Archivio del Tag ‘Regno Unito’
-
Lo 007 disse alla moglie: tra poco mi uccidono. E così fu
Il 4 marzo 2018, in Inghilterra, viene trovato accasciato su una panchina l’agente segreto russo Sergeij Skripal, insieme a sua figlia. Entrambi sarebbero stati avvelenati da un gas nervino appartenente a un tipo sviluppato e prodotto dall’esercito russo (denominato A234). L’agente segreto sarebbe stato avvelenato perché avrebbe fornito informazioni ai servizi segreti di altri paesi facendo il doppio gioco e quindi tradendo Mosca. A seguito di questo fatto, assistiamo alla lapidazione del presidente russo Putin per un fatto senza senso né logica, e assistiamo alla cacciata dei diplomatici russi dalle varie ambasciate (un vero e proprio atto di guerra). Questo fatto mi ricorda una vicenda della mia infanzia, quando il padre di un mio amico del liceo, funzionario dei servizi segreti, pochi giorni prima di essere trovato morto su una panchina del paese di Bracciano, in provincia di Viterbo, disse alla sua famiglia: «Fra pochi giorni mi uccideranno; non credete alle bugie che racconteranno su di me, sappiate che sarò morto in servizio, perché nel mio lavoro funziona così. Non ci sono licenziamenti, liquidazioni, preavvisi, indennità… semplicemente, ci uccidono». E chiese alla moglie di fare una battaglia legale, per far dichiarare non il suicidio ma la “morte in servizio”. Da quel giorno, ovverosia dal giorno in cui la moglie vinse la battaglia legale con lo Stato, facendosi riconoscere la morte per stato di servizio, è invalsa nel linguaggio del servizio segreto l’espressione “è stato suicidato” per indicare un omicidio travestito da suicidio.Ora, premesso che: l’uccisione di agenti segreti è un fatto che è sempre avvenuto in tutti i tempi e in tutti i paesi, e nessuno si è mai sollevato e indignato per questo; gli agenti segreti vengono assassinati non solo dalle potenze avversarie, ma dagli stessi governi per i quali essi lavorano: quando un agente/collaboratore/consulente/funzionario è scomodo, viene semplicemente ucciso. La vita degli agenti segreti, per i governi dei vari Stati, non vale nulla (come la vita dei cittadini, del resto). Tanto meno vale la vita dei familiari, che viene spesso utilizzata come strumento di ricatto verso gli agenti stessi, per intimidirli, costringerli a determinate azioni, ecc. Basti pensare – tra i casi di cui ci siamo occupati nel nostro sito – al caso di Davide Cervia; al caso Nicola Calipari; all’assassinio di Mario Ferraro, trovato impiccato al portasciugamani del suo bagno; a Giovanni Aiello detto “faccia da mostro”; a Luciano Petrini, ucciso a colpi di portasciugamano mentre stava facendo una perizia informatica sulla morte del colonnello Ferraro… Tutti agenti o collaboratori dei servizi segreti, uccisi perché, molto semplicemente, erano diventati scomodi. Per uccidere un uomo, ci sono decine se non centinaia di modi, alcuni invisibili, altri più eclatanti, come le armi da sparo, ma molto più sicuri (vedi il nostro articolo “Come uccidere un uomo senza lasciare traccia”); ci sarebbe da domandarsi perché Putin abbia scelto un mezzo così eclatante per un’operazione del genere; e perché proprio adesso (dato che il doppio gioco di Skripal era noto da anni ai russi, tanto è vero che nel 2004 aveva subito un procedimento penale proprio per alto tradimento).La domanda da farsi quindi è: cosa cela veramente questa vicenda? Dal momento che i fatti veicolati dai mass media nascondono in realtà messaggi tra vari poteri, il cui contenuto possiamo intuirlo dal tipo di parole e messaggi utilizzati nella veicolazione delle varie informazioni, la domanda che possiamo porci è: premesso che Putin ha da poco concluso con la Germania un accordo (North Stream 2) per la costruzione di un gasdotto, e tale accordo è mal visto dagli Usa, dato che nelle notizie relative alla spia russa si parla di “gas”, è possibile che questa vicenda nasconda una serie di messaggi intimidatori a Putin, proprio per la vicenda del gasdotto? La nostra è solo una domanda, e forse siamo anche fuori strada, trattandosi solo di un’intuizione. Ma certamente non siamo fuori strada nel capire che questa vicenda è solo una montatura, e Putin non c’entra probabilmente nulla con l’assassinio della spia. A Londra, come a qualunque altro governo, non interessa certamente la vita di un agente segreto, per giunta appartenente ad un altro governo. La vicenda è quindi solo il pretesto ufficiale, per condurre un altro tipo di guerra per interessi che non possono essere esplicitati alle masse.(Paolo Franceschetti, “Caso Skripal, perché si uccide un agente segreto”, dal blog “Petali di Loto” del 30 marzo 2018).Il 4 marzo 2018, in Inghilterra, viene trovato accasciato su una panchina l’agente segreto russo Sergeij Skripal, insieme a sua figlia. Entrambi sarebbero stati avvelenati da un gas nervino appartenente a un tipo sviluppato e prodotto dall’esercito russo (denominato A234). L’agente segreto sarebbe stato avvelenato perché avrebbe fornito informazioni ai servizi segreti di altri paesi facendo il doppio gioco e quindi tradendo Mosca. A seguito di questo fatto, assistiamo alla lapidazione del presidente russo Putin per un fatto senza senso né logica, e assistiamo alla cacciata dei diplomatici russi dalle varie ambasciate (un vero e proprio atto di guerra). Questo fatto mi ricorda una vicenda della mia infanzia, quando il padre di un mio amico del liceo, funzionario dei servizi segreti, pochi giorni prima di essere trovato morto su una panchina del paese di Bracciano, in provincia di Viterbo, disse alla sua famiglia: «Fra pochi giorni mi uccideranno; non credete alle bugie che racconteranno su di me, sappiate che sarò morto in servizio, perché nel mio lavoro funziona così. Non ci sono licenziamenti, liquidazioni, preavvisi, indennità… semplicemente, ci uccidono». E chiese alla moglie di fare una battaglia legale, per far dichiarare non il suicidio ma la “morte in servizio”. Da quel giorno, ovverosia dal giorno in cui la moglie vinse la battaglia legale con lo Stato, facendosi riconoscere la morte per stato di servizio, è invalsa nel linguaggio del servizio segreto l’espressione “è stato suicidato” per indicare un omicidio travestito da suicidio.
-
Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo
Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?(Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
-
Cambridge Analytica e Facebook: vittime 50 milioni di utenti
Una macchina devastante: manipolazione di massa, via Facebook, a scopo politico. Dietro allo scandalo Cambridge Analytica che sta facendo crollare in Borsa il social network di Mark Zuckerberg (2 miliardi di utenti, quasi 9 miliardi di dollari in pubblicità nel 2017) emerge una squadra formata da personaggi capaci di mettere insieme tecnologia, finanza e politica. Sono il “genietto pentito” Christopher Wylie, lo stratega trumpiano Steve Bannon, il miliardario Robert Mercer affascinato dall’intelligenza artificiale, il “manipolatore della psiche” Aleksandr Kogan e il manager Alexander Nix. «Una storia di profili rubati, manipolazioni, forse anche di tangenti e di corruzione», scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera”. Due gli obiettivi: spingere la Gran Bretagna fuori dall’Europa e Donald Trump verso la Casa Bianca. Un racconto reso possibile da una straordinaria inchiesta giornalistica del “Guardian”, firmata da Carole Cadwalladr. La reporter ha scavato per un anno sui retroscena della Brexit, fino a convincere Wylie a svelare i misteri della Cambridge Analytica. Il suo lavoro si è poi sommato all’indagine del “New York Times”. Tutto nasce nel 2013, quando sbarca a Londra un giovanotto canadese di 24 anni, Wylie, specialista in tendenze della moda, con un’idea sovversiva: rivoluzionare il marketing politico grazie a una specie di “porta a porta” digitale. «Si raccolgono i profili delle persone, si analizzano e poi si confeziona un messaggio su misura».Wylie prepara così il contenitore da cui nascerà Cambridge Analytica, la società di analisi da lui stesso fondata. Nel 2014 l’incontro con Steve Bannon, a cui offre «gli strumenti per la sua guerra psicologica». Per convincere il direttore di “Breibart”, la voce online della destra radicale americana, il «gay-vegano-canadese» Christopher usa la metafora dei sandali Crocs: «Non si può dire che siano belli, eppure tutti li vogliono». Si trattava solo di mettere la Brexit (e poi Trump) al posto dei sandali, scrive Sarcina. E i soldi per l’operazione? Bannon chiede l’appoggio di Robert Mercer, 71 anni, informatico tra i primi ad applicarsi all’intelligenza artificiale (poi approdato al misterioso e quasi “mistico” hedge fund Renaissance Technologies). Con un portafoglio di oltre 25 miliardi di dollari, Robert Mercer e la figlia Rebekah «sono finanziatori generosi delle varianti più conservatrici della politica americana e non solo», ricorda il “Corriere”. Hanno comprato quote in “Breitbart” e si sono appresati a sostenere Cambridge Analytica. Dove e come procurarsi i profili dei navigatori? Ci ha pensato Aleksandr Kogan, 31 anni, nato in Moldavia e cresciuto a Mosca fino all’età di 7 anni, quando la famiglia emigrò negli Stati Uniti.Kogan ha studiato psicologia a Berkeley e ha conseguito un Phd (dottorato di ricerca) all’università di Hong Kong. Nel 2012 è diventato assistente alla cattedra di psicologia a Cambridge, in Gran Bretagna. Ha condotto ricerche sofisticate, ma per la Analytica ha creato la app “Thisisyourdigitallife”, che offre «un esame della personalità compiuto da un team di psicologi». Kogan l’ha collocata sulla piattaforma Facebook, “catturando” subito 270 mila utenti. In realtà, scrive Sarcina, quell’applicazione «è una specie di sifone usato per risucchiare i dati sensibili dei sottoscrittori e dei loro amici». Un’enormità: «In totale 51 milioni di profili sottratti senza il consenso degli interessati: materiale prezioso per gli intrugli di Bannon». A gestire – come manager – il meccanismo è stato Alexander Nix, 42 anni, di Londra, reduce da studi all’Eton College (la scuola dell’establishment britannico), con laurea all’università di Manchester. Nel 2003, Nix ha lasciato la finanza per occuparsi di «comportamento e comunicazione politica». Ha diretto lo Strategic Communication Laboratories Group, fino a quando Bannon e Mercer l’hanno scelto come amministratore delegato di Cambridge Analytica (ora sospeso dalla società, per un video trasmesso da “Channel 4 News” in cui «si vede il distinto manager offrire “belle ragazze dell’Ucraina” per discreditare l’avversario politico di un suo cliente nello Sri Lanka».Una macchina devastante: manipolazione di massa, via Facebook, a scopo politico. Dietro allo scandalo Cambridge Analytica che sta facendo crollare in Borsa il social network di Mark Zuckerberg (2 miliardi di utenti, quasi 9 miliardi di dollari in pubblicità nel 2017) emerge una squadra formata da personaggi capaci di mettere insieme tecnologia, finanza e politica. Sono il “genietto pentito” Christopher Wylie, lo stratega trumpiano Steve Bannon, il miliardario Robert Mercer affascinato dall’intelligenza artificiale, il “manipolatore della psiche” Aleksandr Kogan e il manager Alexander Nix. «Una storia di profili rubati, manipolazioni, forse anche di tangenti e di corruzione», scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera”. Due gli obiettivi: spingere la Gran Bretagna fuori dall’Europa e Donald Trump verso la Casa Bianca. Un racconto reso possibile da una straordinaria inchiesta giornalistica del “Guardian”, firmata da Carole Cadwalladr. La reporter ha scavato per un anno sui retroscena della Brexit, fino a convincere Wylie a svelare i misteri della Cambridge Analytica. Il suo lavoro si è poi sommato all’indagine del “New York Times”. Tutto nasce nel 2013, quando sbarca a Londra un giovanotto canadese di 24 anni, Wylie, specialista in tendenze della moda, con un’idea sovversiva: rivoluzionare il marketing politico grazie a una specie di “porta a porta” digitale. «Si raccolgono i profili delle persone, si analizzano e poi si confeziona un messaggio su misura».
-
Carpeoro: quelli che santificano Moro e dimenticano Curcio
“Santificare” Moro, in quanto vittima della barbarie terrorista? Potrebbe suonare stonato, come le dichiarazioni dei tanti ex-brigatisti felicemente a piede libero, in passerella sulle televisioni nei servizi speciali andati in onda nel quarantennale della tragedia. Certo non era “uno come tutti gli altri”, il presidente della Dc ferocemente assassinato nel 1978 per mano delle Brigate Rosse. Aveva una visione: voleva promuovere l’Italia come attore geopolitico mediterraneo, a dispetto dell’egemonia anglo-francese, e coinvolgere la sinistra – elettoralmente fortissima – nella gestione del paese, con le “convergenze parallele” pensate per il Pci di Berlinguer, partito che allora preoccupava sia Mosca che Washington. Ma sarebbe fare un torto alla verità, avverte Gianfranco Carpeoro, dimenticare l’identità istituzionale di Moro: un politico democristiano, uno dei leader di un’Italia in cui, all’epoca, ogni partito (in mancanza di leggi adeguate) era “costretto” a finanziarsi in modo completamente illegale, dando luogo alla grande ipocrisia di cui poi fu vittima soprattutto Craxi, travolto da Tangentopoli. Ipocrisia sottile, alla quale non erano certo estranei gli stessi “cattolici”: «Non ci faremo processare nelle piazze», fu l’intimazione di Moro quando il suo factotum Sereno Freato finì nel mirino della magistratura per una storia di fondi neri (petroliferi), secondo l’ipotesi di accusa finiti in conti svizzeri.L’altolà di Moro di fronte all’arresto di Freato anticipa il successivo «non ci sto», pronunciato da Oscar Luigi Scalfaro, non ancora promosso al Quirinale e sospettato della gestione di fondi “fantasma” transitati al ministero dell’interno. Aldo Moro “di sinistra”? Meglio: non ostile, possibilista. Democristianamente parlando: coltivò con Berlinguer l’ipotesi di co-gestione del paese e si avvalse dell’alleanza coi socialisti, ma al tempo stesso – ricorda Carpeoro, in web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights” – coinvolse un fiero liberale come Giovanni Malagodi nonché il Pri di Ugo La Malfa, autorevole esponente della destra economica italiana, trafficando persino con il Msi di Almirante per l’elezione di Giovanni Leone alla presidenza della repubblica. Non era “uno come gli altri”, tutt’altro: ma anche Moro operava in quell’Italia, con quelle regole. «E i democristiani, così come i comunisti, furono assolutamente risoluti e coesi nel difendersi – non come i socialisti, rassegnati a sacrificare i loro leader così come i socialdemocratici, nel caso di Pietro Longo». Moro non era una scheggia impazzita, in quel sistema di potere: lo conosceva benissimo, ne faceva parte a pieno titolo. Aveva tutte le credendiali per tentare, semmai, di utilizzarlo in modo diverso, per mettere la politica italiana al passo con una società che, dopo il Sessantotto, stava cambiando alla velocità della luce. Né poteva ignorare che i suoi avversari l’avrebbero atteso al varco. Fino al punto di assassinarlo nel modo più infame?Nel libro-inchiesta “Il puzzle Moro” (Chiarelettere), che fa seguito alle clamorose rivelazioni della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni, un giornalista di razza come Giuseppe Fasanella – basandosi anche sull’archivio di Stato britannico – mette a fuoco con precisione gli attori del dramma: killer, mandanti e moventi. Londra decisa (con Parigi) a fermare la politica mediterranea e filo-araba dell’Italia, gli Stati Uniti allarmati dalla prospettiva – nel cuore del sistema Nato – di un governo con il Pci, alleato dell’Urss, e a sua volta l’Unione Sovietica spaventata dall’eurocomunismo di Berlinguer, sempre più critico con Mosca. Tanti servizi segreti, all’opera, per impedire che Moro venisse salvato. Tranne uno, forse: il Mossad. Secondo Carpeoro, l’intelligence di Israele si muove in due modi: agisce a pagamento, su commissione, o per tutelare interessi vitali del sionismo. Nulla, in teoria, con cui avesse direttamente a che fare Moro, sequestrato agevolmente dalle Br, grazie anche a evidenti coperture. Non è strano, dice Carpeoro, che oggi gli ex brigatisti siano liberi: «Se i servizi segreti li hanno coperti all’epoca, è logico che li devono tutelare». Fa eccezione Renato Curcio, il sociologo fondatore delle Br, finito in carcere (sepolto vivo da svariati ergastoli) prima che cominciasse la sanguinosa mattanza degli anni di piombo. «Non si è mai lamentato, non si è mai dipinto come vittima: aveva dichiarato guerra allo Stato e ne he pagato in modo durissimo le conseguenze, restando sempre in silenzio». Un giorno, sostiene Carpeoro, la storia dovrà rivalutare «il profilo etico e intellettuale di Curcio», uomo totalmente estraneo al caso Moro.A chi serve “santificare” Moro, in quanto vittima della barbarie terrorista? Potrebbe suonare stonato, come le dichiarazioni dei tanti ex-brigatisti felicemente a piede libero, in passerella sulle televisioni nei servizi speciali andati in onda nel quarantennale della tragedia. Certo non era “uno come tutti gli altri”, il presidente della Dc ferocemente assassinato nel 1978 per mano delle Brigate Rosse. Aveva una visione: voleva promuovere l’Italia come attore geopolitico mediterraneo, a dispetto dell’egemonia anglo-francese, e coinvolgere la sinistra – elettoralmente fortissima – nella gestione del paese, con le “convergenze parallele” pensate per il Pci di Berlinguer, partito che allora preoccupava sia Mosca che Washington. Ma sarebbe fare un torto alla verità, avverte Gianfranco Carpeoro, dimenticare l’identità istituzionale di Moro: un politico democristiano, uno dei leader di un’Italia in cui, all’epoca, ogni partito (in mancanza di leggi adeguate) era “costretto” a finanziarsi in modo completamente illegale, dando luogo alla grande ipocrisia di cui poi fu vittima soprattutto Craxi, travolto da Tangentopoli. Ipocrisia sottile, alla quale non erano certo estranei gli stessi “cattolici”: «Non ci faremo processare nelle piazze», fu l’intimazione di Moro quando il suo factotum Sereno Freato finì nel mirino della magistratura per una storia di fondi neri (petroliferi), secondo l’ipotesi di accusa finiti in conti svizzeri.
-
Craig Roberts: russi svegliatevi, l’Occidente vi vuole morti
Non è facile per i russi comprendere quello che pensa il loro nemico occidentale e ancora più difficile comprendere che il suo nemico vuole la loro distruzione. Quello che è successo con la Russia è veramente molto strano: è accaduto che il Regno Unito, un paese che non ha un peso militare importante, e che potrebbe essere completamente distrutto dalla Russia (in pochi minuti, e per sempre) si sia inventato delle false accuse contro il governo russo, che abbia reso pubbliche queste accuse – senza fornire prove – che abbia portato queste accuse senza prove alle Nazioni Unite, che abbia lanciato un ultimatum alla Russia, che abbia cacciato i diplomatici russi e che abbia confiscato beni russi sulla base di semplici asserzioni, rifiutandosi nel contempo di collaborare con la Russia nel trovare prove concrete, come prevede la legge, per avviare una indagine. I russi (sia il governo che i media, ma anche quella gioventù a cui è stato lavato il cervello dalla propaganda americana e dalle Ong finanziate da Washington, che sono autorizzate a lavorare contro il governo russo in Russia) sembrano pensare che tutte le accuse e le minacce lanciate contro la Russia siano una svista, uno sbaglio che sarà subito chiarito appena salteranno fuori le prove o interverrà la legge. Apparentemente, dopo tutti questi anni i russi continuano a non capire che Washington e i suoi vassalli non hanno nessun interesse per i fatti o per la legge.All’Onu l’ambasciatore russo, in risposta alle accuse evidentemente gratuite del primo ministro britannico, secondo cui il governo russo ha usato un agente di gas-nervino dell’esercito per tentare di uccidere due persone sedute su una panchina inglese, è ricorso a tutti i possibili mezzi legali, inclusa l’offerta della Russia di collaborare nell’esame delle prove, per dimostrare che l’accusa del Regno Unito è stata mossa in violazione della legge e non è supportata da nessuna prova. Perché i russi pensano ancora che il governo inglese si preoccupi delle leggi o delle prove? L’Occidente ha fatto il lavaggio del cervello ai russi? Il governo inglese di Tony Blair collaborò con George W. Bush per far girare la menzogna secondo cui Saddam Hussein in Iraq aveva delle “armi di distruzione di massa”, e questa bugia è servita per invadere e distruggere l’Iraq e lasciare il paese, dopo 15 anni, in un caos assoluto. Il governo inglese ha confermato anche le menzogne su Gheddafi in Libia e ha contribuito al rovesciamento del governo libico. Il governo inglese ha confermato la menzogna secondo cui l’Iran aveva un programma di armi nucleari anche se non c’era nessuna prova, ma agli inglesi non interessavano le prove. Si stava seguendo un’agenda di lavori che doveva andare avanti indipendente dalle prove.Malgrado il Parlamento inglese abbia votato contro la partecipazione alla prevista invasione della Siria voluta da Obama, l’attuale governo sostiene ancora la menzogna secondo cui Assad sta usando armi chimiche “contro il suo stesso popolo”. Dopo tutto ciò si potrebbe anche pensare che i russi – governo, media e popolazione – dovrebbero aver compreso che l’Occidente è capace di raccontare le bugie e che lo scopo delle bugie ora è di demonizzare la Russia e prepararsi ad un attacco militare contro la Russia. Ma per qualche ragione i russi non riescono a comprendere il messaggio. I russi pensano che si tratti di una specie di errore che si potrà chiarire guardando ai fatti reali, con un regolare processo o con la diplomazia: «Per favore, ascoltateci, possiamo chiarire qualsiasi malinteso!». Come se questo appello servisse all’Occidente. Washington vuole “i malintesi”. E’ per questo che Washington li crea. L’incapacità dei russi di comprendere l’Occidente, quell’Occidente verso il quale la Russia cerca stupidamente di correre, è il motivo per cui la Terza Guerra Mondiale si sta avvicinando. E se invece di accettare il processo e le leggi su cui poggiano le pubbliche accuse fatte alla Russia dal primo ministro inglese senza presentare nessuna prova, l’ambasciatore russo all’Onu avesse semplicemente detto: «Se domani il Regno Unito esisterà ancora, dovrà solo ringraziare la tolleranza del governo russo»?Fidandosi della regola per cui a nessun paese occidentale gliene frega niente di niente, l’ambasciatore russo all’Onu ha permesso al pupazzo francese di Washington e agli altri Stati-fantoccio di Washington di appoggiare le accuse degli inglesi contro la Russia nonostante l’assenza di prove. Forse i russi non ci credevano, perché nessun governo europeo aveva ancora chiesto qualche prova sulla responsabilità della Russia; perché mancava, insomma, un’accusa formale. Nel mondo occidentale “eccezionale e indispensabile” governato da Washington, basta un’accusa, da sola, come prova che dimostra le bugie dette dai russi. Quando il leader del partito laburista britannico Jeremy Corbyn ha chiesto al Pm se avesse effettivamente delle prove che la Russia aveva tentato di uccidere l’ex agente doppiogiochista britannico, Corbyn è stato subito azzittito non solo dai corrotti conservatori ma anche da quelli del partito laburista di cui è il capo. Di quante altre prove avrà ancora bisogno la Russia per capire che i fatti, per l’Occidente, non hanno nessuna importanza?Si sveglierà questa Russia? O il suo stolto desiderio di entrare a far parte dell’Occidente farà sì che i russi resteranno impreparati allo scoppio nucleare di Washington, che per arrivare? E se il governo russo avesse detto a Washington: «Se voi o qualcuno dei vostri terroristi mercenari doveste attaccare le forze siriane, noi elimineremo la vostra presenza e anche quella di Israele dal Medio Oriente»? Cosa che la Russia può fare con un semplice schiocco di dita. Cosa farebbero gli inglesi e cosa farebbe Washington, oltre a farsela sotto? Sicuramente, coglierebbero il messaggio e deciderebbero che la pace è un’idea migliore. Il governo russo, semplicemente, non vuol capire che Washington vede tutti gli appelli dei russi a diplomazia, a rispetto della legge, a fatti e a prove, come segni di estrema debolezza e di mancanza di fiducia. Washington e tutti i suoi paesi-fantoccio non hanno bisogno di fatti. Seguono la loro agenda. I russi, se ancora vogliono guardare ai fatti, fanno solo vedere di essere deboli. E questa manifestazione della debolezza russa incoraggia l’aggressività di Washington. Ma forse il desiderio della Russia di entrare a far parte dell’Occidente è più forte del desiderio di sopravvivere come nazione.(Paul Craig Roberts, “Si sveglierà, la Russia?”, da “Information Clearing House” del 15 marzo 2018, post tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”).Non è facile per i russi comprendere quello che pensa il loro nemico occidentale e ancora più difficile comprendere che il suo nemico vuole la loro distruzione. Quello che è successo con la Russia è veramente molto strano: è accaduto che il Regno Unito, un paese che non ha un peso militare importante, e che potrebbe essere completamente distrutto dalla Russia (in pochi minuti, e per sempre) si sia inventato delle false accuse contro il governo russo, che abbia reso pubbliche queste accuse – senza fornire prove – che abbia portato queste accuse senza prove alle Nazioni Unite, che abbia lanciato un ultimatum alla Russia, che abbia cacciato i diplomatici russi e che abbia confiscato beni russi sulla base di semplici asserzioni, rifiutandosi nel contempo di collaborare con la Russia nel trovare prove concrete, come prevede la legge, per avviare una indagine. I russi (sia il governo che i media, ma anche quella gioventù a cui è stato lavato il cervello dalla propaganda americana e dalle Ong finanziate da Washington, che sono autorizzate a lavorare contro il governo russo in Russia) sembrano pensare che tutte le accuse e le minacce lanciate contro la Russia siano una svista, uno sbaglio che sarà subito chiarito appena salteranno fuori le prove o interverrà la legge. Apparentemente, dopo tutti questi anni i russi continuano a non capire che Washington e i suoi vassalli non hanno nessun interesse per i fatti o per la legge.
-
Fasanella: sabotare l’Italia, tutti complici dei killer di Moro
Poi qualcuno si domanda com’è che siamo caduti così in basso – cioè con un tizio come Romano Prodi, il rottamatore dell’Iri, trasformato in paladino del popolo (s’intende: il popolo oppresso dall’Uomo Nero, quello delle tevisioni, delle olgettine e della P2). Al Cavaliere di Arcore, dagli anni ‘90 il copione oppose Prodi, advisor europeo della banca d’affari più famigerata del pianeta, la Goldman Sachs, nonché presidente dell’istituzione più medievale, l’infame Commissione Europea. Lo stesso Prodi che, quando ancora si stava posizionando nella galassia Dc, se ne uscì con una storia pittoresca su Aldo Moro: il nome “Gradoli”, presentato come possibile indizio sulla località della prigionia dello statista sequestrato dalle Brigate Rosse, disse che gli era stato rivelato nientemeno che nel corso di una seduta spiritica. Ancora oggi ci si domanda per quale servizio segreto lavorasse, quel famoso spiritello chiacchierone, mentre c’è chi – come Giovanni Fasanella, autore del bestseller “Il golpe inglese”, scritto con Mario José Cereghino – nel quarantennale della tragica scomparsa di Moro ha le idee più chiare. Dal suo lavoro emerge uno scenario ben poco “spiritico” e molto geopolitico: a eliminare il presidente della Dc sarebbero stati gli stessi poteri che ce l’avevano a morte con l’Italia, al punto da far assassinare il patron dell’Eni, Enrico Mattei, esploso in volo nel 1962 insieme al suo aereo dopo aver terrorizzato le Sette Sorelle offrendo condizioni eque ai paesi petrolieri.Tutta da riscrivere, la verità su Moro: ora lo sa anche la magistratura, che ha appena ricevuto la dirompente relazione della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. Nel suo nuovo lavoro, “Il puzzle Moro”, edito da Chiarelettere, Fasanella riassume le sconvolgenti conclusioni della commissione: tutti i grandi poteri concorsero al rapimento, affidato alla manovalanza Br. Ma l’autore aggiunge un elemento inedito, altrettanto pesante, tratto dalle carte desecretate dell’archivio di Stato britannico: rivela l’iniziativa di Londra per “sovragestire” l’Italia, con il concorso dei maggiori servizi segreti, a cui Moro (vivo) faceva paura. Fasanella ne ha parlato in due recenti interviste, con Claudio Messoria su “ByoBlu” e poi con Stefania Nicoletti a “Border Nights”, offrendo una sintesi decisamente vertiginosa. Punto primo: nel 1976, due anni prima del sequestro, la Gran Bretagna propone di organizzare un classico golpe militare, in Italia, per bloccare l’azione politica di Moro, considerato una minaccia mortale per gli interessi post-coloniali inglesi, in Medio Oriente e in Africa, dove l’Italia – come già all’epoca di Mattei – sta ridiventando un interlocutore privilegiato per i paesi poveri, in via di sviluppo, impegnati nella grande impresa della decolonizzazione. Seconda notizia: la Francia appoggia con entusiasmo l’idea di schierare carri armati nelle strade italiane. Ma a inglesi e francesi – terza notizia – si oppongono tedeschi e americani.La Germania, ancora divisa in due e impaurita dall’Urss, teme che possa vacillare lo scudo Nato di fronte alla prevedibile reazione della sinistra italiana, allora fortissima, di fronte a un colpo di Stato militare in stile greco. Quanto agli Usa, la loro intelligence ha ancora le ossa rotte dopo la scandalo Watergate che ha appena travolto Nixon: meglio non impelagarsi in qualcosa di orrendo (e imbarazzante) in Italia. Al che, racconta Fasanella, Londra fa scattare il Piano-B: un progetto “eversivo” per sabotare l’Italia, dall’interno. Il progetto è ancora protetto dal segreto, ammette il giornalista, ma il titolo del dossier compare negli archivi: è la prova che la Gran Bretagna ha programmato precise azioni per destabilizzare il nostro paese. «Non a caso, da allora, esplose in modo inaudito la violenza politica tra gli opposti estremismi». Fino alla crescita rapida ed esponenziale delle Brigate Rosse, che culmina con il caso Moro: un delitto perfetto. Soddisfatti gli inglesi, che insieme ai francesi hanno coronato il loro disegno neo-coloniale (amputare la politica estera italiana, filo-araba e filo-africana), e soddisfatti anche gli americani e i sovietici: i primi temevano che l’apertura di Moro al Pci trasformasse l’Italia in una nuova Jugoslavia, mentre i secondi vedevano in Berlinguer un pericoloso “eretico”, capace di allontanare dall’ortodossia di Mosca gli altri partiti comunisti europei.Questo spiegherebbe la sostanziale collaborazione di tutte le strutture di intelligence, amiche e nemiche: le une e le altre, interessate a incassare la fine di Moro come risultato politico. Obiettivo principale, in Europa: mortificare le aspirazioni dell’Italia, congelandone la politica. Non andò esattamente così: con Craxi, il paese divenne un protagonista del G7, e l’Italia rialzò la testa anche in politica estera (inaudita la crisi di Sigonella). Quindi, dopo l’inevitabile liquidazione del leader socialista ribelle, arrivò la normalizzazione definitiva: il rigore Ue, la camincia di forza dell’Eurozona, il vecchio Prodi rimesso in campo per raccontare agli italiani le meraviglie dell’euro. Caduto l’ultimo alibi (Berluconi, l’Uomo Nero da odiare) ora affiorano verità scomode, incresciose, che risalgono agli anni ‘70. La trama è sempre la stessa: l’ha raccontata anche Gioele Magaldi, nel bestseller “Massoni”. Tema: impedire, ad ogni costo, che l’Italia diventi importante. Tutte le volte che ci ha provato – con Mattei e Moro, persino con Craxi – ha mandato nel panico i “sovragestori”, i veri signori dell’élite finanziaria (ieri industriale) che detesta la democrazia. Gli unici italiani tollerati, nei salotti che contano, sono quelli prontissimi a obbedire: Prodi e Ciampi, Draghi e Napolitano. Ora – dopo 40 anni – si scoperchia la vera tomba di Moro. Compaiono i veri killer, e si scopre che i mandanti sono ancora in circolazione. Stanno lassù, come sempre, godendosi lo spettacolo del nostro “populismo” inconcludente: una protesta elettorale che non fa paura a nessuno.(Il libro: Giovanni Fasanella, “Il puzzle Moro”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 17,60).Poi qualcuno si domanda com’è che siamo caduti così in basso – cioè con un tizio come Romano Prodi, il rottamatore dell’Iri, trasformato in paladino del popolo (s’intende: il popolo oppresso dall’Uomo Nero, quello delle tevisioni, delle olgettine e della P2). Al Cavaliere di Arcore, dagli anni ‘90 il copione oppose Prodi, advisor europeo della banca d’affari più famigerata del pianeta, la Goldman Sachs, nonché presidente dell’istituzione più medievale, l’infame Commissione Europea. Lo stesso Prodi che, quando ancora si stava posizionando nella galassia Dc, se ne uscì con una storia pittoresca su Aldo Moro: il nome “Gradoli”, presentato come possibile indizio sulla località della prigionia dello statista sequestrato dalle Brigate Rosse, disse che gli era stato rivelato nientemeno che nel corso di una seduta spiritica. Ancora oggi ci si domanda per quale servizio segreto lavorasse, quel famoso spiritello chiacchierone, mentre c’è chi – come Giovanni Fasanella, autore del bestseller “Il golpe inglese”, scritto con Mario José Cereghino – nel quarantennale della tragica scomparsa di Moro ha le idee più chiare. Dal suo lavoro emerge uno scenario ben poco “spiritico” e molto geopolitico: a eliminare il presidente della Dc sarebbero stati gli stessi poteri che ce l’avevano a morte con l’Italia, al punto da far assassinare il patron dell’Eni, Enrico Mattei, esploso in volo nel 1962 insieme al suo aereo dopo aver terrorizzato le Sette Sorelle offrendo condizioni eque ai paesi petrolieri.
-
Limonov: Putin obbedisce a 30 famiglie. Skripal? False flag
«Ma quali russi! Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell’intelligence ai ragazzini delle scuole russe. Putin è molto intelligente, che interesse aveva a farlo fuori? Può crederci solo quella vecchia scopa di Theresa May, quest’inglese volgare che si crede Churchill, batte in arroganza Trump e dimentica cosa fecero i sovietici per aiutare i suoi padri». Così lo scrittore russo Eduard Limonov, intervistato da Francesco Battistini per il “Corriere della Sera”. «Questi avvelenamenti sono una commedia», dice. «Una guerra di parole». L’ex spia Sergej Skripal, avvelenato in Inghilterra col gas nervino? La Russia non c’entra: «Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro», sostiene Limonov, facendo eco all’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che sospetta del Mossad israeliano, in rotta con Mosca per l’impegno russo in Siria. Secondo Murray, il Cremlino non avrebbe mai potuto firmare il simile autogol, immediatamente colto come pretesto dal Regno Unito, che ha coinvolto Francia e Usa nella nuova guerra contro Putin a colpi di sanzioni. «Il mondo delle spie l’ho conosciuto in prigione», racconta Limonov al “Corriere”. «In cortile c’era un ufficio dell’Fsb, l’ex Kgb, e quando sono uscito e mi seguivano 12 agenti, li conoscevo tutti. Li ho ancora dietro, anche se vado al ristorante. Ho 75 anni: perché non mi lasciano in pace?».Il quotidiano milanese presenta Limonov, protagonista della premiatissima biografia dedicatagli da Emmanuel Carrère, come «scrittore e politico, bolscevico e nazionalista, playboy e gay, combattente nei Balcani e punk newyorkese». Rifiuta categoricamente l’idea che i servizi segreti di Mosca abbiano avuto un ruolo nel caso Srkipal. Di Putin, che detesta, dice: «Nella sua famiglia vivono a lungo, i suoi genitori sono arrivati a 90 anni. Ma voi europei siete ossessionati, pensate che Putin sia il motore di tutto». Della Russia, offre la seguente rappresentazione: «Il paese è governato da 30 famiglie, l’1% che possiede il 74% delle ricchezze. Peggio che in India». Il nuovo Zar «è solo il loro brillante portavoce, una delle torri del Cremlino. Non gestisce la baracca. Ha padroni che si chiamano Mikhail Fridman, fondatore di Alfa Group», colosso finanziario. E gli oppositori? «Tutti finti. Navalny è uno che stava nel board dell’Aeroflot, raccomandato dal banchiere Lebedev. L’ambiziosa Ksenia Sobchak è parente di Putin: le hanno dato la parte della liberale, ha voluto perdere in partenza dicendo subito che la Crimea va restituita all’Ucraina. E poi c’ è quel furbastro Grudinin che si fa passare per comunista: un idiota, predica il socialismo e possiede una società per azioni, fa il padrone capitalista».In ogni caso, «il caso Skripal è una messa in scena», insiste Limonov, in un’intervista all’Ansa ripresa dall’“Huffington Post”. «La Russia non avrebbe avuto nessun tornaconto ad ammazzarlo, anzi: se fosse stato davvero pericoloso, non lo avrebbero liberato per poi tentare di ammazzarlo. Col nervino si muore in pochi minuti, mentre lui invece è ancora vivo». La Russia, argomenta Limonov, era stata “depennata” nel 1991 dalla lista degli avversarsi, causando frustrazione: la caccia al “nemico”, benché inventato, è la spiegazione dell’isteria anti-russa che si sta scatenando. «Basta vedere la caccia alle streghe in corso oggi negli Usa, e il modo in cui la Russia viene vista in Occidente, in modo ripugnante. È davvero senza precedenti. Anche perché un tempo esisteva la diplomazia, oggi non più». Secondo Limonov, l’Occidente ha un’idea semplificata del sistema politico russo e, soprattutto, sopravvaluta il potere di Vladimir Putin. «Le decisioni – dice – non le prende lui da solo, ma in modo collettivo. Il paese – ribadisce – è governato da circa 30 famiglie. E Putin, più che uno zar, è il portavoce di questo gruppo». Il sistema politico russo, insiste Limonov, «non si esaurisce con Putin».Secondo Igor Sibaldi, filologo e scrittore di madre russa, non si riflette mai con attenzione su un dettaglio: «Nel Kgb, Putin non era un generale, ma solo un colonnello». Come dire: un leader, certo, ma obbligato a rendere conto del suo operato ad altri soggetti. Uomini che restano nell’ombra, all’interno dell’impianto di potere creato da Yurij Andropov addirittura alla fine degli anni ‘60, pensato già allora per tenere in piedi la Russia dopo l’eventuale collasso dell’Urss, ritenuto inevitabile prima ancora dell’era Breznev. Se oggi i russi non c’entrano con il caso Skripal, sono comunque nella bufera – non a caso, a pochi giorni dall’annuncio del 1° marzo in cui Putin ha presentato le nuovissime super-armi di Mosca, destinate a ristabilire la parità strategica con gli Usa. Uno schiaffo ai “signori della gerra” – che poi, secondo Gianfranco Carpeoro (autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”) sono anche i veri registi occulti delle stragi europee firmate Isis. «Il neo-terrorismo – afferma Carpeoro – è nato da una spaccatura all’interno della supermassoneria più reazionaria: a un certo punto, qualcuno ha cessato di appoggiare quel tipo di strategia della tensione internazionale». Carpeoro, su “Border Nights”, ha spesso dichiarato di temere un super-attentato, in Europa, stile 11 Settembre – che però non c’è stato. «Vero, e questo significa che si sono rimessi d’accordo su come agire, a livello di “sovragestione”». Basta stragi “false flag” in Europa. Meglio la guerra a Putin?«Ma quali russi! Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell’intelligence ai ragazzini delle scuole russe. Putin è molto intelligente, che interesse aveva a farlo fuori? Può crederci solo quella vecchia scopa di Theresa May, quest’inglese volgare che si crede Churchill, batte in arroganza Trump e dimentica cosa fecero i sovietici per aiutare i suoi padri». Così lo scrittore russo Eduard Limonov, intervistato da Francesco Battistini per il “Corriere della Sera”. «Questi avvelenamenti sono una commedia», dice. «Una guerra di parole». L’ex spia Sergej Skripal, avvelenato in Inghilterra col gas nervino? La Russia non c’entra: «Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro», sostiene Limonov, facendo eco all’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che sospetta del Mossad israeliano, in rotta con Mosca per l’impegno russo in Siria. Secondo Murray, il Cremlino non avrebbe mai potuto firmare il simile autogol, immediatamente colto come pretesto dal Regno Unito, che ha coinvolto Francia e Usa nella nuova guerra contro Putin a colpi di sanzioni. «Il mondo delle spie l’ho conosciuto in prigione», racconta Limonov al “Corriere”. «In cortile c’era un ufficio dell’Fsb, l’ex Kgb, e quando sono uscito e mi seguivano 12 agenti, li conoscevo tutti. Li ho ancora dietro, anche se vado al ristorante. Ho 75 anni: perché non mi lasciano in pace?».
-
Murray: a colpire Skripal è stato il Mossad, non la Russia
Porta la firma del Mossad israeliano il tentato omicidio in Inghilterra dell’ex agente russo Sergej Skripal, che ha innescato la guerra tra Londra e Mosca con espulsioni simmetriche di diplomatici. Lo sostiene Craig Murray, già ambasciatore britannico in paesi come l’Uzbekistan. Murray non è un fan di Putin. Al contrario: ritiene che siano stati i russi ad assassinare col polonio Alexandr Litvinenko nel 2006, in più imputa alla Russia l’occupazione “illegale” della Crimea e dell’Ossezia del Sud (Georgia), e arriva ad accusare il Cremlino di aver organizzato auto-attentati allo scopo di avere il pretesto del «brutale assalto alla Cecenia». E’ infatti emerso che fu proprio Boris Eltsin a promuovere il “separatismo ceceno”, per poi procedere con l’intervento militare (cui mise fine proprio Putin). Ma stavolta i russi non c’entrano, con l’attentato che ha ridotto in fin di vita l’ex 007 Skripal e sua figlia Yulia nella città inglese di Salisbury. E’ più che sospetta la determinazione con la quale il governo britannico ha subito puntato il dito contro Mosca: la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson additano la Russia come unico mandante. La loro tesi: l’ex agente del Gru (l’intelligence militare di Mosca, poi passato agli inglesi) è stato avvelenato con gas nervino. Ma è l’agenzia internazionale per il disarmo chimico a chiarire che la Russia non dispone più di gas letali. E poi, perché rischiare un simile autogoal d’immagine?La versione di Londra, scrive “L’Antidiplomatico”, non convince affatto l’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che invita ad approfondire una strada diversa: quella che conduce direttamente a Israele e al Mossad. Lo riporta il giornalista investigativo Nafeez Ahmed su “Insurge”. Semmai è Israele a possedere l’agente nervino, spiega Murray, e il suo servizio segreto, il Mossad, «è estremamente abile negli omicidi in territorio straniero». Theresa May ha rivendicato la propensione russa all’assassinio all’estero far credere che ci sia Mosca dietro all’attentato? «Se è per questo, il Mossad ha una propensione ancora maggiore all’assassinio all’estero», afferma Murray. «E mentre mi sto sforzando per trovare un motivo valido per cui la Russia avrebbe dovuto rischiare di danneggiare la sua reputazione internazionale in modo così penoso – aggiunge – Israele ha una chiara motivazione per danneggiare la reputazione russa in modo così profondo». E spiega: «L’azione russa in Siria ha minato la posizione israeliana in Siria e Libano in modo fondamentale, e Israele ha tutti i motivi per voler danneggiare la posizione internazionale della Russia con un attacco che mira a gettare responsabilità su Mosca». Murray inoltre evidenzia come sia improbabile che i russi «abbiano atteso otto anni per colpire», dopo la “diserzione” del loro vecchio agente. Allo stesso modo, «non ha alcun senso assassinare improvvisamente una spia liberata attraverso uno scambio di prigionieri, e che per ben otto anni ha vissuto a Londra alla luce del sole».Nel caso Skripal, scrive “L’Antidiplomatico”, a colpire è la determinazione, la pervicacia, con cui le autorità britanniche si affannano a incolpare la Russia, «senza peraltro fornire alcuna prova a sostegno delle tesi accusatorie», peraltro seccamente smentite persino dall’Opcw, l’organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche. «L’agenzia, con sede a L’Aia, ha infatti certificato che la Russia ha distrutto il proprio arsenale di armi chimiche, agenti nervini compresi». L’Opcw non ha quindi trovato alcuna evidenza indicante che la Russia mantenga una capacità di “avvelenamento” da gas nervino, «mentre non si può dire lo stesso per Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele». A far da detonatore, dopo il successo russo in Siria, potrebbe anche esser stato il clamoroso annuncio del 1° marzo, nel quale Putin – presentando i nuovi missili atomici iper-sonici, come nuova frontiera della deterrenza (armi che annullerebbero l’arsenale nucleare Usa) – ha di fatto mutato, in modo clamoroso, l’aspetto militare dell’equilibrio geopolitico. Al punto che Donald Trump è giunto alla rimozione di Rex Tillerson. Nuovo segretario di Stato, il “falco” antirusso Mike Pompeo, che lascia la guida della Cia a Gina Haspel, accusata di aver introdotto l’uso sistematico della tortura (come il “waterboardig”) per i sospetti terroristi, inclusi quelli detenuti a Guantanamo in flagrante violazione dei diritti umani.Porta la firma del Mossad israeliano il tentato omicidio in Inghilterra dell’ex agente russo Sergej Skripal, che ha innescato la guerra tra Londra e Mosca con espulsioni simmetriche di diplomatici. Lo sostiene Craig Murray, già ambasciatore britannico in paesi come l’Uzbekistan. Murray non è un fan di Putin. Al contrario: ritiene che siano stati i russi ad assassinare col polonio Alexandr Litvinenko nel 2006, in più imputa alla Russia l’occupazione “illegale” della Crimea e dell’Ossezia del Sud (Georgia), e arriva ad accusare il Cremlino di aver organizzato auto-attentati allo scopo di avere il pretesto del «brutale assalto alla Cecenia». E’ infatti emerso che fu proprio Boris Eltsin a promuovere il “separatismo ceceno”, per poi procedere con l’intervento militare (cui mise fine proprio Putin). Ma stavolta i russi non c’entrano, con l’attentato che ha ridotto in fin di vita l’ex 007 Skripal e sua figlia Yulia nella città inglese di Salisbury. E’ più che sospetta la determinazione con la quale il governo britannico ha subito puntato il dito contro Mosca: la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson additano la Russia come unico mandante. La loro tesi: l’ex agente del Gru (l’intelligence militare di Mosca, poi passato agli inglesi) è stato avvelenato con gas nervino. Ma è l’agenzia internazionale per il disarmo chimico a chiarire che la Russia non dispone più di gas letali. E poi, perché rischiare un simile autogoal d’immagine?
-
Margari: liberare la politica, “comprata” dalle grandi lobby
«Non votare significa delegare a quei pochi, sempre meno, che decidono per gli altri. I quali, a loro volta, delegano il loro potere alle imprese. Stiamo trasformando la società in qualcosa in cui le imprese multinazionali ormai hanno capitali enormi, superiori ai Pil degli Stati: in alcuni casi possono comprarsi tutto il paese, incluso il presidente, e lo fanno». Paolo Margari, candidato 5 Stelle alla Camera nella sezione Europa, lancia l’allarme: «Tra gli italiani all’estero, l’astensionismo è alle stelle: pari al 70%. Uno su due non sa neppure che l’attuale premier si chiama Gentiloni». Letteralmente, 7 italiani su 10, iscritti all’Aire, non esercitano il proprio diritto di voto. «Molti non sanno per chi votare e dicono: non voto nessuno, siete tutti uguali». Protesta, Magari: «Non è vero, non siamo tutti uguali». Di sicuro non lo è il candidato grillino, tipico “cervello in fuga”: laureato in geografia economica, specializzato in politiche che coinvolgano i cittadini nello sviluppo locale. Diploma in economia e commercio, master a Sheffield in pianificazione territoriale. Parla quattro lingue, ha fondato un’impresa in Estonia ed è un super-consulente nel campo del marketing digitale. «Ma ho fatto anche il portiere d’albergo e il fotografo», dice. «Vivo a Buxelles, ma prima stavo nel Regno Unito. All’estero sono stato studente e lavoratore. Ho fatto ricerca accademica, e ho fatto pure il dipendente nel settore marketing per 7 anni». Adesso si candida. Missione: liberare la politica dal dominio improprio dell’economia.Grillino della prima ora: «Sono nei meet-up dal 2006, quando il Movimento 5 Stelle non era ancora nato». Prima, aveva tifato per i referendum radicali. Dopo il dibattito elettorale promosso a Londra da Marco Moiso con gli altri candidati, si è iscritto al Movimento Roosevelt. «Mi sono subito sentito a casa: questo è un posto dove si parla di politica, uno spazio per sviluppare buona politica. E credo che il Movimento 5 Stelle, in quello che dice e che fa, abbracci in pieno i principi del Movimento Roosevelt: democrazia progressiva, fondata sulla partecipazione. Diritti umani: rimettere la politica al centro della scena, e l’essere umano al centro della politica». Fondamentale, in un mondo in cui i partiti procedono solo per slogan, cambiando il proprio simbolo ogni cinque anni: «Un tempo avevano sezioni, idee e ideologie. Oggi hanno solo leader di formato televisivo. Si limitano a dire: aboliamo questo, tassiamo quest’altro. I cittadini non li capiscono, e si allontanano dalla politica», sintetizza Magari, in video-chat con Moiso. «Non sappiamo più chi siamo e dove andiamo, politicamente parlando. Per questo è decisivo aprire spazi per discutere e far partecipare i cittadini: devono contribuire direttamente al proprio futuro. Con il voto, certo, e anche con le forme di democrazia diretta: referendum, leggi di iniziativa popolare».L’economia, fatta di grandi gruppi di interesse privati, oggi pesa più dei governi stessi, che invece «dovrebbero operare nell’interesse della collettività per cercare sì di creare ambienti competitivi in cui i privati possono sviluppare il proprio ingegno e fare dei profitti, cercando però anche di non lasciare indietro le classi disagiate, quelle che non hanno le stesse opportunità di chi è più fortunato», sottolinea Moiso, coordinatore generale del movimento fondato nel 2015 da Gioele Magaldi. La politica ha rinunciato a riprendere in mano gli strumenti principali per incidere sulla società, insiste Moiso: «Nel momento in cui si delegano le politiche monetarie e le politiche economiche a poteri terzi, privati, e poi si accettano le regole che vengono imposte sulla politica, in realtà la politica ha le mani legate, non può più prendere in mano le sorti né di se stessa, né della collettività che deve rappresentare». Per il candidato Paolo Margari, molta politica è ormai «terreno di caccia», neo-colonialismo da parte delle multinazionali: «Col loro finanziamento impongono la loro direzione politica: “Vi costruiamo una strada, ma in cambio otteniamo questa legge”. Accade anche al politico che rastrella fondi per la campagna elettorale e poi deve servire chi l’ha finanziato».E questo meccanismo, aggiunge Margari, trasforma il politico: «Da rappresentante del popolo sovrano (che lo elegge) a rappresentante di chi lo finanzia. Questa è la democrazia americana, che ormai è diventata uguale anche in Europa: abbiamo politici che ottengono supporto e poi devono risponderne». E il popolo? «Assiste al triste teatrino elettorale televisivo, dove per qualche settimana volano accuse incrociate, all’ombra del sostegno ricevuto da questo o quel gruppo: è un mercato di scambio di favori». Capitolo spinoso, l’Unione Europea: «Nel momento in cui un paese delega sovranità a enti sovranazionali come l’Ue, senza legittimazione diretta da parte del popolo, questo allontana il cittadino dalle istituzioni che regolano questo spazio politico comune, perché poi l’istituzione impone ai paesi di seguire le direttive, e i cittadini devono subire qualcosa per cui non hanno mai votato». Aggiunge, Margari: «I cittadini non hanno neppure idea di come funzioni, l’Unione Europea. E allontanare i cittadini dall’Ue è un meccanismo davvero antieuropeista». Per questo, dice, il Movimento 5 Stelle è per la revisione dei trattati: «L’Europa sta andando a sbattere contro un muro, nella disaffezione generale». Avallare lo status quo? «Sarebbe una scelta suicida, quindi dobbiamo cambiare. Cioè: non amputare, ma curare. Non possiamo fare a meno della democrazia, dobbiamo guarirla».«Non votare significa delegare a quei pochi, sempre meno, che decidono per gli altri. I quali, a loro volta, delegano il loro potere alle imprese. Stiamo trasformando la società in qualcosa in cui le imprese multinazionali ormai hanno capitali enormi, superiori ai Pil degli Stati: in alcuni casi possono comprarsi tutto il paese, incluso il presidente, e lo fanno». Paolo Margari, candidato 5 Stelle alla Camera nella sezione Europa, lancia l’allarme: «Tra gli italiani all’estero, l’astensionismo è alle stelle: pari al 70%. Uno su due non sa neppure che l’attuale premier si chiama Gentiloni». Letteralmente, 7 italiani su 10, iscritti all’Aire, non esercitano il proprio diritto di voto. «Molti non sanno per chi votare e dicono: non voto nessuno, siete tutti uguali». Protesta, Magari: «Non è vero, non siamo tutti uguali». Di sicuro non lo è il candidato grillino, tipico “cervello in fuga”: laureato in geografia economica, specializzato in politiche che coinvolgano i cittadini nello sviluppo locale. Diploma in economia e commercio, master a Sheffield in pianificazione territoriale. Parla quattro lingue, ha fondato un’impresa in Estonia ed è un super-consulente nel campo del marketing digitale. «Ma ho fatto anche il portiere d’albergo e il fotografo», dice. «Vivo a Buxelles, ma prima stavo nel Regno Unito. All’estero sono stato studente e lavoratore. Ho fatto ricerca accademica, e ho fatto pure il dipendente nel settore marketing per 7 anni». Adesso si candida. Missione: liberare la politica dal dominio improprio dell’economia.
-
Dal Lago: voto inutile, partiti immaginari e crisi cronica Ue
I 5 Stelle? Un gruppo di “puri” destinato a fallire. Renzi? La sintesi perfetta di Berlusconi e Grillo. Per Alessandro Dal Lago, filosofo e sociologo, i partiti hanno orientamenti “immaginari”, Berlusconi e Renzi sono perfettamente intercambiabili, i grillini non sono il partito della protesta ma del rifiuto della società e del ritiro nel privato. Intellettuale di sinistra, autore di saggi come “Populismo digitale”, Dal Lago vede nel paese un aumento radicale della diseguaglianza: «Chi resta indietro non avrà speranze». Il voto del 4 marzo?«Ininfluente, perché la riforma elettorale ha introdotto un proporzionale corretto che non permette a nessuna forza di avere il vantaggio che serve per governare». Ci governa l’Unione Europea, «sostenuta da dinamiche economiche di tipo ordoliberista i cui centri decisionali hanno imbrigliato il continente in una serie di vincoli determinati dai trattati». Detto in modo brutale: «Anche se l’Italia avesse rappresentanti massicciamente contrari all’Unione, non potrebbe fare nulla: l’esempio più lampante viene proprio dal Regno Unito, che non sa come uscirne». Pessimismo cosmico: «L’evoluzione di queste dinamiche economico-politiche potrebbe durare anche una trentina d’anni. E potrebbe alimentarsi di una o più crisi di cui non conosciamo la portata».Intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”, Dal Lago vede un’Italia politica che guida a fari spenti nella notte. «In campo ci sono tre grandi soggetti, di cui due in crisi di legittimazione, Pd ed M5S, e il terzo, il centrodestra, già delegittimato 5-6 anni fa, rinato come un’araba fenice ma pronto a dividersi dopo la probabile vittoria». Partiti che «ritraggono orientamenti in larga parte immaginari». Ovvero: «A destra c’è una sorta di Democrazia Cristiana fuori tempo, ma senza essere un partito di massa: Forza Italia, da sempre virtuale, ha avuto in passato il 30 per cento dei voti, oggi è al 17. Si è alleata con un partito ex “catalano”, oggi di destra, e con un partitino di ex fascisti». Poi viene il Pd: «E’ il partito di un uomo solo al comando, che mira a una formazione piccola ma di cui controlla tutte le leve». Infine, il Movimento 5 Stelle: «Un ircocervo né di destra né di sinistra, che fa finta di essere democratico quando è gestito da una società di consulenza aziendale e che oltretutto si sta annacquando giorno dopo giorno».Orientamenti “immaginari”, appunto, «perché il centrosinistra non ha fatto più spesa pubblica e cacciato meno immigrati di quando avrebbe potuto fare il centrodestra al governo. Sono differenze più immaginarie e simboliche che non legate a interessi o politiche materiali». I sondaggisti dicono che l’astensione è intorno al 34% per cento. Un giovane su due potrebbe disertare le urne. Non è una novità: a Ostia (80.000 persone) è andato a votare solo il 33%. «Siamo in una fase di transizione», sostiene Alessandro Dal Lago. «I modelli politici tradizionali sono morti, quelli nuovi ancora non ci sono ma si affacciano nuove dimensioni: la politica non passa più per la televisione e i comizi ma per i social media». Proprio sui social si registra «un distacco crescente dalle azioni e dalle scelte condivise». Vale a dire: «I soggetti interagiscono con l’ambito pubblico rimanendo confinati in una sfera totalmente privata, quella del loro schermo. Fare politica si è ridotto ad assistere alle polemiche su Twitter e Facebook». La politica frana, ovunque: «Negli Stati Uniti c’è un presidente che si vanta di avere il bottone nucleare più grande di quello degli altri. In Francia non c’è più il partito che per quarant’anni si è alternato con la destra alla guida del paese. In tutta Europa crescono i partiti xenofobi. In Italia i giovani del Sud sono destinati a rimanere esclusi o ai margini dei processi produttivi».Si sta scivolando pericolosamente verso un aumento disastroso delle diseguaglianze: «C’è un distacco sempre più netto tra la società digitale post-industriale e quelli che restano indietro, e che non hanno speranze. Un 60enne che faceva l’operaio e perde il lavoro dove va? A lavorare in un call center? Da questo punto di vista il Jobs Act è stato fatto apposta per espellere le persone dal mercato del lavoro. Si dà loro qualche indennità e stop». Processi complicati: troppo, per partiti “immaginari”. «Il centrodestra italiano ha un senso solo nella società degli integrati, di quelli che non vogliono perdere il loro status. Il Pd è ancorato a un sistema di notabilato e di gestione degli interessi radicato in due-tre Regioni, senza le quali non esisterebbe. Il monopolio del voto meridionale da parte del centrodestra non c’è più». Saranno i 5 Stelle a fare il pieno al Sud, ma non sarà un voto di protesta bensì “di distacco”: «Segnala la nuova estraneità al mondo politico. Nelle regioni del Sud gli elettori vedono – a torto – il M5S come l’alternativa elettorale, legale, a una società che non amano, a un sistema di potere che rifiutano».I 5 Stelle? Un gruppo di “puri” destinato a fallire. Renzi? La sintesi perfetta di Berlusconi e Grillo. Per Alessandro Dal Lago, filosofo e sociologo, i partiti hanno orientamenti “immaginari”, Berlusconi e Renzi sono perfettamente intercambiabili, i grillini non sono il partito della protesta ma del rifiuto della società e del ritiro nel privato. Intellettuale di sinistra, autore di saggi come “Populismo digitale”, Dal Lago vede nel paese un aumento radicale della diseguaglianza: «Chi resta indietro non avrà speranze». Il voto del 4 marzo? «Ininfluente, perché la riforma elettorale ha introdotto un proporzionale corretto che non permette a nessuna forza di avere il vantaggio che serve per governare». Ci governa l’Unione Europea, «sostenuta da dinamiche economiche di tipo ordoliberista i cui centri decisionali hanno imbrigliato il continente in una serie di vincoli determinati dai trattati». Detto in modo brutale: «Anche se l’Italia avesse rappresentanti massicciamente contrari all’Unione, non potrebbe fare nulla: l’esempio più lampante viene proprio dal Regno Unito, che non sa come uscirne». Pessimismo cosmico: «L’evoluzione di queste dinamiche economico-politiche potrebbe durare anche una trentina d’anni. E potrebbe alimentarsi di una o più crisi di cui non conosciamo la portata».
-
Moiso: partiti da buttare, candidati no. Ripartiamo da loro
All’incontro con i candidati della circoscrizione Estero, ripartizione Europa, sapevamo che ci sarebbero stati molti giovani e volevamo parlare con loro di lavoro e futuro; volevamo parlare della differenza tra liberalismo sociale e neoliberismo e di come i dogmi economici di quest’ultimo stiano lacerando la società. Volevamo parlare dell’urgenza e della necessità di ristabilire la primazia della politica sull’economia, e di concetti come sovranità politica e monetaria- concetti che in passato sono stati declinati a livello nazionale, ma che oggi vanno abbracciati e declinati ad un livello federativo. Volevamo parlare di molte cose, ma ci siamo resi conto di quanto la narrativa dei partiti, articolata spesso intorno a questioni “minori”, tenga lontano le coscienze dai veri problemi del paese e dell’Europa, e quindi da una proposta politica articolata che li possa risolvere. Nessun partito al momento riesce a conciliare l’idea di una Europa forte, con il bisogno di sovranità politica e monetaria. Programmi di controllo dell’immigrazione, con piani per la sua legalizzazione ed un vero Piano Marshall per l’Africa, che non punti a “conquistarla” ma ad aiutarla. Proposte di assistenza sociale alle classi più deboli, come il reddito garantito, con politiche volte a raggiungere la piena occupazione e a valorizzare il lavoro come attività nobilitante dell’uomo.Ancora: la riduzione delle tasse, e la lotta all’evasione, sopratutto delle multinazionali, con la redifinizione del ruolo delle tasse. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli, con il bisogno di intervenire a tutela dei più deboli, ogni laddove non vengono rispettati i diritti umani. Il riconoscimento del valore e del ruolo del mondo della finanza, con il bisogno che questo sia giustamente tassato e comunque subordinato all’economia reale. La lotta agli sprechi, all’inquinamento e alla distruzione del pianeta, con investimenti strategici nella ricerca che consentano, sia ai paesi sviluppati che a quelli in via di sviluppo, di godere dei frutti dell’ingegno umano, anche tramite il consumo. Insomma, ci siamo resi conto che nessun partito oggi si fa portavoce della proposta politica organica e complessiva che questo momento storico richiede. Eppure, ci siamo anche accorti che molte persone, ed anche alcuni candidati che per varie sensibilità e percorsi di vita possono oggi ritrovarsi in partiti diversi, condividono i nostri stessi valori e le nostre stesse aspirazioni.Molte persone oggi credono che l’economia debba essere subordinata alla politica e agli interessi delle persone; che le istituzioni debbano garantire la sovranità del popolo; e che é tempo di abbracciare e comprendere proposte politiche che oggi vengono presentate come in antitesi, ma che debbono necessariamente coesistere. Sono molti coloro che credono che gli ideali e le idee socialiste possano solo realizzarsi in una società libera e aperta; e sono molti coloro che credono che si possa essere liberi solo in una società socialmente giusta. Sarà bene allora non combattere i partiti, e tutti coloro che vi aderiscono, ma invece trovare in essi persone che credono in queste idee, affinché si cominci a lavorare insieme per il bene della collettività: per una società libera, democratica e socialmente giusta, in cui il popolo sia sovrano tramite l’attività politica, sovraordinata agli interessi economici di specifici gruppi di interesse privato. A tale proposito, come Movimento Roosevelt, siamo pronti a lavorare con tutti coloro che condividono questi valori, a prescindere, e nel rispetto, della loro appartenenza partitica.(Marco Moiso, “Ripartiamo dalle persone”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 febbraio 2018. Temi ripresi da Moiso, coordinatore generale del movimento e supervisore per il Regno Unito, in un collegamento web-streaming su You Tube con Gioele Magaldi).All’incontro con i candidati della circoscrizione Estero, ripartizione Europa, sapevamo che ci sarebbero stati molti giovani e volevamo parlare con loro di lavoro e futuro; volevamo parlare della differenza tra liberalismo sociale e neoliberismo e di come i dogmi economici di quest’ultimo stiano lacerando la società. Volevamo parlare dell’urgenza e della necessità di ristabilire la primazia della politica sull’economia, e di concetti come sovranità politica e monetaria- concetti che in passato sono stati declinati a livello nazionale, ma che oggi vanno abbracciati e declinati ad un livello federativo. Volevamo parlare di molte cose, ma ci siamo resi conto di quanto la narrativa dei partiti, articolata spesso intorno a questioni “minori”, tenga lontano le coscienze dai veri problemi del paese e dell’Europa, e quindi da una proposta politica articolata che li possa risolvere. Nessun partito al momento riesce a conciliare l’idea di una Europa forte, con il bisogno di sovranità politica e monetaria. Programmi di controllo dell’immigrazione, con piani per la sua legalizzazione ed un vero Piano Marshall per l’Africa, che non punti a “conquistarla” ma ad aiutarla. Proposte di assistenza sociale alle classi più deboli, come il reddito garantito, con politiche volte a raggiungere la piena occupazione e a valorizzare il lavoro come attività nobilitante dell’uomo.
-
Sudditi: la verità che nessuno vuole. E buone elezioni a tutti
Gli slogan elettorali nell’Italia del 2018? Piccoli corvi, che banchettano sui resti di un cadavere. «Voi ora vivete in uno Stato che non esiste più, avete delle leggi che non contano più niente: la vostra sovranità economica non esiste più». La voce sembra quella del vecchio marinaio di Coleridge, che insiste nel raccontare una storia atroce, che nessuno vuole ascoltare: la storia di un naufragio che si trasforma in catastrofe, dove ciascuno tenta disperatamente di sopravvivere a spese degli altri. E’ inaccettabile, il racconto del superstite. Troppo duro da digerire: «Nell’arco di pochi decenni, sono riusciti ad ammazzare la cittadinanza occidentale: eravamo persone capaci di cambiare la propria storia. L’Italia, con un solo partito e una sola televisione, ha fatto divorzio e aborto: eravamo figli del Vaticano ma siamo riusciti a ribaltare il paese». Dov’è finita quell’Italia? Davanti al televisore, ad ascoltare le amenità di Renzi e Grasso, Berlusconi e Di Maio. Di loro si occupano i giornalisti, gli stessi che ignorano l’altro giornalista, quello vero. Il vecchio marinaio. Il folle, l’eretico. L’ostinato reduce che insiste nel raccontare la verità che nessuno vuole sentire. Verità semplice e drammatica: c’è solo una politica in campo, quella del vero potere. E’ il potere antico, quello dei Re. E si è ripreso tutto. Distruggendo cittadini, leggi e Stati.