Archivio del Tag ‘recessione’
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La sinistra europea è complice dei signori della crisi
La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.Di fatto, assistiamo allo svuotamento delle funzioni dei Parlamenti nazionali, ai diktat dei “mercati ci chiedono”, alla centralità di debito e deficit rispetto alla disoccupazione e alla produzione, ai meccanismi automatici di riequilibrio dei disavanzi commerciali attraverso recessioni auto-indotte, scrive Melloni su “Sbilanciamoci”, in un post ripreso da “Micromega”. Non c’è più neppure l’alibi della destra al governo: in Francia c’è Hollande, in Italia Renzi. «Eppure, continua clamorosamente a mancare una risposta di sinistra, di alternativa politica ed economica al mainstream neoliberale – quella risposta keynesiana, socialista o, che più in generale mettendo al centro della politica economica la domanda, il lavoro, il salario, aveva sconfitto la Grande Crisi». Per la verità, la sinistra europea «aveva abbandonato quelle idee e programmi già da una trentina d’anni, a cominciare non da Blair e Schroeder ma da Mitterrand», correva l’anno 1983, «senza dimenticare l’austerity anticipata dei vari governi Prodi in Italia».Anche davanti ad una crisi economica di portata storica, continua Melloni, i socialisti europei si sono contraddistinti per un atteggiamento ultra-passivo rispetto alla risposta conservatrice data alla crisi: «Il rigore finanziario è stato sposato e difeso a spada tratta, un po’ sotto la pressione dello spread, un po’ per convinzione e mancanza di riferimenti economico-culturali alternativi». Se una parte del mondo accademico ha tentato di denunciare il problema, «non ha mai trovato nessun vero spazio nelle stanze dei bottoni del Pse». Socialisti e conservatori: diversi per storia, ma uniti nella prassi di oggi. «Le decisioni – senza dibattito – sulla politica economica sono state demandate a Bruxelles, mentre nell’arena politica nazionale si discute di temi importanti quali il salario minimo (la Spd in Germania) o quali tipo di tagli al welfare (nel Regno Unito) senza per questo portare ad un generale ripensamento dei cardini della politica economica».Tanto i socialdemocratici tedeschi che i laburisti inglesi «hanno fatto di tutto per accreditarsi come “responsabili”, per chiarire al di là di qualsiasi ragionevole dubbio che l’austerity non sarebbe stata toccata in caso di cambiamento della maggioranza di governo». In Francia, questo trend è stato ancora più evidente: «Hollande è stato eletto come alfiere di un’altra Europa, ma una volta all’Eliseo ha abbracciato subito il dogma dei conti in ordine». Idem in Italia: «Il Pd non è certo uscito dal paradigma liberale: ha sostenuto un governo tecnocratico come quello di Monti, ha votato Fiscal Compact e pareggio di bilancio in Costituzione e continua a predicare il rigore e il rispetto degli impegni europei. Si parla tanto di sviluppo e crescita, ma nulla o quasi è stato fatto in questo senso». Per il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, l’austerity è «un falso problema»: la risposta alla crisi sarebbero «le riforme, non la politica economica».Questa vulgata, continua Melloni, è aumentata esponenzialmente con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi: «La politica economica è stata ignorata, con vari giri di valzer sul limite del 3% per il deficit, prima denunciato in patria e poi santificato a Berlino». E nel suo tour europeo, da Parigi a Londra, Renzi ha confermato la sua allergia alla spesa pubblica. «Le cosiddette novità di Renzi sono, appunto, nelle riforme, che nulla hanno a che fare con la scelta di paradigmi economici differenti da modelli mainstream di rigore». Ma un partito che rifiuta in via di principio politiche keynesiane, che rimane «guardiano dei conti in ordine» e che chiede al mercato – con disoccupazione e riduzione dei salari – di risolvere le proprie crisi, per Melloni «nega in fieri un ruolo centrale per il lavoro», sicché «la piena occupazione rimane tabù, mentre la stella polare rimane il mercato che si auto-regola, l’utopia del liberismo sfrenato». E, nel frattempo, «il dibattito sulla politica economica – che è forse il contenuto principale della democrazia – è stato espulso dalla dialettica politica cancellando qualsiasi possibile risposta di sinistra alla crisi».La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.
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Expo-ladri di partito, poi si lamentano se vince Grillo
Ma come, c’è l’Expo e non rubano? Niente paura: «Oggi sono più tranquillo, adesso i conti tornano: se c’è un appalto c’è una tangente, è tutto perfettamente simmetrico». Soprattutto, per Aldo Giannuli, «consola vedere certi nomi ancora su pista: Greganti, Frigerio». Lo scandalo Expo? «E’ solo all’inizio, vedrete che altro verrà fuori. Ma già si profila uno scenario impressionante». Mani Pulite? Non è servita a niente, o quasi: «I sistemi sono quelli di sempre, l’architettura di potere è la stessa, persino gli uomini sono gli stessi, passati come salamandre attraverso il fuoco di inchieste e condanne. Poi, la cosa è tanto più marcia ove si consideri il fiume di soldi di finanziamento pubblico che i partiti hanno preso in questi anni. Cifre da sei a otto volte superiori a quelle del tempo di Mani Pulite, erogate proprio in nome della lotta alla corruzione, per mettere i partiti in condizione di fare politica senza fare imbrogli: ecco i risultati».Stavolta è peggio, dice Giannuli nel suo blog, perché la storia si intreccia con lo scontro tutto milanese tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il suo vice Alfredo Robledo. Per di più, «lo scandalo avviene su un palcoscenico che assicura la massima risonanza internazionale». E tutto questo, non negli anni della “Milano da bere”, quando l’Italia (della lira sovrana) «ruggiva dalla posizione di quinta potenza industriale del mondo». Il nuovo bubbone scoppia «nel momento di massima decadenza, di una Italia scivolata all’ottavo posto e con prospettive di uscire a breve dalla “top ten” dell’economia mondiale in pochissimi anni», grazie al regime recessivo imposto dai signori dell’Eurozona, quelli dell’austerity miracolosa. In attesa di accertare le eventuali responsabilità penali degli indagati, Giannuli registra che – in vent’anni, dopo Tangentopoli – non è stato fatto assolutamente nulla per contrastare la piaga della corruzione, del legame politica-affari. Pd e centrodestra assolutamente solidali: poi si lamentano dei voti a Grillo.Greganti e Frigerio sarebbero stati essenzialmente dei mediatori fra aziende e centro decisionale di spesa? Va bene, «ma chi rappresentavano?». Cioè: «Da dove veniva la loro forza di condizionamento delle scelte? Non ci vuole molta fantasia per capirlo». Quando venne arrestato nel 1993, ricorda Giannuli, Greganti si assunse tutta la responsabilità della tangente contestatagli, salvando il suo partito, il Pci-Pds. Poi, quando Di Pietro per l’ennesima volta gli negò la libertà provvisoria dicendogli che sarebbe rimasto dentro sino a quando non avesse parlato, il “Compagno G” rispose: «Dottore, nella Pasqua del Sessantotto venni inviato dal mio partito in Grecia, per una missione di appoggio alla resistenza greca. Venni individuato dalla polizia dei Colonnelli, arrestato e torturato perché rivelassi i miei contatti greci. E non parlai».Come dire che un uomo così «non fa certe cose per lucro personale». Al contrario, «è un professionista che sa quali sono i rischi e li accetta». E, forse, «lo fa anche per profonda adesione ideale: dunque, deve avere un committente». Quindi, «mi volete dire per chi sta lavorando ora?». Domande inevitabili: il Pd non c’entra nulla? «Siamo sicuri che il mondo delle cooperative non c’entri nulla?». Quanto a Forza Italia, lo scivolone di Milano «rischia di essere la pietra tombale sulle speranze di riscossa e l’avvio di una frana irrimediabile», tanto più che va a coincidere con l’arresto di Scajola dopo quello di Dell’Utri: «Tutte le strade portano a Beirut, piove sul bagnato». Certo, conclude Giannuli, «Grillo ha una fortuna sfrontata: l’anno scorso lo scandalo Mps a tre settimane dal voto. E oggi, sempre a tre settimane dal voto, questo scandalo che mette insieme i suoi due maggiori concorrenti».Ma come, c’è l’Expo e non rubano? Niente paura: «Oggi sono più tranquillo, adesso i conti tornano: se c’è un appalto c’è una tangente, è tutto perfettamente simmetrico». Soprattutto, per Aldo Giannuli, «consola vedere certi nomi ancora su pista: Greganti, Frigerio». Lo scandalo Expo? «E’ solo all’inizio, vedrete che altro verrà fuori. Ma già si profila uno scenario impressionante». Mani Pulite? Non è servita a niente, o quasi: «I sistemi sono quelli di sempre, l’architettura di potere è la stessa, persino gli uomini sono gli stessi, passati come salamandre attraverso il fuoco di inchieste e condanne. Poi, la cosa è tanto più marcia ove si consideri il fiume di soldi di finanziamento pubblico che i partiti hanno preso in questi anni. Cifre da sei a otto volte superiori a quelle del tempo di Mani Pulite, erogate proprio in nome della lotta alla corruzione, per mettere i partiti in condizione di fare politica senza fare imbrogli: ecco i risultati».
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Brancaccio: il Jobs Act è peggio della riforma Fornero
Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. Il provvedimento del governo Renzi è il sequel di un film già mandato in onda tante volte. Non intravedo svolte di politica economica. La sinistra del Pd è riuscita ad apportare alcuni miglioramenti al testo. Nonostante queste modifiche, però, il segno complessivo del Jobs Act non cambia: assisteremo a una ulteriore precarizzazione dei contratti di lavoro. Ci sono novità peggiorative anche rispetto alla riforma Fornero, come l’eliminazione della causale sui contratti a tempo determinato, la possibilità di prorogare questi contratti e l’annacquamento dell’obbligo di stabilizzazione degli apprendisti. Il ministro Padoan sostiene che questi provvedimenti faranno aumentare l’occupazione? Padoan è tra coloro che hanno insistito a lungo con la fantasiosa dottrina della “austerità espansiva”, quella secondo cui l’austerity avrebbe dovuto risanare i bilanci, ripristinare la fiducia dei mercati e rilanciare la crescita e l’occupazione.In realtà l’austerity ha depresso l’economia e non ha risanato i conti. Su indicazione della Bce e della Commissione, allora, il ministro oggi propone una nuova ricetta: la ulteriore flessibilità dei contratti di lavoro aiuterà a creare nuovi posti di lavoro e a ridurre la disoccupazione. Ma le evidenze empiriche ci fanno ritenere che si sbaglino di nuovo. In una rassegna pubblicata qualche anno fa, gli economisti Tito Boeri e Jan van Ours hanno rilevato che su 13 studi empirici esaminati ben nove di essi davano risultati indeterminati e tre di essi indicavano che una maggiore precarietà dei contratti può addirittura determinare più disoccupazione. Alla luce di queste evidenze persino Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, è arrivato a riconoscere che non vi è una precisa correlazione tra le due variabili. Una spiegazione sta nel fatto che i contratti precari da un lato possono indurre le imprese a creare posti di lavoro in una fase di espansione economica, ma dall’altro consentono alle aziende di distruggere facilmente quegli stessi posti di lavoro nelle fasi di crisi.Alla fine, tra creazione e distruzione dei posti di lavoro l’effetto complessivo risulta essere nullo, con buona pace di Padoan e di Draghi. Il M5S si è scagliato contro il Jobs Act parlando di “ritorno alla schiavitù”. Credo vi sia un’espressione più adatta al nostro tempo: intensificazione dello sfruttamento capitalistico del lavoro. E’ un fenomeno che si è verificato in misura particolarmente accentuata negli ultimi vent’anni, durante i quali abbiamo assistito a uno smantellamento progressivo del diritto del lavoro. Il fenomeno si è verificato il larga parte dei paesi industrializzati, anche se in Italia vantiamo un record: dal 1998 l’indice generale di protezione dei lavoratori calcolato dall’Ocse è crollato più che in ogni altro paese europeo. I primissimi provvedimenti risalgono persino a Ciampi. E’ vero tuttavia che il pacchetto Treu determinò una caduta molto accentuata dell’indice di protezione dei lavoratori, alla quale seguì un calo ulteriore con la legge Biagi del governo Berlusconi.Il Jobs Act di Renzi non è altro che il sequel del medesimo film, che i governi che si sono succeduti in questi anni hanno quasi ininterrottamente mandato in onda. Con risultati irrilevanti sul terreno dell’occupazione. Del resto, la creazione di lavoro dipende soprattutto da altri fattori, tra cui l’orientamento espansivo o restrittivo elle politiche economiche. Renzi ha scelto di porsi in sostanziale continuità con le politiche di austerity che fino ad oggi sono state adottate in Europa. Proprio per questo, tuttavia, rischia di non raggiungere gli obiettivi di contenimento del deficit che si è dato. Nel 2014 la crescita del Pil potrebbe rivelarsi inferiore al già risicato 0,8% annunciato dal governo. La conseguenza è che il rapporto tra deficit e Pil potrebbe rivelarsi maggiore del previsto. Sarebbe l’ennesima smentita per la dottrina della “austerità espansiva”.Renzi rivendica gli 80 euro al mese per i dipendenti che ne guadagnano meno di 25.000 lordi? Prima di definirla una mossa “di sinistra” vorrei capire più in dettaglio dove nei prossimi anni la spending review andrà a tagliare. Se ad esempio colpisse i servizi pubblici, i lavoratori subordinati potrebbero trarre più svantaggi che benefici. Riguardo agli effetti sulla crescita, vorrei ricordare che in Italia negli ultimi 5 anni abbiamo perso un milione di posti di lavoro e abbiamo registrato un incremento del 90% delle insolvenze delle imprese. Sono perdite colossali, di proporzioni storiche, che dovremmo affrontare con una concezione completamente nuova della politica economica pubblica. Chi pensa che invertiremo la rotta con 80 euro in più al mese in busta paga non sa quel che dice.(Emiliano Brancaccio, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Jobs Act? Peggio della riforma Fornero”, pubblicata da “Micromega” il 23 aprile 2014).Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. Il provvedimento del governo Renzi è il sequel di un film già mandato in onda tante volte. Non intravedo svolte di politica economica. La sinistra del Pd è riuscita ad apportare alcuni miglioramenti al testo. Nonostante queste modifiche, però, il segno complessivo del Jobs Act non cambia: assisteremo a una ulteriore precarizzazione dei contratti di lavoro. Ci sono novità peggiorative anche rispetto alla riforma Fornero, come l’eliminazione della causale sui contratti a tempo determinato, la possibilità di prorogare questi contratti e l’annacquamento dell’obbligo di stabilizzazione degli apprendisti. Il ministro Padoan sostiene che questi provvedimenti faranno aumentare l’occupazione? Padoan è tra coloro che hanno insistito a lungo con la fantasiosa dottrina della “austerità espansiva”, quella secondo cui l’austerity avrebbe dovuto risanare i bilanci, ripristinare la fiducia dei mercati e rilanciare la crescita e l’occupazione.
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La metà dei giovani europei vive ancora coi genitori
Non solo gli studenti ma anche i trentenni faticano a conquistare l’indipendenza economica: secondo l’ultimo rapporto europeo dell’agenzia Eurofound, quasi la metà dei giovani adulti europei vive ancora con i genitori. «Un livello record di dipendenza, che ha implicazioni sociali e demografiche per il futuro del continente», scrive il “Guardian”. Si tratta di un’indagine sociale accurata, svolta in 28 paesi europei. Dati impietosi: a vivere nella famiglia d’origine è il 48% delle persone di età compresa tra i 18 e i 30 anni. Si tratta di 36,7 milioni di persone, «che sperimentano livelli di deprivazione e disoccupazione che sono aumentati anch’essi nei primi cinque anni di crisi economica». Solo pochi paesi sono immuni al fenomeno, che non è affatto prerogativa degli Stati del Mediterraneo: lo studio mostra un forte aumento del numero dei ventenni che rimangono a casa anche in paesi come Svezia, Danimarca, Francia, Belgio e Austria. Un triste record spetta all’Italia: quasi quattro quinti dei giovani adulti (il 79%) vive con i propri genitori.«La situazione dei giovani è cambiata radicalmente», ammette Anna Ludwinek, tra gli autori del rapporto: «Non è solo il mondo del lavoro che è cambiato, ma la società stessa sta cambiando», con transizioni sempre più imprevedibili: «Le persone non hanno più un lavoro che dura tutta la vita e neppure vivono nello stesso posto per tutta la vita». Quella della famiglia multi-generazionale non è certo una soluzione felice: genitori e figli costretti a convivere «hanno una bassissima soddisfazione per la propria vita e un livello percepito altissimo di deprivazione e di esclusione sociale». I dati, scrive Shiv Malik sul “Guardian” in un servizio ripreso da “Come Don Chisciotte”, evidenziano la situazione difficile della “Generazione Y”, che è «più istruita rispetto ai loro antenati», eppure «è condannata a prospettive più fosche della generazione dei loro genitori». Senza contare che «il fenomeno sempre più diffuso degli adulti costretti a vivere nelle loro camerette d’infanzia ha anche sollevato preoccupazioni per la natalità e la demografia in un continente che invecchia».La tendenza alla dipendenza verso i genitori, riportano gli autori dello studio, non può essere spiegata solo con l’aumento del numero delle persone che studiano più a lungo, dato che altri milioni di 25-29enni ancora vivono con mamma e papà. Per le donne di età compresa tra i 25 e i 29 anni, il numero è salito di cinque punti fino al 26%, mentre la percentuale per gli uomini è salita di tre, arrivando al 34%. Anche tra coloro che hanno un lavoro, il dato complessivo è aumentato di un punto, siamo al 34%. E mentre i giovani adulti «tendono ad affidarsi alle istituzioni quanto i loro genitori», la loro fiducia per il governo nazionale, il sistema giuridico e la stampa in caduta libera. Per Bobby Duffy, sondaggista dell’istituto Ipsos Mori, i giovani «sono più propensi a considerarsi poveri anche se hanno iniziato da qualche anno una loro carriera».E’ la crisi dell’ascensore sociale: lo studio dimostra che «il ceto sociale e il background stanno diventando sempre più un fattore di successo nella vita successiva». Azzerato il welfare, ci sono vantaggi solo per i figli dei ricchi: «Quelli che appartengono a classi agiate o ricche saranno meglio equipaggiati per affrontare le pressioni». Per Peter Matjašič, presidente del Forum Europeo della Gioventù, giovani europei sono «nel mezzo della tempesta», disoccupati o al massimo precari, «spesso senza la rete di sicurezza di un’adeguata protezione sociale». Un rapporto allarmante, perché ormai restare a casa con papà e mamma «sta diventando la norma, anche in molti paesi in cui non era una cosa comune».Il rapporto di Eurofound scandaglia la nuova povertà che minaccia la società europea prostrata dall’austerity. Il 27% dei giovani adulti vive in uno stato di deprivazione definito “di medio livello”: quello di chi soffre perché non può sostituire i mobili usurati, invitare gli amici a casa o permettersi di prendersi almeno una vacanza all’anno. Più di un quinto (il 22%) ha invece vissuto una “grave deprivazione”, denunciando «difficoltà per riscaldare la casa o comprare vestiti nuovi». L’aumento della deprivazione per i giovani adulti è stata peggiore in Grecia (+15 %), in Spagna (+20%) ma anche nel Regno Unito (+10%). Tra i crescenti disagi segnalati, anche la necessità di ospitare nella famiglia d’origine non solo i figli, ma sempre più spesso anche i nipoti. Di conseguenza, il numero di lavoratori che riescono a crescere una famiglia nella propria casa è sceso di 3 punti percentuali. L’Europa sta morendo: la Troika di Bruxelles ha abolito il futuro della vita dei giovani.Bamboccioni, per dirla con Padoa Schioppa – o choosy, secondo Elsa Fornero. Sono i ragazzi europei, ridotti a chiedere asilo a mamma e papà. Non solo gli studenti, ma anche i trentenni. Faticano a conquistare l’indipendenza economica. Secondo l’ultimo rapporto Eurofound, quasi la metà dei giovani adulti europei vive ancora coi genitori. «Un livello record di dipendenza, che ha implicazioni sociali e demografiche per il futuro del continente», scrive il “Guardian”. Si tratta di un’indagine sociale accurata, svolta in 28 paesi. Dati impietosi: a vivere nella famiglia d’origine è il 48% delle persone di età compresa tra i 18 e i 30 anni. Si tratta di 36,7 milioni di persone, «che sperimentano livelli di deprivazione e disoccupazione che sono aumentati anch’essi nei primi cinque anni di crisi economica». Solo pochi paesi sono immuni al fenomeno, che non è affatto prerogativa degli Stati del Mediterraneo: lo studio mostra un forte aumento del numero dei ventenni che rimangono a casa anche in paesi come Svezia, Danimarca, Francia, Belgio e Austria. Un triste record spetta all’Italia: quasi quattro quinti dei giovani adulti (il 79%) vive con i propri genitori.
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Londra: e smettetela di dire che non ci sono più soldi
Spiacenti, non ci sono più soldi. E quindi: rigore, tagli alla spesa pubblica, spending review. Per colpire, solo e sempre, il settore pubblico: il welfare, la spesa vitale per i cittadini, da cui dipende strettamente la salute dell’economia privata di aziende e famiglie. Stando a politici, tecnocrati e banchieri, è come se il denaro «fosse una risorsa limitata, alla stregua della bauxite o del petrolio». Errore: il denaro è inesauribile, illimitato. Perché può essere creato dal nulla, in qualsiasi momento, a una sola condizione: che venga accettato come valore di scambio, per acquistare beni e servizi e pagare le tasse. Quella che a prima vista può sembrare la scoperta dell’acqua calda, secondo David Graeber del “Guardian” è un’esternazione epocale: perché proviene dalla Banca d’Inghilterra, che ammette ufficialmente che la quantità di denaro circolante – quella in nostro possesso, e a disposizione dei nostri Stati – non dipende assolutamente da un ammontare frutto di risparmi, ma da una semplice decisione politica, attuata dalle banche centrali e dai super-banchieri che le gestiscono.Il sistema continua dirci che «semplicemente non c’è abbastanza denaro per finanziare lo stato sociale», e preferisce «parlare dell’immoralità del debito pubblico o di una spesa pubblica che “svuota le tasche” al settore privato»? Tutto falso. «Il sistema della riserva frazionaria permette alle banche di prestare somme considerevolmente superiori a quelle che detengono nelle riserve». E, se i risparmi dei correntisti non bastano, «le banche possono farsi prestare altro denaro dalla banca centrale», la quale «può stampare tutto il denaro che vuole», riassume Graeber, citando il documento intitolato “La creazione della moneta nell’economia moderna”, redatto da tre economisti del dipartimento di analisi monetaria della Bank of England. «Non c’è davvero alcun limite alla quantità di denaro che una banca può creare, a patto che trovi persone che vogliano prendere in prestito quel denaro. Non rischieranno mai di finire senza soldi, per il semplice motivo che, in genere, i loro mutuatari non prenderanno mai il denaro per metterlo sotto al materasso: alla fine, tutto il denaro che una banca presta tornerà indietro in qualche modo in qualche altra banca».Le banche, sottolineano gli analisti della banca centrale britannica, non ricevono i risparmi dai privati per poi successivamente prestarli. Al contrario: «Sono i prestiti delle banche a creare i depositi», attraverso la banca centrale. «E la moneta della banca centrale non è nemmeno “moltiplicata” sotto forma di prestiti e depositi», perché viene semplicemente creata dal nulla. «Nel caso le banche avessero bisogno di prelevare denaro dalla banca centrale – scrive Graeber – possono prenderne in prestito quanto ne vogliono; tutto ciò che fa quest’ultima è determinare il tasso di interesse, il costo del denaro, non la sua quantità». Per questo, «non c’è alcuna spesa pubblica che “svuoti le tasche” al settore privato. E’ esattamente l’opposto»: è la finanza a chiudere i rubinetti, a costringere intere nazioni a tirare la cinghia. «Perché, così all’improvviso, la Banca d’Inghilterra ammette tutto ciò?».Forse, si risponde Graeber, la banca di Stato britannica ha capito che è «un lusso che non si può più permettere» il mantenere in vita «la versione “fantasilandia” dell’economia, che si è rivelata così conveniente per i ricchi». Politicamente, secondo il giornalista del “Guardian”, i banchieri centrali inglesi stanno affrontando un rischio enorme: «Immaginate cosa potrebbe succedere se i titolari dei mutui si rendessero conto che il denaro che la banca ha prestato loro non proviene in realtà dai risparmi di una vita di qualche pensionato parsimonioso, ma sia invece un qualcosa creato dal nulla da una bacchetta magica in loro possesso, che noi gli abbiamo consegnato». Certo, la Gran Bretagna non è in sofferenza quanto l’Eurozona: la sterlina sovrana consente a Londra di cambiare politica, per esempio di aumentare la spesa pubblica e la protezione dello Stato verso i cittadini. Operazione preclusa ai paesi la cui sovranità finanziaria è stata confiscata dall’euro, i cui gestori ripetono che, semplicemente, “non ci sono più soldi”. Come se il denaro fosse un bene materiale, anziché un valore convenzionale che si può liberamente immettere nel sistema economico.Se oggi si “scopre” che la fonte del credito non è certo la riserva frazionaria – cioè la percentuale di depositi accantonati per la solvibilità del sistema – a diffidare della libera emissione di moneta furono economisti di destra ma anche di sinistra. Secondo la scuola marxista, l’espansione del credito assicura una forte crescita, che però finisce per provocare crisi di sovrapproduzione o crisi economiche dovute all’insolvenza di molte imprese alla scadenza dei debiti. Più in generale, si teme che la quantità di moneta prestata possa non corrispondere ad una ricchezza reale, e quindi causare inflazione e calo della domanda. Analoghe conclusioni dalla “scuola austriaca” di economia: se si espande il credito oltre il “tesoro” della riserva frazionaria, i prezzi cresceranno molto più in fretta del Pil, generando inflazione. Tesi sostanzialmente smentite dalla storia e dalla realtà di oggi: gli Usa uscirono dalla Grande Depressione proprio espandendo il credito mediante creazione di moneta, e oggi il dramma dell’Eurozona si chiama deflazione: insufficiente quantità di denaro a disposizione delle imprese e delle famiglie, a causa dei tagli imposti agli Stati che, limitando la spesa pubblica (in fase di recessione economica) condannano il sistema all’asfissia.Fin dall’inizio della recessione, scrive il “Guardian”, le banche centrali degli Usa e della Gran Bretagna hanno ridotto quasi a zero il costo del denaro: attraverso il “quantitative easing”, cioè l’alleggerimento quantitativo, «hanno pompato quanto più denaro potevano nelle banche, senza produrre alcun effetto inflattivo». Il significato di tutto questo? «Il tetto dell’ammontare della moneta in circolazione non è dato da quanto le banche centrali siano disposte a prestare, ma da quanto denaro siano disposti a prendere in prestito governi, aziende, e cittadini ordinari». La questione è politica: «La spesa dei governi ha il ruolo principale in tutto ciò». E lo stesso documento della Bank of England «ammette, leggendolo con attenzione, che alla fine le banche centrali forniscono denaro ai governi». Certo, le banche centrali degli Stati con moneta sovrana – quindi non i paesi dell’Eurozona.«Storicamente – rileva Graeber – la Banca d’Inghilterra tende a essere un precursore, esternando quelle che possono sembrare posizioni radicali ma che poi finiscono per diventare la nuova ordotossia». E’ come se gli analisti inglesi avesso detto, chiaro e tondo, che bisogna bocciare la Bce e tutte le politiche restrittive dell’Unione Europea. Non è vero che “non ci sono più soldi” per gli Stati. E’ vero il contrario: Bruxelles ha deciso che gli Stati, e i loro cittadini, devono soffrire. Solo degradando le condizioni generali di vita, abolendo diritti sociali e diritti del lavoro, l’élite può sperare di disporre di “sudditi” docili, disposti a tutto per un salario schiavistico. Il paradiso in terra per i monopolisti della moneta ex-sovrana, super-tecnocrati al servizio degli oligarchi planetari, i grandi privatizzatori del nostro futuro.Spiacenti, non ci sono più soldi. E quindi: rigore, tagli alla spesa pubblica, spending review. Per colpire, solo e sempre, il settore pubblico: il welfare, la spesa vitale per i cittadini, da cui dipende strettamente la salute dell’economia privata di aziende e famiglie. Stando a politici, tecnocrati e banchieri, è come se il denaro «fosse una risorsa limitata, alla stregua della bauxite o del petrolio». Errore: il denaro è inesauribile, illimitato. Perché può essere creato dal nulla, in qualsiasi momento, a una sola condizione: che venga accettato come valore di scambio, per acquistare beni e servizi e pagare le tasse. Quella che a prima vista può sembrare la scoperta dell’acqua calda, secondo David Graeber del “Guardian” è un’esternazione epocale: perché proviene dalla Banca d’Inghilterra, che ammette ufficialmente che la quantità di denaro circolante – quella in nostro possesso, e a disposizione dei nostri Stati – non dipende assolutamente da un ammontare frutto di risparmi, ma da una semplice decisione politica, attuata dalle banche centrali e dai super-banchieri che le gestiscono.
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La lunga marcia dei no-euro, assedio all’Europarlamento
In Gran Bretagna il partito populista “United Kingdom Indipendence Party”, Ukip, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, è rilevato in prima posizione nelle intenzioni di voto per le elezioni europee in un sondaggio realizzato dall’istituto Yougov per il quotidiano “Sunday Times”. I dati registrano lo Ukip guidato da Nigel Farage al 31%, i laburisti al 28%, i Tory del premier Cameron al 19%, e i Liberaldemocratici al 9%. Lo Ukip sta realizzando per le europee una campagna molto vigorosa contro i posti di lavoro “rubati” dagli stranieri, definita razzista dagli altri partiti. Secondo l’opinione della maggioranza del campione di Yougov questo tipo di posizione non è razzista, ma un commento duro sulla realtà. Nei sondaggi realizzati da quest’istituto si nota come l’avvicinarsi del voto stia spingendo verso l’alto i consensi dello Ukip, cresciuto dal 23% di inizio marzo all’attuale 31%, con una contemporanea flessione dei laburisti così come dei conservatori.Per il voto alla Camera dei Comuni i sondaggi sono diversi; certo se questo dato fosse confermato sarebbe comunque piuttosto clamoroso che un partito che combatte da sempre contro l’adesione della Gran Bretagna all’Unione Europea in pochi anni sia passato da una relativa marginalità al primato nazionale, per quanto in questa specifica consultazione. Il Regno Unito non è però l’unico paese Ue dove alle prossime europee sarà possibile un’affermazione dei no-euro. Il “Movimento 5 Stelle” è una formazione che nella stampa europea viene definita no-euro, anche se il M5S non è assimilabile ai partiti di destra populista che combattono contro Bruxelles. Alle europee il primato dei 5 Stelle è un’ipotesi al momento non così probabile, ma neppure impossibile. Il fronte no-euro al Parlamento di Strasburgo sarà guidato da Marine Le Pen, e il suo Front National potrebbe conseguire una prima posizione alle consultazioni del 25 maggio.Come mostra la media dei sondaggi realizzata da “Electionista” su Twitter, il partito della destra repubblicana Ump e la formazione di Marine Le Pen sono praticamente appaiate poco sopra il 20%. Per il Front National si tratterebbe di una crescita clamorosa, visto che 5 anni fa raccolse poco più del 6%. I Paesi Bassi, come la Francia e l’Italia, sono una delle sei nazioni fondatrici del processo di unificazione dell’Europa. Anche l’elettorato olandese potrebbe consegnare ai no-euro del “Partito della Libertà” di Geert Wilders il primato nazionale alle consultazioni per l’Europarlamento. Al momento il Pvv è terzo dietro i liberali progressisti, ora all’opposizione, e i liberali conservatori del premier Rutte, ma il margine di distacco è molto ridotto. La terza formazione assai rilevante che aderisce al blocco no euro della destra populista sono i liberali austriaci della Fpö di Heinz-Christian Strache. Anche in Austria le europee potrebbero essere vinte dai no -uro, ora al terzo posto nella media delle intenzioni di voto, dietro ai popolari e ai socialdemocratici.In Germania i no-euro di “Alternativa per la Germania”, che hanno recentemente rifiutato la proposta di alleanza offerta loro da Marine Le Pen, non vinceranno le elezioni europee ma sicuramente entreranno all’Europarlamento, con un risultato in costante crescita, che danneggia la Cdu della vera leader dell’Ue, Angela Merkel. Come si vede nell’ultimo sondaggio pubblicato su “Bild”, “Alternativa per la Germania”, Afd, è rilevata al 7,5%, in aumento rispetto al 4,9% conseguito alle ultime federali. E’ difficile definire “Syriza” un partito no-euro, visto che la formazione guidata da Tsipras è favorevole alla moneta unica. Le critiche radicali alle politiche di austerità hanno però tratti accomunabili al variegato fronte che combatte contro i governi dell’Ue, ed in questa prospettiva la possibile affermazione di “Syriza” in Grecia alle prossime europee rappresenterebbe uno scossone a Bruxelles non così dissimile dal primato nazionale del Front National della Le Pen o del Pvv di Wilders.(Andrea Mollica, “I paesi dove i no-euro hanno chance di vittoria alle europee”, dal blog di Gad Lerner del 28 aprile 2014).In Gran Bretagna il partito populista “United Kingdom Indipendence Party”, Ukip, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, è rilevato in prima posizione nelle intenzioni di voto per le elezioni europee in un sondaggio realizzato dall’istituto Yougov per il quotidiano “Sunday Times”. I dati registrano lo Ukip guidato da Nigel Farage al 31%, i laburisti al 28%, i Tory del premier Cameron al 19%, e i Liberaldemocratici al 9%. Lo Ukip sta realizzando per le europee una campagna molto vigorosa contro i posti di lavoro “rubati” dagli stranieri, definita razzista dagli altri partiti. Secondo l’opinione della maggioranza del campione di Yougov questo tipo di posizione non è razzista, ma un commento duro sulla realtà. Nei sondaggi realizzati da quest’istituto si nota come l’avvicinarsi del voto stia spingendo verso l’alto i consensi dello Ukip, cresciuto dal 23% di inizio marzo all’attuale 31%, con una contemporanea flessione dei laburisti così come dei conservatori.
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L’oro alla patria: costretti a cedere i gioielli di famiglia
Grazie ad una miracolosa operazione di trasparenza sul giro d’affari dei “Compro Oro”, è stato svelato al Senato che gli italiani, nel biennio 2011-2012, hanno svenduto ai tanti negozietti appositi circa 300 tonnellate di oro e preziosi, per un totale di 14 miliardi di euro. Cifra enorme, equivalente alla finanziaria del 2013: «Le famiglie italiane si sono fatte una finanziaria da sole», commenta Debora Billi. «Io lo trovo assolutamente vergognoso. Trovo indegno di un paese civile (nota frase abusata dai politici in campagna elettorale) che i cittadini siano ridotti a vendersi l’oro in quantitativi industriali per riuscire a tirare avanti. E’ una cosa da vomito. In un certo senso, hanno dato l’oro alla patria. Hanno tirato la fine del mese da soli, mentre il loro paese era occupato a dirottare i soldi delle tasse verso gli interessi sul debito anziché provvedere a chi si trovava in difficoltà come sarebbe compito di una comunità. Chissà, forse “ce lo chiede l’Europa”».
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Benvenuti nel neo-feudalesimo totalitario e tecnocratico
«Se la lotta contro i banchieri, la casta, le multinazionali, vi è sempre sembrata una guerra, non avete ancora visto nulla. Quella era una scampagnata. Adesso si piange veramente». Paolo Barnard certifica l’avvento definitivo di «una politica tecnocratica che in Usa ed Europa ora mena ceffoni ai banchieri, cosa mai accaduta dal XIV secolo a oggi». Un allarme speciale: se oggi a essere colpite sono anche le banche, significa che «qualcosa di orribilmente sinistro sta accadendo all’interno del Vero Potere», cioè l’élite mondiale che non ha mai digerito lo Stato democratico moderno – quello che vive di spesa pubblica, cioè deficit per investimenti sociali – e oggi «ha fatto fuori la borghesia in tutti i paesi avanzati, ha esautorato i Parlamenti, ha abolito il diritto». Ora anche le banche sono in ginocchio, «esattamente come nei secoli dal X al XVII». Le banche, cioè gli istituti di credito che «con la mano destra servono il Vero Potere ma che con la sinistra possono acquisire troppa ricchezza, dunque potere».Da almeno 90 anni, sostiene Barnard, il Vero Potere si è semplicemente detto: «La rivoluzione borghese finanziata dalle banche, la griglia di potere superiore affidata alla democrazia e la politica elettiva non ci fotteranno mai più. Lo hanno fatto una volta, ora mai più. Vanno distrutte». Detto fatto. «Il loro progetto è un ritorno, adattato alla modernità, del potere feudale. Neofeudalesimo moderno, quindi tecnocratico». La versione aggiornata del feudalesimo medievale: non c’è posto per la democrazia, perché è il supremo potere del vertice che detta le regole, trasformate in leggi da istituzioni totalmente asservite all’élite, colonizzate dall’oligarchia planetaria. «Il Vero Potere è tornato, vestito di nuovo: è il Neofeudalesimo delle tecnocrazie internazionali», quelle che – per inciso – ora “spiegano” a Washington e Bruxelles come devono riscrivere le regole del commercio tra Usa ed Europa, col Trattato Transatlantico, a vantaggio delle grandi multinazionali e a scapito di chiunque altro – governi, cittadini e lavoratori, abbandonati a se stessi anche su temi cruciali come l’ambiente, la salute, i servizi vitali, la sicurezza alimentare.Riassume Barnard: «La Fed americana, come la Bce, non sono banche. Sono branche del governo. Ma in questi casi i governi cui appartengono – in Usa la rete neoliberista delle fondazioni e in Europa la rete neoclassica, neomercantile tedesca e neofeudale della Commissione Ue – hanno deciso da tempo che le componenti che minacciano il loro potere vanno totalmente distrutte». Nell’ordine, vanno rase al suolo «la borghesia piccolo-medio industriale, i Parlamenti col potere di legiferare, e anche le banche». L’euro? Un puro strumento di dominazione, vocato al sabotaggio dell’economia diffusa e del reddito medio. Il tutto, accettato passivamente da una sinistra inquinata, infiltrata dall’élite. Per un economista come Joseph Halevi, il piano egemonico può essere fermato solo con una forte resistenza politica. Mission impossibile: come raccomandato da Lewis Powell nel famigerato memorandum del 1971, l’oligarchia ha comodamente “comprato” i leader delle organizzazioni che avrebbero dovuto tutelare i lavoratori.«Se la lotta contro i banchieri, la casta, le multinazionali, vi è sempre sembrata una guerra, non avete ancora visto nulla. Quella era una scampagnata. Adesso si piange veramente». Paolo Barnard certifica l’avvento definitivo di «una politica tecnocratica che in Usa ed Europa ora mena ceffoni ai banchieri, cosa mai accaduta dal XIV secolo a oggi». Un allarme speciale: se oggi a essere colpite sono anche le banche, significa che «qualcosa di orribilmente sinistro sta accadendo all’interno del Vero Potere», cioè l’élite mondiale che non ha mai digerito lo Stato democratico moderno – quello che vive di spesa pubblica, cioè deficit per investimenti sociali – e oggi «ha fatto fuori la borghesia in tutti i paesi avanzati, ha esautorato i Parlamenti, ha abolito il diritto». Ora anche le banche sono in ginocchio, «esattamente come nei secoli dal X al XVII». Le banche, cioè gli istituti di credito che «con la mano destra servono il Vero Potere ma che con la sinistra possono acquisire troppa ricchezza, dunque potere».
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Giannini: capitalismo italiano, piccola oligarchia cialtrona
Sono passati più di otto anni da quando Guido Rossi propose al governo Prodi di attuare una politica “di tipo leninista”: vietare gli accordi parasociali attraverso cui in Italia i soliti noti gestiscono aziende in cui hanno investito il minimo necessario, spalleggiandosi l’uno con l’altro. Oggi che perfino Mediobanca, cioè la regina di questi patti di sindacato, ne predica la dissoluzione, tornano fluidi gli assetti di potere al vertice dell’industria e della finanza. Peccato ciò accada – come spiega l’ultimo saggio di Massimo Giannini – in un panorama di macerie: “L’anno zero del capitalismo italiano”. Passando in rassegna le vicende cruciali di Alitalia, Telecom, Eni, Finmeccanica e Fiat, osserva Gad Lerner, il vicedirettore di “Repubblica” descrive l’intreccio di interessi particolari che si incontrano: come la pulsione elettoralistica di Berlusconi sintonizzata con le aspirazioni politiche del banchiere Passera, col risultato del vergognoso sperpero di denaro pubblico in Alitalia.Fuggono dalle loro responsabilità degli azionisti Telecom riuniti nella Galassia del Nord che cedono il controllo agli spagnoli pur di limitare le perdite, e se ne infischiano se il 78% degli altri azionisti comuni mortali che hanno comprato in Borsa non vedranno un centesimo. E il plenipotenziario Paolo Scaroni all’Eni «riesce a scansare lo scandalo del crollo di valore della controllata Saipem, perché lui appartiene a una consorteria imprescindibile». Fa impressione, scrive Lerner in un intervento ripreso nel suo blog, la sintesi che Giannini ci propone dei maggiori gruppi imprenditoriali pubblici e privati del nostro paese: «Quando fanno profitti, li fanno all’estero. Qui da noi hanno contribuito a una desertificazione percepibile non solo nella grande industria ma anche nella finanza». Ritorno all’anno zero del capitalismo, appunto, dove vengono meno anche i polmoni del credito, se è vero che «Montepaschi resta una bomba a orologeria» destinata quasi inevitabilmente alla nazionalizzazione, mentre Intesa Sanpaolo, «concepita con l’ambigua e non meglio precisata funzione pseudopolitica di “banca di sistema”, oggi si ritrova acefala, logorata nei suoi vertici e oppressa da troppe grandi operazioni finite in perdita».L’angusto orizzonte del capitalismo di relazione, passando il vaglio della prolungata depressione economica, rivela scenari imbarazzanti, «perché i protagonisti di spoliazioni aziendali o di raggiri contabili, in tale consesso, non possono essere liquidati come corpi estranei da cui prendere le distanze». Giannini fa due nomi per tutti: Giuseppe Mussari e Salvatore Ligresti. «Mele marce? Davvero Mussari che ancor oggi si fa fotografare a cavallo nella campagna senese ha potuto turlupinare l’intero mondo bancario italiano godendo di protezioni politiche trasversali, senza che i colleghi ne avessero percezione? E quanto a Ligresti, di cui solo ora tutti pronunciano a voce alta il soprannome “coppoletta”, siamo sicuri che integrarlo nel salotto buono servisse solo al vecchio compaesano Cuccia, o invece ha fatto comodo a tanti altri banchieri contemporanei?».Massimo Giannini considera il 2013 l’anno cruciale del disfacimento di questa economia di relazione minata nelle sue fondamenta. E’ l’anno che precede, non a caso, il definitivo espatrio della Fiat trasformata da Marchionne in multinazionale svincolata dagli impianti italiani, con grande beneficio per l’accomandita Agnelli e grave danno per il sistema paese. Ma già nel 2011 «era saltato un perno decisivo di questo sistema collusivo in cui varie debolezze si sostenevano a vicenda», scrive Lerner, alludendo alla presidenza delle Generali bruscamente sottratta a Cesare Geronzi, «e con lui a uno scivoloso baricentro in cui si ritrovano sottogoverno e Vaticano, immobiliaristi e concessionari pubblici, ex industriali passati alla rendita e lobbisti millantatori in cerca di nuovo lustro». Chi ha fatto saltare quel vecchio equilibrio?Secondo Giannini, è stata «una miscellanea rivoltasi al Tremonti di turno che attraverso l’ancora giovane manager di Mediobanca, Alberto Nagel, coalizzava i nuovi potenti, diversissimi fra loro: ormai cosmopoliti come Luxottica e De Agostini, piuttosto che arcitaliani come Caltagirone e Della Valle. Uniti nel guardare dall’alto in basso gli ambienti sbrindellati di prima, senza accorgersi di quanto gli somigliano». Giannini si pone domande radicali di fronte a questo scenario desolante: «Se il principio costitutivo del capitalismo globale contemporaneo è una curvatura tendenzialmente antidemocratica che svalorizza il lavoro e devasta risorse industriali e naturali, in Italia questo fenomeno assume caratteristiche parossistiche. Se altrove, cioè, si pone un problema di “tosatura” del sovrappiù di un’economia cartacea che rischia di soffocare l’economia reale, in Italia l’anno zero del capitalismo rischia di lasciare in braghe di tela gli uni e gli altri».(Il libro: Massimo Giannini, “L’anno zero del capitalismo italiano”, Editori Laterza / La Repubblica, 136 pagine, euro 5,90).Sono passati più di otto anni da quando Guido Rossi propose al governo Prodi di attuare una politica “di tipo leninista”: vietare gli accordi parasociali attraverso cui in Italia i soliti noti gestiscono aziende in cui hanno investito il minimo necessario, spalleggiandosi l’uno con l’altro. Oggi che perfino Mediobanca, cioè la regina di questi patti di sindacato, ne predica la dissoluzione, tornano fluidi gli assetti di potere al vertice dell’industria e della finanza. Peccato ciò accada – come spiega l’ultimo saggio di Massimo Giannini – in un panorama di macerie: “L’anno zero del capitalismo italiano”. Passando in rassegna le vicende cruciali di Alitalia, Telecom, Eni, Finmeccanica e Fiat, osserva Gad Lerner, il vicedirettore di “Repubblica” descrive l’intreccio di interessi particolari che si incontrano: come la pulsione elettoralistica di Berlusconi sintonizzata con le aspirazioni politiche del banchiere Passera, col risultato del vergognoso sperpero di denaro pubblico in Alitalia.
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Bruxelles teme il voto: boom dei no-euro in tutta Europa
Aria di rivolta elettorale contro l’euro e l’Unione Europea gestita dalla Troika: i partiti euroscettici e sovranisti potrebbero ottenere quasi la metà dei seggi al Parlamento Europeo, per protesta contro la disoccupazione dilagante e la recessione imposta dall’austerity. Allarme rosso, dunque, per l’establishment di Bruxelles: secondo lo European Policy Institute Network, la grande crisi ha prodotto un’ondata di indignazione che si abbatterà sull’Unione Europea il prossimo 25 maggio. Mentre in Italia il Movimento 5 Stelle continua a crescere, superando Berlusconi e avvicinandosi al Pd di Renzi, il sondaggio Infop realizzato in Francia per “Paris Match” incorona il Front National di Marine Le Pen primo partito col 24%. Stesso scenario in Gran Bretagna, dove lo Ukip di Nigel Farage si appresta a superare conservatori e laburisti. E se in Austria gli anti-europeisti sono dati al 20%, in Olanda stravince Geert Wilders, leader del “partito della libertà”.In linea con l’andamento europeo anche l’Italia, dove – secondo l’ultimo sondaggio di “Scenari politici”, in controtendenza rispetto ai sondaggi più diffusi in televisione – il Partito democratico scende al di sotto della temuta soglia del 30% dei consensi, quasi raggiunto dal Movimento 5 Stelle in crescita continua (quasi al 28%). L’altra notizia riguarda la lista “L’Altra Europa”, capeggiata da Alexis Tsipras, valutata saldamente al di sopra della soglia di sbarramento (4,8%) e quindi al riparo dal rischio-esclusione. «A poco meno di un mese dalle elezioni europee del 25 maggio – prende nota il “Fatto Quotidiano” – il Pd è al primo posto, dato al 28,6% dei consensi, seguito dal M5S al 27,9% e Forza Italia al 18%. Sorprendente la percentuale della Lega Nord che si attesta al 7%. L’alleanza tra Nuovo Centro Destra e Udc viene data al 6%, Fratelli d’Italia al 4,2%. Scelta Europea si attesta al 2,5% e non supera la soglia di sbarramento del 4%, insieme agli altri partiti dati all’1%».I dati, raccolti attraverso un campione di 4.000 interviste tra il 15 e il 17 aprile, sono in molto differenti da quelli dell’ultimo sondaggio Ixè, realizzato in esclusiva per “Agorà” (Rai3). «Rispetto alle intenzioni di voto diffuse dal programma Rai, il Pd (dato al 32,8%) perde circa quattro punti percentuali, mentre il M5S ne guadagna due. Identico in entrambi è il risultato di Forza Italia che si attesta in entrambi al 18%». Sorprendenti, nel sondaggio di “Scenaripolitici.com” i risultati della Lega Nord, che rispetto a quelli Ixè guadagna poco meno di due punti, e quelli della lista di Tsipras. La Lega è la formazione con la campagna elettorale più ostile all’euro, sommata a quella di Fratelli d’Italia (totale, oltre il 10% delle intenzioni di voto). Un altro 33% lo si aggiunge sommando Grillo e Tsipras, anche se la loro posizione – sull’euro e l’Ue – non è così radicale come quella dei no-euro italiani, francesi, inglesi e olandesi. In ogni caso la tendenza è chiara: nonostante i giochi di prestigio di Renzi, il partito dell’establishment italiano pro-euro finirebbe in minoranza, sconfitto da un’opinione pubblica prostrata dalla crisi indotta dalla moneta unica.Aria di rivolta elettorale contro l’euro e l’Unione Europea gestita dalla Troika: i partiti euroscettici e sovranisti potrebbero ottenere quasi la metà dei seggi al Parlamento Europeo, per protesta contro la disoccupazione dilagante e la recessione imposta dall’austerity. Allarme rosso, dunque, per l’establishment di Bruxelles: secondo lo European Policy Institute Network, la grande crisi ha prodotto un’ondata di indignazione che si abbatterà sull’Unione Europea il prossimo 25 maggio. Mentre in Italia il Movimento 5 Stelle continua a crescere, superando Berlusconi e avvicinandosi al Pd di Renzi, il sondaggio Infop realizzato in Francia per “Paris Match” incorona il Front National di Marine Le Pen primo partito col 24%. Stesso scenario in Gran Bretagna, dove lo Ukip di Nigel Farage si appresta a superare conservatori e laburisti. E se in Austria gli anti-europeisti sono dati al 20%, in Olanda stravince Geert Wilders, leader del “partito della libertà”.
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Baranes: la finanza sta sabotando l’economia dell’umanità
Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi cacciavite o cambi casa? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».Da trent’anni, scrive Baranes in una riflessione ripresa da “Micromega”, siamo immersi in un pensiero economico che si fonda sull’idea dell’efficienza dei mercati, da cui discende la necessità di rimuovere vincoli e controlli pubblici che possano ostacolarne il funzionamento. In realtà, «la finanza ha dimensioni decine di volte superiori all’economia di cui dovrebbe essere al servizio». Si sospetta che la quasi totalità delle operazioni finanziarie sia pura speculazione: «Nessun rapporto con l’economia reale, ma unicamente soldi che inseguono soldi per fare altri soldi». La seconda possibilità, ancora peggiore, è che «la finanza lavori con un’efficienza intorno al 1%». Non si tratta solo di risorse economiche, ma anche di risorse umane. I migliori studenti di economia, matematica, informatica e statistica sono attratti dagli alti stipendi verso i centri finanziari, «per creare prodotti sempre più complessi, incomprensibili e rischiosi».Avvertiva il Premio Nobel James Tobin già negli anni ‘80: «Stiamo gettando sempre più risorse, inclusa la crema della nostra gioventù, dentro attività finanziarie lontane dalla produzione di beni e servizi, attività che generano alte remunerazioni private, sproporzionate rispetto alla loro produttività sociale». Il sistema finanziario, dice Baranes, ha «moltiplicato i rischi» in modo esplosivo, sabotando l’economia, «all’esasperata ricerca del massimo profitto nel minor tempo possibile». La finanza? «Dovrebbe essere il mercato dei soldi, per fare incontrare chi ha un risparmio da investire con chi ne ha bisogno per le proprie attività». Oggi, invece, «abbiamo da un lato una montagna di denaro alla disperata ricerca di sbocchi di investimento, e dall’altro una montagna altrettanto alta di bisogni che non sono soddisfatti». Nonostante il vortice di trilioni in costante movimento, è praticamente impossibile ottenere un mutuo: piccole imprese e artigiani sono strangolati dalla mancanza di accesso al credito. La finanza non risolve problemi, crea solo disastri. Salvo poi tentare di incolpare il sistema pubblico: scuola, sanità e acqua potabile da privatizzare, facendo vincere il profitto. Se parliamo di bisogni essenziali dell’umanità, la finanza «ha dimostrato un’assoluta incapacità di operare nell’interesse generale».Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi casa o cambi cacciavite? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».
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Brancaccio: tutti precari? Pessimo affare, ditelo a Renzi
«I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero». Secondo Emiliano Brancaccio, si sta profilando lo scenario previsto dal “monito degli economisti”, pubblicato lo scorso settembre sul “Financial Times”. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene sostituita da quella – altrettanto improbabile – della “precarietà espansiva”: «L’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione», ma rischio è che «si passi da una vecchia a una nuova illusione». Già la “austerità espansiva”, invece di favorire la ripresa, ha solo «alimentato la depressione». Idem per l’aumento della precarizzazione su cui puntano Renzi e la Merkel: «Le evidenze empiriche, dell’Ocse come del Fondo Monetario Internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione».Dare ossigeno all’economia senza aumentare il deficit oltre i limiti imposti da Bruxelles? «La scommessa di Renzi – rispettare il vincolo e abbassare le tasse – si basa evidentemente sulla possibilità che il Pil aumenti, che sia cioè il denominatore ad aumentare facendo scendere il rapporto», dice Brancaccio, intervistato da Luca Sappino per “L’Espresso”. L’economista è scettico: «L’effetto espansivo che Renzi ha previsto di ottenere con questa riduzione delle tasse sarà in realtà modesto, e verrà in parte mitigato dalla diminuzione della spesa pubblica. La spending review su cui tutti puntano può avere un effetto contrario agli 80 euro in busta paga, soprattutto quando si tagliano spese sensibili, come ad esempio il trasporto pubblico». Per il 2014, aggiunge Brancaccio, il taglio della spesa sarà certamente inferiore rispetto a quanto previsto da Renzi. «E’ chiaro quindi che siamo di fronte a un buco di bilancio. Anzi, in un certo senso dovremmo augurarcelo. Anche perché, a prescindere dalle cifre, non esiste un programma di revisione della spesa che sia credibile se realizzato in un semestre».La storia, continua Brancaccio, ci insegna che le revisioni di spesa condotte in fretta e furia «si trasformano in tagli lineari brutali, che colpiscono sempre i soggetti più deboli e non aiutano certo la crescita del Pil». Forse, in Europa sono iniziate «le prove generali per l’annunciato scambio tra un po’ meno austerità e un po’ più riforme del lavoro», ma certo non se ne esce con la dottrina della “precarietà espansiva”, perché la precarietà non espande proprio nulla. Dietro, «vi è l’idea che l’intera Eurozona si salva solo se i paesi periferici, a colpi di precarizzazione del lavoro, riescono ad abbattere i salari, i costi e i prezzi. In questo modo si dovrebbe colmare il divario di competitività rispetto alla Germania e si dovrebbero quindi riequilibrare i rapporti di credito e debito all’interno dell’Unione». La storia però smonta ogni illusione: questo meccanismo non funziona, perché «impone ai soli paesi debitori il peso del riequilibrio». In questo modo, «l’intera Unione viene trascinata in una corsa salariale al ribasso, che può determinare una deflazione generalizzata e una nuova crisi del debito».«I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero». Secondo Emiliano Brancaccio, si sta profilando lo scenario previsto dal “monito degli economisti”, pubblicato lo scorso settembre sul “Financial Times”. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene sostituita da quella – altrettanto improbabile – della “precarietà espansiva”: «L’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione», ma rischio è che «si passi da una vecchia a una nuova illusione». Già la “austerità espansiva”, invece di favorire la ripresa, ha solo «alimentato la depressione». Idem per l’aumento della precarizzazione su cui puntano Renzi e la Merkel: «Le evidenze empiriche, dell’Ocse come del Fondo Monetario Internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione».