Archivio del Tag ‘protesta’
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Figlio mio in carcere, la barbarie contro chi osa dire no
Carissimo figlio, perdonami se rendo pubblica questa lettera, ma ciò che ci accade non appartiene solo a noi. Tra pochi giorni sono cinque mesi che sei chiuso in carcere. Tanta vita rubata. Sono 150 lunghi giorni, e 150 lunghe notti di angoscia. Ti chiedo sempre di tenere duro, ma sono io che non ho più la forza. L’amarezza a tratti mi sommerge, lo sdegno mi ferma il respiro. Mi sveglio di soprassalto ogni notte, e nel silenzio mi sembra di poterti raggiungere, nell’isolamento atroce in cui ti costringono. L’idea di vivere in un paese che permette che questo accada mi ripugna. Sono oscene, queste maschere del potere, interessate solo alle loro poltrone e ai loro portafogli. La corruzione in Italia è spaventosa, la politica ha perso qualsiasi ideale di giustizia e di uguaglianza, e per voi giovani non c’è nulla: il vostro futuro è stato depredato da chi oggi vi giudica. Né lavoro, né aria che si possa respirare, né terra pulita. E né libertà: dovete tacere, dovete subire, altrimenti essere incarcerati.Carissimo Mattia, perché ti abbiamo insegnato il dovere di dissentire, di ribellarti davanti alle ingiustizie? Perché ti abbiamo trasmesso l’amore per l’umanità e per la terra? Non era meglio lasciarti crescere cullato dall’edificante cultura offerta dal nostro paese negli ultimi vent’anni? Sono certa che risponderai di no, che preferisci mille volte essere chi sei – e dove sei – piuttosto che adeguarti a questo spettacolo raccapricciante, offerto da chi esercita l’abuso di potere applaudendo gli assassini di Altrovaldi, rispondendo con i manganelli e la prigione ai movimenti popolari che nascono dalle necessità reali della gente, ignorate da chi dovrebbe cercare e trovare delle risposte.Carissimo figlio, sabato 10 saremo – siamo – tutti qui alla manifestazione contro la barbarie dell’accusa di terrorismo, contro la devastazione della val di Susa, per la libertà di dissenso, per il diritto degli italiani a un’esistenza dignitosa. Ci siamo tutti, e siamo tanti. Manifestiamo tutto l’amore che proviamo per te, ma anche per Claudio, Chiara, Nicolò e tutti gli indagati del movimento No-Tav. E la promessa è di non smettere mai di lottare fino a quando non vi riporteremo a casa. Un abbraccio. Mamma.(Testo della lettera che la madre di Mattia Zanotti ha indirizzato al figlio in carcere e letto pubblicamente di fronte alle migliaia di militanti No-Tav accorsi a Torino il 10 maggio 2014 per protestare contro l’arresto di Mattia, detenuto in un carcere di massima sicurezza dal 9 dicembre 2013. Mattia è stato arrestato insieme a Claudio Alberto, Chiara Zenobi e Niccolò Blasi: contro i quattro giovani è stata formulata l’accusa di attentato con finalità terroristiche per aver partecipato, il 13 maggio 2013, a un assalto notturno al cantiere Tav di Chiomonte, con lancio di molotov e petardi. Nel blitz, conclusosi senza neppure un ferito, andò a fuoco un piccolo macchinario di cantiere, un compressore).Carissimo figlio, perdonami se rendo pubblica questa lettera, ma ciò che ci accade non appartiene solo a noi. Tra pochi giorni sono cinque mesi che sei chiuso in carcere. Tanta vita rubata. Sono 150 lunghi giorni, e 150 lunghe notti di angoscia. Ti chiedo sempre di tenere duro, ma sono io che non ho più la forza. L’amarezza a tratti mi sommerge, lo sdegno mi ferma il respiro. Mi sveglio di soprassalto ogni notte, e nel silenzio mi sembra di poterti raggiungere, nell’isolamento atroce in cui ti costringono. L’idea di vivere in un paese che permette che questo accada mi ripugna. Sono oscene, queste maschere del potere, interessate solo alle loro poltrone e ai loro portafogli. La corruzione in Italia è spaventosa, la politica ha perso qualsiasi ideale di giustizia e di uguaglianza, e per voi giovani non c’è nulla: il vostro futuro è stato depredato da chi oggi vi giudica. Né lavoro, né aria che si possa respirare, né terra pulita. E né libertà: dovete tacere, dovete subire, altrimenti essere incarcerati.
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Expo-ladri di partito, poi si lamentano se vince Grillo
Ma come, c’è l’Expo e non rubano? Niente paura: «Oggi sono più tranquillo, adesso i conti tornano: se c’è un appalto c’è una tangente, è tutto perfettamente simmetrico». Soprattutto, per Aldo Giannuli, «consola vedere certi nomi ancora su pista: Greganti, Frigerio». Lo scandalo Expo? «E’ solo all’inizio, vedrete che altro verrà fuori. Ma già si profila uno scenario impressionante». Mani Pulite? Non è servita a niente, o quasi: «I sistemi sono quelli di sempre, l’architettura di potere è la stessa, persino gli uomini sono gli stessi, passati come salamandre attraverso il fuoco di inchieste e condanne. Poi, la cosa è tanto più marcia ove si consideri il fiume di soldi di finanziamento pubblico che i partiti hanno preso in questi anni. Cifre da sei a otto volte superiori a quelle del tempo di Mani Pulite, erogate proprio in nome della lotta alla corruzione, per mettere i partiti in condizione di fare politica senza fare imbrogli: ecco i risultati».Stavolta è peggio, dice Giannuli nel suo blog, perché la storia si intreccia con lo scontro tutto milanese tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il suo vice Alfredo Robledo. Per di più, «lo scandalo avviene su un palcoscenico che assicura la massima risonanza internazionale». E tutto questo, non negli anni della “Milano da bere”, quando l’Italia (della lira sovrana) «ruggiva dalla posizione di quinta potenza industriale del mondo». Il nuovo bubbone scoppia «nel momento di massima decadenza, di una Italia scivolata all’ottavo posto e con prospettive di uscire a breve dalla “top ten” dell’economia mondiale in pochissimi anni», grazie al regime recessivo imposto dai signori dell’Eurozona, quelli dell’austerity miracolosa. In attesa di accertare le eventuali responsabilità penali degli indagati, Giannuli registra che – in vent’anni, dopo Tangentopoli – non è stato fatto assolutamente nulla per contrastare la piaga della corruzione, del legame politica-affari. Pd e centrodestra assolutamente solidali: poi si lamentano dei voti a Grillo.Greganti e Frigerio sarebbero stati essenzialmente dei mediatori fra aziende e centro decisionale di spesa? Va bene, «ma chi rappresentavano?». Cioè: «Da dove veniva la loro forza di condizionamento delle scelte? Non ci vuole molta fantasia per capirlo». Quando venne arrestato nel 1993, ricorda Giannuli, Greganti si assunse tutta la responsabilità della tangente contestatagli, salvando il suo partito, il Pci-Pds. Poi, quando Di Pietro per l’ennesima volta gli negò la libertà provvisoria dicendogli che sarebbe rimasto dentro sino a quando non avesse parlato, il “Compagno G” rispose: «Dottore, nella Pasqua del Sessantotto venni inviato dal mio partito in Grecia, per una missione di appoggio alla resistenza greca. Venni individuato dalla polizia dei Colonnelli, arrestato e torturato perché rivelassi i miei contatti greci. E non parlai».Come dire che un uomo così «non fa certe cose per lucro personale». Al contrario, «è un professionista che sa quali sono i rischi e li accetta». E, forse, «lo fa anche per profonda adesione ideale: dunque, deve avere un committente». Quindi, «mi volete dire per chi sta lavorando ora?». Domande inevitabili: il Pd non c’entra nulla? «Siamo sicuri che il mondo delle cooperative non c’entri nulla?». Quanto a Forza Italia, lo scivolone di Milano «rischia di essere la pietra tombale sulle speranze di riscossa e l’avvio di una frana irrimediabile», tanto più che va a coincidere con l’arresto di Scajola dopo quello di Dell’Utri: «Tutte le strade portano a Beirut, piove sul bagnato». Certo, conclude Giannuli, «Grillo ha una fortuna sfrontata: l’anno scorso lo scandalo Mps a tre settimane dal voto. E oggi, sempre a tre settimane dal voto, questo scandalo che mette insieme i suoi due maggiori concorrenti».Ma come, c’è l’Expo e non rubano? Niente paura: «Oggi sono più tranquillo, adesso i conti tornano: se c’è un appalto c’è una tangente, è tutto perfettamente simmetrico». Soprattutto, per Aldo Giannuli, «consola vedere certi nomi ancora su pista: Greganti, Frigerio». Lo scandalo Expo? «E’ solo all’inizio, vedrete che altro verrà fuori. Ma già si profila uno scenario impressionante». Mani Pulite? Non è servita a niente, o quasi: «I sistemi sono quelli di sempre, l’architettura di potere è la stessa, persino gli uomini sono gli stessi, passati come salamandre attraverso il fuoco di inchieste e condanne. Poi, la cosa è tanto più marcia ove si consideri il fiume di soldi di finanziamento pubblico che i partiti hanno preso in questi anni. Cifre da sei a otto volte superiori a quelle del tempo di Mani Pulite, erogate proprio in nome della lotta alla corruzione, per mettere i partiti in condizione di fare politica senza fare imbrogli: ecco i risultati».
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Chiesa: siamo seri, Putin non voleva nemmeno la Crimea
L’Occidente è compatto con un monolite nelle smisurate menzogne che racconta. Non solo oggi. Sempre. La Russia, invece, non ha voce in Occidente. Nessuna. Storicamente l’ha avuta solo fino a che esistettero i partiti comunisti. Ma questi non esistono più da ormai 35 anni circa. E, infatti, la voce, le opinioni, le posizioni della Russia (non dico dei russi, per il momento) letteralmente non esistono in tutto l’Occidente. E, data l’assoluta ormai uniformità propagandistica del mainstream occidentale, le opinioni del Cremlino sono affidate esclusivamente alle capacità propagandistiche di Vladimir Putin. Che non bastano per bucare il muro di silenzio, e di russofobia, che circonda la Russia. Un bel guaio per noi europei che dissentiamo dalle linee guida del “consenso washingtoniano” e che non abbiamo strumenti per cambiare il corso delle cose, essendo stati espropriati delle regole della democrazia liberale.Vero, per carità, che Putin non ha “controparti interne”. Ma occorre aggiungere che il consenso che oggi circonda Putin è altissimo e tale che nemmeno in Occidente lo si mette in discussione (se non per dire che i russi sono un popolo bue, incompatibile con la nostra, superiore democrazia). Resta il fatto che il grande pubblico della società dello spettacolo, al 99%, non sa nulla né delle reali intenzioni della Russia di Putin, né dei suoi gesti politici. Si afferma, come un dato scontato (e scontato non è affatto) che Putin voglia conquistare l’Ucraina e che lo stia facendo in modo subdolo, “allestendo la protesta sul suolo ucraino”. Ho numerosi argomenti forti a sostegno della tesi che Putin desidera, in ogni modo, evitare l’annessione delle due regioni del sud est ucraino, cioè il Donbass e il Lugansk. Aggiungo che ho abbondanza di prove che Putin avrebbe volentieri evitato anche il referendum della Crimea.Ma capisco che questo lo si può capire solo se ci si libera di una parte del veleno russofobico che tutti siamo costretti a ingoiare. Basti un solo dato di fatto, incontrovertibile. I dodici milioni di russi dell’Ucraina sud-orientale (inclusi i due milioni di crimeani) non hanno mosso nemmeno il mignolo del piede sinistro durante i cinque mesi che hanno preceduto il colpo di Stato che ha abbattuto Yanukovic. Come mai? Il fatto è che non Putin ha assunto l’iniziativa dell’offensiva, ma gli Stati Uniti. I russi di Ucraina sono stati tranquilli e sottomessi fino a che non è emersa a Kiev la giunta con le pustole naziste che adesso conosciamo. Solo allora hanno cominciato, all’improvviso, a preoccuparsi, prima, e poi a reagire. Se si pensa che sia Putin a allestire la protesta nel Donbass, temo che si sbagli. Un conto è sostenere il peso dell’ingresso della Crimea. Un altro conto sarebbe assumersi il peso di un paese di oltre dieci milioni di persone, due volte la Svizzera.E, probabilmente, non si sa nulla della lettera che, nel pieno della crisi, Putin ha inviato a diciotto capi di governo dell’Europa, invitandoli a sedersi attorno a un tavolo per risolvere, insieme, il problema economico e sociale dell’Ucraina. Il mainstream italiano ha negato le notizie essenziali. L’altro errore, sesquipedale, è nel considerare Yanukovic come un uomo di Putin. Se avessimo seguito da vicino le vicende ucraine degli ultimi 23 anni, sapremmo che nessuno dei quattro presidenti che si sono succeduti a Kiev dopo la sua prima e unica indipendenza nazionale è stato “uomo di Mosca”. Sono stati tutti e quattro degli agenti dell’Occidente. Lo fu Kravchuk; lo fu Kuchma; lo fu, ovviamente, l’arancione Yushenko. Lo era anche l’oligarca Yanukovic. Il quale promosse e condusse, con totale miopia e stupidità, la trattativa con l’Europa che avrebbe dovuto sfociare nel trattato di Vilnius.Ovvio che Putin abbia cercato di fermarlo, nell’interesse della Russia. Ma non risulta che abbia organizzato un colpo di Stato per abbatterlo. Gli promise un prestito a tasso agevolato di 15 miliardi di dollari, più due miliardi all’anno di sconto sulla bolletta del gas. Se questa è un’aggressione, allora io devo aver dimenticato il vocabolario italiano. E poi, una domanda: tutti fanno i propri interessi, o sbaglio? E perché mai l’unico cui non è permesso di fare i propri interessi, per giunta senza spargimento di sangue, per giunta nelle immediate vicinanze delle sue frontiere, dovrebbe essere Putin? Strane pretese. E quale “civile difesa” dei propri diritti resterebbe ai russi di Ucraina alla luce del mostruoso pogrom di Odessa?Mi fermo qui. Io non sono né un “volontario forzato”, né un “partigiano senza domande”. A me pare di ragionare da europeo con la testa sul collo. Questa crisi è stata creata artificialmente da Washington (ricordate il “fuck Eu” della signora Victoria Nuland?). È destinata a colpire la Russia, senza dubbio, ma anche l’Europa, sottoponendola a un controllo strettissimo da parte Usa e tagliandole legami economici vitali, a cominciare da quelli energetici, con la Russia. Resta la domanda: ma non potevano aspettare le prossime elezioni, tra un anno, per fare fuori Yanukovic? Invece hanno avuto fretta. Proviamo a chiederci da dove è venuta tanta fretta americana e di parte dell’Europa. Io penso che l’Europa dovrebbe avere con la Russia un partenariato strategico amplissimo. Non vorrei più essere suddito dell’Impero, proprio mentre l’Impero non è più tale, vacilla, diventa sempre più aggressivo e irresponsabile. Dunque pericoloso. Non voglio andare in guerra. Contro nessuno. Dunque penso. Dunque cerco di difendermi.(Giulietto Chiesa, sintesi dell’intervento “Russia-Ucraina, chi fa propaganda e chi la subisce”, pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” il 7 maggio 2014, in risposta alle domande di un lettore).L’Occidente è compatto con un monolite nelle smisurate menzogne che racconta. Non solo oggi. Sempre. La Russia, invece, non ha voce in Occidente. Nessuna. Storicamente l’ha avuta solo fino a che esistettero i partiti comunisti. Ma questi non esistono più da ormai 35 anni circa. E, infatti, la voce, le opinioni, le posizioni della Russia (non dico dei russi, per il momento) letteralmente non esistono in tutto l’Occidente. E, data l’assoluta ormai uniformità propagandistica del mainstream occidentale, le opinioni del Cremlino sono affidate esclusivamente alle capacità propagandistiche di Vladimir Putin. Che non bastano per bucare il muro di silenzio, e di russofobia, che circonda la Russia. Un bel guaio per noi europei che dissentiamo dalle linee guida del “consenso washingtoniano” e che non abbiamo strumenti per cambiare il corso delle cose, essendo stati espropriati delle regole della democrazia liberale.
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Halevi: liquidare il Pd e l’euro-regime che taglia i salari
Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania. L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto, l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’Eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. E infatti Olanda e Austria protestarono, ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta, ovviamente. Purtroppo non si può uscire dall’unione monetaria se non si esce anche dall’Ue.Per poter permettere l’uscita soltanto dall’Ume sarebbe stato necessario includere nei Trattati una separazione tra Eurozona e Ue – cosa che non c’è, come non c’è alcuna clausola di uscita nei testi che legalizzano l’unione monetaria. In Italia il risparmio delle famiglie – al 3,6% del reddito disponibile secondo l’ultimo “economic outlook” dell’Ocse – è crollato per via della crisi aggravata dalle politiche di austerità, e quindi per via del connesso calo degli investimenti. Non si può tornare a Keynes, perché a Keynes non ci si è mai arrivati se non attraverso il “keynesismo militare” del periodo 1947-71 o forse ‘47-74. Infine, con o senza riferimento a Keynes, anche dopo la fine di Bretton Woods gli Usa non hanno mai abbandonato una politica fiscale attiva, finalizzata agli obiettivi dei gruppi capitalistici che, di volta in volta, controllano il governo. Durante Bush il Piccolo, la presidenza Usa non ha mai posto un veto alle proposte di espansione della spesa federale inoltrate dai repubblicani.Tutte queste spese hanno avuto sì degli effetti “keynesiani”, soprattutto l’ulteriore militarizzazione lanciata da Reagan, ma non vennero effettuate con obiettivi keynesiani di piena occupazione. Servono però a dimostrare che le idee secondo cui il neoliberismo ha implicato meno Stato, meno spesa pubblica, e più mercato sono sbagliate. C’è stato più Stato e più capitale privato. La fase apertasi col 2007 mette in crisi anche le visioni secondo cui dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il sistema economico sarebbe stato gestito da politiche neoliberiste volte a ridurre il ruolo dello Stato a favore del mercato. Invece, per molti versi organismi statuali insindacabili (come quelli dell’Ue) hanno aumentato la loro azione ed ingerenza negli affari economici, intervenendo attivamente nello spostamento dei rapporti economici e sociali a favore non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici prescelti.Infine si è dimostrata errata l’idea che la crisi sia il prodotto della moderazione e stagnazione dei salari, negli Usa prima e progressivamente anche in Europa, che ha spinto le famiglie a indebitarsi. Credo che la dinamica sia stata differente. La stagnazione salariale e le trasformazioni finanziarie, sempre appoggiate dallo Stato fin nei minimi particolari, hanno permesso di acchiappare due piccioni con una fava. Da un lato la stagnazione salariale riduceva la pressione sul costo del lavoro e – cosa ben più importante del costo del lavoro – riduceva soprattutto la possibilità di resistenza organizzata alle decisioni manageriali. Negli Stati Uniti, le delocalizzazioni industriali – prima verso il Messico e poi massicciamente verso la Cina – sono andate di pari passo con l’indebolimento salariale e sindacale, che sono stati gli strumenti sociali usati per effettuare tali delocalizzazioni.In parole povere: non avrebbero potuto traslocare con questa facilità se i dipendenti non fossero stati già in crisi profonda, tale da non poter offrire grande resistenza. Dall’altro lato le trasformazioni finanziarie, l’invenzione di nuove forme di moltiplicazione dei titoli, sempre rese possibili dalle politiche degli organismi statali, hanno creato ciò che Riccardo Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario privatizzato. In altri termini l’indebitamento non è stato soltanto l’elemento che ha controbilanciato la stagnazione salariale. È andato molto più in avanti. Il sistema giuridico statale ha dato facoltà alle società finanziarie di cercare e creare i soggetti da indebitare anche nelle classi di reddito più basse, che altrimenti non avrebbero potuto accedere ad una tale massa di prestiti. In questo modo dagli Usa è stata sostenuta la domanda effettiva mondiale: tramite le delocalizzazioni e con le conseguenti importazioni dal resto del mondo.A ben guardare, i paesi che negli anni 1985-2007 hanno avuto un tasso di crescita degno di questo nome sono Cina, India, Usa e pochi altri. Negli Usa il tasso di crescita pro capite è stato moderato, ma quello aggregato – che include l’aumento di popolazione – è stato maggiore che in Europa o Giappone. Pertanto il processo che è sfociato nella crisi del 2007 evidenzia come sia erronea la contrapposizione di capitalismo finanziario ad economia reale. La fase iniziata con le politiche reaganiane si basa sull’integrazione dei due aspetti, al punto che è impossibile fare delle distinzioni. A Keynes non si può ritornare perché non ci si è mai arrivati, né ci si arriverà. Lo predisse Keynes stesso in un articolo apparso sulla rivista americana “The New Republic” nel 1940. Keynes sostenne che le democrazie liberali non avrebbero mai accettato di aumentare la spesa pubblica ad un livello tale da poter convalidare la sua concezione dell’economia. Nei fatti questo livello venne però raggiunto e superato, ma grazie al pilastro rappresentato dal keynesismo miltare.Oggi non è questione di andare oltre Keynes né di ritornarci, dato che le probabilità di un ampio consenso sociale interclassista intorno alle politiche dette keynesiane si allontana sempre di più, a meno che non sorgano delle esigenze militari globali che coinvolgano sia gli Usa che l’Europa e l’Asia capitalistica. Allo stato attuale la crisi ha allontanato ulteriormente la possibilità di un compromesso interclassista keyensiano. Non ci credono gli imprenditori, non ci credono i think tanks, non ci credono politici e banchieri centrali; mentre il lavoro dipendente, il precariato e i disoccupati non hanno espressioni politiche coerenti rilevanti nell’ambito degli schieramenti parlamentari. Di fronte a ciò abbiamo la concreta prospettiva di un massiccio voto operaio a formazioni di destra come nel caso del Front National in Francia. Ritorno ai cambi flessibili? L’horror story dell’euro non risiede nell’impossibilità di svalutare o rivalutare. A mio avviso su questo terreno ha valore l’affermazione di Lenin riguardo il secolare scontro tra libero scambio e protezionismo. Né l’uno né l’altro, sostenne Lenin, bensì monopolio statale sul commercio estero.Precaria la precaria posizione dei sindacati di oggi – sono pessimi organismi, spesso corrotti e imboscati nei meandri della politica. Però sono necessari: senza di loro, come argomentò un grande economista matematico metà neoclassico e metà marxiano, Michio Morishima, la società capitalistica tenderebbe verso la schiavitù. Comunque, se oggi si vuole ascrivere allo Stato un ruolo di datore di lavoro, dovrebbe essere quello di datore di lavoro di prima istanza. Le società europee stanno tendendo verso la piena disoccupazione e precarizzazione. Il toro lo si può affrontare solo prendendolo per le corna: organizzare lotte con idee chiare in testa. Cioè la socializzazione pianificata degli investimenti e, necessariamente, per delle politiche monetarie e fiscali subordinate a quest’obiettivo. Tuttavia per queste lotte non ci sono le condizioni. In Italia la formazione di tali condizioni deve passare per una radicale trasformazione della Cgil e per la dissoluzione del Pd. I nuovi quadri dovranno inoltre essere altamente preparati sui temi economici di cui abbiamo discusso. Impossibile.(Joseph Halevi, estratti dall’intervista realizzata da “EuroTruffa” e ripresa da “Megachip”. Economista dell’università di Sydney, Halevi è autore con Riccardo Bellofiore del saggio “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”).Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania. L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto, l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’Eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. E infatti Olanda e Austria protestarono, ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta, ovviamente. Purtroppo non si può uscire dall’unione monetaria se non si esce anche dall’Ue.
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Crisi ucraina, perché il Fatto attacca Giulietto Chiesa?
«Giulietto Chiesa mente», scrisse tanti anni fa l’agenzia Tass, quando al Cremlino c’era Breznev, che evidentemente non gradiva l’indipendenza del corrispondente italiano. Oggi, nel 2014, lo stesso Chiesa viene definito «più zarista di Putin». Da chi? Dal “Fatto Quotidiano”, che per colpire l’autore de “La guerra infinita” ospita un insolito corsivo «non firmato, quindi redazionale», che per Chiesa è «un attacco in perfetto stile maccartista, proprio da caccia alle streghe». L’imputazione: passare, su “Pandora Tv”, «le veline di “Russia Today”, il network mediatico del Cremlino», arrivando a sostenere che l’Est dell’Ucraina sia abitato da “russi”. «Se lo sentisse Putin, lo licenzierebbe», scrive il “Fatto”. Replica Chiesa: «Chi scrive non sa, evidentemente, che in Ucraina ci sono all’incirca dieci milioni di russi», cioè cittadini ucraini di etnia russa che «non si fidano dei gestori provvisori di Kiev». E attenzione: «Non sono solo russi, quelli che si difendono contro la giunta militare golpista di Kiev: ci sono anche molti ucraini non russi».Perché il “Fatto” si scaglia contro l’ex corripondente da Mosca? Giulietto Chiesa ha lavorato per “L’Unità”, per “La Stampa”, per la Rai, per il Tg5. Ha insegnato all’università negli Stati Uniti, ha fondato con Mikhail Gorbaciov il “World Political Forum”, assise internazionale permanente per riflettere sulla governance mondiale dopo la fine della guerra fredda. Soprattutto, da almeno dieci anni, è impegnato nella denuncia sulle falsisficazioni del massimo tabù nel nuovo secolo, gli attentati dell’11 Settembre frettolosamente attribuiti a Bin Laden, già plenipotenziario della Cia in Afghanistan prima di diventare “lo sceicco del terrore”, capace di accendere la miccia da cui sono scaturite tutte le guerre degli ultimi anni, a cominciare dall’Afghanistan e dall’Iraq. Di tutti gli opinion leader più in vista, forti del loro riconosciuto prestigio personale – scrisse tempo fa un osservatore scomodo e intransigente come Paolo Barnard – Giulietto Chiesa è l’unico che sia stato capace di rinunciare davvero a tutte le comodità del suo rango pur di continuare a impegnarsi, senza compromessi, per lo smascheramento delle menzogne ufficiali.«Se ci fosse un’informazione decente in questo paese, non avrei pensato a fondare “Pandora Tv”», replica oggi Chiesa. Che accusa: sull’Ucraina, i media mainstream hanno oscurato la notizia principale, all’inizio della crisi, e cioè «non ha mostrato le immagini dei poliziotti di Maidan bruciati dai pacifici dimostranti nazisti armati di lanciafiamme». Al “Fatto”, Giulietto Chiesa risponde così: «Fornite le notizie, non censuratele». In altre parole: meglio la voce di “Rt” che le “veline” di John Kerry. Sempre più spesso, oggi, si invertono gli schemi: increscioso, per Barbara Spinelli, che a dare asilo a Edward Snowden non sia stata la civile Europa, colpita dal Datagate persino con lo spionaggio ai danni del telefono personale di Angela Merkel. Snowden, cui dobbiamo la verità sulle intercettazioni di massa della Nsa, ha ottenuto rifugio solo presso Vladimir Putin.Giulietto Chiesa si dichiara stupito che questo attacco «personale, diretto, insultante» non provenga da “Repubblica” o dal “Corriere”, ma dal “Fatto”. Giovanni Miotto, un abbonato del giornale di Padellaro, Gomez e Travaglio, protesta pubblicamente, dando ragione a Chiesa: «Nelle pagine del “Fatto” dedicate agli esteri, da mesi ormai regna la disinformazione». Miotto riferisce di aver appena scritto «una mail di protesta» alla direzione del giornale, lamentandosi «dell’insostenibile livello di quanto pubblicato sull’Ucraina». Quanto a “Russia Today” – che “Pandora” riprende in italiano, via web – ha semplicemente raccontato i fatti, sottraendosi alla censura occidentale organizzata proprio da Kerry. «Dire che siamo dei “velinari di Rt” è semplicemente un insulto: e si ricorre all’insulto quando non si hanno argomenti», aggiunge Chiesa, presentato dal “Fatto” come una sorta di “dipendente” di Putin. «Qui ci sarebbero gli estremi per una querela, ma non voglio aspettare dieci anni per avere ragione: la ragione è già tutta nella mia storia professionale di corrispondente e di scrittore, non ho bisogno di altro». Il primo a calunniarlo, accusandolo di «essere stato pagato dal Kgb», fu Bettino Craxi, poi condannato per diffamazione.«Giulietto Chiesa mente», scrisse tanti anni fa l’agenzia Tass, quando al Cremlino c’era Breznev, che evidentemente non gradiva l’indipendenza del corrispondente italiano. Oggi, nel 2014, lo stesso Chiesa viene definito «più zarista di Putin». Da chi? Dal “Fatto Quotidiano”, che per colpire l’autore de “La guerra infinita” il 26 aprile ospita un insolito corsivo «non firmato, quindi redazionale», che per Chiesa è «un attacco in perfetto stile maccartista, proprio da caccia alle streghe». L’imputazione: passare, su “Pandora Tv”, «le veline di “Russia Today”, il network mediatico del Cremlino», arrivando a sostenere che l’Est dell’Ucraina sia abitato da “russi”. «Se lo sentisse Putin, lo licenzierebbe», scrive il “Fatto”. Replica Chiesa: «Chi scrive non sa, evidentemente, che in Ucraina ci sono all’incirca dieci milioni di russi», cioè cittadini ucraini di etnia russa che «non si fidano dei gestori provvisori di Kiev». E attenzione: «Non sono solo russi, quelli che si difendono contro la giunta militare golpista di Kiev: ci sono anche molti ucraini non russi».
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La guerra di Ugo: il 25 aprile e l’euro-Italia di Renzi
Ugo Berga è un anziano signore di novant’anni, nipote di Palmiro Togliatti. Vive in valle di Susa, dove ha combattuto come partigiano. Dice: oggi, i partigiani della libertà e della giustizia sono i No-Tav, coi quali peraltro l’anziano Berga solidarizza, anche con happening a Chiomonte, a cento passi dalla baita in cui Beppe Grillo qualche anno fa violò i sigilli giudiziari, finendo anche lui in tribunale. Dalla parte dei No-Tav – cioè della libertà e della giustizia, per dirla con nonno Ugo – è dunque schierato il populista Grillo, mentre gli ultimi eredi piemontesi di quello che fu il partito di Togliatti – il sindaco torinese Fassino, l’ex sindaco Chiamparino ora in corsa per la Regione Piemonte, l’ex presidente Mercedes Bresso candidata al Parlamento Europeo – sono i più acerrimi avversari degli “eretici” valsusini. Proprio loro, gli ex-Pci, sono i nemici giurati dei ragazzi per i quali fa il tifo il partigiano comunista Ugo Berga, nipote di Togliatti. Dov’è l’errore?Il 25 aprile, per decenni ricorrenza sacra alla sinistra ufficiale (quella del partito di Gramsci, Togliatti, Berlinguer) pare ormai una questione da nonni, capace di appassionare soltanto novantenni – oppure ventenni, ma con sciarpa No-Tav. Nonni che hanno lasciato un segno, in valle di Susa e altrove. Come il grande Giorgio Bocca, che nel 2005 – dopo il primo atto di forza contro la popolazione, ostile alla grande opera più inutile d’Europa – scrisse, testualmente: se qualcuno mi parla ancora di Tav Torino-Lione tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo sepolto nell’aprile del ‘45. Almeno dieci anni prima, sempre in valle di Susa, i futuri No-Tav ascoltarono parole profetiche da un altro venerabile nonno, Nuto Revelli, partigiano sulle stesse montagne di Bocca. Vi vogliono remissivi e disclipinati – disse Nuto – ma voi, ragazzi, imparate a ribellarvi: dovete dare fastidio, al potere. Non dategliela vinta, resistete, non arrendetevi.Nuto Revelli fiutava i tempi: l’eclissi della sinistra come patria politica dei diritti sacrificati alla nuova dittatura, quella del mercato. Oggi, i pronipoti di Togliatti – la sinistra di potere – inaugura a Torino l’Hotel Gramsci, lusso a 5 stelle sulle ceneri della casa del più grande intellettuale e militante della sinistra italiana. Ieri, Massimo D’Alema autorizzava i bombardamenti sulla Jugoslavia, dopo che gli infiltrati dell’Unione Europea – a cominciare da Romano Prodi – avevano impacchettato l’Italia, all’insaputa degli italiani, dentro trattati-capestro i cui effetti catastrofici si rivelano al grande pubblico soltanto oggi, caduto lo schermo di comodo dell’antiberlusconismo. Su quel palco ora volteggia Renzi, l’illusionista che prende ordini dalla Jp Morgan tramite Tony Blair. Sa benissimo che i devoti elettori del Pd lo voteranno lo stesso, anche se rottama gli ultimi diritti sociali come vuole il neoliberismo dell’élite, l’oligarchia che sta restaurando il feudalelismo in Europa. Con tanti saluti a Ugo Berga, Giorgio Bocca, Nuto Revelli e tutti gli altri nonni, per i quali il 25 aprile era la data di una vittoria storica: un mondo onesto e pulito, fatto di pari opportunità per tutti, non solo per i ricchi.Ugo Berga è un anziano signore di novant’anni, nipote di Palmiro Togliatti. Vive in valle di Susa, dove ha combattuto come partigiano. Dice: oggi, i partigiani della libertà e della giustizia sono i No-Tav, coi quali peraltro l’anziano Berga solidarizza, anche con happening a Chiomonte, a cento passi dalla baita in cui Beppe Grillo qualche anno fa violò i sigilli giudiziari, finendo anche lui in tribunale. Dalla parte dei No-Tav – cioè della libertà e della giustizia, per dirla con nonno Ugo – è dunque schierato il populista Grillo, mentre gli ultimi eredi piemontesi di quello che fu il partito di Togliatti – il sindaco torinese Fassino, l’ex sindaco Chiamparino ora in corsa per la Regione Piemonte, l’ex presidente Mercedes Bresso candidata al Parlamento Europeo – sono i più acerrimi avversari degli “eretici” valsusini. Proprio loro, gli ex-Pci, sono i nemici giurati dei ragazzi per i quali fa il tifo il partigiano comunista Ugo Berga, nipote di Togliatti. Dov’è l’errore?
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Hopkins: filiera corta, la nostra rivoluzione fa miracoli
Se la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile. Bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. Io sono uno dei fondatori del movimento “Transition Town, Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. “Transition” è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico.Come forma di sviluppo abbiamo la creazione di società energetiche, di piccole società agricole, l’agricoltura urbana, il tentativo di rivitalizzare a livello locale le comunità, dare supporto a agli imprenditori locali. Nella città di Bristol, una delle Transition Town, c’è la valuta locale, hanno fatto la Sterlina di Bristol con il supporto dell’amministrazione comunale. Uno dei progetti realizzato recentemente da Transition Network è “The New Economy in Twenty Enterprises”, la nuova economia in venti imprese. Abbiamo mappato tutto il territorio del Regno Unito e scelto venti imprese rappresentative dell’economia di transizione, che potevano essere replicate ovunque, non dipendenti perciò da una particolare situazione geografica o altro. Abbiamo scelto una banca della comunità, la comunità che aveva la propria valuta, piuttosto che il proprio sistema di trasporti, gestito dalla comunità, l’agricoltura, le aziende agricole della comunità, fonti energetiche.Alcune di queste iniziative nascono e si sviluppano in modo del tutto spontaneo; la differenza che fa “Transition” è creare un collegamento tra tutte queste cose. Infatti dalla natura, dall’ecologia, abbiamo imparato che la cosa potente è il collegamento tra i vari elementi, che vanno così a formare un sistema. “Transition” fa questo: tesse il tessuto che collega l’economia locale, consentendo a queste iniziative di parlare le une con le altre facendo sì che la resilienza della comunità diventi una forma di sviluppo economico.“Transition” è nata nel Regno Unito nel 2005 e da allora si è diffusa in tutto il mondo: siamo presenti in 44 paesi e ci sono migliaia di iniziative “Transition” in tutto il mondo. E’ è un movimento che si auto-organizza, nel senso che noi non siamo come un franchising della Coca Cola, che è sempre uguale ovunque esso si trovi, il nostro modello è diverso a seconda di dove nasce.C’è un movimento “Transition”, un’organizzazione, un Network Transition anche in Italia, che è stato uno dei primi posti a replicarlo, con grande successo, nel paese di Monte Veglio, in provincia di Bologna. C’è questa storia molto positiva, dove l’amministrazione locale ha promulgato una risoluzione per rendere il paese più resiliente, quindi esiste “Transition Italy”, Ci sono a disposizione possibilità di training, di collaborare a dei progetti. C’è una rete molto attiva, molto vitale, in Italia, cui ci si può collegare se si è interessati a “Transition”. Spesso pensiamo che il cambiamento possa accadere soltanto attraverso le proteste, i picchetti con i cartelli, le dimostrazioni, e sottovalutiamo quello che è il potere di ritirare il nostro supporto a ciò che non ci piace. C’è un movimento negli Stati Uniti che si chiama Divest, cioè “disinvestite”, che invita e incoraggia a disinvestire dal combustibile fossile per investire invece nelle rinnovabili.Si può disinvestire in un modo molto semplice, cioè con la spesa che facciamo ogni giorno: invece di fare delle scelte di acquisto che vanno a privilegiare l’economia “corporate”, quella delle grandi aziende, si scelgono prodotti che stimolano la resilienza locale, una economia locale, più inclusiva. Ogni giorno possiamo scegliere dove depositare i nostri risparmi, se dare supporto alle aziende locali o meno. Ho letto, per esempio, che negli Stati Uniti, prima che scoppiasse la guerra con l’Iraq, l’amministrazione Bush aveva previsto le dimostrazioni, ma era anche altrettanto sicuro che quella protesta non si sarebbe tradotta in cambiamento di modello del consumo – infatti le persone non hanno smesso di comprare benzina. Quindi il sistema è concepito proprio per lasciar sfogo a questo rumore, a queste dimostrazioni, perché tanto questo non corrisponde a un cambiamento delle azioni delle persone. Oggi, dare supporto all’economia locale rappresenta una delle scelte più radicali che si possano fare.(Rob Hopkins, “La transizione verso le economie locali”, sintesi del video-intervento di Hopkins sul blog di Beppe Grillo del 24 marzo 2014).http://www.beppegrillo.it/2014/03/passaparola_-la_transizione_verso_le_economie_locali_-_rob_hopkins.htmlSe la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile. Bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. Io sono uno dei fondatori del movimento “Transition Town, Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. “Transition” è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico.
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Gli 007: l’Italia soffre e protesta, ma non farà rivoluzioni
L’Italia in preda alla grande crisi sta soffrendo molto, ma la protesta è rimasta finora all’interno di limiti accettabili, grazie anche agli ammortizzatori sociali e all’azione moderatrice dei sindacati. Lo sostengono i servizi segreti, nella relazione annuale indirizzata al Parlamento. Secondo l’Aisi, per cui l’estremismo di destra non supera il folklore dei “forconi” o la violenza sporadica degli ultras del calcio, il problema sono le «strumentalizzazioni estremiste», che – potenziate dalla capacità di comunicazione del web – conterrebbero una potenziale «minaccia eversiva». Nel mirino degli 007, le “frange estreme” ai margini dei principali movimenti sociali: No-Tav e No-Muos, movimento per la casa, Terra dei Fuochi, comitati milanesi contro l’Expo 2015. E’ l’Italia che alza la voce nella sua protesta anti-crisi, quella che contesta il Fiscal Compact e i trattati neoliberisti della Troika europea, «con l’obiettivo di aggregare la militanza attorno all’appello “anticapitalista”», una lotta dal basso «per costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico».In pratica, segnala Federico Rucco su “Contropiano”, a suscitare l’attenzione dei servizi segreti sono «i movimenti di sinistra e antagonisti», quelli che «intervengono nel “sociale” in tutte le sue declinazioni (sindacali, problema abitativo, ambientale, antimilitarista». Non mancano gli anarchici, che «continuano ad essere identificati come la minaccia principale». Una “lettura politica” estremamente interessante, annota Rucco. Premessa: «Gli ammortizzatori sociali e il ruolo di mediazione dei sindacati confederali – scrive l’Aisi – hanno continuato ad agire da depotenziatori del conflitto, limitando i margini d’intervento delle frange estreme della sinistra antagonista». Per “Contropiano”, «non si potrebbe definire in modo più chiaro quello che siamo andati denunciando in questi anni rispetto al ruolo di Cgil, Cisl e Uil». Le lotte nei call center e nella logistica vengono indicate come «sporadiche, emergenti forme di autorganizzazione operaia».Per i servizi di sicurezza, «il ruolo del web si è confermato determinante quale amplificatore delle iniziative di lotta funzionale allo sviluppo di campagne condivise». Interessante l’analisi sulla dinamica dei conflitti sociali. All’Aisi non sfugge l’importanza della due giorni di mobilitazione nazionale del 18 e 19 ottobre «con lo sciopero generale dei sindacati di base e la manifestazione per il diritto alla casa e contro la crisi». Agli analisti dell’intelligence non sfugge l’importanza di forme di lotta come «la pratica dell’occupazione della piazza», che – pensando a Turchia, Grecia e Spagna – potrebbe «diventare una pratica di aggregazione del consenso facilmente replicabile anche altri ambiti, sia territoriali che tematici». Allarme rosso, ovviamente, per la mobilitazione in Sicilia contro l’insediamento militare Usa del Muos a Niscemi. Secondo i servizi, «il movimento No-Muos continua a vedere impegnati da un lato i “comitati popolari” intenzionati a muoversi in un contesto legale, e dall’altro componenti radicali determinate a compiere, con il supporto di esponenti antagonisti e anarchici siciliani, azioni di lotta più incisive, incentrate prioritariamente sulla tematica antimilitarista».Oltre alla crescita «dell’attivismo degli ambienti antimperialisti a sostegno della causa palestinese», l’Aisi rileva le «proteste di crescente spessore dell’antagonismo lombardo contro l’Expo di Milano 2015» e di quello pugliese contro il gasdotto Tap. Riferendosi poi alla Campania e alla Terra dei Fuochi, i servizi segreti sottolineano che è sotto «attenzione informativa» il tentativo, da parte di «settori dell’antagonismo locale», di «strumentalizzare la tematica, inserendosi nella protesta animata dalla popolazione locale». Ovviamente, aggiunge Rucco, un ampio dossier è dedicato al movimento No-Tav. In valle di Susa, secondo i servizi, c’è una netta differenziazione tra le «frange oltranziste» e la «componente popolare» del movimento, decisa a continuare una “resistenza “pacifica” alla grande opera, «anche se nel suo ambito – sempre secondo i servizi – si sono talora registrate posizioni di acquiescenza ad episodi di sabotaggio». E attenzione: alla lunga, la popolazione potrebbe dare segni di esasperazione. I servizi temono «l’innalzamento del livello di contrapposizione quale inevitabile conseguenza della “reazione” della popolazione a politiche decise dall’alto e al dispositivo repressivo».Quanto alle frange a vocazione violenta – anarchiche o marx-leniniste – la conclusione a cui giungono i servizi segreti è che «si tratta di gruppi esigui, in condizione di minoranza rispetto all’area antagonista». Al più, è possibile temere «azioni violente di limitato spessore operativo da parte di aggregazioni estemporanee o di individualità, intese non tanto a colpire il cuore del sistema, quanto piuttosto a dimostrare la capacità di ribellione, al fine di alimentare una progressiva radicalizzazione delle istanze contestative». Forte la sottolineatura sul ruolo di “pompieri sociali” svolto dalle organizzazioni sindacali, efficaci nel contenere il conflitto sociale in modo che resti «più ribelle che rivoluzionario». Conclude Rucco: «Chissà se l’iconoclastia di Renzi verso i sindacati e gli ammortizzatori sociali terrà conto di questo suggerimento dei servizi di sicurezza».L’Italia in preda alla grande crisi sta soffrendo molto, ma la protesta è rimasta finora all’interno di limiti accettabili, grazie anche agli ammortizzatori sociali e all’azione moderatrice dei sindacati. Lo sostengono i servizi segreti, nella relazione annuale indirizzata al Parlamento. Secondo l’Aisi, per cui l’estremismo di destra non supera il folklore dei “forconi” o la violenza sporadica degli ultras del calcio, il problema sono le «strumentalizzazioni estremiste», che – potenziate dalla capacità di comunicazione del web – conterrebbero una potenziale «minaccia eversiva». Nel mirino degli 007, le “frange estreme” ai margini dei principali movimenti sociali: No-Tav e No-Muos, movimento per la casa, Terra dei Fuochi, comitati milanesi contro l’Expo 2015. E’ l’Italia che alza la voce nella sua protesta anti-crisi, quella che contesta il Fiscal Compact e i trattati neoliberisti della Troika europea, «con l’obiettivo di aggregare la militanza attorno all’appello “anticapitalista”», una lotta dal basso «per costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico».
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Il guaio è che Matteo Renzi ha paura della democrazia
«Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica, in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi», osserva Barbara Spinelli. «Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato e i costi di una politica colpita dal discredito hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd». Memorabile la dichiarazione di Monti allo “Spiegel” il 5 agosto 2012, sul tema dei veti opposti dai paesi nordici alle decisioni dell’Ue: «Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere». E ancora: «Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa». Renzi dunque «completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in “spirito del tempo”», traduce Spinelli, allarmata dalla tesi secondo cui «la democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi».E’ esattamente il contrario della via scelta dal cancelliere tedesco Willy Brandt nel 1969: «Quel che vogliamo è osare più democrazia», disse, promettendo metodi di governo «più aperti ai bisogni di critica e informazione» espressi dalla società, «più discussioni in Parlamento» e una permanente concertazione «con i gruppi rappresentativi del popolo, in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di contribuire attivamente alla riforma dello Stato e della società». Non sembra vadano in questo senso le riforme costituzionali del premier Pd, né le parole di chi gli è vicino, che sostiene che «per governare efficacemente nel XXI secolo serve soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo: questi gli imperativi, prende nota Barbara Spinelli in un’analisi su “Repubblica” ripresa da “Micromega”.Certo, l’Italia non è l’unica democrazia debilitata dalla crisi: «Ovunque i governi sentono che la terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una democrazia troppo lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a ragione la fatica dell’azione, ma si guardano dallo smascherarne i motivi profondi», che sono «la perdita di sovranità e il trasferimento dei poteri reali verso entità internazionali spoliticizzate», e non certo gli equilibri interni, oggi definiti “lacci”, cioè «la Costituzione, i sindacati, addirittura il suffragio universale». Il farmaco? «Non è la velocità in sé, ma il cambio di prospettiva», come chiarisce un sociologo come Zygmunt Bauman. «Renzi non smaschera i mali autentici, quando propone l’accentramento crescente dei poteri in mano all’esecutivo, la diminuzione degli organi eletti dal popolo, lo svigorimento di istituzioni e associazioni nate dalla democrazia: Senato in primo luogo, ma anche sindacati e perfino soprintendenze (il cui scopo è quello di occuparsi del patrimonio artistico italiano resistendo ai privati)».Se Cgil o Confindustria si oppongono, dice Renzi, «ce ne faremo una ragione». Dunque i traumi ci saranno, «ma alla lunga la loro razionalità sarà chiara: c’è una differenza, fra la sua accelerazione e quella di Brandt». Quel che non aveva previsto, continua Spinelli, era la critica che sarebbe venuta dal presidente del Senato Pietro Grasso, oltre che l’allarme creatosi fra costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà. La riforma potrebbe indebolire la democrazia, sostiene Grasso. Mutare il ruolo del Senato e abolire le Province è importante, ma qui si stanno facendo altre cose: il Senato resta, solo che cessa di essere elettivo. E restano di fatto le Province, anch’esse non più elettive ma governate da dirigenti comunali. «L’ambizione è liberare l’Italia dai lacci che l’imbrigliano, ma la paralisi decisionale non si supera riducendo gli organi intermedi creati per servire l’interesse generale, o rendendoli non elettivi. Tantomeno può imbarcarsi in simile impresa un Parlamento certo legale, ma che la Consulta ha sostanzialmente delegittimato giudicando incostituzionale il modo in cui è stato eletto».Soprattutto, insiste Barbara Spinelli, «l’impotenza dei governi non si sormonta ignorando il male scatenante, che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e cioè da forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a decidere il lecito e l’illecito». È stata la Jp Morgan, in un rapporto del 28 maggio 2013, a sentenziare che “l’intralcio”, nel Sud Europa, viene da Costituzioni troppo influenzate dall’antifascismo postbellico: Costituzioni «caratterizzate da esecutivi e Stati centrali deboli, dalla protezione dei diritti del lavoro, dal diritto di protesta contro ogni mutamento sgradito dello status quo». Così come dalla crisi europea si esce con “più Europa”, continua Spinelli, anche dalla crisi delle democrazie si esce con più democrazia. «Lo disse fin dall’800 Tocqueville, esaminando i difetti delle società democratiche: si esce ampliando i sistemi del check and balance, dei controlli e contrappesi: frenando con altri poteri la tendenza del potere a straripare».I continui conflitti sociali e istituzionali? «Sono un rischio delle democrazie, non una maledizione. Sbarazzarsene con leggi elettorali non rappresentative o eludendo le obiezioni (“ce ne faremo una ragione”) sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole: i conflitti inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare». Alla fine, resta solo «il rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’“unzione” plebiscitaria di Berlusconi». Inoltre, aggiunge Barbara Spinelli, «Renzi neppure è un premier eletto: quando parla di “promesse fatte agli italiani”, non si sa bene a cosa si riferisca». Il dramma è la mancanza di democrazia nell’Unione Europea, per «governare poteri già sconnessi dalle sovranità territoriali: gli interessi finanziari e commerciali, l’informazione, il commercio della droga e delle armi, la criminalità, il terrorismo». Manca un potere democratico che li controlli, uno “spirito cosmopolita della democrazia”: «L’Europa potrebbe incarnarlo, se agisse come argine contro le crisi delle democrazie nazionali, e al contempo contro l’arbitrio dei mercati. Più democrazia e più governabilità non si escludono a vicenda, non si conquistano “in sequenza”: o si realizzano insieme, o perderemo l’una e l’altra».«Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica, in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi», osserva Barbara Spinelli. «Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato e i costi di una politica colpita dal discredito hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd». Memorabile la dichiarazione di Monti allo “Spiegel” il 5 agosto 2012, sul tema dei veti opposti dai paesi nordici alle decisioni dell’Ue: «Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere». E ancora: «Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa». Renzi dunque «completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in “spirito del tempo”», traduce Spinelli, allarmata dalla tesi secondo cui «la democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi».
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Barnard: hanno vinto loro, non osiamo più ribellarci
Alcuni anni fa ebbi uno scontro con Noam Chomsky, fu un lungo scambio che Noam stesso alimentò, piuttosto inusuale per lui, che è uno degli intellettuali più impegnati al mondo, e che ultimamente s’impegna ancor di più freneticamente per motivi che conosco, ma che non posso divulgare. La sostanza dello scontro erano le chance di riuscita di qualsiasi movimento di protesta, di lotta, di impegno oggi, a fronte dell’immane potere e diffusione del Vero Potere. La sua tesi era questa: la Storia ha sempre portato mutamenti per il meglio, oggi stiamo incommensurabilmente meglio di secoli fa, e non vedo perché questo processo non debba continuare. Basta non demordere. E, in ogni caso, io mi attengo alla cosiddetta “scommessa di Pascal”, secondo cui far nulla significa perdere di certo, tanto vale fare qualcosa. La mia tesi era questa: se un processo (di miglioramento) è sempre esistito, non significa che continuerà ad esistere.
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Renzi, svolta autoritaria in vista della macelleria 2015
Qualcuno si stupisce che il governo Renzi, in una situazione economica così drammatica, dia invece la priorità alla riforma del Senato e della legge elettorale? «La spiegazione di questa apparente incongruità è chiara, purtroppo». Renzi, sostiene Marco Della Luna, è stato scelto «non certo per dimostrate capacità, ma per la sua immagine di bravo ragazzo a capo di un governo di giovani rassicuranti». E’ un’immagine che «lo rende idoneo, con l’aiuto di contentini demagogici su tasse e bollette, a far passare una riforma elettorale e del Senato estremamente pericolosa e aggressiva verso la democrazia e lo stesso impianto della Costituzione». Una riforma, dice Della Luna, che «prepara l’ambiente giuridico-costituzionale adatto in cui il successivo premier potrà esercitare una dittatura formalmente legittima per gestire un prevedibile e imminente periodo di peggioramento economico e di protesta sociale».Quel premier, aggiunge Della Luna nel suo blog, «non sarà un ragazzotto inoffensivo», ma un uomo degli interessi finanziari, dei poteri forti, un delegato della Troika, che «macellerà l’Italia come la Troika ha macellato la Grecia, senza però che la Troika debba metterci la faccia», quindi scaricando sugli italiani la responsabilità di ciò che essa farà a loro. «Il peggioramento economico arriverà l’anno prossimo, con le decine di miliardi che annualmente l’Italia dovrà togliere ai contribuenti per l’abbattimento forzoso del debito pubblico (Fiscal Compact) in un trend già di avvitamento fiscale pluriennale». Prevedibilmente, continua l’avvocato Della Luna, l’Italia dovrà allora invocare l’aiuto, il bail-out, della Troika, accettare le sue “cure” e quindi reprimere l’ampio scontento popolare che, a quel punto, scoppierà. E allora «servirà una mano dura, un governo autoritario con poteri forti. Ecco a che cosa servono la riforma elettorale e del Senato. Ecco perché per questo governo sono prioritarie e vengono prima dei problemi economici».In una situazione come la nostra, in cui l’Italia è indebitata sempre più – e il debito pubblico è denominato in euro, cioè «in una moneta praticamente straniera e tutta sbilanciata su poteri esterni alla repubblica» – avremmo bisogno di tutt’altro. Per esempio, di una riforma sovranista «che prevenisse da altre sospensioni della democrazia come quelle imposte ben tre volte dai manovratori del rating e dello spread attraverso Napolitano». E invece, arriva esattamente l’opposto. «Riflettete bene: sotto la pelle d’agnello di Renzi e dei suoi ragazzi un po’ ingenui, con le loro riforme, e con l’aiuto di un Berlusconi sempre più condizionabile giudiziariamente, stanno istituendo una nuova architettura costituzionale», in cui il capo del partito di maggioranza relativa – magari eletto solo da qualche milione di italiani – si prende praticamente tutto. Con le “riforme” imposte da Renzi, infatti, il segretario del partito si sceglie i candidati che gli vanno bene, e col voto di meno di un terzo degli elettori si prende la maggioranza assoluta nell’unica camera legislativa, blindando a priori la fiducia al proprio governo.Sempre il premier, con un pugno di voti, designerebbe anche il presidente della Repubblica (che a sua volta nominerebbe buona parte del Senato), ma anche «il presidente dell’unica camera legislativa, i giudici costituzionali, i membri laici del Csm e altre cariche di garanzia». Il neo-premier potrebbe anche revocare a piacimento i ministri e lasciare senza rappresentanza parlamentare partiti che raccolgono milioni di voti, ponendosi quindi «al di sopra di ogni controllo». La giustificazione, continua Della Luna, è che i tempi richiedono un premier forte e decisioni rapide. «E’ una giustificazione bugiarda perché queste esigenze di efficienza-rapidità e insieme di democraticità-legalità sarebbero molto facilmente soddisfatte senza rinunciare alle garanzie e alla rappresentatività vera del corpo elettorale: basta mantenere, accanto a una Camera dei deputati eletta con un sistema maggioritario e con sbarramenti, un Senato elettivo, riformato in modo che sia l’organo della rappresentanza fedele dell’elettorato e delle garanzie».Per Della Luna, il Senato ideale potrebbe essere eletto con sistema proporzionale su base regionale e rinnovato per la metà ogni 3 anni. Non dovrebbe poter essere sciolto, non parteciperebbe alla normale attività legislativa e non voterebbe la fiducia (queste funzioni spetterebbero alla sola Camera dei deputati), salvo «un diritto di veto che può esercitare con maggioranza dei 3/5 dei membri su proposta di 1/3 di essi». Il nuovo Senato democratico, in compenso, avrebbe «competenza legislativa esclusiva per riforme costituzionali, leggi costituzionali, leggi sulla cittadinanza, leggi elettorali, ratifica di trattati limitanti la sovranità nazionale, messa in stato di accusa del presidente della Repubblica, decisioni su eleggibilità e decadenza di deputati e senatori, commissioni d’inchiesta, nomina del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali, dei membri laici del Csm, dei capi di tutte le istituzioni di garanzia». Un tale sistema bicamerale, conclude Della Luna, sarebbe «così semplice e chiaro, lineare ed efficace nell’assicurare tutte le funzioni, l’efficienza e le garanzie, che il fatto stesso che non sia nemmeno proposto prova il pericoloso obiettivo del governo in carica e la corresponsabilità di chi lo sostiene in qualsiasi modo».Che c’azzeccano il Senato e l’Italicum con la crisi economica? Qualcuno si stupisce che il governo Renzi, in una situazione così drammatica, dia invece la priorità alla riforma di Palazzo Madama e della legge elettorale? «La spiegazione di questa apparente incongruità è chiara, purtroppo». Renzi, sostiene Marco Della Luna, è stato scelto «non certo per dimostrate capacità, ma per la sua immagine di bravo ragazzo a capo di un governo di giovani rassicuranti». E’ un’immagine che «lo rende idoneo, con l’aiuto di contentini demagogici su tasse e bollette, a far passare una riforma elettorale e del Senato estremamente pericolosa e aggressiva verso la democrazia e lo stesso impianto della Costituzione». Una riforma, dice Della Luna, che «prepara l’ambiente giuridico-costituzionale adatto in cui il successivo premier potrà esercitare una dittatura formalmente legittima per gestire un prevedibile e imminente periodo di peggioramento economico e di protesta sociale».
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Giannuli: punita la sinistra, complice dell’euro-dittatura
Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.Dunque, non ha bisogno di sindacati e Parlamento, che devono sopravvivere solo come feticci, mentre lo stato sociale deve semplicemente sparire e la stessa Costituzione diventa un inutile intralcio. Ma la sinistra riformista senza Parlamento, sindacati e stato sociale, semplicemente non esiste. E tanto più nel tempo della crisi, quando il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia in favore dello stato d’eccezione. La sinistra moderata, che si candida a gestire una forma temperata di dittatura neoliberista, può reggere con difficoltà questa posizione sin quando non precipiti la crisi; dopo, se conquista il governo è costretta solo a fare il lavoro sporco. Quello che rende debole la posizione della sinistra “riformista” è la sua incapacità di immaginare un “altro” rispetto all’ordinamento esistente. Costitutivamente, la sinistra moderata accetta la dittatura dell’esistente e ritiene che il suo compito sia quello di temperare le ingiustizie del capitalismo, con una serie di conquiste parziali e creando “nicchie” di giustizia sociale.Quando poi, con la crisi, il capitalismo travolge irresistibilmente conquiste parziali e nicchie di equità, la sinistra moderata in un primo momento cerca di resistere, poi si appiattisce, in attesa di tempi migliori. Ma, così facendo, perde il contatto con la sua base e inizia fatalmente a declinare, mentre la protesta sociale contro la repressione capitalistica prende altre strade. A volte assai sbagliate o pericolose. Ora, come in altre circostanze storiche simili, la sinistra moderata diventa la sinistra dell’impotenza, perché non comprende che, lungi dal ridurre il tiro e abbassare i toni, queste situazioni esigono un confronto radicale sul modello di società: se il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia, alla sinistra spetta fuoriuscire dall’ordinamento esistente in direzione opposta. Nelle circostanze storicamente presenti – qui ed ora – la questione che si pone è quella dell’ordinamento neoliberista dell’Europa, costruito intorno alla Ue ed all’euro: c’è da decidere se cercare di mantenere in piedi tutta la baracca o buttarla giù a spallate.Su questo sta montando una fortissima protesta popolare, di cui il risultato francese è uno dei sintomi, ma non l’unico e non il più pesante. Quello che si capisce, senza troppa difficoltà, è che vasti settori di ceti popolari (che ormai sfiorano il 25%-30% del corpo elettorale, senza tener conto degli astenuti) attribuiscono all’euro e alle politiche di mantenimento di esso (come il Fiscal Compact) la responsabilità dell’inasprirsi della crisi e, conseguentemente, chiedono il superamento della moneta unica. E si badi che la protesta viene sia da chi guarda dal punto di vista dei paesi debitori (come Italia e Grecia), ma anche dio paesi creditori (come la Germania, l’Olanda o la Finlandia), che chiedono di tornare alla moneta nazionale o del Nord Europa, perché si ritengono danneggiati dalla condivisione della moneta con i “peccatori del debito”. Le elezioni francesi, in questo senso, sono solo il vento che annuncia la tempesta di fine maggio.Di fronte a questo, chi si schiera più risolutamente in difesa dell’attuale ordinamento europeo è proprio la sinistra moderala del Pd, Ps francese e spagnolo, Spd. E persino la “Sinistra Europea”- Gue (accusata di essere euroscettica perché osa mettere in discussione il Fiscal Compact) pur vagheggiano una vaga ed improbabile “altra Europa”, non osa mettere in discussione l’attuale assetto istituzionale europeo. A testimoniare dell’incredibile ottusità dei socialisti francesi, viene l’appello alla “solidaritè repubblicaine” verso la destra gaullista. Geniale: c’è una protesta che monta sulla base del fatto che la gente ritiene uguali sinistra e destra moderate ed i socialisti che fanno? Propongono il blocco elettorale comune fra loro e i gaullisti! Con maggiore intelligenza, la destra ha lasciato subito cadere la proposta e si predispone ad avere le mani libere nel rintuzzare l’assalto lepenista. Adesso, magari capite perché è una fortuna che in Italia ci sia il M5s, senza del quale rischieremmo che il malessere si incanali verso la Lega o magari Forza Nuova.Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.