futuro politico. Il peggior fantasma si chiama Antonio Tajani. La fertile terra di Ciociaria ha fornito grandi politici come Andreotti e mediocri controfigure come il nostro, la cui carriera politica sarebbe perfettamente trascurabile se, per una serie di imperscrutabili combinazioni del destino, non si fosse trovato alla presidenza del Parlamento Europeo. Il valore di questa carica sarebbe pressocchè nullo ed è stato precedentemente ricoperto da figure marginali come il “kapò” Schulz. Ma, sempre per colpa del fato cinico e baro, si è incrociato con la momentanea defaillance politica del suo capo, Berlusconi. Infatti il Dominus di Arcore, non sapendo ancora se potrà porsi alla guida di Fi nella prossima campagna elettorale, deve trovare una controfigura fedele, belloccia ma non ingombrante, che lo possa sostituire come capolista: e chi, in teoria, potrebbe impersonare qusta figura meglio di Tajani, che sinora ha mostrato il nulla dietro il sorriso?Purtroppo la gita scolastica a Bruxelles e la successiva nomina a presidente del Parlamento hanno avuto un effetto negativo sulle sue capacità e, soprattutto, hanno azzerato qualsiasi suo contatto con la realtà dei fatti italiani. Visto quello che succede pare che l’Europarlamento sia una sorta di paradiso dei Mangiatori di Loto, per cui persone con una base razionale una volta sedutesi su quegli scanni perdono qualsiasi senso della realtà e diventano degli euroinomani disposti a prostituirsi pur di avere la propria dosa quotidiana di europeismo. Questa dipendenza ha colpito anche Tajani su un tema molto delicato: il divorzio fra il Regno Unito e l’Europa: infatti il nostro, pur avendo la possibilità di stare zitto e non occuparsi del tema, ha deciso di intervenire con la stessa sensibilità di un rullo compressore mentre compatta l’asfalto. Ecco l’uscita di Tajani su “Euronews”: «Vogliamo indietro i soldi». Londra accusa Bruxelles di mettere fretta ai negoziati con il solo scopo di ottenere una fattura britannica più onerosa? Accuse respinte al mittente da Michel Barnier, il capo negoziatore Brexit per l’Unione Europea.Londra, stando ai calcoli comunitari, dovrebbe versare alle casse comunitarie 50,60 miliardi di euro; la conferma di queste cifre, che finora giravano solo ufficiosamente, è stata fatta dallo stesso presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, che ha ribadito: «Dobbiamo essere chiari; dobbiamo mettere i quattrini sul tavolo, vogliamo indietro i soldi; come disse la Thatcher una quarantina d’anni fa: è importante, per noi». Ora, un secondo di chiarezza: questa cifra corrisponde sia ai contributi che Londra dovrebbe versare sino al 2020, sia ai costi previdenziali per gli elevatissimi trattamenti pensionistici dei dipendenti del’Unione Europea, che sono, al contrario dei nostri pensionati, trattati con tutte le cure. Questi versamenti sono proprio uno degli elementi di rottura fra Londra e Bruxelles, e uno degli aspetti di maggiore impopolarità dell’Unione. Tajani, abituato ai metodi dell’Agenzia delle Entrate italiana, pensa di presentare la cartella delle imposte a Londra, magari accompagnata da un’ingiunzione di pagamento. Però non esiste una Guardia di Finanza europea che possa forzare il governo di Londra, che ha due possibilità: accordarsi con l’Unione Europea; non accordarsi con l’Unione Europea.Tajani non si rende conto che il Regno Unito può anche non raggiungere un accordo con l’Unione Europea e applicare gli accordi Wto che prevedono la possibilità di imporre dei dazi. L’Italia è nei confronti di Londra in una posizione molto delicata. Infatti la bilancia commerciale bilaterale è in questa situazione: esportazioni italiane nel Regno Unito, 22.501 milioni di euro; importazioni italiane nel Regno Unito, 10.997 milioni di euro. Noi abbiamo un avanzo per 11 miliardi di euro. Inoltre, circa 261.000 italiani residenti nel Regno Unito, contro meno di 70.000 inglesi residenti in Italia. Chi ha da perdere dal non raggiungimento di un accordo, noi o loro? Mettere il Regno Unito contro un muro potrà dare grande soddisfazione a Juncker e ai suoi amichetti di Bruxelles, ma sarebbe completamente contrario agli interessi nazionali italiani. Nel caso di imposizioni di dazi al nostro export quanti posti di lavoro perderemmo? Vogliamo veramente ripetere l’errore fatto con la Russia per compiacere Barnier e Juncker? Caro Tajani, torni a giocare con i suoi amichetti e non disturbi l’Italia. Perchè di personaggi che non fanno gli interessi nazionali ne abbiamo già abbastanza, e siedono tutti al governo!(Guido da Landriano, “Un pericolo si aggira per l’Italia, cioè che Tajani voglia fare politica”, da “Scenari Economici” del 19 ottobre 2017).Ci sono disgrazie che lo Stellone italiano riesce ad evitare: ad esempio Macron, figura di arrogante e fondamentalmente insulso europeista che si sono aggiudicati in Francia, mentre ce ne sono altre che aleggiano sul nostro futuro politico. Il peggior fantasma si chiama Antonio Tajani. La fertile terra di Ciociaria ha fornito grandi politici come Andreotti e mediocri controfigure come il nostro, la cui carriera politica sarebbe perfettamente trascurabile se, per una serie di imperscrutabili combinazioni del destino, non si fosse trovato alla presidenza del Parlamento Europeo. Il valore di questa carica sarebbe pressocchè nullo ed è stato precedentemente ricoperto da figure marginali come il “kapò” Schulz. Ma, sempre per colpa del fato cinico e baro, si è incrociato con la momentanea defaillance politica del suo capo, Berlusconi. Infatti il Dominus di Arcore, non sapendo ancora se potrà porsi alla guida di Fi nella prossima campagna elettorale, deve trovare una controfigura fedele, belloccia ma non ingombrante, che lo possa sostituire come capolista: e chi, in teoria, potrebbe impersonare qusta figura meglio di Tajani, che sinora ha mostrato il nulla dietro il sorriso?
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Piazzale Loreto, sacrificio rituale: morte del nuovo Cesare
Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico? Giorgio Galli, eminente politologo italiano, propende per la seconda ipotesi. Per questo firma il breve saggio pubblicato in appendice nel volume “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini, giovane ricercatore indipendente, rivisita l’intera parabola del Duce, “da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”. L’autore mette in luce il legame occulto tra il fascismo, la massoneria italiana e gli ambienti della supermassoneria finanziaria anglosassone. Una lettura raggelante, quella della fine del dittatore interpretata in chiave esoterica: Mussolini ucciso sul Lago di Como e quindi “battezzato”, da morto, in uno strano rito di purificazione, per poi essere tradotto a Milano, fotografato cadavere con in pugno uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e infine appeso a testa in giù, per richiamare un altro degli “arcani”, l’Appeso, simbolo del potere capovolto. Tutto questo a piazzale Loreto, cioè «non a caso, nella piazza milanese dedicata alla Madonna», visto che – nella folle visione dei registi del macabro spettacolo – proprio «nel grembo della beata vergine» doveva “nascere”, simbolicamente, il nuovo Cristo. Un secondo avvento del messia, «propiziato dalla caduta del nuovo Giulio Cesare».Delirio? Eppure coincide alla lettera con la cronologia di quei drammatici giorni. Montermini sostiene che l’atroce scempio di piazzale Loreto parrebbe la diligente attuazione della “profezia” pronunciata nel 1908 dall’esoterista inglese Annie Besant, leader della Società Teosofica fondata da Helena Petrovna Blavatsky. La Besant parla per la prima volta di un nuovo periodo, il passaggio dall’Età dei Pesci all’Età dell’Acquario, segnata dal ritorno di Cristo sulla Terra, preceduto però dalla reincarnazione di Giulio Cesare, che dovrà regnare e poi cadere. Ma che c’entra Mussolini con le visioni di certo esoterismo? C’entra eccome, assicura Montermini, che si incarica di indagare cercando «l’altra faccia della storia, quella che si nasconde dietro gli avvenimenti narrati nei libri». Basta verificare chi favorì la nascita ufficiale del fascismo, il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano: «Intorno a Mussolini troviamo sempre personaggi legati al substrato del mondo esoterico: massoneria e altri ordini iniziatici ancora più segreti e potenti, e naturalmente molto meno conosciuti, come la paramassoneria finanziaria con i suoi circoli elitari». La tesi: «Mussolini fu selezionato, fu aiutato ad arrivare al potere». Lo dimostrano «forze politiche ed esoteriche, presenti a piazza San Sepolcro nel momento in cui fu fondato il fascismo».Secondo Montermini, documenti alla mano, Mussolini ricevette una vera e propria investitura dal mondo delle società segrete, da parte di un personaggio in apparenza folkoristico, Regina Teruzzi, che in realtà «era la medium di un gruppo di potentissimi e autorevolissimi cultori della tradizione romana, l’aristocrazia nera dedita alla tradizione pagana». Personaggi di spicco: il duca Giovanni Antonio Colonna Di Cesarò, noto cultore della teosofia e dell’antroposofia (che poi diventerà ministro delle Poste del governo Mussolini) e Don Leone Caetani, anche lui appartenente a una delle più antiche e potenti famiglie dell’aristocrazia nera romana, il cui fratello – Celaso Caetani – diventerà ambasciatore d’Italia a Washington subito dopo la Marcia su Roma (una nomina irrituale, di provenienza non diplomatica, che suscitò scandalo alla Farnesina). Questi personaggi «invitarono la Teruzzi nel “dies natalis” del fascismo per dare a Mussolini la loro investitura». Lei, la medium, «gli profetizzò che sarebbe diventato “console d’Italia”», cioè autocrate. Investitura “profetica” che avvenne a Palazzo Castani, in piazza San Sepolcro, «sede notoria della massoneria milanese».La sala per il ricevimento, aggiunge Montermini, fu messa a disposizione da Cesare Goldman, «israelita, altissimo dignitario della massoneria italiana». Nella regia dell’operazione c’era anche il maggiore sponsor del fascismo “antemarcia”, cioè la Banca Commerciale Italiana, massonica, allora diretta da Jósef Leopold Toeplitz, «seguace dell’eresia “franchista”, una setta ereticale ebraica che aveva mischiato l’antico sapere cabalistico ebraico con i riti orgiastici delle religioni gnostiche del mondo antico». Tra i fondatori del fascismo, in quella occasione, «troviamo un lungo elenco di personaggi associati alla massoneria». Lo stesso gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Domizio Torrigiani, «dice che una centuria di massoni milanesi fu tra i fondatori dei Fasci di Combattimento». Mussolini – deduce Montermini – fu accuratamente selezionato dalle società segrete «per rimettere in piedi l’Italia», piegata dagli scioperi insurrezionali del “biennio rosso”, con le fabbriche di armi occupate dagli operai.Il futuro Duce «era perfettamente consapevole di quei piani». La cosa non sorprende: «Già all’indomani della Prima Guerra Mondiale era molto vicino alla massoneria». Per un certo periodo «andò d’amore e d’accordo con le logge, e questo spiega l’aiuto che la massoneria ha dato al successo della Marcia su Roma, soprattutto in termini di desistenza, da parte degli apparati repressivi dello Stato». Fino al 1922, continua lo storico, Mussolini ebbe stretti rapporti con Torrigiani, il leader del Goi. E alla vigilia della Marcia su Roma iniziò a intrattenere rapporti (durati fino al 1925) anche con Raoul Palermi, il “venerabile” della Gran Loggia d’Italia, la massoneria “scozzese” di Piazza del Gesù. «Non a caso Mussolini era circondato da massoni, basta guardare le foto della Marcia su Roma, i cui “quadrumviri” sono tutti affiliati alla massoneria: Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi». Montermini esibisce un’altra foto storica, quella della stretta di mano tra il capo del fascismo e il sovrano, Vittorio Emanuele III, all’indomani della marcia. Un momento solenne, con la frase passata alla storia («Sire, vi offro l’Italia di Vittorio Veneto») suggellata da una stretta di mano particolare, “massonica”. Il Savoia era massone? Sì, secondo documenti dell’intelligence Usa: era il numero uno della Gran Loggia, al di sopra di Palermi. «E nel libro – rivela Montermini – dimostro che era massone lo stesso Mussolini», anche se poi, nel 1925, il dittatore non esiterà a mettere fuorilegge le società segrete.Nel volume, Montermini cita le testimonianze di Cesare Rossi (segretario del Duce, affiliato alla Gran Loggia d’Italia) e Michele Terzaghi (deputato del Pnf, alto dignitario della Gran Loggia): entrambi confermano che Mussolini ricevette “in punta di spada” la consacrazione al 33esimo grado del “rito scozzese antico e accettato”.Terzaghi testimonia che Palermi consegnò a Mussolini il brevetto massonico del 33esimo grado “ad honorem” e gli esibì la Dichiarazione di Principi contenuta nel Manuale massonico degli Apprendisti, su cui Mussolini appose di suo pugno le parole “Visto e approvato”. «Firmò un impegno scritto con la massoneria». Glielo ricorderà lo stesso Palermi molti anni dopo, nel 1934, in una lettera autografa – rintracciata da Montermini – in cui il “sovrano gran maestro” della Gran Loggia d’Italia rinfresca la memoria al Duce, rammentandogli come “onorò” quella dichiarazione massonica «il 12 novembre 1922, all’Hotel Savoia». Quel documento, scrive Palermi a Mussolini, «fu riprodotto nei libri di Piazza del Gesù». Aggiunge il gran maestro, sempre rivolto al dittatore: «Il prezioso originale fa ora parte di un museo di quegli americani fedeli, ai quali ci rivolgemmo all’indomani della trionfante Marcia su Roma. Ricordate?».Quella lettera, secondo Montermini, certifica in modo evidente l’affiliazione di Mussolini nella massoneria, da cui poi prese le distanze sacrificando la libera muratoria «sull’altare dei Patti Lateranensi», privilegiando il rapporto con l’altro super-potere italiano, il Vaticano. Ma anche la sopressione formale delle comunioni massoniche «rientrava in un disegno più vasto, di cui Mussolini era al corrente: azzerare la massoneria italiana per poi rifondarla, in ossequio al progetto anglosassone di “nuovo ordine mondiale”». Secondo il ricercatore, «Mussolini firmò la sua condanna a morte quando si rifiutò (sulla base probabilmente degli impegni presi con Churchill il 15 gennaio 1927 a Roma) di adempiere alla sua parte dell’accordo, cioè permettere alla massoneria di ricostituirsi e riprendere a operare, rifondata su più solide basi spirituali. Ma c’erano anche stringenti ragioni finanziarie: per esempio, i tentativi dell’Agip di mettere le mani sul pozzi di petrolio iracheni di Mosul». Forse non è casuale neppure la scelta della “forca” di piazzale Loreto: un distributore di carburante della Standard Oil, poi Esso, compagnia fondata da John Davison Rockefeller.Gli storici sottolineano il primo Mussolini, antimassonico: da direttore dell’“Avanti” fu il regista del congresso che, nel 1914, dichiarò incompatibile l’appartenza alla massoneria con la militanza nel partito socialista. Ma la vera storia del Duce è oscillante e contraddittoria, obietta Montermini: appena un anno dopo quel congresso, quando Mussolini ruppe con la direzione del Psi e venne cacciato dal partito (politicamente era un uomo finito) a salvarlo, letteralmente, fu il massone Filippo Naldi, «altissimo dignitario di Piazza del Gesù», che mise in piedi il “Popolo d’Italia” affidandone la direzione a Mussolini. Dopo l’ascesa al potere (e il successivo scaricamento della massoneria, che l’aveva aiutato nella Marcia su Roma), il Duce subì diversi attentati «di matrice esoterica», tra cui quello di una donna irlandese, Violet Gibson, che il 7 aprile 1926 gli sparò, ferendolo al naso. «Il gesto di una pazza», si disse, ma Montermini non concorda: la Gibson aveva conosciuto Colonna Di Cesarò (il promotore di piazza San Sepolcro) durante una riunione della Società Teosofica a Monaco di Baviera. E tentò di uccidere Mussolini «poche ore dopo la morte di Giovanni Amendola, massone e teosofo». I mandanti? «A Londra», sospetta Montermini.Sul fascismo, sostiene lo storico, premevano gli antesignani del New World Order (la finanza “illuminata” di Wall Street) ma anche «il progetto del paganesimo guerriero indoeuropeo e il Movimento Sinarchico d’Impero, francese», ispirato al parigino Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, teorico della “sinarchia”: il governo oligarchico delle élite visto quasi come una forma di religione. «Quelli che nel libro chiamo “gli Illuminati” esercitavano fortissime pressioni su Mussolini, ma erano divisi al loro interno sulla spartizione del potere». Poi però un accordo lo trovarono, perlomeno sulla fine del Duce italiano: «A inchiodare Roosevelt e Churchill è una intercettazione dei servizi segreti tedeschi», racconta Montermini. Il presidentre americano e il premier britannico «stabilirono nel 1943 che Mussolini doveva essere ucciso». Per la cronaca: «Roosevelt era un 32esimo grado del rito scozzese e Churchill un 33esimo grado, come il successore di Roosevelt, Harry Truman, presidente degli Stati Uniti quando Mussolini venne ucciso».La morte del dittatore, catturato a Dongo il 27 aprile 1945, e avvenuta l’indomani nel pomeriggio a Giulino di Mezzegra, secondo la storiografia ufficiale, per Montermini sarebbe avvenuta in circostanze controverse e non del tutto chiarite. In particolare, racconta il ricercatore, la popolazione locale rimase turbata dallo strano “rito” cui sarebbe stato sottoposto il cadavere del dittatore: spogliato e lavato a una fontana, «come una sorta di rito battesimale di purificazione». Qualcosa di anomalo, al punto da «spingere gli abitanti della zona a far benedire quei luoghi, poi, dai parroci». Montermini parla di «modalità esoteriche della fine di Mussolini, trascurate dagli storici forse perché privi degli strumenti per penetrare quel linguaggio allegorico e simbolico». L’autore sostiene che la scena dell’esecuzione sia stata alterata, e il cadavere «spostato dal luogo del delitto al cancello di Villa Belmonte», prima di raggiungere Milano il 29 aprile. Il corpo di Mussolini, insieme a quello di Claretta Petacci e dei 16 “gerarchi” fucilati, fu condotto a piazzale Loreto: il luogo dove, il 10 agosto 1944, erano stati giustiziati 15 partigiani, i cui corpi erano stati dileggiati e lasciati esposti al sole per l’intera giornata, impedendo ai familiari di raccoglierne i resti.Secondo Montermini, però, la scelta di piazzale Loreto può avere anche un’altra spiegazione, lugubremente simbolica: la preparazione del “nuovo avvento di Cristo”. Fra le tante immagini, scattate e filmate dai “combat filmakers” della Quinta Armata americana agli ordini del Moral Operations Branch dell’Oss (futura Cia), ce n’è una che mostra il corpo di Mussolini ricomposto, con nella mano destra «qualcosa di simile a uno scettro», proprio come l’Imperatore nei tarocchi. «E’ una foto stra-pubblicata ma con l’inquadratura ristretta sui volti di Mussolini e della Petacci, escludendo lo scettro». Per Montermini quella messinscena «è il secondo atto della cerimonia: la consacrazione». Cosa si voleva consacrare? «Mussolini è consacrato come il nuovo Giulio Cesare di cui parlava la Besant nel 1909, nella conferenza “Il secondo ritorno di Cristo sulla Terra”». In altre parole «un Giulio Cesare esoterico, in previsione di propiziare il ritorno di Cristo sulla Terra. E dove altro poteva reimcarnarsi, Gesù Cristo, se non nel grembo della vergine Maria, ossia – a livello metaforico, sempre – al centro di piazzale Loreto, la piazza dedicata alla Madonna di Loreto?».Non è finita: «Terza e ultima fase del rituale, Mussolini viene appeso a testa in giù», come appunto l’Appeso dei tarocchi. La cosa ha «un duplice significato: il sacrificio (ecco quindi l’atto sacrificale per propiziare qualcosa) e l’iniziato, cioè colui che si fa ricettacolo passivo di forze cosmiche, e questo può avvenire soltanto in una fase successiva alla consacrazione esoterica di Mussolini quale novello Giulio Cesare». Per Montermini, si tratterebbe di un dramma simbolico in tre atti – battesimo, consacrazione “romana” e capovolgimento – che suggerisce l’identità dei mandanti, cioè gli alti vertici delle società segrete, gli Illuminati del tempo, e la massoneria angloamericana. Fantasie? Non proprio. «Giorgio Galli si è misurato con le tesi del mio libro, arrivando alla mia stessa conclusione: i fatti di piazzale Loreto, così come raccontati nei libri di storia per 70 anni, sono da riscrivere», ribadisce Montermini. «La mia intuizione la si può analizzare e discutere, ma non confutare: non si può più fare finta di niente». Aggiunge il ricercatore: «Tendiamo a dare spiegazioni sempre razionali deella storia, ma la storia la fanno gli esseri umani, con le loro convinzioni anche religiose. Io non credo in questo tipo di attività occulte – precisa l’autore – ma dal punto di vista storico non possiamo negare il fatto che esistano persone che credono in queste cose, e spesso queste persone sono ai vertici della società».Politica, burocrazia, forze armate: «Non è indifferente sapere che tutte queste persone, che occupano posizioni di potere, credono in una dottrina esoterica che rappresenta il mondo in un certo modo, e che vuole dare un certo indirizzo anche spirituale all’attività quotidiana degli affiliati», sottolinea Montermini. «Ma non c’è solo la massomeria, c’è anche la massoneria deviata, quella dei contro-iniziati, i gruppi esoterici che si ispirano alla massoneria come tipo di organizzazione ma portano avanti un pensiero, una filosofia, una dottrina esoterica diversa, in tutto o in parte, da quella massonica». Lo sappiamo: «Ci sono maestri spirituali che hanno tra i loro adepti personaggi potentissimi, in grado di condizionare la politica degli Stati e quindi la vita di milioni di persone. E dal punto di vista storico, far finta che questa cosa non esista è una mistificazione», concude Montermini. «Si presuppone che i fatti abbiano sempre una consequenzalità logica, negando quindi la presenza dell’irrazionale all’interno della storia: una visione “magica” del mondo che è stata insegnata all’interno dei circoli esoterici, magici, alchemici». Se i grandi poteri non potevano non essere con Mussolini, al momento della sua prodigiosa ascesa, forse non c’è da stupirsi troppo se poi qualcuno sostiene che la sua caduta sia stata davvero “celebrata” come un terribile sacrificio rituale.(Il libro: Enrico Montermini, “Mussolini e gli Illuminati. Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”, Edizioni Sì, 214 pagine, 16 euro. In appendice, nel volume, uno studio di Giorgio Galli, “Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico?”. Molte dichiarazioni di Montermini, in merito al contenuto del libro, sono rintracciabili in filmati su YouTube come “Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto” e “Mussolini e gli Illuminati”).Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico? Giorgio Galli, eminente politologo italiano, propende per la seconda ipotesi. Per questo firma il breve saggio pubblicato in appendice nel volume “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini, giovane ricercatore indipendente, rivisita l’intera parabola del Duce, “da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”. L’autore mette in luce il legame occulto tra il fascismo, la massoneria italiana e gli ambienti della supermassoneria finanziaria anglosassone. Una lettura raggelante, quella della fine del dittatore interpretata in chiave esoterica: Mussolini ucciso sul Lago di Como e quindi “battezzato”, da morto, in uno strano rito di purificazione, per poi essere tradotto a Milano, fotografato cadavere con in pugno uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e infine appeso a testa in giù, per richiamare un altro degli “arcani”, l’Appeso, simbolo del potere capovolto. Tutto questo a piazzale Loreto, cioè «non a caso, nella piazza milanese dedicata alla Madonna», visto che – nella folle visione dei registi del macabro spettacolo – proprio «nel grembo della beata vergine» doveva “nascere”, simbolicamente, il nuovo Cristo. Un secondo avvento del messia, «propiziato dalla caduta del nuovo Giulio Cesare».
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Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia
Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.I tanti dotti commenti che in questi giorni, anche sulla stampa nostrana, si limitano a sottolineare come il referendum per l’indipendenza della Catalogna fosse illegale perché non previsto dalla Costituzione, sono miopi e ridicoli. È vero infatti che da sempre nelle democrazie l’uso legittimo della violenza è demandato allo Stato anche per mantenere l’ordine costituito. Ma è evidente che nella società contemporanea la forza deve essere l’extrema ratio, che le sue conseguenze vanno ponderate con cura e che prima di farvi ricorso va battuta ogni strada. La domanda da porsi è dunque una sola: c’erano altre vie? Le cronache che in questi mesi sono giunte dalla Spagna sono unanimi nel rispondere di sì. Basti pensare che Rajoy nel 2010 portò davanti alla Corte costituzionale (che in Spagna è di nomina solo politica) e fece cassare il nuovo statuto per l’autonomia della Catalogna siglato nel 2006 tra il suo predecessore José Zapatero e l’allora amatissimo ex sindaco di Barcellona, Pasqual Maragall.Così, oggi, le centinaia di migliaia di persone che scendono in piazza per protestare contro la violenza di Stato, fanno diventare un gigante politico l’alcadesa Ada Colau. Lei, che da subito aveva annunciato il suo no alla secessione nel referendum poi soffocato nel sangue, si era battuta perché i catalani si potessero comunque esprimere. Il perché è evidente. In un territorio in cui si parla una lingua diversa da quella dello Stato centrale e dove i partiti indipendentisti – ma quasi sempre europeisti – raccolgono il 48 per cento dei consensi, impedire ai cittadini di votare è impossibile (come ci ha insegnato il Regno Unito con la Scozia). Compito della politica è invece quello di prendere atto della situazione e trovare le vie per una mediazione. Anche perché, spesso, come ripeteva Leo Longanesi in uno dei suoi fulminanti aforismi, «un’idea che non trova spazio a tavola è capace di fare la rivoluzione».Il refrain “ma la Costituzione non lo prevede” in questo caso è solo l’ultimo rifugio di chi teme che quanto sta accadendo in Catalogna (per ragioni diverse dall’indipendenza) possa ripetersi altrove. Di chi alla realtà sa solo opporre incapacità e arroganza. Seguendo questa logica, se domani in Spagna un partito repubblicano raccogliesse il 50% e più dei consensi, il referendum per decidere se uscire dalla monarchia dovrebbe essere comunque vietato. E pure l’Europa, che spesso a vanvera si dichiara dei popoli, dovrebbe schierarsi con le truppe del Re contro i cittadini. Dimostrando che oggi il pericolo più grande corso dalle nostre democrazie non è la dittatura o il populismo, ma la sorda e cieca oligarchia.(Peter Gomez, “Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia”, da “Il Fatto Quotidiano” del 4 ottobre 2017).Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.
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Esercito europeo, cioè tedesco: via gli inglesi, Berlino trama
Un putsch silenzioso è in corso nelle istituzioni europee, con la brutale velocità di un blitzkrieg, per mutare la Ue in Quarto Reich. Così sussurrano le voci ben informate del Deep Superstate a Bruxelles, raccolte dal sito belga “Dedefensa”, che ha nell’ambiente buone entrature, assicura Maurizio Blondet. «Con il Brexit – racconta “Dedefensa” – i funzionari britannici stanno lasciando posti strategici nel labirinto istituzionale e burocratico che hanno occupato, da abili tattici, per una trentina d’anni». E invece di aprire «una procedura trasparente di ripartizione fra i funzionari degli Stati membri», ecco che «i tedeschi li occupano praticamente tutti loro, approfondendo il loro potere su queste retrovie strategiche decisive e dando la loro impronta alla Ue». Il punto è che i britannici, da quei posti-chiave, «erano riusciti a bloccare i più ambiziosi progetti sovrannazionali e oligarchici delle tecno-eurocrazie». Partiti loro, e «dato l’incredibile stato di deliquescenza della Francia ormai subalterna a Berlino», la via è ormai aperta «alla chiusura in gabbia degli europei in un sistema che corrisponde all’ideologia e agli istinti profondi dello Stato più grosso e pesante economicamente».Sempre “Dedefensa” ricorda che la Prussia «non unificò la Germania proponendo gli altri staterelli germanofoni un esplicito progetto politico, bensì una pacifistica unione doganale (Zollwerein)». Il concetto di Reich esprime qualcosa di più che uno Stato, ma non arriva a esprimere un’idea propriamente imperiale, «perché ogni impero è multinazionale, mentre il Reich del Kaiser puntò alla omogeneità del Volk e della Kultur». Di fatto, divenne una struttura di comando e obbedienza, ossia l’estensione del prussianesimo dalla Baviera ad Hannover. «Su questa pericolosa forma che l’Unione Europea tende a prendere di per sé sotto il dominio delle tecnoburocrazie a-politiche e sovrannazionali, John Laughland ha scritto un saggio la cui lettura andrebbe resa obbligatoria ai politici, “The Tainted Source” (La fonte inquinata)». I politici d’oggi, rileva Blondet, «non avendo la levatura di un Andreotti», l’uomo che disse «amo a tal punto la Germania che ne preferisco due», non sono capaci di capire il rischio riassunto nello slogan “ci vuole più Europa”, un’Europa «a cui il Quarto Reich somiglia», anche se «i servi mediatici ci parleranno di una Merkel che “avanza verso il federalismo europeo”».Intanto, continua Blondet, i tedeschi ci annetteranno «alla loro già smodata potenza economica e finanziaria, che governano coi diktat nel più brutale disprezzo delle regole che loro stessi impongono (vedasi il loro demenziale surplus)». Si “mangeranno” «anche la politica estera comune e a difesa “europea”: allora sarà davvero il Quarto Reich». La dipartita dei britannici, secondo Blondet, lascia in balia della Germania lo European External Action Service (Eeas), cioè «il colossale sub-ministero (scommetto che pochi ne avrete sentito parlare) i cui burocrati dettano la politica estera europoide, forte d 3.400 dipendenti e di 140 delegazioni estere». Fatto «aggravato dalla vera e propria incredibile e sospetta dimissione francese, quando il segretario generale di questo servizio estero, Alain Le Roy, s’è dimesso per “motivi personali” senza che l’Eliseo di Hollande reclamasse il posto», poi «immediatamente occupato per cooptazione da Helga Schmidt, tedesca, fatta salire da n.2 del servizio a n. 1 senza che i francesi né alcun altro “latino” chiedessero almeno questo n.2 liberatosi».Così ora la Schmidt «spadroneggia con mano pesante germanica sul servizio», mettendo in ombra la già ectoplasmatica Federica Mogherini, “alto rappresentante” Ue per la politica estera. Una sudditanza che la Germania «vuole rendere eterna, avendo chiesto a Berlusconi (che ha eliminato come sappiamo nel 2011) di formare dopo le elezioni un governo col Pd, per non dare il potere ai “populisti”; inutile dire che il Cavaliere, scodinzolando, ha detto sì». Sempre secondo Blondet, oggi la Germania punta sulla difesa comune europea, progetto ieri frenato da Charles de Gaulle e poi dagli inglesi. «Adesso la Merkel lo vuole fortemente, l’esercito europeo. Il che significa, retorica a parte, che siano i francesi a conferire al Reich le forze armate», dato che quella di Parigi è la maggior forza armata in ambito Ue. Un nuovo euro-caccia, prodotto dalla francese Dassault (l’industria dello storico Mirage) potrebbe accelerare «l’annessione di fatto». Dopodiché «si porrà la questione della potenza nucleare di dissuasione, che la Germania vorrà sia conferita all’esercito europeo, ossia alla Germania». Blondet sottolinea un indizio: «Non è improbabile che quando Macron ha sbattuto fuori il generale De Villiers, il capo di stato maggiore, sia stato perché costui obiettava alla “fusione-acquisizione” delle armate francesi da parte di Berlino. E il saluto corale e silenzioso che tutto il personale ha tributato al generale dimissionario, è forse la sola ultima speranza che che il Quarto Reich mercantile e brutale venga impedito».Un putsch silenzioso è in corso nelle istituzioni europee, con la brutale velocità di un blitzkrieg, per mutare la Ue in Quarto Reich. Così sussurrano le voci ben informate del Deep Superstate a Bruxelles, raccolte dal sito belga “Dedefensa”, che ha nell’ambiente buone entrature, assicura Maurizio Blondet. «Con il Brexit – racconta “Dedefensa” – i funzionari britannici stanno lasciando posti strategici nel labirinto istituzionale e burocratico che hanno occupato, da abili tattici, per una trentina d’anni». E invece di aprire «una procedura trasparente di ripartizione fra i funzionari degli Stati membri», ecco che «i tedeschi li occupano praticamente tutti loro, approfondendo il loro potere su queste retrovie strategiche decisive e dando la loro impronta alla Ue». Il punto è che i britannici, da quei posti-chiave, «erano riusciti a bloccare i più ambiziosi progetti sovrannazionali e oligarchici delle tecno-eurocrazie». Partiti loro, e «dato l’incredibile stato di deliquescenza della Francia ormai subalterna a Berlino», la via è ormai aperta «alla chiusura in gabbia degli europei in un sistema che corrisponde all’ideologia e agli istinti profondi dello Stato più grosso e pesante economicamente».