Archivio del Tag ‘propaganda’
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Tasse, privatizzazioni e via il contante: Renzi, cioè Monti
Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.«La politica economica di Renzi – scrive Foa nel suo blog sul “Giornale” – non è volta a difendere e incentivare la piccola e media impresa italiana, ma è favorevole soprattutto alle multinazionali, smaniose di trasformare ancor di più l’Italia in una riserva di talenti e di professionisti a buon mercato». Non è un caso che Renzi prediliga le sedi delle multinazionali nelle sue uscite pubbliche, prodigandosi in elogi nei loro confronti. «Ed è significativo l’atteggiamento elusivo del suo governo sui licenziamenti alla Thyssen Krupp: premuroso con i grandi gruppi, retorico e inconcludente con le piccole e medie imprese italiane». La verità? Più tasse e meno mercato. «Scusate, ma io i tanto promessi alleggerimenti fiscali e burocratici proprio non li vedo. Semmai, come ai tempi di Monti, assistiamo al moltiplicarsi di balzelli indiretti e occulti», come «la riforma per far pagare il canone Rai a tutti attraverso la bolletta della luce», esteso ai proprietari di case sfitte o di seconde o terze case. Ancora una volta, «emerge la volontà centralista vessatoria che caratterizza l’operato dei governi dalla caduta di Berlusconi in poi».Quindi, le privatizzazioni. Renzi ha predisposto la riforma del Titolo V: «Se passasse, permetterebbe al premier di privatizzare tutte le municipalizzate del settore delle utilities, con la conseguenza che ben conosciamo: non di liberalizzare e mettere in concorrenza più fornitori, ma di sostituire un monopolio pubblico con un monopolio privato, com’è inevitabile quando per la tipologia del servizio la concorrenza è di fatto impossibile». Valga l’esempio delle autostrade cedute ai privati: da Roma a Milano ne esiste solo una, o prendi quella o percorri le statali. Il mercato dov’è? Per molte utilities la situazione è analoga. Infine, si aggiunge la mazzata dell’abolizione del contante, come spiega Enzo Pennetta sul blog “Critica Scientifica”. Primo passo, informatizzare il paese – e sin qui, ok. Poi viene annunciato che si procederà all’eliminazione dello scontrino per ottenere la “tracciabilità totale”, «notizia criptica ma vagamente liberatoria». Quello che non viene detto, sottolinea Pennetta, è che questo significa procedere all’eliminazione del contante.«La tracciabilità assoluta e il superamento della necessità dello scontrino – scrive “Critica Scientifica” – non si possono conseguire che eliminando la possibilità di pagare in contanti, cosa che avrebbe dovuto essere detta con chiarezza». E così, senza neanche nominare il contante, è stato dato l’annuncio della sua prossima eliminazione. Notizia sfuggita al “Corriere della Sera”, che ha pubblicato per primo l’annuncio di Renzi, ma anche ai 58 lettori del “Corriere” che hanno commentato l’articolo. Nessuno ha intuito qual è la vera posta in gioco. E chi aveva proposto l’abolizione del contante? Mario Monti, risponde Foa, osservando che l’eliminazione del cash equivale alla cancellazione definitiva di ogni forma di privacy: saranno millimetricamente tracciati tutti gli acquisti dei cittadini, come non accadeva nemmeno in Urss. «Domenico Idone, su “Twitter”, mi ha ricordato questo articolo. Era il 2012 e Renzi diceva: “Sarò il Monti bis”. Ancora dubbi?».Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.
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La gioia sinistra di chi vince da solo, rottamate le elezioni
A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.La democrazia a sovranità limitata si è congiunta con due spinte che da decenni agiscono nella società italiana. La prima è la banalizzazione e la spoliticizzazione del confronto politico, di cui è stata espressione la Seconda Repubblica berlusconiana. La seconda è lo spirito di vandea contro il lavoro e i suoi diritti che da più di trenta anni si scatena ad ogni difficoltà economica. Il governo Craxi negli anni ‘80 aveva già anticipato il linguaggio e i comportamenti di Matteo Renzi, ma perché il decisionismo liberista diventasse regime occorrevano tutte e tre le condizioni di fondo, e non solo una. Una democrazia ridotta a subire gli ordini esterni sui temi stessi per i quali è nata: il bilancio dello Stato. La distruzione della partecipazione e la riduzione del confronto politico a talk show. La guerra tra i poveri come unico sbocco della impotenza popolare verso le decisioni di fondo. È dalla miscela tra questi tre processi degenerativi della nostra società che nasce il successo di Matteo Renzi, e anche quello del suo omonimo Salvini.I due Matteo si dividono gran parte del consenso dei pochi elettori residui, perché meglio rappresentano l’autodistruzione della nostra democrazia. Essi sono molto simili nel modo di pensare e di proporsi, e forse persino intercambiabili. E questo non solo per il giovanilismo di palazzo, la carriera burocratica oscura trasformata in leadership grazie ai mass media mentre crollava il consenso delle vecchie direzioni, la formazione giovanile nei quiz delle Tv di Berlusconi. Il punto vero che hanno in comune è il trasversalismo reazionario. Renzi è partito volendo battere i pugni in Europa e contro i poteri forti e ora picchia solo contro sindacati, scioperi e diritti del lavoro. Che vengono indicati come i veri ostacoli, o in altre versioni come gli alibi, che fanno sì che le imprese non investano. Per Renzi la ruota della fortuna ha girato a lungo e alla fine si è fermata sul lavoro ancora sindacalizzato e tutelato da qualche diritto residuo. Quello è il nemico dei giovani, dei disoccupati, del merito, della crescita e naturalmente di quelle imprese che finanziano Renzi a 1000 euro a coperto.Anche Matteo Salvini lancia proclami contro banche, euro, finanza. Ma i mass media li buca indirizzando il rebus contro migranti e Rom e alleandosi con forze esplicitamente fasciste e razziste. Renzi e Salvini indicano all’italiano medio l’unico avversario a reale portata di mano, il vicino di casa metalmeccanico, o impiegato pubblico, o migrante. Loro vengono indicati come la causa dei guai e con loro sindacati e centri sociali. Renzi e Salvini alimentano le rispettive guerre dei poveri in competizione l’uno con l’altro, e così si presentano sempre di più come un’alternanza nell’ambito della stessa devastazione democratica. Che la gente non vada più a votare, a parte i loro sostenitori, ai due leader va benissimo. Entrambi sono figli della ideologia liberista, e la privatizzazione della democrazia è la madre di tutte le altre.Non c’è soluzione facile a tutto questo. Crisi economica e degrado democratico si alimentano reciprocamente, e per uscire da entrambi bisogna ricostruire il conflitto con avversari che non sono il vicino di casa. Per questo gli scioperi, i movimenti sociali, le lotte vere fanno così paura ad entrambi i Matteo. Perché se questi dovessero crescere e consolidarsi, loro perderebbero centralità e leadership. Il voto regionale colloca la maggioranza della popolazione italiana in una posizione extraparlamentare. Oggi è un successo per Renzi e Salvini, domani potrebbe essere la loro condanna. Ma perché questo avvenga, tutto ciò che si oppone al regime dei due Matteo deve trovare la stessa determinazione, la stessa dimensione culturale e volontà di vero cambiamento, della Resistenza e della liberazione dal fascismo.(Giorgio Cremaschi, “La resistenza contro il regime dei due Matteo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.
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Trotsky e Cia, rivoluzione e golpe: da Kiev alla rivolta Usa
Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?Altro autunno caldo, quello russo del 1917. Si scontrano due visioni di come portare a compimento la rivoluzione: quella di Vladimir Lenin e quella di Leon Trotsky. Il primo si affida alle circostanze russe in quel preciso momento storico per rovesciare il governo Kerenskij e instaurare la dittatura del proletariato. Il secondo, vera mente grigia della rivoluzione d’ottobre, sostiene che sarebbe in grado di abbattere un governo indifferentemente a Londra, Berna o Amsterdam: le condizioni sociali del paese passano in subordine rispetto alla corretta tecnica di colpo di Stato. Serve una élite di rivoluzionari, vere truppe d’assalto, che colpiscano i gangli dello Stato: la miglior polizia del mondo non potrebbe nulla contro un colpo di mano che esuli dal mantenimento dell’ordine pubblico ed attacchi il sistema nervoso della cosa pubblica. Vince Trotsky, che, espugnato il Palazzo d’Inverno, è premiato con il comando della neonata Armata Rossa: il suo potere crescerà a tal punto da costringere la troika (quella originale, con l’omonimo direttorio neo-sovietico di Bruxelles) a esiliarlo.Morirà nel 1940, ucciso in Messico da un agente sovietico. I suoi insegnamenti continuano però ad essere studiati e siamo certi che alla Cia, dove sono stati coltivate in vitro le rivoluzioni di Libia, Siria, Egitto, Tunisia ed Ucraina, le tecniche del vecchio Trotsky siano ancora accuratamente sviscerate. Torniamo alla domanda di prima: le rivolte che infuocano il Missouri e la periferie della grandi città americane sono i prodromi di una potenziale rivoluzione americana, seguita a ruota da un regime change in stile ucraino? La risposta è sì. La differenze sostanziale è che nel caso di Euromaidan, qualcuno (Washington e Berlino) ha applicato correttamente i vecchi principi di Trotsky, investendo denaro, mezzi e uomini. Nel caso del Missouri, manca una potenza straniera o un partito politico autoctono che abbia la volontà e la capacità di giocare fino in fondo la partita, espugnando la Casa Bianca. Con il denaro e gli uomini giusti, tutto è però possibile, anche l’impensabile. Ci cimenteremo quindi in una partita di fantacalcio sui generis e proveremo a rovesciare il presidente Barack Obama e ad instaurare un governo rivoluzionario, amico delle minoranze colorate e rispettoso della nostra sfera di influenza sullo scacchiere internazionale. Emuleremo quanto fatto dalla Cia in Ucraina, ricordando però che il maestro in materia, diamo a Cesare quel che è di Cesare, rimane sempre Leon Trotsky.Euromaidan e le rivolta di Ferguson: l’antefatto. Ogni rivoluzionario, ieri come oggi, ha come obbiettivo il rovesciamento dell’ordine vigente e dei suoi rappresentanti che, giustamente, si difendendo con le unghie e con i denti prima di soccombere. Di norma i rivoluzionari, se escono vivi e vittoriosi dall’avventura, abbelliscono con un manto di costituzionalità il neonato sistema, ma la loro azione è sempre illegale, finché non assurgono loro stessi a legislatori. Ciascun rivoluzionario, invece, opera in un contesto storico, politico e geografico ben preciso. Vediamo i casi dell’Ucraina e del Missouri. In Ucraina il terreno di coltura per l’insurrezione è rappresentato dalle tensioni tra ucrainofoni dell’ovest e russofoni dell’est, mentre lo scopo della rivoluzione è il posizionamento di Kiev nell’orbita Ue-Nato, sottraendola all’influenza di Mosca e alla nascente Unione Euroasiatica. Il 28 novembre 2013 il presidente ucraino Viktor Yanukovich rifiuta di siglare l’accordo di associazione con l’Unione Europea, firmando così la sua condanna: a Washinton si decide di rovesciarlo contando sulla complicità del governo tedesco guidato da Angela Merkel. Nella piazza centrale di Kiev, ribattezzata Euromaidan dall’emittente radiofonica americana “Radio Free Europe”, compaiono i primi assembramenti. La tensione, giorno per giorno, sale.In Missouri il fattore scatenante della rivolta è l’omicidio dell’afroamericano Michael Brown, ucciso a Ferguson il 9 agosto del 2014 da un agente di polizia bianco dopo un presunto furto di sigari. La morte di Brown riaccende tensioni da sempre latenti negli Usa: la segregazione razziale, il Southern Manifesto, l’assassinio di Martin Luther King, il disagio sociale, etc. Le proteste richiedono un primo intervento delle forze speciali per sedare la rivolta: l’ordine pubblico è “militarizzato”. Poi riesplodono dopo la controversa decisione del gran giurì della contea di St. Louis di non processare il poliziotto per l’omicidio di Michael Brown: i disordini si diffondono a macchia d’olio nelle periferie delle principali città americane ed agli afroamericani si uniscono gli indigenti bianchi. Lo scopo della nostra rivoluzione sarà rovesciare l’establishment americano e istaurare un governo che smantelli la rete di basi americane in giro per il mondo e dirotti sulla spesa sociale le risorse assorbite dal complesso militare-industriale. Sarà una rivoluzione al grido di “più burro e meno cannoni!”Euromaidan e Missouri-maidan: lo svolgimento. Se il congresso dei Soviet avesse fatto affidamento su Lenin e sull’ineluttabilità della dittatura del proletariato, oggi la coppia più glamour sarebbero senza dubbio il rampollo di casa Romanov e un’hostess di San Pietroburgo. Le rivoluzioni non cascano dall’albero come pere mature e, perché siano coronate da successo, insegna Leon Trotsky, servono veri esperti della sovversione. Vediamo come la Cia si è mossa in Ucraina e come agiremo noi negli Usa. Prima regola: niente soldi, niente rivoluzione. Creare un nucleo di professionisti della rivoluzione, pagare loro uno stipendio, studiare e diffondere la propaganda, spostare e istruire gli attivisti, distribuire telefoni, radio, armi ed esplosivo, costa. E tanto. Il Dipartimento di Stato americano, per ammissione di Victoria Nuland, e la “Open Society Foundation”, un’organizzazione Cia di cui probabilmente George Soros è solo un prestanome, hanno investito diversi miliardi di dollari nelle due rivoluzione ucraine: quella arancione del 2004, poi abortita, e quella contro Yakunovich del 2013.Se l’obiettivo della rivoluzione ucraina è disarcionare gli oligarchi filorussi per sostituirli con oligarchi filoamericani, ai media compiacenti e all’opinione pubblica si vende merce più appetibile: lotta contro la corruzione, la cleptocrazia e la brutalità del regime oppressore, poco importa se legittimamente eletto. Quindi, impostata l’insurrezione sulla dialettica “libertà vs. oppressione”, bisogna esacerbare lo scontro di piazza, provocando le forze dell’ordine o addossando loro efferati crimini. Per quest’operazione la Cia si serve dei nazionalisti di “Settore Destro” e degli hooligans con un lungo curriculum di guerriglia alle spalle: i cecchini che aprono il fuoco sulla folla nel febbraio del 2014 e preparano il terreno per la precipitosa fuga di Yakunovich provengono dalle file dei movimenti di estrema destra. Ne parlano in una telefonata intercettata Catherine Ashton ed il ministro degli esteri estone Urmas Peat.Ora, prendiamo in mano la caotica rivolta dei sobborghi afro-americani e trasformiamola in una coesa ed efficiente macchina rivoluzionaria. Dobbiamo per prima cosa dare loro qualche spicciolo per fare la guerriglia. Come il mecenate della Leopolda renziana, David Serra, apriamo una società finanziaria alla Cayman, oppure a Singapore o Abu Dhabi, dove dirottiamo le risorse che il nostro governo destina ai paesi del terzo mondo e alla cooperazione economica. Quindi apriamo tre Ong in altrettanti Stati africani (Etiopia, Sudan, Angola) su cui convogliano i fondi. Le Ong sono scatole vuote e a rappresentarle ci sarà un solo impiegato, seduto in un modesto ufficio, che risponda al telefono e gestisca il sito Internet. Le organizzazioni, infatti, denominate “Amici africani del Missouri”, “Fratelli Etiopi per l’America” e “Marxisti-leninisti d’Africa”, sono solo il paravento dietro cui occulteremo il trasferimento di soldi alla protesta afro-americana negli Usa.I nostri attivisti iniziano quindi una capillare opera di sensibilizzazione e proselitismo tra le minoranze di colore americane: fondazioni, convegni, manifestazioni, giornate della memoria, spettacolari azioni di protesta, campagne virali su Internet, inserzioni pubblicitarie, etc. Due sono i punti su cui ci focalizziamo: la discriminazione delle minoranze e la rapacità del governo federale che, con le insostenibili spese militari, sottrae soldi al welfare. La fascia più ampia possibile della popolazione deve famigliarizzare con il nostro messaggio, in modo che non ci sia ostile quando entreremo in azione, mentre nel frattempo selezioneremo una minoranza che sia politicamente attiva. Quindi, ricordando la massima che la rivoluzione non è un pranzo di gala, ci occorre l’equivalente del “Settore Destro” in Ucraina: la truppa d’assalto che faccia il lavoro sporco. Nel nostro caso, mentre la Cia ha pescato nell’estremismo di destra, noi faremo affidamento sugli eredi dei “Black Panthers”, un movimento di ispirazione socialista che abbracciò anche la lotta armata per difendere i diritti dei negri negli anni ’60 e ‘70. La punta di diamante sarà il redivivo “Black Liberation Army”, il superclan dentro i “Black Panthers”: i nostri istruttori militari ne addestreranno i membri nei campi allestiti in Venezuela e Bolivia. Tutte le pedine sono al loro posto: Viktor Yakunovich e Barack Obama, tremate!Euromaidan e Missouri-maidan: l’epilogo. I colpi di Stato bonapartisti (Napoleone che circondato dai granatieri scioglie il Direttorio, oppure Benito Mussolini che riceve dal Re la guida dell’esecutivo sull’onda della Marcia su Roma) si addicono ormai solo ai dei paesi in via di sviluppo, dove per il presidente di turno controllare l’aeroporto internazionale è ancora di gran lunga più importante che controllare l’account Twitter. In Occidente, oggi, i colpi di Stato si giocano sul concetto di legittimità: il governo in carica può disporre delle forze armate al loro completo, controllare centrali elettriche, acquedotti, snodi ferroviari e stradali, telecomunicazioni e dorsali Internet, ma non può approntare nessuna difesa se la rivoluzione lo ha delegittimato. Privato dell’autorevolezza, il governo è svuotato di ogni potere e, come un novello Cesare, cade senza reagire sotto le pugnalate dei congiurati. Come la Cia ha rovesciato Viktor Yakunovich creando una situazione dove la difesa di un governo democraticamente eletto è resa impossibile da un’opinione pubblica indignata dalle presunte brutalità della polizia, così noi rovesceremo Barack Obama. Serve a poco disporre della Swat, della Sesta Flotta o degli F-35, se l’opinione considera criminale qualsiasi azione compiuta dal governo: la delegittimazione è l’arma del nuovo rivoluzionario occidentale.Nel dicembre del 2013 Viktor Yakunovich, spaventato dai moti di piazza di Kiev, torna sui propri passi e si dice pronto a firmare l’accordo di associazione con la Ue: Washington giudica la mossa un semplice diversivo e procede con il rovesciamento del presidente. A gennaio volano le molotov, si contano i primi morti tra i manifestanti e l’opposizione “politicamente presentabile” chiede le immediate dimissioni di Yakunovich. Il presidente dispiega le teste di cuoio, i Berkut, in Piazza dell’Indipendenza, dove fronteggiano assalti sempre più aggressivi. Il crescendo rossiniano culmina con l’azione dei cecchini che aprono il fuoco sui manifestanti e sulle forze di polizia: è il 20 febbraio. Il 21 febbraio Yakunovich lascia Kiev e il 22 il Parlamento nomina un presidente ad interim, filoamericano, ça va sans rien dire. La tecnica dei cecchini che aprono il fuoco sulla folla è stata largamente impiegata anche in Tunisia, Libia, Egitto e Siria durante la “primavera araba” targata Cia.Vediamo ora come concludere il nostro regime change americano. Per tutto il mese di dicembre la tensione è mantenuta alta attraverso la protesta: i manifestanti reclamano la fine della discriminazione razziale, pari opportunità di lavoro, investimenti per le periferie e più controlli sulla condotta della polizia. Negli Stati dove la presenza di afro-americani è più forte la tensione sale: dal Missouri alla Florida, dal Texas a New York gli scontri con le forze dell’ordine avvengono a cadenza giornaliera. La nostra rete è due volte attiva: da una parte organizza le proteste e alza il tono dello scontro, dall’altro documenta con dovizia di particolari la reazione della polizia, esasperandone l’aspetto brutale e repressivo. Si diffonde il malcontento tra le forze dell’ordine e si ricorre con meno remore alla violenza. Verso la fine di dicembre c’è il salto di qualità: un nostro agente della “Black Liberation Army” piazza una bomba in una stazione di polizia di Atlanta. Si contano decine di morti e gli ambienti politici più oltranzisti evocano misure straordinarie per riportare l’ordine. Il presidente Obama, già politicamente debole, precipita nei sondaggi: pusillanime per i repubblicani e incapace di leggere la realtà per i “liberal”.Quindici gennaio 2015: una grande folla marcia per le vie di Atlanta commemorando la nascita di Martin Luther King. Il corteo è seguito passo a passo dalle forze dell’ordine. La tensione è palpabile. Scoppia un tafferuglio e si sentono spari: i cecchini della “Black Liberation Army” hanno abbattuto due agenti di polizia che si accasciano esanimi al suolo. Le forze dell’ordine, prese dal panico, rispondono al fuoco. È strage. La situazione negli Stati Uniti è fuori controllo. La Casa Bianca è circondata da una folla inferocita che esige giustizia e degne condizioni di vita: la rivolta da razziale è diventata sociale, e alle minoranze di colore si sono aggiunti i giovani disoccupati e il popolo dei padri di famiglia costretti a un lavoro part-time. A Barack Obama, rifugiatosi a Camp David, sottopongono l’ordine esecutivo per la proclamazione della legge marziale. Qualche giorno dopo, un solitario visitatore, camminando negli ambienti spogli e vandalizzati della ex-villa presidenziale, trova sul pavimento l’ordine esecutivo con la firma in calce del presidente. Missouri-maidan si è conclusa con successo. Euromaidan è realtà, Missourimaidan è finzione. Ma come la Cia ha pilotato la “primavera araba” e la cacciata di Yakunovich, non abbiamo nessuno dubbio che un efficiente servizio segreto saprebbe guidare una rivoluzione anche negli Usa. Leon Trotsky insegna che non sono le circostanze a rendere il terreno fertile alla rivoluzione, ma i bravi rivoluzionari che sanno coltivare anche il terreno meno fertile.(Federico Dezzani, “Missouri-Maidan”, da “Come Don Chisciotte” del 27 novembre 2014).Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?
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Craig Roberts: i Clinton? In galera, anziché alla Casa Bianca
Glenn Greenwald ha rivelato che Hillary Clinton è il candidato presidenziale dei bankster e dei guerrafondai. Pam e Russ Martens registrano che Elizabeth Warren è la sua concorrente populista. Dubito però che un politico che rappresenti il popolo possa raccogliere abbastanza fondi per poter competere in una campagna presidenziale. Se comunque la Warren dovesse diventare una minaccia, tutto l’establishment si muoverebbe per costruirle intorno una cornice nella quale la potrebbero dipingere in qualsiasi modo pur di farla fuori. Hillary Clinton come presidente significherebbe guerra alla Russia. Con neocon-nazisti come Robert Kagan e Max Boot a gestire la politica militare e con una Hillary che fa confronti tra il presidente della Russia Putin e Adolf Hitler, la guerra dovrebbe essere una certezza. E, come hanno scritto Michel Chossudovsky e Noam Chomsky, la guerra, stavolta, sarebbe nucleare. Se Hillary fosse eletta presidente, i gangster finanziari e tutti quei criminali che traggono vantaggio dalle guerre riuscirebbero a completare il loro impossessamento del paese. E questo sarebbe per sempre, o almeno fino all’arrivo dell’Armageddon, la resa dei conti finale.Per comprendere a che cosa si andrebbe incontro con Hillary, proviamo a ripensare alla presidenza Clinton. Mise in moto delle trasformazioni che in qualche modo non vengono riconosciute. Clinton distrusse il partito democratico con gli accordi sul “libero commercio”, che regolò il sistema finanziario e inaugurò la politica di Washington – che ancora continua – del “cambio di regime”, con gli attacchi militari illegali su Jugoslavia e Iraq, e il suo regime cominciò ad usare una forza omicida e ingiustificata contro dei civili americani, per poi coprire gli omicidi depistando le indagini, con false investigazioni. Questi quattro grandi cambiamenti sono quelli che hanno gettato il paese in una spirale viziosa che ha portato alla militarizzazione della polizia e ad una ostentata iniquità dei redditi e della ricchezza. Si potrebbe capire perché i repubblicani volevano il “North American Free Trade Agreement”, ma fu Bill Clinton che lo trasformò in legge: è un meccanismo usato dalle multinazionali Usa per esportare la loro produzione di merci e servizi venduti sui mercati americani.Spostando la produzione all’estero, i risparmi sul costo del lavoro fanno aumentare i profitti delle multinazionali e il valore delle loro azioni, producendo dei guadagni di capitale per gli azionisti e dei bonus multimilionari in dollari per i loro dirigenti che hanno contribuito al raggiungimento degli obiettivi. I vantaggi per il capitale sono enormi, ma questi vantaggi sono tutti a spese dei lavoratori della manifattura Usa e delle minori entrate in tasse per le città e per gli Stati. Quando si chiudono gli stabilimenti e si manda il lavoro all’estero, non c’è più lavoro per la classe media. I sindacati delle industrie e della manifattura perdono iscritti, distruggendo così i sindacati dei lavoratori, che sono quelli che finanziano le campagne elettorali dei democratici. Il contrappeso del potere che era costituito dal lavoro contro il capitale, in questo modo era annullato. E i democratici dovettero ricorrere alle stesse fonti di sovvenzionamento dei repubblicani. Il risultato è uno Stato con un solo partito.L’indebolimento della base di tassazione che città e Stati hanno dovuto fronteggiare ha reso possibile un attacco dei repubblicani contro i sindacati del settore pubblico. Oggi il partito democratico non esiste più, visto che la politica del partito non è più finanziata da quei sindacati che rappresentano la gente comune. Oggi entrambi i partiti politici rappresentano gli interessi degli stessi gruppi di potere: il settore finanziario, il complesso militare barra security, le lobby di Israele, le industrie estrattive e l’agro-business. Non c’è più un partito che rappresenti veramente i propri elettori, malgrado il fatto che la gente comune continui a pagare con le proprie tasse tutti i costi dei salvataggi delle finanziarie e delle guerre intraprese, mentre le industrie estrattive e la Monsanto distruggono l’ambiente e portano al degrado la catena alimentare. Le elezioni non hanno più nulla a che vedere con le cose reali, come la perdita della protezione costituzionale da parte dei cittadini o un governo che agisca in base alle leggi esistenti. Al contrario, i partiti si mettono a discutere su argomenti come i matrimoni omosessuali e la raccolta di fondi federali per l’aborto. L’abrogazione della legge Glass-Steagall, firmata da Clinton, fu solo la prima mossa di quello che servì per rimuovere tanti altri vincoli che permisero al sistema finanziario di trasformarsi in un casinò, dove il gioco d’azzardo e le scommesse sono garantiti da fondi pubblici e dalla Federal Reserve. Le conseguenze definitive a cui porterà il paese questa trasformazione restano ancora da vedere.L’attacco del regime Clinton contro i serbi, secondo il diritto internazionale, fu un crimine di guerra, ma invece fu il presidente jugoslavo, che aveva cercato di difendere il proprio paese, che fu messo sotto processo come criminale di guerra. Quando il regime Clinton fece uccidere la famiglia di Randy Weaver a Ruby Ridge e altre 76 persone a Waco, sottoponendo i pochi sopravvissuti ad un processo-farsa, i crimini del regime contro l’umanità sono rimasti impuniti. Lo stesso sistema impostato da Clinton è continuato poi per altri 14 anni con i crimini commessi anche da Bush/Obama contro l’umanità in sette paesi, dove milioni di persone sono state uccise, mutilate e cacciate dalle loro case… ma questo sembra tutto accettabile. E ‘abbastanza facile per un governo fomentare la propria popolazione contro gli stranieri, come ben dimostrano i successi di Clinton, di George W. Bush e di Obama. Ma il regime Clinton riuscì a mettere americani contro altri americani. Quando l’Fbi gratuitamente uccise la moglie di Randy Weaver e il suo figlioletto, le denunce di Randy Weaver furono tacciate di propaganda e non considerate, senza motivo.Quando l’Fbi attaccò la setta dei Davidians – un movimento religioso staccatosi dalla Chiesa cristiana “avventista del settimo giorno” – con carri armati e gas velenosi, provocando un incendio che fece morire bruciate 76 persone, soprattutto donne e bambini, queste uccisioni e questo omicidio di massa furono giustificate dal regime Clinton, che considerò come accuse selvagge e infondate quelle che venivano mosse per chiedere giustizia per il massacro compiuto dal governo. Tutti gli sforzi di attribuire la responsabilità per i crimini compiuti dalla polizia furono bloccati e (purtroppo) cominciarono a costituire dei precedenti che sono serviti a far approvare una normativa che garantisce, in casi simili, l’immunità dalla legge. Questa immunità ora si è estesa a tutte le polizie locali, che possono regolarmente compiere abusi e uccidere cittadini americani sulle loro strade e nelle loro case.La mancanza di rispetto delle leggi internazionali da parte di Washington è un argomento su cui i governi di Russia e Cina si lamentano sempre più, e che ebbe origine con il regime Clinton. Le bugie di Washington su Saddam Hussein e sulle “armi di distruzione di massa” cominciarono durante il regime Clinton, così come l’obiettivo di un “cambio di regime” in Iraq e come i bombardamenti illegali di Washington e gli embarghi che costarono la vita di mezzo milione di bambini iracheni che persero la vita (ma che il segretario di Stato di Clinton disse che erano giustificabili). Il governo degli Stati Uniti aveva già fatto cose malvagie in passato. Ad esempio, la guerra ispano-americana fu un trampolino di lancio per costruire l’impero, e Washington ha sempre tutelato gli interessi delle società americane da qualsiasi oppositore latino-americano, ma il regime Clinton ha globalizzato la criminalità. I golpe per il cambio di regime sono diventati sempre più spericolati fino a rischiare una guerra nucleare, perché ormai non sono più governi come quello di Grenada o dell’Honduras ad essere rovesciati. Oggi si prendono di mira Russia e Cina. E certe zone, che fino a pochi anni fa erano parte integrante della Russia stessa, come Georgia e Ucraina, sono state trasformate in Stati vassalli di Washington.Washington ha finanziato le Ong che organizzano la “lotta studentesca” di Hong Kong, nella speranza che le proteste si diffonderanno fino in Cina e che destabilizzino il governo. L’incoscienza di questi interventi negli affari interni di paesi stranieri, potenze nucleari, è senza precedenti. Hillary Clinton è una guerrafondaia, e la stessa cosa sarà anche il candidato che presenteranno i repubblicani. L’irrigidimento della retorica anti-russa che parte da Washington e dai suoi pessimi Stati-fantoccio della Ue sta mettendo il mondo sulla strada della propria estinzione. Gli arroganti neoconservatori, con la loro esasperante convinzione che gli Stati Uniti siano il paese “eccezionale e indispensabile”, vedrebbero un abbassamento dei toni della loro retorica e una de-escalation delle sanzioni come un passo indietro. Quanto più i neocon e i politici come John McCain e Lindsey Graham salgono nei toni della loro retorica, tanto più ci si avvicina alla guerra.Mentre oggi il governo degli Stati Uniti istiga la polizia agli arresti preventivi e alle incarcerazioni di chiunque potrebbe un giorno commettere un crimine, quella che invece dovrebbe essere arrestata e incarcerata, buttando via la chiave, dovrebbe essere tutta intera la squadra di questi guerrafondai-neocon, prima che riescano a distruggere l’umanità. Gli anni di Clinton hanno prodotto una gran quantità documentazione sui tanti crimini e sulle coperture di fatti come l’attentato di Oklahoma City, Ruby Ridge, Waco, lo scandalo dei laboratori criminali dell’Fbi, la morte di Vincent Foster, il coinvolgimento della Cia nel traffico di droga, la militarizzazione delle forze dell’ordine, il Kosovo… e si può andare avanti finché si vuole. La maggior parte di questi documenti sono stati scritti da persone che non avevano un punto di vista parziale, né liberal, né conservatore, perché nessuno si rendeva ancora conto della natura della trasformazione che stava avvenendo nella governance americana. Quelli che hanno dimenticato e quelli che sono troppo giovani non hanno la capacità di vedersi o di riconoscersi in quello che sono stati gli anni di Clinton. Recentemente ho parlato del libro di Ambrose Evans-Pritchard “The Secret Life of Bill Clinton”. Altro libro con una documentazione importante è “Feeling Your Pain”, di James Bovard.Sia il Congresso che i media hanno lavorato non poco per appoggiare e per dare le opportune coperture a molti eventi importanti avvenuti durante la presidenza Clinton, ma si sono concentrati solo su faccende di poco conto come le vendite immobiliari di Whitewater o la relazione sessuale di Clinton con la stagista della Casa Bianca Monica Lewinsky. Clinton e il suo regime corrotto hanno mentito su molte cose ben più importanti, ma la Camera dei Rappresentanti lo ha messo sotto accusa solo per le bugie raccontate sulla sua relazione con Monica Lewinsky. Ignorando le numerose (e ben più importanti) ragioni che avrebbero potuto portare a un impeachment, si è parlato tanto solo di un fatto inconsistente, e il Congresso e i media sono stati complici nel permettere che crescesse a dismisura un ramo dannoso dell’esecutivo. Questa mancanza di responsabilità ci ha portato alla tirannia in patria e alla guerra all’estero, e sono questi i due mali che ci stanno avviluppando tutti, ogni giorno di più.(Paul Craig Roberts, “Con le prossime presidenziali Usa, la guerra sarà più vicina”, da “Information Clearing House” del 18 novembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Glenn Greenwald ha rivelato che Hillary Clinton è il candidato presidenziale dei bankster e dei guerrafondai. Pam e Russ Martens registrano che Elizabeth Warren è la sua concorrente populista. Dubito però che un politico che rappresenti il popolo possa raccogliere abbastanza fondi per poter competere in una campagna presidenziale. Se comunque la Warren dovesse diventare una minaccia, tutto l’establishment si muoverebbe per costruirle intorno una cornice nella quale la potrebbero dipingere in qualsiasi modo pur di farla fuori. Hillary Clinton come presidente significherebbe guerra alla Russia. Con neocon-nazisti come Robert Kagan e Max Boot a gestire la politica militare e con una Hillary che fa confronti tra il presidente della Russia Putin e Adolf Hitler, la guerra dovrebbe essere una certezza. E, come hanno scritto Michel Chossudovsky e Noam Chomsky, la guerra, stavolta, sarebbe nucleare. Se Hillary fosse eletta presidente, i gangster finanziari e tutti quei criminali che traggono vantaggio dalle guerre riuscirebbero a completare il loro impossessamento del paese. E questo sarebbe per sempre, o almeno fino all’arrivo dell’Armageddon, la resa dei conti finale.
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Falchi, Wall Street e Israele: tutti pazzi per Hillary Clinton
Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.Se la propaganda presenterebbe la candidatura come opportunità di ringiovanimento e simbolo di speranza e cambiamento, ci pensa “Politico Magazine” a chiarire “perché Wall Street ama Hillary”, spiega Greenwald, in un post ruipreso da “Controinformazione”. «Giù a Wall Street non credono alla retorica populista della Clinton neanche per un minuto», scrive il magazine. «Mentre l’industria finanziaria effettivamente odia Warren, i grandi banchieri amano la Clinton e in linea di massima la vogliono a tutti i costi come presidente». Tra i super-banchieri dalla sua parte, oltre a Blankfein, spiccano James Gorman e Tom Nides (Morgan Stanley), nonché i capi di Jp Morgan Chase e Bank of America. «Considerano la Clinton una pragmatica risolutrice di problemi poco propensa alla retorica populista», scrive “Politico Magazine”. «Per loro è una che ha l’idea che tutti beneficiamo se Wall Street e il business americano prosperano». Ardente retorica populista? «Nessuno di loro pensa che lei faccia sul serio». La sostanza: «Wall Street, soprattutto, ama i vincitori, tanto più quelli che difficilmente toccheranno troppo il suo salvadanaio».Altro caposaldo della scalata di Hillary, la lobby israeliana. «Se dovesse diventare presidente, rapporti migliori con Israele sarebbero praticamente garantiti», assicura “Foreign Policy”. «Non dimentichiamo che i Clinton hanno già trattato con Bibi primo ministro». Non è mai stato facile, ma il rapporto con Netanyahu era chiaramente «molto più produttivo di quanto vediamo adesso», con Obama. Hillary? «E’ buona per Israele e si relaziona al paese in un modo in cui questo presidente non fa». La Clinton «è di un’altra generazione, e ha lavorato in un mondo politico in cui essere buoni per Israele era sia obbligatorio che intelligente», cioè conveniente. «Siamo chiari: quando si tratta di Israele, non esiste un Bill Clinton 2.0». L’ex presidente è stato probabilmente “unico”, sia «per la profondità dei suoi sentimenti per Israele» che per «la sua disponibilità a mettere da parte le proprie frustrazioni per certi aspetti del comportamento di Israele, come gli insediamenti». Ma questa intesa vale anche per Hillary, garantisce “Foreign Policy”. «Sia Bill che Hillary sono così innamorati dell’idea di Israele e della sua storia unica che sono propensi a fare certe concessioni sul comportamento del paese, come la continua costruzione di insediamenti».Poi ci sono loro, gli interventisti (ovvero i fanatici della guerra). Come Robert Kagan, il super-falco dell’entourage di Obama, marito di Victoria Nuland, architetto del golpe di Kiev per rovesciare il governo ucraino regolarmente eletto e aprire la sfida anche militare con Mosca. Molti “interventisti” come Kagan ripongono le loro speranze proprio nella Clinton, conferma il “New York Times”. «Mi sento a mio agio con lei in politica estera», ha ammesso Kagan, aggiungendo che il prossimo passo, dopo l’approccio “realista” di Obama, «potrebbe in teoria essere qualsiasi cosa Hillary porti in tavola», se eletta alla presidenza. «Se perseguirà la politica che noi crediamo perseguirà», ha aggiunto Kagan, «è qualcosa che si potrebbe chiamare neoconservatrice, ma chiaramente i suoi sostenitori non la definiranno così, la chiameranno in modo diverso». Di fatto, però, le idee sono quelle dei neo-con. Che sempre il “New York Times” ipotizza siano pronti ad allearsi con Hillary, «dopo quasi un decennio di esilio politico». Ovvero: «Mentre castigano Obama, i neo-con forse si stanno preparando per un’impresa più sfrontata: allinearsi con Hillary Rodham Clinton e la sua nascente campagna presidenziale, nel tentativo di tornare al posto di comando della politica estera americana». Lo conferma Max Boot, membro del Council on Foreign Relations: «Nei consigli dell’amministrazione, Hillary era una voce di principio per una posizione forte su questioni controverse, che fosse a supporto dell’insorgenza afghana o dell’intervento in Libia».Esatto: «La signora Clinton ha votato per la guerra in Iraq, ha supportato l’invio di armi ai ribelli siriani, ha paragonato il presidente russo Putin ad Adolf Hitler», scrive il “New York Times. Tuttora, Hillary «supporta appassionatamente Israele e sottolinea l’importanza di “promuovere la democrazia”». Dunque, «è facile immaginare che la signora Clinton nella sua amministrazione farà spazio ai neo-con. Nessuno la potrebbe incolpare di essere debole, nella sicurezza nazionale, con uno come Robert Kagan a bordo». Nel 1972, il primo a tracciare l’identità trasversale della lobby neo-con fu Robert Bartley, editorialista del “Wall Street Journal”, vicino ai neo-con: Bartley, dice il “New York Times”, «definì acutamente il movimento come “un gruppo altalenante tra i due maggiori partiti”», nonostante la decantata democrazia dell’alternanza bipolare. «Perciò beccatevi questo, cinici», conclude Greenwald. «Ci sono sacche di vibrante eccitazione politica che si stanno entusiasmando nel paese per una presidenza di Hillary Clinton. Si fanno poster, si attaccano distintivi, si preparano assegni, si bramano appuntamenti. I costituenti uniti, alleati, sinergici della plutocrazia e della guerra senza fine hanno la loro beneamata candidata. Ed è davvero difficile argomentare che la loro eccitazione ed affetto non sia giustifica».Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.
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Senza più lira sovrana, lo Stato ci abbandona alle calamità
Negli ultimi vent’anni siamo stati tempestati da un furore propagandistico senza pari nella storia, per cui lo Stato è diventato sinonimo di nemico, di inefficienza, di spreco, di latrocinio. Se a questa abile e battente propaganda aggiungiamo la privazione di quella che è la prerogativa fondante di uno Stato, ovvero la sovranità monetaria, la capacità di emettere e gestire la moneta fiat (creata dal nulla) in maniera che sia funzionale all’economia reale del paese, il gioco è fatto. Il gioco è quello che drammaticamente osserviamo e viviamo quotidianamente: riduzione dei redditi, distruzione del tessuto produttivo, tagli sistematici allo stato sociale e incapacità di far fronte alle calamità naturali insite in un territorio come quello italiano. E proprio quest’ultimo aspetto merita alcune riflessioni. Nel 1976 il Friuli viene letteralmente devastato da due episodi sismici catastrofici, susseguitisi a distanza di 4 mesi. La successiva ricostruzione, spesso e giustamente, viene portata come esempio virtuoso.Il governo nominò il 15 settembre ‘76 Zamberletti commissario straordinario, incaricato del coordinamento dei soccorsi. Gli fu concessa carta bianca, visto che all’epoca l’Italia godeva di piena socvranità monetaria (e quindi non necessitavano delle “mitiche” coperture). In collaborazione con le amministrazioni locali, i fondi statali destinati alla ricostruzione furono gestiti direttamente da Zamberletti assieme al governo regionale del Friuli Venezia Giulia. Contestualmente, Zamberletti istituì la Protezione Civile. Stime attendibili attestano per la ricostruzione un importo prossimo all’equivalente di 20 miliardi di euro, cifra enorme, che gestita in maniera opportuna e virtuosa ha non solo permesso una rapida e invidiabile ricostruzione, ma anche un boom economico nei territori interessati, alimentato dalla tanto vituperata spesa pubblica, che è durato fino all’inizio della crisi attuale.Veniamo ai giorni nostri. L’82% dei Comuni italiani comprende aree classificate a rischio idrogeologico. Negli ultimi anni l’intero territorio italiano è stato colpito ripetutamente e severamente da eventi alluvionali gravissimi, con perdite di vite e distruzione di beni sia pubblici che privati. La scelta dello Stato per il futuro è chiamarsi fuori per quanto riguarda i fondi necessari per le ricostruzioni degli edifici privati danneggiati. Il costo va a ricadere sui cittadini. Come? Stipulando una polizza assicurativa. Viene introdotto il principio delle coperture assicurative su base volontaria contro i rischi di danni derivanti da calamità naturali. Pensate sia complottismo? Putroppo ciò è confermato dal decreto legge 59 del 15 maggio 2012 (governo Monti). Appare lapalissiano un evidente cambio di paradigma, sicuramente non a tutela e nell’interesse dei cittadini. Non godere della sovranità monetaria, e di una finanza pubblica funzionale all’economia reale e alla tutela del benessere dei cittadini, significa violare l’essenza di uno Stato democratico e abbandonare letteralmente la cittadinanza ai rovesci della fortuna.(David Casanova, “Come lo Stato abbandonerà i cittadini di fronte alle calamità”, da “Rete Mmt” del 23 ottobre 2014).Negli ultimi vent’anni siamo stati tempestati da un furore propagandistico senza pari nella storia, per cui lo Stato è diventato sinonimo di nemico, di inefficienza, di spreco, di latrocinio. Se a questa abile e battente propaganda aggiungiamo la privazione di quella che è la prerogativa fondante di uno Stato, ovvero la sovranità monetaria, la capacità di emettere e gestire la moneta fiat (creata dal nulla) in maniera che sia funzionale all’economia reale del paese, il gioco è fatto. Il gioco è quello che drammaticamente osserviamo e viviamo quotidianamente: riduzione dei redditi, distruzione del tessuto produttivo, tagli sistematici allo stato sociale e incapacità di far fronte alle calamità naturali insite in un territorio come quello italiano. E proprio quest’ultimo aspetto merita alcune riflessioni. Nel 1976 il Friuli viene letteralmente devastato da due episodi sismici catastrofici, susseguitisi a distanza di 4 mesi. La successiva ricostruzione, spesso e giustamente, viene portata come esempio virtuoso.
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Liberare il paese da chi ci ha venduto al potere mondiale
Si è diffuso il convincimento che il “vero potere” sia internazionale o comunque non nazionale. Talvolta il vero potere è identificato senz’altro con lo stato imperiale, talaltra si affiancano a quel centro di potere altri poteri, cosmopoliti, costituiti da titolari e gestori del grande capitale e dei grandi strumenti di propaganda. Questo punto di vista, che contiene indubbiamente una parte di verità, è foriero di molte conseguenze negative, soprattutto quando, ingenuamente, l’assunto venga considerato come un vangelo da interpretare alla lettera. Le conseguenze negative riguardano l’azione pratica, ossia l’azione politica, che si pensasse di voler compiere per sottrarsi al “vero potere”. Invero, esistono soltanto “situazioni economiche nazionali” e “politiche economiche nazionali”. La situazione economica globale è soltanto la risultante di politiche economiche nazionali, eventualmente coordinate e indirizzate da centri di potere dello stato imperiale o ad esso legati, centri di potere che comunque devono sempre servirsi di politici nazionali venduti o servi.Anche la creazione di organizzazioni internazionali vincolanti avviene attraverso il consenso dei poteri nazionali e la persistenza dei vincoli dipende soltanto dalla volontà o dall’interesse dei politici nazionali. Senza l’appoggio del potere nazionale, il preteso “vero potere” imperiale e del grande capitale, sul piano politico, non può fare nulla e addirittura è impotente. Un popolo che abbia riconquistato tutto il potere nazionale, ha conquistato tutto il potere politico. Il potere imperiale o cosmopolita o internazionale, senza l’appoggio dei governi nazionali, può soltanto accerchiarti, mettere sanzioni, bombardarti e attaccarti. Insomma, perso il potere politico, il potere imperiale, internazionale e cosmopolita è costretto a ricorrere alla palese e dichiarata guerra commerciale, diplomatica e militare. Subire la guerra commerciale, diplomatica e militare è la testimonianza che il popolo è libero, perché si è liberato.Perciò, il miglior attacco – anzi l’unico vero, realistico, sensato attacco – al potere imperiale, internazionale e cosmopolita, consiste nel sottrarre ad esso il controllo del (vero) potere nazionale, controllo che ha acquisito attraverso un lungo lavoro volto alla conformazione ideologica dell’opinione pubblica (svolto attraverso il “dominio delle onde”), e a garantire potere e interessi economici dei traditorii nazionali (coloro che vengono a patti con il potere imperiale e del grande capitale cosmopolita). Ovviamente, se si può evitare di subire la guerra commerciale, diplomatica o militare è molto meglio. Sotto questo profilo è bene che l’attacco al potere imperiale e del grande capitale provenga da più direzioni, ossia da più popoli che più o meno contestualmente sottraggano, in vario modo, il potere politico ai traditori, ai rappresentanti e agli alleati nazionali del potere imperiale e del grande capitale cosmopolita.Chi partecipa a una rivoluzione nazionale non deve attribuire alcun rilievo al carattere che hanno le altre rivoluzioni nazionali: non deve avere timore di nessuna di esse. Ogni rivoluzione nazionale, che si svolga contestualmente ad altre, siccome indebolisce il potere imperiale e del grande capitale internazionale, è alleata delle altre rivoluzioni nazionali, perché ne agevola il compimento. Il momento delle alleanze strategiche, dei riposizionamenti geopolitici viene dopo: è un problema che si pone soltanto per chi abbia avviato e condotto a buon punto la propria rivoluzione nazionale.(Stefano D’Andrea, “Il vero potere politico è nazionale”, da “Appello al Popolo” del 15 settembre 2014).Si è diffuso il convincimento che il “vero potere” sia internazionale o comunque non nazionale. Talvolta il vero potere è identificato senz’altro con lo stato imperiale, talaltra si affiancano a quel centro di potere altri poteri, cosmopoliti, costituiti da titolari e gestori del grande capitale e dei grandi strumenti di propaganda. Questo punto di vista, che contiene indubbiamente una parte di verità, è foriero di molte conseguenze negative, soprattutto quando, ingenuamente, l’assunto venga considerato come un vangelo da interpretare alla lettera. Le conseguenze negative riguardano l’azione pratica, ossia l’azione politica, che si pensasse di voler compiere per sottrarsi al “vero potere”. Invero, esistono soltanto “situazioni economiche nazionali” e “politiche economiche nazionali”. La situazione economica globale è soltanto la risultante di politiche economiche nazionali, eventualmente coordinate e indirizzate da centri di potere dello stato imperiale o ad esso legati, centri di potere che comunque devono sempre servirsi di politici nazionali venduti o servi.
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L’Ungheria sovrana disobbedisce all’Ue e fa crescere il Pil
«Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Ue dal punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto». Nelle parole del premier ungherese Viktor Orbán si può cogliere l’essenza di una diversa visione dell’Europa, immaginata come un insieme di Stati autonomi e indipendenti che traggono beneficio dalla loro reciproca collaborazione. Dopo aver sperimentato tra il 2002 e il 2010, durante il governo di socialisti e liberali, gli effetti delle fallimentari politiche europeiste di austerità e privatizzazione, come il dilagare della disoccupazione, emigrazione di massa, enorme perdita di potere d’acquisto, tagli a pensioni e tredicesima, tracollo del Pil e impennata del debito pubblico dal 55% all’82%, nel 2010 il popolo magiaro vota in maggioranza assoluta il partito conservatore “Fidesz” guidato da un Viktor Orbán completamente nuovo rispetto al precedente mandato 1998-2002, il quale, abbandonate le posizioni filo-occidentali e liberiste, strizza l’occhio a Putin e si riscopre un fervente sostenitore dell’intervento statale nell’economia.Il nuovo governo cerca in ogni modo di spezzare le catene, imposte dall’Europa della finanza internazionale e accettate dai precedenti governi, tentando di riportare sotto il controllo dello Stato tutti i settori strategici dell’economia. La nomina del keynesiano ministro dell’economia Gyorgy Matolcsy a governatore della banca nazionale ungherese provoca al governo innumerevoli critiche da parte della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione Europea, la quale lo definisce «un rischio per i mercati», critica alla quale Orbán risponde: «Se è un rischio per i mercati allora per noi è il rischio minore». Oltretutto fa sì che la maggioranza del consiglio monetario della banca centrale sia nominata dal governo, in modo da poter effettuare politiche monetarie espansive, di sostegno alla spesa pubblica, mirate a convertire in fiorini ungheresi i prestiti contratti in valuta straniera e a finanziare a tasso zero istituti di credito impegnati a erogare finanziamenti a piccole e medie imprese ad un interesse inferiore al 2%.Nel campo della finanza pubblica rinazionalizza i fondi pensionistici privati per 10 miliardi di euro, butta fuori il Fmi saldando il debito di 2,2 miliardi di euro, tassa i profitti delle multinazionali energetiche, telefoniche, della distribuzione alimentare e i principali istituti bancari, multandone 35 stranieri per aver fatto ricadere sui correntisti l’onere della maggiore tassazione e dedicando il gettito di tali imposte alla riduzione delle bollette elettriche per privati ed enti pubblici. Nei settori industriali strategici, il governo ha istituito la commissione di controllo televisivo finalizzata a limitare le ingerenze straniere nella propaganda mediatica; ha annunciato che saranno rinazionalizzate le reti di distribuzione elettrica, idrica e verranno costituite la compagnia pubblica per l’energia pulita e l’ente nazionale per il trattamento rifiuti.Per aumentare l’indipendenza energetica della nazione, in totale contrasto con le filo-atlantiche direttive europee, Viktor Orbán stipula accordi commerciali con Putin. Ottiene un prestito di 11 miliardi di euro da Mosca, secondo il ministro Lazar ad un tasso molto più conveniente di quello offerto dai mercati, per dedicarlo alla costruzione e al rinnovamento delle pur discutibili centrali nucleari che, oltre a fornire commissioni per 3 miliardi ad imprese ungheresi ed entrate fiscali per 1 miliardo di euro, copriranno il 50% del fabbisogno energetico della nazione. Oltretutto, in data recente, il 23 settembre 2014 il leader di “Fidesz” ha concordato a Budapest, con il numero uno di Gazprom, Alexei Miller, il tracciato ungherese del gasdotto Southstream, progetto al quale anche la nostra Eni partecipa al 25%, destinato a portare in Europa 63 miliardi di metri cubi di gas l’anno, in risposta al “corridoio meridionale” voluto dalla Commissione Europea, per trasportare in europa il più caro gas statunitense dell’Azerbaijan attraverso Georgia, Turchia, Grecia, Albania.Anche le riforme in campo giudiziario sono state indirizzate a diminuire l’influenza dei potentati internazionali nel Csm ungherese. Ma il carattere nazionale della visione orbanista si esprime al meglio nella nuova Costituzione, totalmente basata sulla preservazione della cultura magiara, contro l’americanizzazione e la globalizzazione dei valori. Entrata in vigore il primo gennaio 2012, sancisce l’ufficialità della religione cattolica, il ruolo centrale della famiglia e la fondamentale importanza della tradizione e dell’etica nella vita quotidiana. Con l’adozione di queste politiche Orbán si è posto al centro del mirino della comunità internazionale occidentale; demonizzato mediaticamente, definito dittatore, autoritario, fascista e antisemita, risponde venendo rieletto democraticamente nel 2014 con il 44,57% dei consensi. Potendosi vantare di aver portato in Europa qualcosa di davvero molto raro, la ripresa dell’economia, con il calo della disoccupazione dall’11,8% al 7,6% e una crescita del Pil del 2,7% nell’ultimo trimestre del 2013 e del 3,7% nel primo trimestre 2014 Viktor Orbán ha mostrato al mondo intero che gli Stati nazionali contano ancora e sono molto più efficaci nel risolvere le crisi rispetto al divino liberismo di mercato.(Luca Pinasco, “Un modo diverso di strare in Europa”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 2 ottobre 2014).«Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Ue dal punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto». Nelle parole del premier ungherese Viktor Orbán si può cogliere l’essenza di una diversa visione dell’Europa, immaginata come un insieme di Stati autonomi e indipendenti che traggono beneficio dalla loro reciproca collaborazione. Dopo aver sperimentato tra il 2002 e il 2010, durante il governo di socialisti e liberali, gli effetti delle fallimentari politiche europeiste di austerità e privatizzazione, come il dilagare della disoccupazione, emigrazione di massa, enorme perdita di potere d’acquisto, tagli a pensioni e tredicesima, tracollo del Pil e impennata del debito pubblico dal 55% all’82%, nel 2010 il popolo magiaro vota in maggioranza assoluta il partito conservatore “Fidesz” guidato da un Viktor Orbán completamente nuovo rispetto al precedente mandato 1998-2002, il quale, abbandonate le posizioni filo-occidentali e liberiste, strizza l’occhio a Putin e si riscopre un fervente sostenitore dell’intervento statale nell’economia.
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Meno tasse? Chi ci crede è un fesso (e l’Iva sarà al 25,5%)
Le sorprese arrivano sempre dai codicilli, spiegano gli avvocati. E un governo truffaldino come quello in carica non poteva non ricorrere ai trucchetti democristiani più antichi. Renzi che va in tv a ripetere che «abbiamo ridotto le tasse» e «promuoviamo la crescita» avrebbe dovuto anche spiegare da dove prendeva “le coperture” per le voci della legge di stabilità inviata a Bruxelles e al presidente della Repubblica, addirittura priva dell’indispensabile esame della Ragioneria di Stato. Se dici che vuoi spendere, insomma, i trattati europei ti obbligano a dire dove prendi i soldi che vuoi impegnare. Dalle tasche dei cittadini più poveri, è l’inevitabile risposta. Nelle pieghe del ddl, infatti, ci sono decine di aumenti delle tasse, ma “nascosti”, rinviati, occultati. E si tratta sempre di tasse indirette, le quali – colpendo i consumi o determinate prestazioni – “pesano” di più sui meno abbienti che non sui riccastri. Vediamone alcune, anche se – trattandosi di un testo molto lungo e “tecnico” – la maggior parte verrà fuori un po’ alla volta.Il modo per non farsi fucilare dalla Commissione europea è, da qualche anno, l’inserimento della cosiddetta “clausola di salvaguardia”. In pratica il governo “stima” che determinate decisioni produrranno risparmi o maggiori spese, e se le previsioni non saranno rispettate per difetto (verranno cioè a mancare “le coperture” previste) allora entreranno in vigore misure correttive automatiche per rimettere in ordine il bilancio. Tra le misure automatiche previste dall’attuale legge di stabilità c’è l’aumento dell’aliquota Iva agevolata (oggi al 10%) di 2 punti percentuali nel 2016; se non dovesse bastare salirà di un altro punto nel 2017 (al 13%). E’ certamente il caso di ricordare su quali beni o servizi si applica l’Iva ridotta: cinema, alberghi, treni, autobus, carne, pesce, uova, zucchero, acqua, gas, elettricità, ristoranti e bar, per esempio. Identica dinamica anche per l’Iva “normale”, che dal 22% attuale salirebbe al 24% nel 2016, al 25% nel 2017 e addirittura al 25,5% nel 2018. Tombola!In pratica, il governo pensa di far cassa e «combattere la deflazione» depressiva, aumentando la tassazione sui consumi. Nemmeno il più scarso degli economisti consiglierebbe una terapia del genere in piena crisi… Calcolate che soltanto le tasse sulla benzina assommano ormai a 72,42 centesimi di accisa per litro, per la benzina verde, e 61,32 centesimi per il gasolio; sul prezzo totale (costo industriale più accisa) viene poi applicata l’Iva. Un aumento dell’Iva di tre punti in due anni comporterebbe dunque – a prezzo del petrolio invariato, ma non ci sperate – un incremento del prezzo finale alla pompa di circa 5-6 centesimi per litro. Che l’automobile sia considerata un bancomat è una vecchia storia. Ma spingersi fino a reintrodurre il bollo normale per auto storiche è una misura dell’ossessione. Non è nostra intenzione difendere i collezionisti, ma semplicemente i poveracci che vanno in giro – poco – con un’auto di oltre 25 anni di vita. Ma da una misura del genere potrebbero venire al massimo 7,5 milioni di euro.Gli esperti si sono affrettati a calcolare, come conseguenza diretta, la demolizione di circa 300-325mila veicoli classificati come “d’interesse storico-collezionistico”. La perdita patrimoniale complessiva viene stimata tra i 2,2 ed i 5,7 milioni. Ma potevano i pensionandi passarla liscia? Ma quando mai… Dopo aver obbligato centinaia di migliaia di lavoratori dipendenti ad aderire ai fondi pensione integrativi (e privati), concedendo una tassazione più bassa, ora si passa a tosare la pecora. I “proventi” percepiti dai fondi pensione vengono tasssati ora al 20% (erano all’11,5). Peggio: l’aumento avrà efficacia retroattiva dal 1° gennaio 2014, in barba ai più elementari princìpi giuridici. E tutto questo passa come “riduzione delle tasse”?(Claudio Conti, “Meno tasse? Chi ci crede è un fesso”, da “Contropiano” del 23 ottobre 2014).Le sorprese arrivano sempre dai codicilli, spiegano gli avvocati. E un governo truffaldino come quello in carica non poteva non ricorrere ai trucchetti democristiani più antichi. Renzi che va in tv a ripetere che «abbiamo ridotto le tasse» e «promuoviamo la crescita» avrebbe dovuto anche spiegare da dove prendeva “le coperture” per le voci della legge di stabilità inviata a Bruxelles e al presidente della Repubblica, addirittura priva dell’indispensabile esame della Ragioneria di Stato. Se dici che vuoi spendere, insomma, i trattati europei ti obbligano a dire dove prendi i soldi che vuoi impegnare. Dalle tasche dei cittadini più poveri, è l’inevitabile risposta. Nelle pieghe del ddl, infatti, ci sono decine di aumenti delle tasse, ma “nascosti”, rinviati, occultati. E si tratta sempre di tasse indirette, le quali – colpendo i consumi o determinate prestazioni – “pesano” di più sui meno abbienti che non sui riccastri. Vediamone alcune, anche se – trattandosi di un testo molto lungo e “tecnico” – la maggior parte verrà fuori un po’ alla volta.
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Ultima barzelletta su Bin Laden, l’uomo che morì due volte
“Rt”, una delle mie fonti preferite di notizie, è caduta in una storia falsa messa in giro dal Pentagono a sostegno della fantasiosa ipotesi secondo cui un team dei Navy Seals avrebbe ucciso Osama Bin Laden, morto una seconda volta ad Abbottabad in Pakistan, una decinda d’anni dopo la sua prima morte per malattia. Questa storia falsa, con il film falso e il libro falso di un presunto membro del team dei Seals, è il modo in cui la storia fantasiosa dell’omicidio di Bin Laden viene perpretata. Il presunto omicidio di Bin Laden per mano dei Seals era un’operazione di propaganda, finalizzata a consacrare Obama come un eroe e a rafforzare la sua candidatura per un secondo mandato. Osama Bin Laden, morto nel dicembre 2001 per insufficienza renale e altri problemi di salute, aveva negato nel suo ultimo video qualsiasi responsabilità per l’11 Settembre, invitando altresì gli americani a guardare al proprio governo. Lo stesso Fbi ha affermato che non ci sono prove che Osama Bin Laden sia responsabile dell’11 Settembre.Il necrologio di Bin Laden è stato pubblicato dalla stampa araba e straniera, inclusa “Fox News”. Nessuno può sopravvivere un decennio con un’insufficienza renale, e non è stato trovato nessun apparecchio per la dialisi nel complesso di Abbottabad di Bin Laden, che sarebbe quindi stato assassinato dai Seals dieci anni dopo la pubblicazione del suo necrologio. Inoltre, nessuno tra i membri dell’equipaggio della nave, dalla quale Bin Laden sarebbe stato “sepolto in mare”, ha assistito alla “sepoltura”, così come comunicato dai marinai nei messaggi alle loro famiglie. In qualche modo è stato celebrato un funerale a bordo di una nave, sulla quale vengono effettuate ronde continue e con marinai in allerta a tutte le ore, senza che nessuno vedesse nulla. Per di più, la storia del presunto assassinio di Bin Laden è cambiata due volte nell’arco delle prime 24 ore. La tesi secondo cui Obama ed i membri del suo governo avrebbero assistito all’operazione, trasmessa dal vivo tramite una telecamera posta sul casco dei Seals, è stata rapidamente abbandonata, nonostante il rilascio di una foto dello stato maggiore del governo di Obama concentrato a seguire la trasmissione della presunta operazione.Nessun video dell’operazione è stato mai rilasciato, e ad oggi non c’è alcuna prova a sostegno della tesi del governo Obama. Neanche un minimo straccio di prova. Soltanto affermazioni autoreferenziali. Inoltre, così come pubblicato sul mio sito, testimoni intervistati da una rete Tv pachistana hanno affermato che solo un elicottero era atterrato ad Abbottabad e che, quando i passeggeri dell’elicottero sono ritornati dal presunto covo di Bin Laden, l’elicottero è esploso al decollo senza lasciare superstiti. In altre parole, non c’era nessun cadavere di Bin Laden da trasportare sulla nave, dove comunque nessun testimone ha assistito al funerale, e nessun eroe dei Seals. Per di più, la “Bbc” ha intervistato degli abitanti di Abbottabad, inclusi quelli che vivevano nei pressi del “complesso residenziale di Bin Laden”, e tutti hanno affermato che conoscevano la persona che viveva lì, e che non era Bin Laden. Qualunque Seal che fosse stato così stupido da uccidere la “grande mente del terrore” disarmata, sarebbe stato probabilmente processato dalla corte marziale per incompetenza.Guardate la faccia sorridente dell’uomo che ha “ucciso Bin Laden”. La sua convinzione di essere diventato un eroe per aver ucciso un uomo rende a pieno l’idea dello stato di degenerazione morale degli americani. In cosa consiste quindi questa rivendicazione da parte di Rob O’Neill? Viene presentato come uno “speaker motivazionale” in cerca di clienti. Quale stratagemma migliore da somministrare ai creduloni americani se non l’affermazione: «Io sono quello che ha sparato a Bin Laden». Mi riporta alla mente un film western, “L’uomo che uccise Liberty Valance”. Quale modo migliore per dare credito alle affermazioni di Rob O’Neill se non la denuncia da parte del Pentagono delle sue rivelazioni come violazione dell’obbligo di riservatezza? Il Pentagono sostiene che le affermazioni di O’Neill rappresentano per l’Isis un invito ad attaccarci. Che sciocchezze incredibili. L’Isis, e chiunque altro abbia creduto alle affermazioni di Obama, già sapeva che il regime di Obama aveva rivendicato la responsabilità per l’uccisione di un Bin Laden disarmato. La ragione per la quale era stato proibito all’unità dei Seals di parlare è che nessun membro aveva partecipato alla presunta operazione. Proprio come per la nave dalla quale il corpo di Bin Laden sarebbe stato seppellito in mare senza alcun testimone, i membri dell’unità Seal, che avrebbero liquidato un capo terrorista disarmato piuttosto che farlo prigioniero per interrogarlo, sarebbero misteriosamente morti in un incidente aereo.L’incidente è avvenuto quando il team era stato imbarcato, violando le procedure, su un vecchio elicottero degli anni ‘60 e spedito in una zona di guerra in Afghanistan poco dopo la presunta operazione nel “complesso residenziale di Bin Laden”. Per un certo periodo di tempo sono state riportate notizie secondo cui le famiglie dei Seals morti nell’incidente non ritenevano vere neanche le parole del governo. Inoltre, le famiglie hanno riferito di aver ricevuto dai propri congiunti messaggi nei quali affermavano di sentirsi improvvisamente minacciati e senza conoscerne il motivo. I Seals hanno iniziato a chiedersi tra di loro: «Eri nella missione Bin Laden?». A quanto pare, nessuno lo era. E per mantenerlo segreto, i Seals sono stati mandati a morire. Chiunque creda a qualunque cosa dica il governo americano è un credulone, nel senso più stretto del termine.(Paul Craig Roberts, “Un’altra storia falsa su Bin Laden”, da “LewRockwell” dell’8 novembre 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Già viceministro del Tesoro di Ronald Reagan e editore associato del “Wall Street Journal”, Craig Roberts ha rivelato casi scioccanti e abusi persecutori per vent’anni. Una nuova edizione del suo libro “The Tyranny of Good Intentions” scritto con Lawrence Stratton e edito da Random House, è un documento che racconta come gli americani abbiano perso la protezione della legge).“Rt”, una delle mie fonti preferite di notizie, è caduta in una storia falsa messa in giro dal Pentagono a sostegno della fantasiosa ipotesi secondo cui un team dei Navy Seals avrebbe ucciso Osama Bin Laden, morto una seconda volta ad Abbottabad in Pakistan, una decinda d’anni dopo la sua prima morte per malattia. Questa storia falsa, con il film falso e il libro falso di un presunto membro del team dei Seals, è il modo in cui la storia fantasiosa dell’omicidio di Bin Laden viene perpretata. Il presunto omicidio di Bin Laden per mano dei Seals era un’operazione di propaganda, finalizzata a consacrare Obama come un eroe e a rafforzare la sua candidatura per un secondo mandato. Osama Bin Laden, morto nel dicembre 2001 per insufficienza renale e altri problemi di salute, aveva negato nel suo ultimo video qualsiasi responsabilità per l’11 Settembre, invitando altresì gli americani a guardare al proprio governo. Lo stesso Fbi ha affermato che non ci sono prove che Osama Bin Laden sia responsabile dell’11 Settembre.
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Ebola, un’emergenza pro-Fmi alimentata da menzogne
Ci sono sempre un’emergenza o una catastrofe annunciata che possano giustificare un business. Oggi il Fmi e la sua consorella, la Banca Mondiale, “sposano” l’emergenza-Ebola. Le “previsioni” del Fmi e della Banca Mondiale a proposito dell’Africa sono, naturalmente, apocalittiche. Il Fmi veste i panni della longanimità e consente ai paesi africani di sforare col deficit pur di finanziare il fronteggiamento dell’emergenza. Il direttore della Banca Mondiale incita i governi, compresi quelli europei, a spendere ora per non affrontare costi più elevati in futuro (sempre le solite attendibili previsioni!). Si tratta di versare miliardi nelle casse delle multinazionali farmaceutiche, altruisticamente già impegnate nella lotta contro il virus. Se i soldi non li hai, ci saranno pur sempre anime buone, come il Fmi e la Banca Mondiale, disposte a prestarteli, chiaramente con adeguati interessi. I dubbi e i sospetti sull’emergenza-Ebola non mancano; anzi, vengono avanzate ovvie obiezioni. Il paese più “infetto”, secondo i media, sarebbe la Liberia, che però è anche il paese storicamente più infestato dalla Cia, dato che la Liberia fu il primo Stato creato oltreoceano dagli Usa.L’Organizzazione Mondiale della Sanità è notoriamente una lobby delle multinazionali farmaceutiche; mentre per il Fmi e per la sua consorella c’è la possibilità di tenere ancora più strettamente per il collo l’Africa e l’Europa. Sempre a proposito di sovrastime, soltanto chi sopravvaluta la categoria dei giornalisti può ritenere che sia necessario un complotto per creare queste bolle mediatiche. Non tutti i giornalisti sono lobbisti di professione, come quelli di “Report”, o agenti dei servizi segreti, come Renato Farina (“l’agente Betulla”: uno dei rari casi venuti alla luce, ancora coperto di complicità e ipocrisie). Ma per vedere compattamente schierati gli “operatori dell’informazione” dietro la bandiera dell’emergenza di turno, è più che sufficiente fare affidamento sul loro conformismo e sul loro carrierismo. Qualche testata giornalistica finge di voler approfondire la notizia, ma ci si serve sempre della consulenza di medici, i quali, se tentassero di esporre anche timidi dubbi su quanto afferma l’Oms, si ritroverebbero radiati dall’albo prima ancora di finire la frase.Se si volesse fare appena sul serio, occorrerebbe rivolgersi quantomeno a dei biologi, meno esposti a rischi di rappresaglia immediata. Dato che le notizie non controllate sono non-notizie, si può constatare tranquillamente che non esiste un’informazione sull’Ebola, ma solo propaganda. Intanto si crea confusione per prevenire la circolazione su Internet di dettagli che possano smontare l’emergenza-Ebola. Alcuni “seri” giornali di lingua inglese fanno circolare la “notizia” secondo cui le amministrazioni ospedaliere invierebbero attori a presentarsi al pronto soccorso per manifestare i sintomi dell’Ebola; ciò allo scopo di testare la reattività dei medici in prima linea. La “notizia” è assurda, poiché nessun attore è in grado di simulare in modo credibile una grave infezione virale, se non portandosi dietro un tecnico degli effetti speciali. Ma pseudo-notizie del genere intasano la Rete, a discapito di chi cerca dettagli concreti.(Estratto da “Ebola, un’emergenza pro-Fmi”, da “Anarchismo Comidad” del 18 ottobre 2014).Ci sono sempre un’emergenza o una catastrofe annunciata che possano giustificare un business. Oggi il Fmi e la sua consorella, la Banca Mondiale, “sposano” l’emergenza-Ebola. Le “previsioni” del Fmi e della Banca Mondiale a proposito dell’Africa sono, naturalmente, apocalittiche. Il Fmi veste i panni della longanimità e consente ai paesi africani di sforare col deficit pur di finanziare il fronteggiamento dell’emergenza. Il direttore della Banca Mondiale incita i governi, compresi quelli europei, a spendere ora per non affrontare costi più elevati in futuro (sempre le solite attendibili previsioni!). Si tratta di versare miliardi nelle casse delle multinazionali farmaceutiche, altruisticamente già impegnate nella lotta contro il virus. Se i soldi non li hai, ci saranno pur sempre anime buone, come il Fmi e la Banca Mondiale, disposte a prestarteli, chiaramente con adeguati interessi. I dubbi e i sospetti sull’emergenza-Ebola non mancano; anzi, vengono avanzate ovvie obiezioni. Il paese più “infetto”, secondo i media, sarebbe la Liberia, che però è anche il paese storicamente più infestato dalla Cia, dato che la Liberia fu il primo Stato creato oltreoceano dagli Usa.
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Tifano Putin i leader che misero fine alla guerra fredda
Vladimir Vladimirovic Putin non è andato in Germania ad assistere alle celebrazioni su un’importante vicenda storica di un quarto di secolo fa, la rimozione del Muro di Berlino. Era a Pechino per fare la Storia del prossimo quarto di secolo, mentre firmava un altro storico mega-accordo sul gas con il presidente cinese Xi Jinping. A Putin non manca il senso della Storia. Venticique anni fa era proprio in Germania Est, e precisamente a Dresda, dove soggiornava da quattro anni in veste di ufficiale del Kgb. Aveva avuto modo tante volte di girare in tutto il vasto centro di quella città ricca di storia, che nei secoli si era guadagnata la definizione di Elbflorenz (“Firenze sull’Elba”). Ricca di storia, sì, eppure nessuno degli edifici che costeggiava le camminate di Putin aveva più di cinquant’anni. La città infatti era stata letteralmente rasa al suolo dal 13 al 15 febbraio 1945 dai bombardieri britannici e americani. Morirono decine di migliaia di persone, quasi tutte civili. La Repubblica Democratica Tedesca aveva ricostruito la città, facendo di essa un primario centro industriale e di ricerca.Quando la Germania Ovest annesse la Germania Est, non trovò certo una terra di nessuno. Era un paese industriale ricostruito dopo una catastrofe. Proprio nel rapporto con quello Stato era nata l’Ostpolitik, il modo di stemperare la Guerra Fredda per evitare un’altra catastrofe. Ci si spiava, ci si parlava. Putin ha fatto la gavetta lì. La vecchia guardia dei politici europei dei tempi andati non perde ormai occasione per dirlo: separare i destini dell’Europa dalla Russia è un suicidio politico, un errore strategico, una follia economica, un’avventura insensata. L’ultimo leader dell’Urss, Mikhail Gorbaciov, si è pronunciato in tal senso nell’occasione più solenne, proprio la celebrazione dei 25 anni dalla rimozione del Muro, con una dichiarazione che si schiera nettamente con quel fa e dice l’inquilino odierno del Cremlino, Vladimir Putin. Nel corso dei mesi della crisi ucraina abbiamo sentito anche le dichiarazioni dell’ex primo ministro francese Dominique De Villepin, quelle degli ex presidenti del Consiglio italiani Silvio Berlusconi e Romano Prodi, per non parlare degli ex cancellieri tedeschi Gerhard Schröder e Helmut Kohl (quest’ultimo praticamente silenziato da tutti i principali organi di informazione italiani), e altri ancora, come l’ex cancelliere austriaco Wolfgang Schüssel.Sono tutti politici che hanno dovuto fare i conti – al loro tempo – con l’ingombrante superpotenza degli Usa: tutti la vedevano come un interlocutore essenziale e indispensabile, ma agivano per salvaguardare spazi di manovra per sé, in modo da essere autonomi nel nome di interessi radicati presso le proprie classi dirigenti nazionali e nella “Casa comune europea”. All’alba del “momento unipolare” statunitense, quando crollava la cortina di ferro fra l’Est e l’Ovest dell’Europa, e poi negli anni successivi, ognuno di questi politici ha giocato le sue scommesse, vincendone e perdendone. Nessuno di loro pensava che il suo compito fosse obbedire ciecamente agli Usa. Gorbaciov fu sconfitto da coloro che vollero la fine dell’Urss; Kohl scommise sulla riunificazione tedesca ma assisté allo sconvolgimento degli equilibri europei che seguirono; De Villepin vide le istituzioni golliste della vecchia Francia indipendente travolte dalle presidenze atlantiste di Sarkozy e di Hollande; Berlusconi e Prodi – lungo i decenni – hanno contribuito gravemente al declino dell’Italia, ma si ricorda anche qualche tentativo da parte loro di non azzerare la capacità di manovra internazionale ereditata dalla Prima Repubblica. La cosiddetta “sovranità limitata” non era sinonimo di “sovranità azzerata”.Questi diversi governanti parlavano spesso della Casa comune europea. Questa casa non è stata poi costruita per vari motivi. Dov’è che sono mancati i mattoni? Perché quella casa non c’è? Perché tutti questi governanti avevano limiti e ambiguità, perché hanno proiettato gravi errori sulle generazioni successive, perché c’erano condizioni – storiche e oggettive – che non controllavano, perché maturava una crisi più grande che stava fuori e al di sopra della crisi europea, ossia la crisi dell’Impero atlantico e della potenza nordamericana. Intanto l’Impero in crisi puntava a far pagare a tutti il prezzo sempre più esoso della propria sopravvivenza. Il dollaro non era più quello di una volta, la finanza si faceva via via più devastante, ma anche la Nato non era quella di prima: in contrasto contro ogni altra logica, si espandeva. L’Impero doveva accentuare tutte le spinte militari, aumentare la dose di controllo fino a rendere la propria “intelligence” un incubo orwelliano e a trasformare la Casa comune europea in una Caserma.In pieno revival berlinese, visito a Berlino la sede della Stasi, diventata un museo che vorrebbe perpetuare la vergogna di un sistema che impiegava decine di migliaia di persone per violare “le vite degli altri”. Scatto molte foto ai microfoni nascosti negli orologi, alle macchine fotografiche mascherate da innaffiatoi o tronchi d’albero, ai campioni di tessuto degli oppositori (da far odorare ai cani per rintracciarli prima), ai registratori e alle bobine che carpivano migliaia di voci. Mentre fotografo questo tragicomico modernariato dello spionaggio, mi rendo conto di quanto esso sia poca cosa di fronte a quel che ha rivelato Edward Snowden. Potete anche voi visitare il museo della Stasi, ma non c’è ancora un museo che spieghi che tutte le vostre email – anche se siete uomini potenti, anzi, soprattutto se siete potenti – sono in pancia alla Nsa e ad altre strutture spionistiche atlantiche. Strutture con budget sterminati che vogliono e ottengono una sola cosa, la Tia – Total Information Awareness, ossia la sorveglianza totalitaria. Altro che il buffo innaffiatoio della vecchia Germania Est.Ecco perché le classi dirigenti europee di nuova generazione, dal lato atlantico, oggi sono molto cambiate: totalmente ricattabili, asservite, incapaci di affermare una propria elaborazione autonoma, disarticolate. Se la generazione dei grandi vecchi che abbiamo citato commetteva errori e subiva sconfitte, questa generazione è addirittura annichilita, almeno a Ovest: perché innanzitutto non è libera. E si fa portare in guerra, a partire dal disastro ucraino. Gli esponenti più avveduti delle classi dirigenti, ovunque in Europa, sanno che la Guerra Fredda e le sanzioni sono un pessimo affare e che la sicurezza collettiva non può esistere se va contro qualcuno, specie se quel qualcuno ha il peso della Russia. I più liberi di parlare restano i vecchi ed ex politici. Nessuno di loro ha consuetudine con i politici della generazione Obama. Li vedono come maggiordomi che – così come Barack – non possiedono pensiero autonomo, ma recitano un copione redatto presso i veri piani alti dell’Impero e della finanza, e lo recitano meccanicamente fino in fondo, anche quando sanno che annienterà la sovranità dei propri paesi, sacrificata all’altare di una nuova Guerra Fredda.Perciò, i vecchi, com’è naturale, guardano con attenzione speciale a Mosca, dove vedono una classe dirigente vera. Putin e Lavrov sovrintendono al proprio copione, e questo rende leggibile il loro operato. La politica internazionale del Cremlino mira a essere “prevedibile”, cioè esplicita nell’enunciare i propri interessi di lungo periodo, senza aree di ambiguità. Quando Putin dice di non voler ricostruire l’Unione Sovietica, è vero. E quando dice che non consentirà alla Nato di minare l’efficacia della deterrenza nucleare, è altrettanto vero. Capirlo ci consentirebbe di risparmiare sulle spese militari che ingrassano coloro per i quali Obama fa il piazzista. L’americano Paul Craig Roberts, un altro reduce di quando la politica governava ancora qualche decisione, è arrivato a definire Putin “il leader morale del mondo”. Suonerà una definizione controversa per molti potenziali lettori, letteralmente bombardati dalla campagna anti-russa e dall’isteria anti-Putin che fa scrivere a tutta la stampa occidentale anche le notizie più assurde pur di lordare con sangue e sperma la sua reputazione. Ma c’è qualcosa che spiega lo stesso la definizione usata da Roberts. Un tempo l’ideologia occidentale era riassunta nell’espressione “siamo il Mondo Libero”, un concetto già smentito dalle sue guerre e dai dittatori al suo servizio, e oggi sempre più inconsistente, fino a diventare un’autorappresentazione al limite della patologia. La nemesi è in atto: Vladimir Putin si sta ritrovando a essere il leader del Mondo Libero così come è da intendere oggi, ossia il mondo che per emanciparsi deve sganciarsi dal dominio di Washington, e perciò costruisce nuove alleanze fra continenti, popoli, gruppi di interesse, forze militari, movimenti politici molto diversi.Putin non aveva lavorato per questo obiettivo, perché stava lavorando a sollevare la marea geopolitica del suo immenso paese. Nel sollevarsi, la marea a sua volta ha sospinto la barca del Cremlino fino a un rango di relazioni autenticamente “globali”, a dispetto della definizione che i burattinai russofobi fanno leggere a Obama sul suggeritore elettronico: «Russia potenza “regionale”». Il che rivela il vero pensiero che le classi dirigenti imperiali rivolgono anche a tutti gli altri attori internazionali: a Washington non accettano il mondo multipolare e faranno di tutto per spegnere ogni ambizione da potenza globale, impedendo prima di tutto ai vari attori “regionali” di interagire, separandoli artificialmente contro i loro interessi. Con l’Europa la faccenda funziona, tanto che ora il Muro lo vogliono costruire da Ovest, per separare l’Ucraina dalla Russia sul modello del Muro israeliano, che hanno già digerito senza menare scandalo. Con la Cina e i Brics funziona molto meno, tanto che la velleità Usa viene travolta da giganteschi accordi economici che cambieranno gli assetti mondiali, e fuori dal dollaro.In Russia sanno che rimane loro poco tempo per sganciarsi dai mille fili che li legano ancora alla finanza anglosassone e alle leve che manovrano il prezzo degli idrocarburi, e sanno anche che l’esito non è scontato. In America sanno che rimane poco tempo per impedire il sorgere di un mondo multipolare e riallineare a sé interi continenti, dall’Africa, all’Europa asservita dei nuovi trattati, fino al Caos artificiale in Medio Oriente, mentre si prepara ogni grado di aggressione a danno delle grandi potenze eurasiatiche. In Europa, i vecchi politici sanno che rimane poco tempo alle loro vite per testimoniare l’urgenza di ricostruire un buon rapporto con la Russia, da cui passano le strade della sicurezza collettiva. Rimane quindi poco tempo all’Europa tutta per ascoltarli, anziché allearsi con i nazisti ucraini e farsi governare dagli incubi robotici del neoliberismo reale degli Juncker e dei Katainen.(Pino Cabras, “Ricercato, il leader del mondo libero”, da “Megachip” del 10 novembre 2014).Vladimir Vladimirovic Putin non è andato in Germania ad assistere alle celebrazioni su un’importante vicenda storica di un quarto di secolo fa, la rimozione del Muro di Berlino. Era a Pechino per fare la Storia del prossimo quarto di secolo, mentre firmava un altro storico mega-accordo sul gas con il presidente cinese Xi Jinping. A Putin non manca il senso della Storia. Venticique anni fa era proprio in Germania Est, e precisamente a Dresda, dove soggiornava da quattro anni in veste di ufficiale del Kgb. Aveva avuto modo tante volte di girare in tutto il vasto centro di quella città ricca di storia, che nei secoli si era guadagnata la definizione di Elbflorenz (“Firenze sull’Elba”). Ricca di storia, sì, eppure nessuno degli edifici che costeggiava le camminate di Putin aveva più di cinquant’anni. La città infatti era stata letteralmente rasa al suolo dal 13 al 15 febbraio 1945 dai bombardieri britannici e americani. Morirono decine di migliaia di persone, quasi tutte civili. La Repubblica Democratica Tedesca aveva ricostruito la città, facendo di essa un primario centro industriale e di ricerca.