Archivio del Tag ‘recessione’
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Com’era bella l’Italia quando non eravamo ancora liberisti
Qualche giorno fa, illustrando il 25esimo rapporto sui cambiamenti economici e sociali, l’Istat ci ha spiegato con la forza fredda dei grandi numeri, che l’Italia è un paese in declino, nel quale le diseguaglianze aumentano invece che ridursi. La classe media è risucchiata nel proletariato, il proletariato si accapiglia col sotto-proletariato per un po’ di lavoro o un po’ di welfare mentre una piccola schiera di privilegiati scivola dietro la curva e scompare dall’orizzonte. Di fronte a questo scenario, di solito, i sociologi dicono che l’ascensore sociale si è rotto. Ma non è così. L’ascensore sociale non si è rotto; è stato manomesso da una selvaggia impostazione economica che regge la globalizzazione e che va sotto il nome di neo-liberismo. Per spiegarmi voglio essere del tutto anti-scientifico. Non ricorrerò alle medie di Trilussa che soccorrono gli economisti quando vogliono dirci che tutto va bene anche quando sembra che tutto vada male. No. Per convincervi che tutto andava bene quando sembrava che tutto andasse male, io ricorrerò ai miei ricordi di gioventù. Niente di più soggettivo, niente di più vero.Erano gli anni 80, i jeans si portavano ancora sopra il livello delle mutande, nessuno si sarebbe mai arrischiato a mangiare pesce crudo in un ristorante cinese e Mani Pulite non ci aveva ancora privato di una classe politica paurosamente incline alle tangenti ma anche fieramente impermeabile al capitalismo liberista. Dai grandi sentivo dire che avevamo un sacco di guai, che oggi scopro essere gli stessi di sempre; anzi, gli stessi di tutti i paesi. In quell’Italia però l’ascensore sociale funzionava. Coi suoi tempi, scalino dopo scalino, ma funzionava. La prima cosa che ricordo è che in classe l’appello contava una trentina di nomi. Le famiglie erano più numerose di oggi e a scuola ci mischiavamo tutti: i figli dei ricchi coi figli dei poveri coi figli della classe media. Al di là di qualche accessorio più scintillante, tuttavia, lo stile di vita non era poi così differente. Con diecimila lire trascorrevamo, tutti insieme, la serata in pizzeria.Non ricordo problemi di disoccupazione. Chi non aveva voglia di studiare, se ne andava a fare il muratore, l’operaio o l’artigiano e a 18 anni riuscivi pure ad invidiarlo perché si era già potuto comprare una macchina burina che piaceva alle ragazze burine. Ma allora nessuno sembrava burino, forse perché lo eravamo tutti. Una cosa che proprio non esisteva era Equitalia. Fatta eccezione per l’acquisto della casa e dell’automobile, non ci si indebitava per i beni voluttuari. Nessuno faceva un finanziamento per andare in vacanza, comprare un motorino e tantomeno un televisore da 42 pollici. Nemmeno te lo proponevano. Le cose, molto semplicemente, si compravano quando si avevano i soldi per comprarle. Altrimenti, si aspettava. In famiglia, ma più in generale nella società, c’era una cultura condivisa del risparmio. Il denaro non era il presente, il denaro era il futuro. Lo insegnavano i nonni, dotandoci di salvadanai nei quali accumulare gli spiccioli delle mance e regalandoci buoni postali che avremmo riscosso una volta maggiorenni, toccando con mano, e con anni di ritardo, tutta la concreta lungimiranza del loro affetto.Insieme al risparmio, l’altro grande valore era lo studio. Ricordo padri e madri fieri di poter mandare i propri figli, miei compagni, al liceo anziché alla scuola professionale e poi commossi fino alle lacrime per il primo laureato della casa. Nessuno allora parlava in modo sprezzante del “pezzo di carta”. La laurea era la garanzia di una promozione sociale che nessuno avrebbe più retrocesso e che diventava una conquista collettiva dell’intera famiglia. Non solo dello studente; anche di chi, con sacrificio, gli aveva consentito di studiare. L’istruzione, tuttavia, non era l’unico trampolino sociale. Tanti operai, dopo qualche anno di apprendistato e specializzazione, riuscivano a coronare il sogno di “mettersi in proprio”. Si diceva così e lo si diceva con orgoglio perché aprire una partita Iva, allora, era ancora una libera scelta. Andavi in banca, spiegavi il tuo progetto, ti davano un prestito e cominciava l’avventura che segnava la vita: da operaio a padrone. Quelli però erano padroni diversi dai grandi industriali di ieri e dai piccoli manager di oggi. Quelli erano padroni che, dentro, continuavano a sentirsi operai. Padroni che usavano le mani, che parlavano in dialetto e che conservavano un’intima diffidenza per i saputelli anglofili che poi avrebbero rovinato tutto.Com’era bella quell’Italia. Provinciale, ombelicale, modesta, furbacchiona, eppure così solida, generosa e vitale. Scrivere è terapeutico. Così mi accorgo solo ora del motivo profondo per cui ho scritto questo articolo senza capo né coda. L’ho scritto perché non riesco a perdonare chi mi ha portato via quel paese. Non perdono chi ci ha abituato a fare debiti per tv ultrapiatte, chi ci ha venduto come modernità i co.co.co, i co.co.pro e i voucher e chi ha inchiodato i giovani ad un telefonino per distrarli da un oggi senza domani. Più di tutto, però, io non riesco a perdonare chi non ha soccorso quei piccoli eroi dalle mani callose che, piuttosto di abbassare la saracinesca di una fabbrica, hanno scelto di abbassare la saracinesca di una vita. Padroni perché padroni di loro stessi. Operai perché operosi.(Alessandro Montanari, “Com’era bella l’Italia quando non eravamo liberisti”, da “Interesse Nazionale” dell’8 giugno 2017. Giornalista e autore televisivo, Montanari ha lavorato in Rai a “L’ultima parola” e ora, sempre con Gianluigi Paragone, lavora a “La Gabbia Open”, su La7).Qualche giorno fa, illustrando il 25esimo rapporto sui cambiamenti economici e sociali, l’Istat ci ha spiegato con la forza fredda dei grandi numeri, che l’Italia è un paese in declino, nel quale le diseguaglianze aumentano invece che ridursi. La classe media è risucchiata nel proletariato, il proletariato si accapiglia col sotto-proletariato per un po’ di lavoro o un po’ di welfare mentre una piccola schiera di privilegiati scivola dietro la curva e scompare dall’orizzonte. Di fronte a questo scenario, di solito, i sociologi dicono che l’ascensore sociale si è rotto. Ma non è così. L’ascensore sociale non si è rotto; è stato manomesso da una selvaggia impostazione economica che regge la globalizzazione e che va sotto il nome di neo-liberismo. Per spiegarmi voglio essere del tutto anti-scientifico. Non ricorrerò alle medie di Trilussa che soccorrono gli economisti quando vogliono dirci che tutto va bene anche quando sembra che tutto vada male. No. Per convincervi che tutto andava bene quando sembrava che tutto andasse male, io ricorrerò ai miei ricordi di gioventù. Niente di più soggettivo, niente di più vero.
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Il “fratello” Romano Prodi, globalizzatore in grembiulino
Caro, vecchio Romano Prodi? Macchè: «Non è certo quel pacioccone bonaccione, quel bravo curato e padre di famiglia che è stato presentato all’immaginario collettivo degli italiani». Nonostante il piglio bonario, il professore bolognese «è un personaggio molto tagliente, molto abile, anche molto attento al proprio “particulare”». Un soggetto a tutto tondo, da raccontare: il Prodi “segreto” sarà tra gli argomenti del secondo volume di “Massoni”, che Gioele Magaldi sta per stare alle stampe. Con una sorpresa: «Prodi è anche lui parte di una rete massonica sovranazionale». Presidente dell’Iri e grande privatizzatore, poi capo del governo, presidente della Commissione Europea, advisor della Goldman Sachs. E, nel frattempo, anche massone: «Tra coloro che hanno contribuito in senso pessimo, per l’Italia e per l’Europa, agli svolgimenti politico-economici nell’era della globalizzazione, cioè nel post-1992, c’è il “fratello” Romano Prodi», il cattolico democristiano che nel 1978 evocò il nome “Gradoli” – per indicare il luogo della prigione di Moro – raccontando di averlo ricevuto nell’ambito di una seduta spiritica. Prodi supermassone? Ebbene sì: parola di Gioele Magaldi. Che, per il secondo volume della serie, potrebbe avvalersi del contributo di una superstar della massoneria mondiale, come il controverso George Soros.Nel “primo round” delle sue clamorose rivelazioni – silenziate dal mainstrem in modo tombale – Magaldi ha scontato una critica ricorrente: non aver documentato le sue affermazioni, spesso esplosive, al punto da ridisegnare la mappa del vero potere, mettendo in relazione personaggi come Monti, Draghi e Napolitano con il mondo internazionale delle 36 Ur-Lodges che rappresentano il supremo vertice delle grandi decisioni. In realtà, Magaldi è stato chiaro dal principio: «Ogni mia affermazione è documentabile, dispongo di 6.000 pagine di dossier. Sono pronto a esibirle, se qualcuno contesterà quanto ho scritto». Ma gli interessati, naturalmente, si sono ben guardati dal fiatare: molto meglio la congiura del silenzio. E ora, dopo “La scoperta delle Ur-Lodges”, si avvicina la pubblicazione del sequel, “Globalizzazione e massoneria”, con retroscena sulla svolta oligarchica che ha svuotato le democrazie occidentali, imponendo politiche di rigore (e oggi anche terrorismo targato Isis) affidate a docili esecutori: come lo stesso Prodi, la cui vera identità – secondo Magaldi – è sfuggita alla maggior parte degli italiani. Un uomo di potere, in grembiulino. L’elettorato di sinistra lo ricorda con nostalgia? Sbaglia: il primo a metterlo in croce, quand’era a capo della Commissione Ue, fu Paolo Barnard su “Report”, che presentò il ritratto di un cinico tecnocrate, schierato con i peggiori oligarchi.Prodi è stato l’unico a battere Berlusconi, due volte su due? Vero, ammette Magaldi, parlando a “Colors Radio”: all’inizio, «quel grande carrozzone che è stato l’Ulivo individuò in modo perfetto, in Prodi, il suo leader». E Berlusconi, «grazie ai buoni uffici della Lega di Bossi, fu defenestrato, nel ‘94». Poi l’interregno di Lamberto Dini e quindi l’arrivo di Prodi nel ‘96. Con che esito? «L’effetto del governo Prodi è stato così ottimo, traghettandoci così bene in Europa, che nel 2001 Berlusconi ha rivinto». Poi c’è stata la seconda vittoria prodiana del 2006, di stretta misura, presto naufragata tra il Pd veltroniano, Bertinotti e Mastella, fino a rimettere Berlusconi al potere nel 2008. Certo, «Berlusconi si è rovinato con le sue mani: non è stato all’altezza della situazione». Ma a pesare, nel fallimento di Prodi, «sono state le pessime azioni di governo, da parte di Prodi e di tutti coloro che l’hanno accompagnato: il centrosinistra italiano, con Prodi e gli altri, non ha saputo produrre una politica lungimirante per questo paese». In altre parole, per Magaldi, «Prodi non ha saputo interpretare il post-1992 in un senso utile a costruire benessere, non dico uguale ma almeno di poco inferiore a quello della Prima Repubblica».Al pari del centrodestra di Berlusconi, il centrosinistra «ha fatto scempio dell’interesse del popolo italiano», piegandosi all’élite eurocratica. E quindi, «che benemerenza c’è nel fatto che Prodi si sia alternato a Berlusconi, battendolo?». In pratica, «sono due facce della stessa medaglia: centrodestra e centrosinistra si sono alternati senza nessuna vera differenza nella gestione di un paese che dipendeva da linee progettate altrove: costoro hanno soltanto fatto da esecutori, secondo una commedia dell’arte per cui, magari, apparentemente, mettevano ingredienti diversi, ma la sostanza rimaneva la medesima». Linee progettate altrove: nei santuari dell’oligarchia finanziaria, industriale, militare, che – partendo dai circuiti esclusivi delle superlogge internazionali – dirama vere e proprie direttive, declinate attraverso think-tank e organismi paramassonici (Trilaterale, Bilderberg, World Bank, Fmi) per poi scendere, a cascata, fino ai governi nazionali, ai leader come D’Alema, Prodi, Renzi. A volte, poi, l’élite supermassonica “commissaria” direttamente un paese: è accaduto con il “fratello” Monti, «che rappresenta quanto di peggio può offrire la rete massonica sovranazionale in senso neo-aristocratico».«Ho più rispetto e stima per un Mario Draghi, che reputo più pericoloso», dice Magaldi. «Monti è un massone che è stato vittima della propria tracotanza, della propria retorica manipolatoria. E appena ha avuto l’occasione di passare dal “back-office” al “front-office”, ha fallito miseramente per eccesso di narcisismo, avendo creduto lui stesso alla retorica che i media italiani avevano creato attorno alla sua figura e alle meraviglie presunte del suo governo». Per Magaldi, Mario Monti è comunque «un grande sconfitto, in questo tentativo di devastazione industriale, economica e sociale dell’Italia: ci ha provato, ha fatto dei danni, ma poi è stato preso a calci nel sedere dall’elettorato». Dopo di lui, è arrivato Enrico Letta, che secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, è un “paramassone”, in realtà in quota all’Opus Dei. «Non ne sentiamo la mancanza», assicura Magaldi. «Nessun rimpianto: se c’è una cosa buona che ha fatto Renzi, a parte la legge sulle unioni civili, è stata quella di aver mandato a casa Enrico Letta e il suo soporifero governo, che peraltro riprendeva e ricalcava pienamente le politiche di Monti». Quanto alle tentazioni massoniche dell’ex premier, Magaldi si è già espresso più volte: «Renzi ha ripetutamente bussato alle porte della supermassoneria reazionaria, attraverso il Council on Foreign Relations, ma non gli è stato aperto». A differenza del “fratello” Romano Prodi, che invece – secondo Magaldi – siede da lunghi anni nel salotto buono della super-massoneria di potere.Caro, vecchio Romano Prodi? Macchè: «Non è certo quel pacioccone bonaccione, quel bravo curato e padre di famiglia che è stato presentato all’immaginario collettivo degli italiani». Nonostante il piglio bonario, il professore bolognese «è un personaggio molto tagliente, molto abile, anche molto attento al proprio “particulare”». Un soggetto a tutto tondo, da raccontare: il Prodi “segreto” sarà tra gli argomenti del secondo volume di “Massoni”, che Gioele Magaldi sta per stare alle stampe. Con una sorpresa, tra le tante: «Prodi è anche lui parte di una rete massonica sovranazionale». Presidente dell’Iri e grande privatizzatore, poi capo del governo, presidente della Commissione Europea, advisor della Goldman Sachs. E, nel frattempo, anche massone: «Tra coloro che hanno contribuito in senso pessimo, per l’Italia e per l’Europa, agli svolgimenti politico-economici nell’era della globalizzazione, cioè nel post-1992, c’è il “fratello” Romano Prodi», il cattolico democristiano che nel 1978 evocò il nome “Gradoli” – per indicare il luogo della prigione di Moro – raccontando di averlo “ricevuto” nell’ambito di una seduta spiritica. Prodi supermassone? Ebbene sì: parola di Gioele Magaldi. Che, per il secondo volume della serie, potrebbe avvalersi del contributo di una superstar della massoneria mondiale, come il controverso George Soros.
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Ma il Renzi francese finirà tra i fischi, come quello italiano
Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successive alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honorum della politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la Jp Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e “France Insoumise” nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).No, non era interesse dei media soffermarsi su questi curiosi, ma scomodi, particolari: la loro volontà era piuttosto quella di evidenziare come entrambi incarnino il rinnovamento, la modernità, l’europeismo, l’apertura agli ideali liberali. Soprattutto, si è tentato in Italia di sfruttare la vittoria di Emmanuel Macron per rilanciare Renzi, quasi che l’ex-premier potesse ricevere in dono dal nuovo inquilino dell’Eliseo una seconda vita politica. “L’Espresso” di Carlo De Debenetti è arrivato addirittura a scrivere, lo scorso 5 aprile: «La nuova sfida di Renzi: diventare Macron. L’ex premier guarda al candidato centrista francese. Perché una sua vittoria avrebbe effetti anche in Italia. E gli lancerebbe la volata verso la riconquista di partito e governo». Viviamo, si sa, un’epoca in cui cadono le illusioni sulla democraticità delle nostre istituzioni, un’epoca di massiccia e costante guerra psicologica, un’epoca in cui la razionalità è una merce sempre più rara. Sono tempi in cui si potrebbe leggere sul giornale: “La nuova sfida della frittata: diventare uovo”.Già. Non c’è alcun dubbio che la narrazione dei media su Macron e Renzi sia deliberatamente invertita dal punto di vista cronologico. Non è l’ex-premier italiano che può diventare Macron (perché il momento magico che quest’ultimo ora vive, Renzi lo ebbe nella lontana primavera del 2014), quanto piuttosto è il nuovo presidente francese ad essere probabilmente ossessionato dal triste epilogo dell’ex-presidente del Consiglio. L’Italia, infatti, si colloca rispetto alla Francia un passo in avanti in termini di crisi economica/politica: l’esperienza del giovane “rottamatore” appartiene non al nostro presente, ma al nostro passato, ed è stata brutalmente archiviata il 4 dicembre scorso con la bocciatura del referendum costituzionale. Sono bastati mille giorni (Job Acts, privatizzazioni, inasprimenti fiscali, immigrazione incontrollata, disoccupazione a due cifre, stagnazione economica) perché l’indice di gradimento di Renzi scivolasse sotto il 30% e gli italiani decidessero di sbarazzarsi di lui, ricordando l’infausta promessa “se perdo il referendum, lascio la politica”.Constata l’identità tra l’agenda di Renzi e quella di Macron, è facile prevedere che lo stesso tempo sia sufficiente per annichilire politicamente l’ex-Rothschild: data la maggiore dose di “mercato” che Macron deve introdurre in Francia, l’assenza di un saldo partito di riferimento e la bellicosità della società francese, è addirittura ipotizzabile che l’enfant prodige della politica francese entri in crisi addirittura nel secondo anno di presidenza. Il “Financial Times” a suo tempo descrisse Renzi come “the last hope for the italian élite”: noi possiamo senza alcun indugio descrivere Macron come “l’ultima speranza dell’establishment francese”. Dopo il quinquennio dell’ex-Rothschild, non ci sarà più nessuna presidenza socialista, né centrista, né repubblicana: sarà l’ora delle forze anti-sistema, che si chiamino Front National o con un altro nome, che a guidarle sia ancora Marine Le Pen od un’altra figura. Il pendolo ha ripreso il suo viaggio verso la dissoluzione economica dell’Unione Europea e, in ordine cronologico, sono tre le prossime tappe salienti: il precipitare della situazione italiana, complice anche la prossima instabilità politica; una nuova recessione globale che cova sotto le ceneri; il rialzo dei tassi da parte dalla Fed e/o della Bce. Come direbbero in Francia: nous avons perdu une bataille, on gagnera la guerre!(Federico Dezzani, estratto dal post “La Francia ha scelto il suo Matteo Renzi, e già sappiamo che fine farà”, dal blog di Dezzani dell’8 maggio 2017).Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successive alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honorum della politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la Jp Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e “France Insoumise” nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).
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Hanno mangiato la brioche: Macron, capolavoro del potere
Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’“estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro. Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014?E cosa ci si può aspettare da corpi elettorali sistematicamente frastornati da un’informazione divenuta cane da guardia del gregge e sempre più composti dalle generazioni perdute, rassegnate alla precarietà, votate al dilettantismo e orgogliose di “spiccicare” in inglese per poter imitare modelli di subordinazione e di primitivismo antropologico? Cosa ci si può attendere da giovani di apparente sinistra che affermano di aver dovuto scegliere tra fascismo e capitalismo? Nemmeno si accorgono che i capitalisti hanno scelto per loro fin dall’inizio, che hanno creato le condizioni per una dicotomia così ridicola tra una signora di provincia piuttosto confusa e dunque anche erratica sui temi della campagna e un giovanotto ricco, arrogante e del tutto irrilevante sul piano della politica e dell’intelligenza. Li hanno messi nel recinto lasciando che fossero loro stessi a chiuderlo; il vecchio fascismo è usato da quello nuovo come un’arma per la lotta di classe.Per quanta generosità e per quanta abilità possano avere i dirigenti che vengono da un altro mondo come Mélenchon, cosa possono mai fare con questa creta antropologica creata dal neoliberismo? E’ come se Michelangelo dovesse creare la Pietà col pongo e dipingere la Sistina con le bombolette. Infatti chi non voleva scegliere il capitalismo poteva astenersi invece di andare a fornire il proprio contributo, negare quanto meno il consenso, relativizzando la vittoria di Macron. E di certo non si ci saranno difficoltà per la potente macchina mediatica a riproporre lo stesso rozzo schema dicotomico alle legislative tra poco più di un mese. Sarà ancora capitalismo contro fascismo, democrazia contro comunismo, crescita contro i fantasmi di recessione annunciata, sicurezza contro libertà (magari con qualche sollecitato apporto del Califfo), il giovane presidente contro il vecchio Parlamento anche se a Macron non dovrebbe poi dispiacere: insomma la caricatura della dialettica, quella che è stata così efficace specie dopo il crollo del comunismo e il contemporaneo crollo della cultura politica.Mélenchon, il leader della sinistra, aveva rifiutato di cadere in questo semplicistico tranello, evitando la logica del meno peggio nella speranza di poter mettere un argine ai poteri finanziari almeno alle legislative, condizionando l’Eliseo, ma dai risultati che vediamo, dalla demonizzazione e dal ricatto che è stato esercitato su di lui e dalla esiguità della pattuglia dei non macronisti per necessità, si può legittimamente dare per fallito anche questo progetto. C’è chi pensa che questa situazione di impotenza porterà a una serie di secessioni interne nella sinistra, tra Francia periferica e Francia metropolitana, tra Francia repubblicana e Francia mussulmana, tra Francia operaia e Francia borghese, insomma a una decostruzione del paese. Ma questo è per l’appunto l’obiettivo del capitale globale: fare in modo che vi sia meno società collettiva possibile per potere dominare meglio: più un paese è spaccato all’interno, meglio è, nonostante i problemi che questo può creare. Quindi è vero che Macron all’Eliseo finirà per radicalizzare la battaglia politica, ma nel contesto attuale questo non potrà che portare acqua al mulino dei suoi burattinai.(“Hanno mangiato la brioche”, dal blog “Il Simplicissimus” dell’8 maggio 2017).Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’“estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro. Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014?
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Attali, cioè Macron: salvare la Francia a spese dell’Italia
Ho riletto recentemente un libro importantissimo, il saggio “Come finirà” di Jacques Attali: ebreo, estremamente influente, consigliere di svariati presidenti francesi senza distinzione partitica e soprattutto vero mentore di Emmanuel Macron, molto probabilmente il prossimo presidente d’oltralpe. Oggi molti in Italia pensano erroneamente che avere un giovane come presidente in Francia sia una buona notizia. Nulla di più errato, sarà il perfetto contrario per gli interessi italici. Visto che quanto verrà fatto da Macron ricalcherà le idee di Attali ben spiegate nel saggio in oggetto, vale la pena di spiegarvi quale può essere la strategia eurofrancese del nuovo presidente in relazione all’Italia. Notasi: il saggio citato è del 2010, ossia antecedente a tutti gli eventi più scottanti che hanno riguardato l’Italia, di fatto anticipati in modo addirittura imbarazzante. In breve, i concetti fondamentali che emergono dallo splendido saggio sopra citato sono, secondo chi, scrive quattro. Primo: la storia insegna che gli Stati perdono la loro autonomia venendo fin anche smembrati principalmente a causa dell’eccesso di debito (normalmente in presenza di un debito eccessivo si diventa un protettorato alla mercè di chi detiene le tue obbligazioni).Secondo: appunto, la crisi del 2008 secondo l’autore non fu una semplice recessione ricorrente ma una vera crisi sistemica del modello capitalistico occidentale del primo mondo, a causa principalmente di un accumulo eccessivo di debito con corrispondente enorme creazione di credito bancario, per sostenere i consumi altrimenti asfittici. Terzo: l’Italia – secondo Attali – era messa particolarmente male a causa dell’enorme debito pubblico, con inevitabili crisi prospettiche; nonostante questo, lo stesso autore ammette che l’uscita dall’euro sarebbe stata utile all’Italia, ma questo avrebbe disintegrato l’Ue e quindi gli interessi di Francia e Germania soprattutto a causa delle conseguenze del subprime, positivissime per Roma in rapporto alle altre capitali ex-coloniali europee (le cui banche erano tecnicamente fallite e infatti vennero salvate in larga parte dallo Stato). Alcuni esempi di banche fallite in Europa, dove lo Stato dovette intervenire con la segregazione dei debiti in “bad banks” o ricapitalizzazioni: Ubs, Ing, Ikb, WestLb, Dexia, Lloyds, Rbs, Northern Rock, Hsh Nordbank, Santander, Bank of Ireland, Commerzbank, Deutsche Postbank, ecc.Il punto 4, l’ultimo, lo spiegherò di seguito. Prima una contestualizzazione importante, taciuta (ad arte) da Attali che – non dimentichiamolo mai – resta profondamente francese: nel 2009 l’Italia presentava il sistema bancario più sano dell’Occidente grazie ad una relativa arretratezza che aveva evitato agli istituti nazionali – a pena di rendimenti passati più bassi delle controparti estere – di prendere rischi che non si comprendevano. Ad esempio i debiti subprime nei portafogli delle banche italiane erano relativamente ridotti, idem i crediti concessi alla Grecia. E senza dimenticare che gli immobili in Italia salirono sì ad inizio millennio, ma non raggiunsero mai i livelli folli di Irlanda, Spagna e finanche Olanda. Ossia i debiti inesigibili italiani, a fronte di una economia che tutto sommato teneva, erano perfettamente sotto controllo. L’unica banca italiana che soffriva era Unicredit, a causa delle sue partecipate tedesche e austriache. Ma tale istituto venne di fatto salvato da Gheddafi, sempre vicino all’Italia nel momento del bisogno (sua madre era italiana). Molto probabilmente tale intervento a salvataggio di Unicredit rappresentò il giusto motivo per toglierlo di mezzo.Ora il punto 4: i paesi fortemente indebitati e in crisi del 2009 – Italia esclusa, come abbiamo visto – rappresentavano il primo mondo; in tale contesto non potevano crollare e, come sempre capita quando si parla di potenze coloniali, fu necessario fare in modo che il debole pagasse per te (…). Da qui la decisione dei grandi europei di imputare colpe tutto sommato inesistenti all’Italia, con il fine di impossessarsi dei suoi attivi, per salvarsi loro stessi. Forse ora si capisce la reiterata richiesta a Berlusconi di fare arrivare la Troika in Italia. Il Cavaliere giustamente rifiutò e sappiamo come è andata a finire. Poi l’austerità imposta dall’Eu franco-tedesca via Mario Monti e continuata con Letta e Renzi (tutti e tre cooptati dall’Eu francotedesca, il primo al limite del criminale per le conseguenze dei suoi provvedimenti) ha fatto il resto, indebolendo le imprese nazionali e quindi creando i famosi crediti inesigibili “Npl”, che vediamo oggi su tutti i giornali (dopo 6 anni di recessione imposta dall’austerità è un miracolo non essere ancora falliti). Ora, Attali scrisse in tempi non sospetti nel suo saggio che l’Italia non poteva ne può uscire dall’euro, altrimenti salta l’Ue e dunque prima di tutto la Francia, oberata da privilegi statali enormi. Dunque, Macron cosa farà quando sarà alla presidenza francese? Semplice, seguirà le ricette economiche di Attali. Ossia per salvare la Francia supporterà il più possibile l’austerità a danno dell’Italia, che dovrà accettare la Troika. Ossia spogliarsi dei propri beni anche con tassazione enorme verso i propri concittadini.Vedremo se a causa di ciò il Belpaese diventerà semplicemente povero o verrà anche fatto a pezzetti. Per inciso, di uscire dall’euro manco a parlarne (ed ora con Trump “normalizzato” anche l’ultima speranza è morta). Ah, dimenticavo: in questi casi la storia insegna che il sangue per le strade è immancabile. E se pensate che – come “sempre” è accaduto – “qualcuno” difenderà il Belpaese da tale ignobile fine, temo vi sbagliate: guardate solo chi è stato insignito della Legion D’Onore francese tra i notabili italiani per capire che una buona parte dell’intellighenzia italica tiferà estero, sono certo che per riffa o per raffa tutti sono stipendiati da fuori Italia. Ne cito solo alcuni: Carlo De Benedetti, Gilberto Benetton, Anna Maria Tarantola, Claudio Scajola, Enrico Letta (proposto per quest’anno), il generale degli alpini Massimo Panizzi (quello che dovrebbe presidiare il confine alpino con i vicini d’oltralpe). Poi l’immancabile Romano Prodi e anche Giorgio Napolitano. Eccetera. Fortunatamente ci sono anche soggetti veramente onorevoli che la Legion d’Onore l’hanno rifiutata: su tutti il generale Tricarico, che la rispedì al mittente in protesta per il di fatto attacco agli interessi italiani di Sarkozy in Libia del 2011 (tutti in piedi a salutare con orgoglio tale valoroso rappresentanze della nazione, uno dei pochissimi). Auguroni davvero.(Mitt Dolcino, “Il mentore di Macron, Attali, ha previsto il fallimento dell’Italia, per salvare l’Eu. Pessime notizie per il futuro”, da “Scenari Economici” del 26 aprile 2017).Ho riletto recentemente un libro importantissimo, il saggio “Come finirà” di Jacques Attali: ebreo, estremamente influente, consigliere di svariati presidenti francesi senza distinzione partitica e soprattutto vero mentore di Emmanuel Macron, molto probabilmente il prossimo presidente d’oltralpe. Oggi molti in Italia pensano erroneamente che avere un giovane come presidente in Francia sia una buona notizia. Nulla di più errato, sarà il perfetto contrario per gli interessi italici. Visto che quanto verrà fatto da Macron ricalcherà le idee di Attali ben spiegate nel saggio in oggetto, vale la pena di spiegarvi quale può essere la strategia eurofrancese del nuovo presidente in relazione all’Italia. Notasi: il saggio citato è del 2010, ossia antecedente a tutti gli eventi più scottanti che hanno riguardato l’Italia, di fatto anticipati in modo addirittura imbarazzante. In breve, i concetti fondamentali che emergono dallo splendido saggio sopra citato sono, secondo chi, scrive quattro. Primo: la storia insegna che gli Stati perdono la loro autonomia venendo fin anche smembrati principalmente a causa dell’eccesso di debito (normalmente in presenza di un debito eccessivo si diventa un protettorato alla mercè di chi detiene le tue obbligazioni).
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Berlino ha stravinto, ora può solo scegliere come perdere
L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?«Se gli Stati Uniti decidono che a loro conviene avere a che fare con un’Europa politicamente divisa, economicamente a pezzi e socialmente instabile, allora sostenere l’euro è per loro la scelta migliore», quella del “divide et impera”. Ma siamo sicuri che convenga, a Washington? Se invece gli Stati Uniti ritengono che un’Europa in buona salute dal punto di vista politico ed economico possa essere un alleato più utile sullo scenario globale, allora – sempre secondo l’analisi di Bagnai, ripresa da “Voci dall’Estero” – dovrebbero «promuovere uno smantellamento controllato dell’euro». Attenzione: «Disfare l’euro non sarà privo di costi». In ogni caso, però, «saranno costi comunque inferiori a quelli che comporta l’alternativa», ovvero il protrarre questa paurosa stagnazione dell’economia europea e quindi mondiale, oltre al rischio crescente di una grave crisi finanziaria. Stagnazione che, peraltro, produce gravi conseguenze sull’economia globale, derivando anche da «regole europee sbagliate per gestire gli enormi squilibri creati da istituzioni europee viziate in partenza».L’integrazione economica europea, insiste Bagnai, ebbe un ruolo-chiave nel promuovere la prosperità della parte occidentale del continente, quando quella orientale era sotto il dominio dell’Urss. Poi, di colpo, la caduta la Cortina di Ferro «riportò sulla scena quella che era stata per secoli la causa principale di grandi sofferenze: la difficile relazione tra Francia e Germania». Il motivo del fallimento dell’euro, definito “sbrigativo matrimonio di convenienza” tra Parigi e Berlino? «E’ lo stesso che diede il colpo di grazia agli accordi di Bretton Woods», che stabilirano il dollaro come valuta internazionale: «Entrambe le due istituzioni promuovono la nascita di squilibri esterni, anche se per ragioni diverse». C’è sempre un peccato originale: quello del sistema di Bretton Woods «era stato l’adozione della valuta di uno Stato come valuta mondiale», mentre quello dell’euro «è stato l’adozione di una valuta senza Stato come valuta regionale». Il loro difetto comune? «La presenza di un tasso di cambio fisso, che impedisce l’aggiustamento della bilancia dei pagamenti».Il sistema di Bretton Woods è durato a lungo, ricorda Bagnai, grazie al carattere dei mercati finanziari, che allora erano regolamentati, e alla capacità di visione del paese leader, gli Stati Uniti. «Di entrambe le cose non c’è traccia in Eurozona, dove è promossa una libertà di movimento dei capitali senza restrizioni, in assenza di qualsivoglia autorità regionale di supervisione, e dove il leader regionale, la Germania, è con ogni evidenza ossessionato da una oltremodo miope smania di accrescere il più possibile il suo surplus esterno». L’estrema rigidità dell’euro «ha incentivato il mercantilismo», cioè «la tentazione di tesaurizzare i capitali internazionali invece di reinvestirli nell’economia mondiale», e la pulsione mercantilista orienta il commercio a vantaggio dei paesi del nucleo centrale, la cui valuta in termini reali è sottovalutata, preservando il valore delle loro attività nette sull’estero. «Ma il presunto vincitore nella gara dell’euro, la Germania, si ritrova ora in un vicolo cieco», continua Bagnai. «Se vuole mantenere in vita l’Eurozona, deve accettare le politiche monetarie estremamente espansive della Bce». Viceversa, «una politica monetaria più restrittiva darebbe sollievo ai creditori, ma esattamente per lo stesso motivo provocherebbe il crollo istantaneo dei paesi debitori, rendendo loro ben difficile sostenere il debito».Se invece crescessero i redditi, nei paesi debitori, questo «rilancerebbe il debito estero, tornando a incentivare gli squilibri che hanno provocato la crisi». Secondo il Tesoro Usa, la Germania è riuscita a stravincere «grazie a manipolazioni del Forex», il mercato globale decentralizzato, nel quale tutte le valute del mondo vengono scambiate in ogni momento ad un prezzo concordato. I tedeschi si sono serviti di un euro «fortemente svalutato» per sfruttare gli Usa e gli altri partner commerciali: questa l’accusa di Peter Navarro, capo del National Trade Council degli Stati Uniti, secondo cui «l’euro è un marco travestito». Ma ora, aggiunge Bagnai, Berlino può solo scegliere come perdere: tutto in un colpo (per il collasso dei suoi debitori) o a poco a poco (a causa di tassi di interesse nulli o negativi). L’Europa è in declino, conclude l’economista, ma è ancora troppo grande per crollare senza terremotare il resto del mondo. Secondo i massimi economisti Usa, l’euro ha le ore contate. «La causa più probabile sarà un collasso del sistema bancario italiano, che trascinerà con sé quello tedesco. È nell’interesse di qualsiasi potere politico, certamente dei vacillanti leader europei, ma probabilmente anche degli Stati Uniti, gestire – piuttosto che subire – questa conclusione».L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?
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Ventotene: sogno federale, imperialismo reale Usa-Berlino
È ed era del tutto irrazionale pensare che gli Stati Uniti permettano che l’Europa si unifichi e diventi così un loro concorrente globale. Gli Usa, a seguito della seconda guerra mondiale, mantengono tuttora una massiccia presenza militare di controllo in Germania, Italia, Belgio, Olanda e la mantengono a titolo di occupazione e controllo, non certo per difesa contro un Patto di Varsavia che non c’è più, anche se ora gli Usa si sforzano di spingere l’Europa al conflitto con la Russia lavorando sull’Ucraina. È invece razionale e confermato dai fatti che gli Stati Uniti usano la loro posizione di potenza occupante proprio per assicurarsi che quell’unificazione non avvenga. Per gli Usa, l’assetto conveniente dell’Europa non è federale, come quello sognato a Ventotene, ma un assetto in cui la principale potenza continentale, la Germania, saldamente controllata da Washington, saldamente antisolidale verso gli altri europei, domina politicamente ed economicamente questi ultimi, impone politiche restrittive e recessive che impediscano la loro crescita economica, difende una moneta con cambio alto sul dollaro che limiti la concorrenzialità europea, ed alimenta la disunione e le divergenze e contrapposizioni nel Vecchio Continente, per impedire che si unisca. E uomini di Goldman Sachs che controllano la Bce e, attraverso di esse, le banche centrali nazionali.Tutto ciò semplicemente il loro interesse. Essi hanno realizzato, in effetti, una situazione in cui l’unificazione è stata resa definitivamente impossibile da due fattori: l’inclusione dell’Unione Europea di paesi troppo eterogenei come la Grecia, la Romania e la Bulgaria (e premevano per includere persino la Turchia!), per consentire un’integrazione economica e politica; l’euro e i suoi vincoli finanziari, che hanno trasferito il potere decisionale dai paesi debitori (condannati alla recessione-deindustrializzazione), e dalle istituzioni comunitarie, pressoché impotenti (perché prive di forza propria), alla potenza creditrice, cioè alla Germania. Quest’ultima ora da un lato è il paese più direttamente e tecnicamente controllato da Washington, anche attraverso il giuramento di fedeltà agli Usa che ogni cancelliere tedesco presta prima di assumere l’incarico (la “Kanzlerakte”, introdotta con trattato segreto il 21 aprile 1949, valido fino al 2099); dall’altro lato, si comporta nei confronti dei paesi più deboli, con la sua storicamente costante, aggressiva prepotenza, saccheggiandone le risorse finanziarie e industriali, soprattutto attraverso i prestiti predatori, appoggiata spesso dalla Francia, come ha fatto clamorosamente con Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia. E arrivando persino a cambiare i governi di alcuni di questi paesi per mettere loro fiduciari che assicurino i profitti criminali dei loro banchieri d’assalto.“Erneut zerstört eine deutsche Regierung Europa”, ossia “Nuovamente un governo tedesco distrugge l’Europa”, titola il 13 luglio 2015 in prima pagina “Handelsblatt”, omologo tedesco de “Il Sole 24 Ore”, nella sua edizione online (il primo fu il governo Bethmann-Hollweg nel 1914-18, il secondo il governo Hitler nel 1938-45, il terzo il governo Merkel, oggi); e mette in bella mostra gli elmi chiodati del II Reich che distrusse l’Europa (e consentì l’egemonia degli Usa) scatenando la I Guerra Mondiale, e scatenandola nel modo più sporco: l’invasione del Belgio neutrale, le stragi di civili innocenti, la distruzione gratuita di centri urbani, l’uso massiccio dei gas mortali. Un altro articolo definisce il ministro delle finanze Schäuble “il seppellitore (Totengräber) dell’Europa”. A intendere: nella vicenda greca, la Germania ha dimostrato che l’Unione Europea non ha una politica propria, è solo una facciata e uno strumento per i suoi interessi egoistici, nazionalistici e imperialistici rispetto agli altri paesi europei. Adesso che tutti lo vedono, l’illusione idealistica e sentimentale dell’unificazione europea, la retorica dei “padri fondatori” e tutte le altre corbellerie, appaiono per quel che sono sempre state: camuffamenti di una strategia di dominazione.La Germania di oggi è dunque rimasta, psicologicamente e politicamente, la Germania di Bismarck e delle due guerre mondiali, la Germania del suprematismo, della politica di potenza e minaccia, che si sente circondata da vicini minacciosi quindi costretta ad attaccare, sottomettere e sfruttare i suoi vicini per la propria sicurezza, oggi anche finanziaria, usando anche le istituzioni comunitarie. E con una tale Germania, che non è cambiata, in queste sue caratteristiche, dopo tutto ciò che ha passato, e che probabilmente non cambierà mai, così come con questo dominio statunitense, è a priori impossibile realizzare un’Europa unita, un’unione che sia qualcosa di diverso da uno strumento di dominio e sfruttamento di Berlino sugli altri. Quindi meglio restare indipendenti, come ha scelto il Regno Unito, ciascuno a custodire i propri interessi in modo trasparente, facendo liberi accordi con gli altri paesi, possibilmente su un piano di parità. Tanto, una guerra tra paesi europei è comunque impossibile dati i rapporti di forza, le interdipendenze economiche e finanziarie, la presenza di potenze nucleari, il controllo Usa. Non serve l’Ue, per assicurare la pace.Alla luce dei precedenti storici e del fatto che i rapporti politici internazionali sono guidati dagli interessi particolari, concorrenziali e dai rapporti di forza e non da sentimenti, solidarietà e ideali, il Manifesto di Ventotene, col suo progetto federalista europeo, era già quando nacque un progetto irrealistico e infantile; la sua ingenuità è comprensibile e scusabile date le condizioni psicologiche dei suoi autori, che li potevano portare a scambiare il desiderabile con il realizzabile, a perdere il senso dell’utopia. Non è comprensibile né scusabile, per contro, anzi è atto di radicale disonestà culturale, l’insistere oggi su quel progetto come se fosse un progetto realistico e realizzabile, soprattutto realizzabile partendo dalla struttura istituzionale dell’Unione Europea, che non solo è corrotta, antidemocratica, burocraticamente demenziale e fallimentare in tutte le sue iniziative principali, dalla Pac in poi, ma per giunta è stata soppiantata ed espropriata da Berlino, che la ha ridotta a foglia di fico dal suo imperialismo continentale. Insistere in questi termini per l’”unificazione federalista europea” anziché denunciare e contrastare questa “Unione”, i suoi “progressi”, il suo “metodo comunitario”, assieme a questa politica di potenza tedesca, e agli effetti del loro combinato, è un agire per peggiorare le cose, un agire in mala fede, quindi una precisa colpa politica e morale.(Marco Della Luna, “Ventotene: sono federale, imperialismo reale” dal blog di Della Luna del 31 agosto 2016).È ed era del tutto irrazionale pensare che gli Stati Uniti permettano che l’Europa si unifichi e diventi così un loro concorrente globale. Gli Usa, a seguito della seconda guerra mondiale, mantengono tuttora una massiccia presenza militare di controllo in Germania, Italia, Belgio, Olanda e la mantengono a titolo di occupazione e controllo, non certo per difesa contro un Patto di Varsavia che non c’è più, anche se ora gli Usa si sforzano di spingere l’Europa al conflitto con la Russia lavorando sull’Ucraina. È invece razionale e confermato dai fatti che gli Stati Uniti usano la loro posizione di potenza occupante proprio per assicurarsi che quell’unificazione non avvenga. Per gli Usa, l’assetto conveniente dell’Europa non è federale, come quello sognato a Ventotene, ma un assetto in cui la principale potenza continentale, la Germania, saldamente controllata da Washington, saldamente antisolidale verso gli altri europei, domina politicamente ed economicamente questi ultimi, impone politiche restrittive e recessive che impediscano la loro crescita economica, difende una moneta con cambio alto sul dollaro che limiti la concorrenzialità europea, ed alimenta la disunione e le divergenze e contrapposizioni nel Vecchio Continente, per impedire che si unisca. E uomini di Goldman Sachs che controllano la Bce e, attraverso di esse, le banche centrali nazionali.
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La gang dell’euro, associazione a delinquere per derubarci
La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i paesi del nord ed un’altra per i paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea. In realtà i tedeschi sono scontenti dell’Ue perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti Piigs. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei paesi Ue più in difficoltà e il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.Ma ciò non accadrà, poiché l’Ue non era affatto nata per favorire l’integrazione economica dell’Europa. Gli interessi erano soltanto finanziari e militari. La deflazione causata dall’euro rende più forti i creditori nei confronti dei debitori, e quindi va a favore delle multinazionali finanziarie. Gli Usa sono stati determinanti nella nascita dell’euro e nella sua conservazione, poiché l’euro consente di compattare in funzione anti-russa paesi che, come l’Italia, rischiavano di farsi risucchiare economicamente nell’orbita della Russia. Sino a qualche anno fa gli Usa erano disposti a pagare il prezzo salato che l’euro comportava in termini di depressione dell’economia mondiale. Pare che non siano più disposti oggi, dato che le merci tedesche hanno invaso il mercato statunitense a causa della sottovalutazione dell’euro rispetto all’effettivo potenziale dell’economia della Germania. D’altro canto il presunto “disimpegno” americano in Europa potrebbe davvero cambiare qualcosa? E’ vero che gli Usa non sono riusciti a mettere Putin all’angolo, che i costi dei loro impegni militari sono mostruosi, ma sembra esserci la necessità di una riorganizzazione della gerarchia internazionale senza la quale il “protezionismo coloniale” avrebbe qualche difficoltà.Senza una ostentazione di forza militare da parte degli Usa, altri paesi potrebbero rispondere a loro volta col protezionismo. Certo è che l’Ue e l’euro sarebbero travolti non tanto dai dazi ma da una svalutazione del dollaro che, per ora, non è arrivata. Non sarebbe comunque la prima volta che gli Usa distruggono ciò che essi stessi hanno creato perché non gli fa più comodo. Nel 1919 il presidente Usa, Woodrow Wilson, impose la nascita della Jugoslavia per impedire all’Italia il controllo del Mare Adriatico. Per sostenere la sua posizione Wilson non esitò ad accusare l’Italia di imperialismo (per la serie del bue che dice cornuto all’asino). La stessa Jugoslavia negli anni ‘90 è stata poi distrutta dagli Usa in concerto con la Germania e, grazie ad una notevole manipolazione mediatica, anche le “sinistre radicali” furono indotte a plaudire al “risveglio etnico” che dissolveva stati che erano apparsi prima inamovibili.Pur collocata dagli Usa sul maggiore scranno della Ue, la Germania non ha mai mostrato di credere realmente in questa costruzione. Nel 2003 tramontava l’illusione del governo francese di poter usare l’euro per acquistare direttamente materie prime sui mercati internazionali, poiché l’invasione Usa dell’Iraq servì appunto a punire Saddam Hussein per il fatto che vendeva petrolio in cambio di euro invece che di dollari. Nello stesso 2003 il governo tedesco lanciò il piano Hartz per ridurre i salari in Germania. Il governo tedesco non si accontentava quindi del vantaggio che l’euro consentiva alle merci tedesche, ma apiva addirittura una corsa a comprimere il costo del lavoro in modo da accumulare il maggior surplus commerciale possibile. Ciò indica che i governi tedeschi non hanno mai creduto alla sopravvivenza dell’Ue e dell’euro; e che l’Ue e l’euro, nati come armi da guerra contro la Russia, venivano usati dalla Germania anche per deindustrializzare il suo principale concorrente commerciale, cioè l’Italia, non a caso bersaglio preferito della Commissione Europea.La Germania non deve neanche affannarsi più di tanto per raggiungere il suo scopo, poiché ci pensa la lobby dello spread. La moneta “unica” è infatti un inganno. La moneta è composta di banconote e di debito pubblico, cioè di titoli del Tesoro: nel caso dell’euro le banconote sono controllate dalla Banca Centrale Europea, mentre i titoli del Tesoro sono ancora emessi dagli Stati, che però pagano interessi diversi. In questa tenaglia è stata stritolata la Grecia e si può stritolare l’Italia. Risulta quindi fuori luogo la sorpresa suscitata dalla minaccia della Commissione Europea di mettere l’Italia in procedura d’infrazione per il famoso “zero virgola due”. La Brexit e “CialTrump” non hanno per niente indotto Juncker e colleghi a maggiore prudenza e buonsenso poiché la Commissione Europea, e l’apparato che la supporta, non si pongono affatto problemi di sopravvivenza dell’Ue, ma ragionano esclusivamente in base agli interessi della lobby dello spread, cioè la lobby di finanzieri internazionali che esige alti interessi sul debito pubblico da paesi che sono ancora in grado di pagarli, come l’Italia.L’Unione Europea è un allevamento di lobbisti e costituisce il paradiso delle porte girevoli tra cariche pubbliche e carriere nel privato, e il tutto è rigorosamente documentato da tempo, con dovizia di dettagli. La porta girevole che ha portato l’ex presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso, alla dirigenza di Goldman Sachs dovrebbe costituire una preoccupazione urgente per tutti gli “europeisti”, i quali insistono invece a distrarci con voli pindarici. Ma gli europeisti non esistono, i lobbisti invece esistono, eccome. La delegittimazione delle istituzioni europee è tale che oggi la vera domanda che tutti si pongono è in quali multinazionali finanziarie concluderanno felicemente la loro carriera gli autori della lettera dello “zero virgola due”, Juncker e Moscovici. A proposito di lobbisti mascherati, ci si è chiesti da più parti come si collochi l’ultima sortita del Super-Buffone di Francoforte in questo contesto di sfaldamento dell’Ue. Mario Draghi farnetica di trecentoquaranta miliardi di euro di tangente da versare per permettere all’Italia di uscire dall’euro, quando ormai sarebbe evidente che è l’euro che sta uscendo dall’Europa.La farneticazione del presidente della Bce contiene comunque un messaggio recondito, e cioè che la vita dell’euro dovrà perpetuarsi oltre la sua morte, con una scia di ulteriori sacrifici da imporre a lavoratori e risparmiatori. La risposta immediata a Draghi dovrebbe essere quella di sottrarre il debito pubblico ai cosiddetti “mercati” (cioè la lobby dello spread) per usare i titoli del Tesoro solo all’interno, per effettuare i pagamenti della pubblica amministrazione e per mettere al sicuro il risparmio delle famiglie. Si tratta di una vecchia proposta, ripresa qualche giorno fa – non si sa quanto seriamente – anche dalla Lega. A rendere improbabile una tale misura di autonomia finanziaria non sono soltanto gli enormi rischi personali di chi dovrebbe adottarla, ma anche il fatto che lo spread e l’austerità si avvalgono di una lobby interna, tutta italiana, che lucra sugli alti interessi del debito pubblico, sul credito al consumo (e sul relativo recupero crediti), sul caporalato istituzionalizzato, sulle privatizzazioni e sull’intermediazione per la svendita all’estero dei patrimoni immobiliari.(“Dopo i sacrifici per entrare nell’euro e i sacrifici per restare nell’euro, i sacrifici per uscire dall’euro”, dal blog Anarchismo.Comidad del 9 febbraio 2017).La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i paesi del nord ed un’altra per i paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea. In realtà i tedeschi sono scontenti dell’Ue perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti Piigs. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei paesi Ue più in difficoltà e il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.
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L’Italia resta terra di conquista, non si vedono vie d’uscita
L’Italia obbedisce, da decenni, a “padroni” stranieri: americani, inglesi, francesi. L’ultimo capitolo, quello del Britannia, tra le macerie di Mani Pulite: via libera alla grande privatizzazione del paese, smantellando quello che ne era stato il principale volano economico, l’industria pubblica. Esecutori: Prodi, Amato, D’Alema, Ciampi, Padoa Schioppa. Ma l’ordine era partito dall’alto, dai dominus internazionali che, per gli affari “regionali”, potevano puntare su affiliati di ferro come Mario Draghi e Giorgio Napolitano. Via i ladri di Tangentopoli: al loro posto, obbedienti servitori per il progetto di sottomissione denominato Unione Europea, che si avvale della politica di rigore indotta dall’euro e imposta a tutti, tranne a banche e multinazionali. Austerity che trasforma lo Stato in una periferia indigente, senza più sovranità, costretta a elemosinare tasse sempre più soffocanti, col risultato – scontato – di deprimere l’economia: meno consumi, meno lavoro, meno reddito, erosione dei risparmi, crisi e disoccupazione dilagante, tagli a pensioni e sanità, svendita del patrimonio pubblico. E soprattutto: assenza di futuro, mancanza di alternative all’agonia di un paese da cui i giovani scappano, non si sposano più, non fanno più figli.E’ il rimbalzo europeo dell’ondata neoliberista cavalcata da Reagan e Thatcher negli anni ‘80, cui – secondo un economista come Nino Galloni – l’Italia si allineò prontamente, staccando il “bancomat” di Bankitalia (allora retta da Ciampi) dal Tesoro, di cui era ministro Andreatta, un pioniere delle privatizzazioni. Travolti per via giudiziaria i leader della Prima Repubblica, discutibili e controversi ma arroccati sulla difesa della sovranità nazionale, fonte del loro potere, a rovinare la festa all’ex Pci – unica forza risparmiata da Mani Pulite – irruppe il Cavaliere, che però non andò oltre gli slogan (rivoluzione liberale, meno tasse) e si limitò a congelare la situazione, senza osare sfidare Bruxelles. Proprio gli interessi di bottega (Mediaset, Mondadori) resero Berlusconi vulnerabile, nel 2011, di fronte all’assalto finale della Troika, con l’imposizione del commissario Monti, sorretto anche dal Pd di Bersani fino all’inserimento nella Costituzione del pareggio di bilancio, norma esiziale che di fatto esautora definitivamente governo e Parlamento privandoli di ogni residua sovranità, rendendo le elezioni puro esercizio rituale, senza efficacia politica.Dopo Berlusconi, Renzi: altro giro, altro abbaglio. Il suo programma: scritto, come gli altri, sotto dettatura. Consiglieri: Yoram Gutgeld, Marco Carrai, Michael Ledeen. Ispiratori: Tony Blair, e il Ceo di Jp Morgan, Jamie Dimon, con la collaborazione di Larry Fink, patron del maggior fondo d’investimenti del pianeta, BlackRock, a cui Renzi ha regalato una grossa fetta di Poste Italiane, azienda in super-attivo che all’Italia fruttava quasi mezzo miliardo all’anno. La riforma di Renzi? Il Jobs Act, su ordine dell’élite finanziaria, atlantica e tedesca, fanaticamente decisa a imporre ad ogni costo il dogma mercantilista: svalutare il lavoro in Europa per reggere la globalizzazione senza mai mettere a rischio i capitali, ma solo e sempre i lavoratori. Renzi però è caduto sul referendum: voleva una sola Camera elettiva, per un governo con più potere (più efficace, quindi, nell’eseguire direttive esterne senza “complicazioni” democratiche) ma gli italiani gli hanno detto no. Il super-potere, quelle riforme, le vuole. E continuerà a premere, sull’Italia ex-sovrana in balìa dell’euro, con l’arma del ricatto finanziario. Di fronte a elezioni anticipate, non emerge nessun Piano-B. I leader uscenti sono in crisi, gli altri sono deboli o non chiari. Nessuno pare in grado di imporre all’Europa di riscrivere, da cima a fondo, le regole che hanno devastato l’Italia, declassandola da potenza industriale a paese costretto a mendicare aiuti per il terremoto.L’Italia obbedisce, da decenni, a “padroni” stranieri: americani, inglesi, francesi. L’ultimo capitolo, quello del Britannia, tra le macerie di Mani Pulite: via libera alla grande privatizzazione del paese, smantellando quello che ne era stato il principale volano economico, l’industria pubblica. Esecutori: Prodi, Amato, D’Alema, Ciampi, Padoa Schioppa. Ma l’ordine era partito dall’alto, dai dominus internazionali che, per gli affari “regionali”, potevano puntare su affiliati di ferro come Mario Draghi e Giorgio Napolitano. Via i ladri di Tangentopoli: al loro posto, obbedienti servitori per il progetto di sottomissione denominato Unione Europea, che si avvale della politica di rigore indotta dall’euro e imposta a tutti, tranne a banche e multinazionali. Austerity che trasforma lo Stato in una periferia indigente, senza più sovranità, costretta a elemosinare tasse sempre più soffocanti, col risultato – scontato – di deprimere l’economia: meno consumi, meno lavoro, meno reddito, erosione dei risparmi, crisi e disoccupazione dilagante, tagli a pensioni e sanità, svendita del patrimonio pubblico. E soprattutto: assenza di futuro, mancanza di alternative all’agonia di un paese da cui i giovani scappano, non si sposano più, non fanno più figli.
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Pro o contro l’euro? Se non sceglie, Grillo è pari a Renzi
«Se i Cinque Stelle vogliono dimostrare di essere diversi da Renzi, possono cominciare evitando di sottrarsi alle domande dirette. Altrimenti, se continueranno a schivarle, dimostreranno di essere sempre più simili a quei politici che volevano sostituire». Lo scrive Stefano Feltri sul “Fatto”, interrogandosi sui grillini: il movimento è pronto a governare l’Italia? E, cosa non meno importante, vuole davvero farlo? Domande rimaste sullo sfondo della campagna referendaria, che in teoria riguardava tutt’altro, ma a cui bisogna comunque offrire una risposta, visto che almeno un italiano su quattro tifa per i 5 Stelle. Purtroppo, però, i grillini «non sembrano offrire elementi chiari per formarsi un’opinione netta», scrive Feltri. Sulla loro onestà, a grandi linee, non ci sono dubbi: i 5 Stelle «non rubano, sono disposti a rinunciare al grosso del loro stipendio, non si prestano quasi mai a giochi di palazzo». Ma queste sono condizioni pre-politiche. Ok, saranno anche persone perbene. Ma quali sono le loro idee sui temi decisivi? «L’ambiguità sull’euro e sull’Unione europea, per esempio, non è più accettabile».Lo confermano le vaghezze di Alessandro Di Battista, che ha dato un contributo importante alla vittoria del No al referendum. “Die Welt” in Germania ha appena pubblicato una sua intervista, tradotta in Italia da “Repubblica”. «Euro ed Europa non sono la stessa cosa», dice Di Battista. «Noi vogliamo solo che siano gli italiani a decidere sulla moneta». Davvero? «Questa è la formula un po’ ipocrita, che i Cinque Stelle usano da anni», scrive Feltri. Che spiega: «Un referendum sull’euro è praticamente impossibile perché la Costituzione vieta consultazioni dirette sui trattati internazionali. Ma anche ammesso che si riesca a indire (l’iter è piuttosto farraginoso ma sulla carta esiste), quale sarebbe la posizione del Movimento? Farebbe campagna per il Sì o per il No?». Difficile scoprirlo, anche se «siamo reduci da un referendum nel quale M5S non si è speso soltanto per il voto diretto del “popolo” sulla Costituzione ma ha fatto una attiva campagna e, alla fine, è considerato unanimemente tra i vincitori».Se ci fosse un referendum sull’euro, insomma, Di Battista e i Cinque Stelle farebbero campagna per rimanere o per uscire? «Dalla risposta a questa semplice domanda – scrive ancora Feltri – dipende una buona fetta del consenso al Movimento che finora ha prosperato in quella zona grigia al confine tra forza di opposizione e forza anti-sistema» Il giornalista del “Fatto” sospetta che i grillini non si sbilancino, temendo la prudenza degli italiani: «Dubito che tanti elettori sarebbero pronti ad affrontare l’incertezza di una rottura della moneta unica, anche perché le conseguenze sembrano ignote agli stessi leader M5S». Che conseguenze dovrebbe affrontare, l’Italia, in caso di uscita dall’euro? A Di Battista lo ha chiesto la giornalista tedesca Costanze Reuscher. E lui: «Conosco bene quali sono le conseguenze dell’introduzione dell’euro, la perdita di potere d’acquisto, il calo delle retribuzioni, la riduzione della capacità di concorrenza delle imprese, il degrado sociale, la disoccupazione». Una riposta «che è un modo per eludere la domanda», concude Feltri, a sua volta non certo schierato contro l’euro.Di Battista, dal canto suo, preferisce non scendere nei dettagli: «Se l’Europa non vuole implodere deve accettare che non si può andare avanti così», si limita a dire. «Nel 2017 ci saranno elezioni importanti. In Francia probabilmente vinceranno i gollisti o Le Pen. In Germania la cancelliera ce la farà anche stavolta, ma i movimenti alternativi, chiamiamoli così, avanzano». Considerazioni ovvie, chiosa Feltri: «Di Battista non ha voluto rispondere». Come anche Luigi Di Maio e lo stesso Beppe Grillo, dovrebbe «rispondere a due semplici domande che richiedono un Sì o un No, senza sfumature, come nel referendum di domenica». Prima domanda: è nel programma elettorale dei 5 Stelle un referendum sulla permanenza dell’Italia nell’euro? Seconda: ammesso che quella consultazione si tenga, il M5S farà campagna pro o contro la permanenza dell’Italia nella moneta unica? Aspettarsi una risposta, oggi, dai 5 Stelle, è perfettamente inutile.«Se i Cinque Stelle vogliono dimostrare di essere diversi da Renzi, possono cominciare evitando di sottrarsi alle domande dirette. Altrimenti, se continueranno a schivarle, dimostreranno di essere sempre più simili a quei politici che volevano sostituire». Lo scrive Stefano Feltri sul “Fatto”, interrogandosi sui grillini: il movimento è pronto a governare l’Italia? E, cosa non meno importante, vuole davvero farlo? Domande rimaste sullo sfondo della campagna referendaria, che in teoria riguardava tutt’altro, ma a cui bisogna comunque offrire una risposta, visto che almeno un italiano su quattro tifa per i 5 Stelle. Purtroppo, però, i grillini «non sembrano offrire elementi chiari per formarsi un’opinione netta», scrive Feltri. Sulla loro onestà, a grandi linee, non ci sono dubbi: i 5 Stelle «non rubano, sono disposti a rinunciare al grosso del loro stipendio, non si prestano quasi mai a giochi di palazzo». Ma queste sono condizioni pre-politiche. Ok, saranno anche persone perbene. Ma quali sono le loro idee sui temi decisivi? «L’ambiguità sull’euro e sull’Unione europea, per esempio, non è più accettabile».
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Il paese scoppia? Ora se ne ‘accorgono’ anche Tv e giornali
Con un’affluenza massiccia e una percentuale schiacciante di “No”, «l’elettorato ha svelato l’esistenza nel nostro paese di un popolo della rivolta», quello che i media mainstream hanno accuratamente evitato di rappresentare. Un “popolo” che «ha bocciato la riforma della Costituzione, il presidente del Consiglio e l’establishment di governo». A votare contro Renzi, scrive Maurizio Molinari sulla “Stampa”, «sono state le famiglie del ceto medio disagiato, impoverito dalla crisi economica, senza speranze di prosperità e benessere per figli e nipoti», ma anche «i giovani senza lavoro, gli operai che si sentono minacciati dai migranti e gli stipendiati a cui le entrate non bastano più». È un “popolo della rivolta”, espressione dello stesso disagio che in Gran Bretagna ha prodotto la Brexit e negli Usa ha incoronato Trump. Caduta l’illusione-Renzi, ora bisogna «dare in fretta risposte chiare alle crisi all’origine della protesta del ceto medio», massacrato dal rigore imposto da Bruxelles e inasprito a partire dal governo Monti, che i giornali – compreso la “Stampa” – solo pochi anni fa accolsero come il salvatore del paese.Contrordine, a quanto pare: anziché i tagli senza anestesia della riforma Fornero «serve un nuovo welfare per le famiglie in difficoltà», scrive oggi il direttore del quotidiano torinese, di fronte alla catastrofe dell’evidenza. Lo stesso Molinari utilizza ancora il lessico renziano, dice che bisogna «far ripartire» l’Italia. Già, ma come? «Non basta un nuovo governo», concede il direttore della “Stampa”: «Bisogna rispettare il popolo della rivolta e rispondere alle sue istanze». Sulle stesse pagine, un osservatore come Mattia Feltri ammette che «ha vinto la gente, il mare di gente che non si fida più». Si tratta di gente «molto ben disposta verso l’inverosimile e diffidente verso il verosimile», secondo Feltri, «per intima ed esasperante convinzione che là fuori c’è qualcuno che lavora alla sua infelicità, perché manca il lavoro, perché si indeboliscono le garanzie, per invidia sociale, perché l’investimento in banca è andato storto, perché ci sono i poteri forti, perché c’è l’Europa, perché c’è una classe dirigente che in quanto tale campa sulla pelle delle periferie, fisiche o esistenziali». Comune denominatore, il «rifiuto feroce dell’establishment farabutto, una condizione che non riguarda soltanto l’Italia, come raccontano di recente la Brexit e Donald Trump».Eppure non è piovuto dal nulla, lo tsunami, anche se i giornalisti oggi se ne meravigliano. Non una recensione, sui media mainstream, dell’esemplare saggio “Il più grande crimine”, in cui Paolo Barnard – giornalista maiuscolo – ricostruisce la genesi dell’inevitabile disastro euro-Ue. Silenzio anche su voci “eretiche” ma terribilmente profetiche come quelle dell’economista Nino Galloni, secondo cui, semplicemente, il sistema-euro equivale in modo matematico al declino italiano. Non un articolo, sui grandi giornali, neppure sul libro “Massoni” di Gioele Magaldi, dove alcune eminenze grigie della super-massoneria internazionale definiscono gli italiani «bambinoni deficienti», capace di accogliere col tappeto rosso «i tre commissari che gli abbiamo inviato, nell’ordine: Monti, Letta, Renzi». Fuori dal coro dei “chi l’avrebbe mai detto?”, si segnala “Il Giornale”, che indica in Giorgio Napolitano l’altro grande sconfitto del 4 dicembre: l’ex capo dello Stato, scrive Gian Maria De Francesco, «s’era abituato a trattare Palazzo Chigi come una propria dépendance, insediandovi l’uomo che ha messo in ginocchio il paese a suon di tasse, condannandolo a una recessione dalla quale ancor oggi fatica a tirarsi fuori nonostante la spesa in deficit di Renzi sotto forma di mance e mancette varie».Per denigrare i 5 Stelle, alla vigilia del voto Napolitano s’era spinto oltre le colonne d’Ercole: «Non esiste politica senza professionalità come non esiste mondo senza élite», aveva detto. «Alla faccia della democrazia e della Costituzione», chiosa De Francesco. Ci si era messo anche l’anziano Eugenio Scalfari: prima della democrazia c’è l’oligarchia, perché il popolo non sa governarsi da solo. Parole nelle quali risuona l’eco della “sinarchia”, la forma di governo evocata a fine ‘800 dall’influente esoterista francese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, come ricorda Gianfranco Carpeoro nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Il potere quasi religioso dell’oligarchia “illuminata”: ieri, contro la marea montante del socialismo e dell’anarchismo. Oggi invece la rivolta (solo elettorale) corre via smartphone. Il “popolo” è esasperato? Se ne sono accorti persino loro, i giornalisti. Ben attenti, comunque – ancora – a non dare la parola a chi questa crisi l’aveva annunciata, con anni di anticipo, spiegandone le ragioni nei minimi dettagli. Uno su tutti: senza più sovranità, un paese crolla. Senza la disponibilità di una moneta pubblica crollano il bilancio, l’economia, l’occupazione. A crescere sono solo le tasse e il debito. Ma non è una notizia, è una legge (dell’economia). A proposito di leggi, l’Italia invece ha inserito nella propria Costituzione – così enfaticamente difesa il 4 dicembre – il pareggio di bilancio, cioè la morte clinica dello Stato come soggetto garante del benessere della comunità nazionale.Con un’affluenza massiccia e una percentuale schiacciante di “No”, «l’elettorato ha svelato l’esistenza nel nostro paese di un popolo della rivolta», quello che i media mainstream hanno accuratamente evitato di rappresentare. Un “popolo” che «ha bocciato la riforma della Costituzione, il presidente del Consiglio e l’establishment di governo». A votare contro Renzi, scrive Maurizio Molinari sulla “Stampa”, «sono state le famiglie del ceto medio disagiato, impoverito dalla crisi economica, senza speranze di prosperità e benessere per figli e nipoti», ma anche «i giovani senza lavoro, gli operai che si sentono minacciati dai migranti e gli stipendiati a cui le entrate non bastano più». È un “popolo della rivolta”, espressione dello stesso disagio che in Gran Bretagna ha prodotto la Brexit e negli Usa ha incoronato Trump. Caduta l’illusione-Renzi, ora bisogna «dare in fretta risposte chiare alle crisi all’origine della protesta del ceto medio», massacrato dal rigore imposto da Bruxelles e inasprito a partire dal governo Monti, che i giornali – compreso la “Stampa” – solo pochi anni fa accolsero come il salvatore del paese.
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Euro-barbarie, Zanni: incostituzionale è l’Unione Europea
Se c’è qualcosa di “incostituzionale” è proprio l’Unione Europea. Si spera quindi che la frana dell’Eurozona diventi una valanga nel 2017, con elezioni che protrebbero “pensionare” i politici che finora hanno sostenuto l’euro-follia, da Parigi a Berlino. Non c’è mai stata cooperazione, ma solo una competizione giocata con armi illecite, alla quale sopravvivrà solo il più forte, la Germania. «Come è possibile – si domanda Marco Zanni – che istituzioni sovranazionali come quelle dell’Ue non siano dichiarate incostituzionali perché incompatibili con l’articolo 11 della nostra Costituzione, che delimita chiaramente i confini entro cui lo Stato italiano può partecipare a organizzazioni internazionali?». E infine: «Perché i nostri governi non rifiutano le distruttive e insensate regole europee quando queste creano pericolose asimmetrie e ledono i diritti fondamentali dei propri cittadini?». L’attuale classe politica italiana, e in particolare la sinistra, ha «svenduto il paese, i diritti dei cittadini e quelli dei lavoratori al capitale finanziario, che ha agito incontrollato nella distruzione di quanto di buono fatto in Europa dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale». Ergo, «non potranno essere loro a portarci fuori dal baratro».Tuttavia, «è ormai chiaro che il castello di carta crollerà sotto la fragilità delle sue stesse fondamenta: il 2017 sarà un anno fondamentale, perché dopo la Brexit e Trump potranno esserci sorprese in Italia, Olanda, Francia e Germania», scrive Zanni nel suo blog. L’Eurozona non è riformabile e quindi collasserà, perché politicamente insostenibile, anche se «molti ancora non vogliono capirlo, perché interessati a mantenere questo stato di perenne agonia in cui aumentano le diseguaglianze tra i più ricchi (sempre meno e sempre più ricchi) e i poveri (sempre di più e sempre più poveri)». Una costruzione «tecnicamente e politicamente irriformabile», che quindi «imploderà sotto i colpi della sua stessa insostenibilità». L’obiettivo dell’Ue, esplicitato dal Trattato di Maastricht fondativo dell’euro: «Una restaurazione liberista che ha smontato a colpi di “crisi telecomandate” e “ce lo chiede l’Europa” lo stato sociale e le tutele dei lavoratori tipiche delle Costituzioni nazionali democratiche degli Stati della periferia europea, operando, attraverso anche una deregolamentazione finanziaria spinta alla follia, una redistribuzione dei redditi dal lavoro al capitale».In questo scenario, continua Zanni nel suo blog, la Germania è stata abile nell’imporre il suo modello di sviluppo socio-economico, l’ordoliberismo mercantilista, creando un set di regole asimmetriche per punire “le cicale del Sud Europa” che “si indebitano” e “vivono al di sopra delle proprie possibilità”. Maastricht, Patto di Stabilità, Fiscal Compact, unione bancaria, Six-Pack e Two-Pack. Stesso obiettivo: «Per curare le asimmetrie andavano puniti severamente gli Stati in deficit», dimenticando che, «se c’è un deficit da una parte, dall’altra c’è un surplus (il gioco è a somma zero)», e quindi «se c’è qualcuno che è tanto irresponsabile da essersi indebitato troppo, dall’altra parte c’è un creditore altrettanto irresponsabile che gli ha prestato i soldi». E invece, nell’Eurozona «le regole sono state costruite e interpretate sempre per far ricadere il peso degli aggiustamenti sugli Stati in deficit e sui loro cittadini». E se l’Ue ha provato timidamente a far notare che la colpa delle “asimmetrie” è anche dei creditori, «l’egemone Stato tedesco ha preso a schiaffi Bruxelles e ha ributtato violentemente la palla dall’altra parte, infischiandosene di quelle regole che invece con tanto zelo impone ai partner europei».In un sistema a cambi fissi come quello dell’Eurozona, continua Zanni, i differenziali d’inflazione tra gli Stati membri causano perdita di competitività, squilibri della bilancia commerciale e indebitamento estero, soprattutto nel settore privato dei paesi in deficit, non potendo aggiustare la situazione con il cambio. La Germania, paese in costante surplus commerciale e fiscale, dovrebbe inflazionare (quindi alzare la spesa pubblica e alzare il livello dei salari), mentre la periferia dovrebbe deflazionare, come sta facendo, al prezzo della distruzione della propria economia. Regole sempre asimmetriche: «La periferia è stata costretta a deflazionare, con austerità e contenimento dei salari, mentre la Germania se n’è infischiata delle regole e ha continuato a mantenere inflazione vicina allo zero, a registrare surplus fiscali di bilancio e ad aumentare il suo surplus commerciale, sfruttando il suo tasso di cambio reale pesantemente sottovalutato, come fatto notare anche dal Fondo Monetario Internazionale e dall’Ocse». Dopo il 2013, anche su sollecito dell’Italia, la Commissione Europea ha segnalato a Berlino il mancato rispetto delle regole da parte dei tedeschi, chiedendo alla Germania di aumentare la sua spesa pubblica e di alzare i salari, «ricevendo puntualmente la porta in faccia».Questa è l’essenza dell’Eurozona, sottolinea Zanni: «Un sistema asimmetrico, in cui i più forti interpretano le regole a loro favore, non le rispettano e in cui si creano vincitori e vinti a un prezzo altissimo, in barba a quella cooperazione socio-economica tra gli Stati membri scritta a chiare lettere nei Trattati». Bruxelles è appena tornata alla carica chiedendo alla Germania una sterzata per il 2017, ma la risposta di Wolfgang Schaeuble non è cambiata: Berlino si appella al pareggio di bilancio inserito in Costituzione, fornendo ai tedeschi un vantaggio competitivo che la Germania si è costruita «plasmando a suo favore le regole europee e soffocando gli Stati europei più minacciosi per la propria sopravvivenza e prosperità», Italia in primis. «Invece che rispettare i precetti della cooperazione socio-economica sancita nei trattati», i tedeschi «hanno preferito seguire la più semplice filosofia del “mors tua vita mea”. La Germania – aggiunge Zanni – se ne fregherà delle regole europee, farà registrare il quarto bilancio pubblico consecutivo in surplus e continuerà con la sua politica di ricatto e soppressione del vicino, anche a costo di danneggiare e soffocare i “cugini” europei».Dando per scontato che a farlo non saranno politici come Hollande e Merkel, chi dovrà gestire la transizione dovrà arrivare estremamente preparato, perché non sappiamo se sarà un processo soft o turbolento. Obiettivo: risollevare l’economia dei paesi devastati dalle politiche imposte dall’euro. Misure sovraniste, quindi. La prima, ovvia: il ripristino della flessibilità dei cambi con una valuta controllata dalla banca centrale nazionale. E in parallelo, una riforma di Bankitalia «che dovrà eliminarne l’indipendenza e il divieto di finanziamento del deficit pubblico, facendola tornare sotto l’egida pubblica e operare in sintonia con il Ministero del Tesoro per non lasciare in mano ai mercati finanziari il destino del nostro debito pubblico e la determinazione dei tassi d’interesse che paghiamo su di esso». Zanni evoca anche il ripristino del Glass-Stegall Act abolito da Bill Clinton, cioè «il ripristino della separazione tra banche d’affari e banche commerciali». Quindi, misure keynesiane: «Un massiccio piano di investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, in riqualificazione energetica degli edifici, con la messa in sicurezza del patrimonio pubblico e del suolo contro il rischio sismico e le catastrofi ambientali, finanziato attraverso la monetizzazione del deficit da parte della banca centrale».Zanni propone anche più controlli sulla libera circolazione dei capitali e il ripristino di una stringente regolamentazione dei mercati finanziari, da riportare «a supporto dell’economia reale». Corollario: una imponente riforma sociale, che azzeri che “riforme” degli ultimi decenni. E cioè: «Il ripristino di tutte le tutele ai lavoratori e alle altre categorie di cittadini come previste dalla Costituzione italiana del 1948», perché «il lavoro deve rimanere un diritto costituzionalmente garantito». L’Europa? «Rapporti con i partner europei sulla base del rispetto reciproco e della cooperazione verso obiettivi comuni di prosperità, sempre però nel rispetto delle democrazie nazionali e dei precetti costituzionali». In altre parole, si tratterebbe di una rivoluzione copernicana. Attuata da quali forze politiche? Non è dato saperlo, per ora. Quella che Zanni auspica, in ogni caso, è una svolta epocale, necessaria per «ricostruire le macerie di un paese raso al suolo dall’adesione incondizionata al folle progetto» dell’Eurozona. «Ma la cosa più importante – aggiunge – sarà tener vivo nelle generazioni future il ricordo di queste scempio e delle cause che hanno portato alla più grande recessione economica della storia moderna».Se c’è qualcosa di “incostituzionale” è proprio l’Unione Europea. Si spera quindi che la frana dell’Eurozona diventi una valanga nel 2017, con elezioni che protrebbero “pensionare” i politici che finora hanno sostenuto l’euro-follia, da Parigi a Berlino. Non c’è mai stata cooperazione, ma solo una competizione giocata con armi illecite, alla quale sopravvivrà solo il più forte, la Germania. «Come è possibile – si domanda Marco Zanni, europarlamentare grillino – che istituzioni sovranazionali come quelle dell’Ue non siano dichiarate incostituzionali perché incompatibili con l’articolo 11 della nostra Costituzione, che delimita chiaramente i confini entro cui lo Stato italiano può partecipare a organizzazioni internazionali?». E infine: «Perché i nostri governi non rifiutano le distruttive e insensate regole europee quando queste creano pericolose asimmetrie e ledono i diritti fondamentali dei propri cittadini?». L’attuale classe politica italiana, e in particolare la sinistra, ha «svenduto il paese, i diritti dei cittadini e quelli dei lavoratori al capitale finanziario, che ha agito incontrollato nella distruzione di quanto di buono fatto in Europa dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale». Ergo, «non potranno essere loro a portarci fuori dal baratro».