Archivio del Tag ‘progressisti’
-
Pilger: Terza Guerra Mondiale, solo Trump non la vuole
Ho filmato nelle Isole Marshall, a nord dell’Australia, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Ogni volta che dico alla gente dove sono stato, mi chiedono: «Dove si trovano?». Se come indizio faccio riferimento a “Bikini”, dicono: «Vuoi dire il costume da bagno». Pochi si rendono conto del fatto che il costume da bagno bikini è stato chiamato così per celebrare le esplosioni nucleari che hanno distrutto l’isola di Bikini. Sessantasei dispositivi nucleari furono fatti brillare dagli Stati Uniti nelle Isole Marshall tra il 1946 e il 1958 – l’equivalente di 1,6 bombe [della potenza di quella che colpì] Hiroshima – ogni giorno, per dodici anni. Oggi Bikini tace, trasformata e contaminata. Le palme crescono in una strana disposizione a griglia. Nulla si muove. Non ci sono uccelli. Le lapidi nel vecchio cimitero sono tuttora radioattive. Le mie scarpe registrano un “pericoloso” sul contatore Geiger. Sulla spiaggia, ho visto il verde smeraldo del Pacifico sprofondare in un grande buco nero. È il cratere causato dalla bomba all’idrogeno che chiamavano “Bravo”. L’esplosione avvelenò la gente e l’ecosistema per centinaia di chilometri, forse per sempre.Al mio ritorno, fermandomi all’aeroporto di Honolulu notai una rivista americana chiamata “Women’s Health”. Sulla copertina c’era una donna sorridente in bikini, e il titolo: “Anche voi, potete avere un corpo da bikini”. Pochi giorni prima, nelle Isole Marshall, avevo intervistato donne che hanno avuto “corpi da bikini” molto diversi; ognuna di loro soffriva di cancro alla tiroide e di altri tumori mortali. A differenza della donna sorridente sulla rivista, tutte erano povere: vittime e cavie umane di una superpotenza rapace che oggi è più pericolosa che mai. Racconto questa mia esperienza come avvertimento e per interrompere una confusione che ha stremato tanti di noi. Il fondatore della propaganda moderna, Edward Bernays, descrisse questo fenomeno come «la manipolazione consapevole e intelligente di abitudini e opinioni» delle società democratiche. Lo chiamò un «governo invisibile». Quante sono le persone consapevoli del fatto che una guerra mondiale è cominciata? Per il momento si tratta di una guerra di propaganda, di menzogne, di distrazione, ma tutto ciò può cambiare istantaneamente con il primo ordine sbagliato, con il primo missile.Nel 2009, il presidente Obama si trovava davanti ad una folla adorante nel centro di Praga, nel cuore dell’Europa. Lì si impegnò a rendere il mondo «libero da armi nucleari». La gente lo applaudì e alcuni piansero. Un torrente di banalità fluì da parte dei media. Successivamente, ad Obama fu assegnato il premio Nobel per la Pace. Era tutto falso. Stava mentendo. L’amministrazione Obama ha costruito più armi nucleari, più testate nucleari, più sistemi di distribuzione nucleari, più fabbriche nucleari. La sola spesa per le testate nucleari è cresciuta di più sotto Obama che sotto ogni altro presidente americano. Spalmato su trent’anni, il costo supera il trilione di dollari. Si sta pianificando la fabbricazione di una mini-bomba nucleare. È conosciuta come la B61 Modello 12. Non c’è mai stato nulla di simile. Il generale James Cartwright, un ex vice presidente del Joint Chiefs of Staff, ha detto: «Facendolo più piccolo [rende l'utilizzo di questo ordigno nucleare] un’arma più plausibile».Negli ultimi diciotto mesi, il più grande accumulo di forze militari dalla Seconda Guerra Mondiale – pianificato dagli Stati Uniti – si sta attuando lungo la frontiera occidentale della Russia. È dai tempi dell’invasione di Hitler all’Unione Sovietica che la Russia non subisce una minaccia tanto evidente da parte di truppe straniere. L’Ucraina – un tempo parte dell’Unione Sovietica – è diventata un parco a tema della Cia. Dopo aver orchestrato un colpo di stato a Kiev, Washington controlla effettivamente un regime che è vicino e ostile alla Russia: un regime letteralmente infestato da nazisti. Parlamentari ucraini di spicco sono i diretti discendenti politici dei famigerati fascisti dell’Oun e dell’Upa. Inneggiano apertamente a Hitler e chiedono l’oppressione e l’espulsione della minoranza di lingua russa. Raramente questo fa notizia in Occidente, o la si inverte per sopprimere la verità. In Lettonia, Lituania ed Estonia – alle porte della Russia – l’esercito americano sta schierando truppe da combattimento, carri armati, armi pesanti. Di questa estrema provocazione alla seconda potenza nucleare del mondo non si parla in Occidente.Quello che rende la prospettiva di una guerra nucleare ancora più pericolosa è una campagna parallela contro la Cina. Sono rari i giorni in cui la Cina non raggiunge il rango di “minaccia”. Secondo l’ammiraglio Harry Harris, comandante della flotta statunitense nel Pacifico, la Cina sta «costruendo un grande muro di sabbia nel Mar Cinese Meridionale». Ciò a cui fa riferimento è che la Cina sta approntando piste di atterraggio nelle Isole Spratly, che sono oggetto di un contenzioso con le Filippine – una controversia senza priorità fino a quando Washington non fece pressioni corrompendo il governo di Manila, mentre il Pentagono ha lanciato una campagna di propaganda chiamata “libertà di navigazione”. Cosa significa tutto ciò, in realtà? Significa che le navi da guerra americane hanno la libertà di pattugliare e dominare le acque costiere della Cina. Provate ad immaginare la reazione americana se navi da guerra cinesi facessero la stessa cosa al largo della costa della California.Ho girato un film intitolato “La Guerra che non vedete”, in cui ho intervistato illustri giornalisti in America e in Gran Bretagna: reporter del calibro di Dan Rather della “Cbs”, Rageh Omaar della “Bbc”, David Rose dell’“Observer”. Tutti hanno detto che se i giornalisti e le emittenti mediatiche avessero fatto il loro dovere e messo in discussione la propaganda che asseriva che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa, e se le bugie di George W. Bush e Tony Blair non fossero state amplificate e riportate dai giornalisti, l’invasione dell’Iraq nel 2003 non sarebbe avvenuta, e centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sarebbero ancora vivi, oggi. In linea di principio la propaganda che sta preparando il terreno per una guerra contro la Russia e/o la Cina non è diversa. Per quanto ne so io, nessun giornalista occidentale tra i più quotati – uno come Dan Rather, per dire – chiede perché la Cina sta costruendo piste di atterraggio nel Mar Cinese Meridionale.La risposta dovrebbe essere palesamente ovvia. Gli Stati Uniti stanno circondando la Cina con una rete di basi con missili balistici, gruppi d’assalto, bombardieri armati di testate nucleari. Questo arco letale si estende dall’Australia alle isole del Pacifico, le Marianne e le Marshall e Guam nelle Filippine, quindi in Thailandia, a Okinawa, in Corea e in tutta l’Eurasia, in Afghanistan e in India. L’America ha appeso un cappio intorno al collo della Cina. Ma questo non fa notizia. Il silenzio dei media è guerra tramite i media. In tutta segretezza, nel 2015, gli Stati Uniti e l’Australia hanno inscenato la più grande esercitazione militare “aria-mare” della storia recente, chiamata “Talisman Sabre”. Lo scopo era quello di collaudare un piano di battaglia “aria-mare”, bloccando arterie marittime, come lo Stretto di Malacca e lo Stretto di Lombok, che tagliano l’accesso della Cina al petrolio, gas e altre materie prime vitali che arrivano dal Medio Oriente e dall’Africa.Nel circo noto come la campagna presidenziale americana, Donald Trump è stato presentato come un pazzo, un fascista. Certamente odioso lo è; ma è anche una figura di odio mediatico. Questo da solo dovrebbe suscitare il nostro scetticismo. Il punto di vista di Trump sulla migrazione è grottesco, ma non più grottesco di quello di David Cameron. Non è Trump il “grande deportatore” dagli Stati Uniti, ma il vincitore del Premio Nobel per la Pace, Barack Obama. Secondo un geniale commentatore liberale, Trump sta «scatenando le forze oscure della violenza» negli Stati Uniti. Sta scatenando? Questo è il paese dove i poco più che lattanti sparano alle loro madri e dove la polizia ha dichiarato una guerra assassina contro i neri americani. Questo è il paese che ha attaccato e cercato di rovesciare più di 50 governi, molti dei quali democrazie, e bombardato dall’Asia al Medio Oriente, causando morte e privazioni a milioni di persone. Nessun paese può uguagliare questo sistematico record di violenza. La maggior parte delle guerre americane (quasi tutte contro paesi indifesi) sono stati lanciate non da presidenti repubblicani, ma da democratici liberali: Truman, Kennedy, Johnson, Carter, Clinton, Obama.Una serie di direttive del Consiglio di Sicurezza Nazionale, nel 1947, determinava che l’obiettivo primario della politica estera americana fosse “un mondo sostanzialmente fatto a propria [dell'America] immagine”. L’ideologia era l’americanismo messianico. Eravamo tutti americani. Altrimenti…. gli eretici sarebbero stati convertiti, sovvertiti, corrotti, macchiati o schiacciati. Donald Trump è un sintomo di tutto ciò, ma è anche un anticonformista. Dice che è stato un crimine invadere l’Iraq; lui non vuole andare in guerra contro la Russia e la Cina. Il pericolo per il resto di noi non è Trump, ma Hillary Clinton. Lei non è anticonformista. Lei incarna la resilienza e la violenza di un sistema il cui decantato “eccezionalismo” è totalitario, con un occasionale volto liberale. Mentre il giorno delle elezioni presidenziali si avvicina, la Clinton sarà salutata come il primo presidente donna, a prescindere dai suoi crimini e menzogne – proprio come Barack Obama è stato osannato come il primo presidente nero e i liberali si bevvero le sue sciocchezze sulla “speranza”. E lo sbavare continua.Descritto dal giornalista del “Guardian” Owen Jones come «divertente, affascinante, con un’impassibilità che sfugge praticamente ad ogni altro politico», l’altro giorno Obama ha inviato droni a macellare 150 persone in Somalia. Di solito lui uccide la gente il martedì, secondo quanto scrive il “New York Times”, quando gli viene consegnato un elenco di candidati per la morte da drone. Molto cool. Nella campagna presidenziale del 2008, Hillary Clinton minacciò di «annientare totalmente» l’Iran con armi nucleari. Come segretario di Stato sotto Obama, ha partecipato al rovesciamento del governo democratico dell’Honduras. Il suo contributo alla distruzione della Libia nel 2011 è stato quasi allegro. Quando il leader libico, il colonnello Gheddafi, fu pubblicamente sodomizzato con un coltello – un omicidio reso possibile dalla logistica americana – la Clinton gongolava per la sua morte: «Siamo venuti, abbiamo visto, lui è morto».Uno dei più stretti alleati della Clinton è Madeleine Albright, l’ex segretario di Stato, che ha attaccato le giovani donne che non sostengono “Hillary”. Questa è la stessa Madeleine Albright, tristemente ricordata per aver detto in tv che la morte di mezzo milione di bambini iracheni era «valsa la pena». Tra i più grandi sostenitori della Clinton troviamo la lobby israeliana e le società di armi che alimentano la violenza in Medio Oriente. Lei e suo marito hanno ricevuto una fortuna da Wall Street, e lei sta per essere nominata come candidato delle donne, per sbarazzarsi del malvagio Trump, il demone ufficiale. I suoi sostenitori includono femministe illustri: gente del calibro di Gloria Steinem negli Stati Uniti e Anne Summers in Australia. Una generazione fa, un culto post-moderno ora conosciuto come “politica dell’identità” ha fatto sì che molte persone intelligenti e dalla mentalità liberale smettessero di esaminare le cause e gli individui che sostenevano – come le falsità di Obama e della Clinton, o come i fasulli movimenti progressisti tipo “Syriza” in Grecia, che hanno tradito il popolo di quel paese e si sono alleati con i loro nemici. L’essere assorbiti da se stessi, una sorta di “me-ismo”, è diventato il nuovo spirito del tempo nelle società occidentali privilegiate ed ha siglato la fine dei grandi movimenti collettivi contro la guerra, l’ingiustizia sociale, la disuguaglianza, il razzismo e il sessismo.Oggi, il lungo sonno potrebbe essere terminato. I giovani si stanno scuotendo di nuovo, gradualmente. Le migliaia in Gran Bretagna che hanno sostenuto Jeremy Corbyn come leader laburista fanno parte di questo risveglio – come lo sono quelli che si sono radunati per sostenere il senatore Bernie Sanders. La settimana scorsa in Gran Bretagna, il più stretto alleato di Jeremy Corbyn, John McDonnell, ha impegnato un prossimo governo laburista a pagare i debiti delle banche piratesche, cioè a continuare di conseguenza, la cosiddetta austerità. Negli Stati Uniti, Bernie Sanders ha promesso di sostenere la Clinton se e quando sarà nominata come candidato presidenziale. Anche lui ha votato perché l’America usi la violenza contro altri paesi quando pensa che sia «giusto». Dice che Obama ha fatto «un ottimo lavoro».In Australia, c’è una sorta di politica mortuaria, in cui i noiosi giochi parlamentari vengono riproposti nei media, mentre i rifugiati e gli indigeni sono perseguitati e la disuguaglianza cresce, insieme al pericolo di guerra. Il governo di Malcolm Turnbull ha appena annunciato un cosiddetto bilancio per la difesa di 195 miliardi di dollari che avvicina alla guerra. Non c’è stato alcun dibattito. Silenzio. Dov’è andata a finire la grande tradizione di azione diretta popolare, slegata dai partiti? Dove sono il coraggio, la fantasia e l’impegno necessari per iniziare il lungo viaggio verso un migliore, giusto e pacifico mondo? Dove sono i dissidenti dell’arte, del cinema, del teatro, della letteratura? Dove sono quelli che romperanno il silenzio? O aspettiamo che venga sparato il primo missile nucleare?(John Pilger, riassunto di una recente lezione tenuta all’Università di Sydney, dal titolo “Una Guerra Mondiale è cominciata”; post ripreso dal sito “Counterpunch” del 23 marzo 2016 e tradotto da Gianni Ellena per “Come Don Chisciotte”. Di origine australiana, tra i più noti e prestigiosi giornalisti internazionali, Pilger ha ricevuto numerosi premi e dottorati per le sue battaglie per i diritti umani ed è stato nominato per ben due volte “Giornalista dell’anno” in Inghilterra).Ho filmato nelle Isole Marshall, a nord dell’Australia, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Ogni volta che dico alla gente dove sono stato, mi chiedono: «Dove si trovano?». Se come indizio faccio riferimento a “Bikini”, dicono: «Vuoi dire il costume da bagno». Pochi si rendono conto del fatto che il costume da bagno bikini è stato chiamato così per celebrare le esplosioni nucleari che hanno distrutto l’isola di Bikini. Sessantasei dispositivi nucleari furono fatti brillare dagli Stati Uniti nelle Isole Marshall tra il 1946 e il 1958 – l’equivalente di 1,6 bombe [della potenza di quella che colpì] Hiroshima – ogni giorno, per dodici anni. Oggi Bikini tace, trasformata e contaminata. Le palme crescono in una strana disposizione a griglia. Nulla si muove. Non ci sono uccelli. Le lapidi nel vecchio cimitero sono tuttora radioattive. Le mie scarpe registrano un “pericoloso” sul contatore Geiger. Sulla spiaggia, ho visto il verde smeraldo del Pacifico sprofondare in un grande buco nero. È il cratere causato dalla bomba all’idrogeno che chiamavano “Bravo”. L’esplosione avvelenò la gente e l’ecosistema per centinaia di chilometri, forse per sempre.
-
Usa, elezioni e soldi: chi si compra il futuro presidente
Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?In un’analisi pubblicata da “The AntiMedia” e tradotta da “Come Don Chisciotte”, Anderson denuncia la pratica dilagante del ricorso ai “Super-Pac”, i nuovissimi “comitati di azione politica” costituiti da singoli, aziende e cartelli, con capacità di spesa praticamente illimitata e assolutamente non-trasparente: il candidato non è tenuto a tracciare pubblicamente il denaro ricevuto. «Inutile dire che si tratta di un’elezione in cui la maggior parte dei candidati sono alla ricerca di sostegno da parte dei donatori ricchi invece che dai cittadini che sarebbero chiamati a rappresentare», scrive Anderson. «Ci si sorprenderà nello scoprire chi è stato a donare soldi per il vostro candidato, e come tale contributo possa influenzare le posizioni politiche future». Guida la classifica Jeb Bush, che i sondaggi danno in calo perché “troppo moderato” per gli elettori repubblicani. L’ultimo rampollo della famigerata dinastia presidenziale super-guerrafondaia ha incassato 161 milioni di dollari dalla Golman Sachs, 65 da Neuberger Berman Llc, quasi 44 da Bank of America, 41,5 da Citigroup e quasi 40 da Tenet Healthcare.Secondo i reporter investigativi della Florida, per sostenere Jeb Bush si stanno attivando «signori texani del petrolio, banchieri d’investimento di New York, titolari di aziende sanitarie di Miami e perfino tre ex ambasciatori – due dei quali hanno servito sotto il fratello, l’ex presidente George W. Bush». Totale, 25 contributi da 1 milione di dollari ciascuno. Tre milioni invece sono arrivati da Mike Fernandez, miliardario cubano-americano fondatore di Coral Gables Mbf Healthcare Partners. Poi c’è Hushang Ansary, ambasciatore iraniano negli Stati Uniti dal 1967 al 1969, quindi Richard Kinder, boss della società di oleodotti e gasdotti Kinder Morgan. E Alfred Hoffman, ambasciatore statunitense in Portogallo dal 2005 al 2007, fondatore in Florida della società immobiliare Wci Community. Quindi NextEra Energy, società madre della Florida Power & Light, che fornisce il servizio elettrico a quasi la metà dello Stato. E Julian Robertson Jr., di New York, manager di fondi d’investimento (patrimonio personale di 3,4 miliardi, «ha fatto la sua fortuna investendo in campi da golf e vigneti in Nuova Zelanda»).A parte il corposo sostegno a Jeb, Wall Street pare schierata massicciamente dalla parte di Hillary, finora sempre sostenuta da Citigroup, Goldman Sachs, Dla Piper, Jp Morgan e Morgan Stanley. «Molti dicono che tali alleanze irrevocabilmente la incatenino a suddette istituzioni, rendendola incapace di regnare sopra la corruzione finanziaria di Wall Street», scrive Anderson. Tra gli attuali finanziatori figurano anche Morgan & Morgan, Sullivan & Cromwell, Akin, Gump, Yale University, Latham & Watkins. «E’ anche importante sottolineare che lo studio legale lobbista Akin, Gump, Strauss, Hauer & Feld, che impiega molti dipendenti di Hillary, ha preso le donazioni da due dei più grandi imprenditori delle carceri private, Corrections Corporation of America e Geo Group, con tasse incluse, per un totale di quasi 300.000 dollari». Si chiama “Priority Usa Action” il nuovissimo “Super-Pac” creato per sostenere la Clinton: 25 milioni di dollari in soli tre mesi. I più importanti super-donatori Pac sono George Soros e Steven Spielberg, ma la lista comprende 31 singoli donatori che hanno contribuito più di 200.000 dollari ciascuno. I progressisti contestano alla Clinton il ricorso ai miliardari, ma i sostenitori replicano che non c’è altra strada. Di recente, Hillary ha fatto notizia «abbracciando una tattica per rivelare pubblicamente – cosa che la nuova legge non richiede – i grandi donatori aziendali».Il terzo incomodo, Donald Trump, fa gara a sé: ha ribadito che sarà l’unico finanziatore della sua campagna elettorale e non accetterà donazioni. Secondo “Forbes”, il suo patrimonio ammonta a 4,5 miliardi. Trump assicura che si priverà di 100 milioni per auto-finanziarsi la campagna. Dovrà vedersela innanzitutto col super-finanziato Jeb Bush e gli altri due grandi sfidanti delle primarie, Marco Rubio e Ted Cruz, i cui cognomi ammiccano direttamente all’elettorato “latino”. Sostenuto dai “cubani”, Rubio ha finora raccolto quasi 32 milioni di dollari. Deve ringraziare Goldman Sachs, Steward Health Care, Titan Farms, Florida Cristalli e Oracle. Tra i supporter anche il miliardario Norman Braman e Laura Perlmutter, moglie di Isacco Perlmutter, Ceo di Marvel Entertainment. «La campagna gestita da Rubio è anche dotata di una notevole quantità di “denaro oscuro”», racconta Anderson. «La fonte è una norma su fondi senza scopo di lucro denominata Soluzioni Progettuali Conservatrici, che ha raccolto 15,8 milioni di dollari. Il no-profit, che naturalmente non è tenuto a rivelare i suoi donatori, ha lanciato una massiccia campagna pubblicitaria per attaccare l’accordo coll’Iran del presidente Obama».Altro outsider temibile, anche Ted Cruz ha contestato a Obama l’accordo con l’Iran. In più, si batte per tagliare i fondi a “Planned Parenthood”, i pro-abortisti ufficiali. Tra i suoi sponsor figurano la banca nazionale Woodforest, Morgan Lewis Llp, poi Gibson, Dunn & Crutcher, Pachulski e Stang, la Jennmar Corporation. «La campagna di Ted Cruz ha in realtà quattro “Super-Pac”, tutti finanziati da Robert Mercer, un magnate di Long Island (fondi d’investimento), negazionista del cambiamento climatico», spiega Anderson. «Insieme, hanno raccolto 31 milioni nelle prime quattro settimane della sua campagna». Hanno contribuito la rete politica dei fratelli Koch nonché i miliardari Farris e Dan Wilks, che devono la loro ricchezza al boom del fracking in Texas. Si rivolge invece agli elettori afroamericani il neurochirurgo Ben Carson, l’uomo nuovo dei repubblicani: «Ha sorpreso tutti suggerendo che se George W. Bush avesse iniziato un abbandono del petrolio sulla scia dell’11 Settembre, prendendo l’iniziativa diplomatica piuttosto che quella degli attacchi militari, la nazione poteva essersi evitata una guerra incredibilmente costosa contro il terrore».Con i suoi numeri da sondaggio in aumento, scrive Anderson, molti esperti si chiedono ora se Carson possa essere sfruttato come vicepresidente (di Jeb Bush, ovviamente). Carson è sostenuto da Coca-Cola, West Coast Venture Capital, Trailiner Corp, Ankom Tecnologia, Jea Senior Living. Il “dark money” proviene da “OneVote”, un “Super-Pac” guidato dallo stratega repubblicano Andy Yates, e da un altro cartello, “Run Ben Run”. Recentemente, Carson «ha raddoppiato la retorica anti-musulmana, che sembra aver portato le sue cifre raccolte ancora più in alto, innalzandole a 20 milioni in questo trimestre». Zero trasparenza sui fondi, ma non mancano informazioni indicative: pare che l’84% dei finanziamenti provenga da una folla di micro-donatori, assegni sotto i 500 dollari. Molto differenziato – ed estramamente “etico”, se paragonato agli altri – è il finanziamento di Bernie Sanders, l’unico democratico finora sceso in campo contro la Clinton. Socialista, capace di infiammare i progressisti, è finanziato quasi solo da sindacati, lavoratori, associazioni di categoria. Gli scettici temono che, come Obama, non avrebbe i muscoli necessari a opporsi al vero potere, Wall Street e il complesso militare-industriale.Oltre al libertario indipendente Rand Paul, con appena 3 milioni di dollari in tasca (e quindi ritenuto in procinto di abbandonare la gara), nelle retrovie repubblicane si muovo candidati minori, ancora in corsa, come Chris Christie, data all’1% nei sondaggi eppure forte di un budget di 11 milioni di dollari. Tra i suoi sostenitori figura la Winecup-Gamble, società del Nevada di proprietà dell’ex Ceo di Reebok, Paul Fireman, che ha dato al gruppo un milione di dollari. «Fireman, che vive vicino Boston, prevede un fantasmagorico profitto di 4,6 miliardi dai casinò a Jersey City se gli elettori dello Stato approveranno un emendamento costituzionale per permettere il gioco d’azzardo anche fuori Atlantic City». Altri supporter di Chris Christie sono Stephen Wynn, magnate dei casinò di Las Vegas, Steve Cohen (maganer di hedge funds), l’imperatrice del wrestlig Linda McMahon e la numero uno di Hewlett-Packard, Meg Whitman. Stesso budget (11 milioni) per John Kasich, governatore dell’Ohio, mentre è più povero il portafoglio di Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas (3 milioni), così come quello di Carly Fiorina (1,6 milioni); presidente di Hp ed esponente dell’ultra-destra, la Fiorina è sostenuta dall’ex finanziere d’assalto Tom Perkins nonché da vari campioni della Silicon Valley, come Paul Otellini (già Intel) e Jerry Perenchio (ex Ceo di Univision).«Come potete vedere – conclude Jake Anderson – le elezioni presidenziali 2016 sono, per la maggior parte, una guerra tra donatori aziendali a tutto campo». Secondo l’analista, è importante ricordare che molti di questi “totali” sono già obsoleti, giacchè i team dei candidati possono strategicamente nascondere le quantità donate, grazie alle nuove disposizioni di legge per proteggere la raccolta fondi da qualsiasi legittima curiosità. «Insomma, noi non conosciamo la reale portata del “denaro oscuro”», derivante dal cosiddetto “non profit” e da associazioni imprenditoriali. «Quello che sappiamo è che questa sarà l’elezione più costosa della storia. I fratelli Koch da soli hanno un budget di 889 milioni di dollari. Una volta aggiunto alla spesa prevista dai democratici e dai repubblicani, stiamo parlando di un ticket totale di circa 5 miliardi di dollari».Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?
-
Rabbia e paura, il voto in quest’Europa disastrata dall’euro
Fino a qualche anno fa parevano sbuffi isolati di rabbia: Haider in Austria, Bossi in Italia, Fortuyn in Olanda. Ed erano quasi tutti di destra. Ora non più. Ora un’onda di protesta sempre più alta e sempre più comprensibilmente rabbiosa investe quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, con la significativa eccezione della Germania. E non è più solo di destra, e neanche solo di sinistra; talvolta è semplicemente civica, sempre e comunque fuori dagli schemi. La Spagna, che si reca alle urne, stando ai sondaggi non sfuggirà a questa tendenza. I progressisti di Podemos appaiono in calo ma sono in crescita i centristi di Ciudadanos; in ogni caso i movimenti centristi e alternativi seducono circa un terzo dell’elettorato. Un’enormità. E prima della Spagna c’era stata la Grecia. Oggi lo sappiamo: Tsipras non era un rivoluzionario e nemmeno un innovatore. Più che un leader, un bluff; ma il referendum della scorsa estate – poi tradito – ha rivelato il disagio profondo e trasversale della Grecia, un’autentica disperazione sociale, che non tocca solo le classi più povere ma travolge anche il ceto medio. Quella protesta era di formalmente di sinistra. Ma in Ungheria ha trionfato l’euroscettico Orban, così come in Polonia il partito di Kaczynski, che formalmente sono di destra.In Italia i sondaggi danno in crescita il Movimento 5 Stelle, la cui collocazione è indefinibile, e confermano la solidità della Lega di Salvini. Da nemmeno un mese il Portogallo ha un governo socialista, che si regge sull’appoggio, decisivo, di due partiti di estrema sinistra dichiaratamente contrari all’euro. In Danimarca il popolo ha appena approvato un referendum che rifiuta l’adozione automatica delle leggi europee e mantiene la clausola di opt-out. In Francia il fatto che la Le Pen sia stata fermata al ballottaggio non cambia il quadro di fondo: oggi il Fronte Nazionale è il primo partito di Francia e ha il vento in poppa. Potremmo continuare citando tanti altri esempi ma l’elenco diventerebbe stucchevole. La realtà è che oggi la vera contrapposizione non è più fra centrodestra e centrosinistra, perché agli occhi di molti elettori europei le differenze fra conservatori e progressisti moderati sono risibili e riguardano ormai aspetti marginali della vita pubblica. Oggi in tutta Europa il tema fondamentale, è la crisi economica che erode sia la libertà d’impresa sia la sicurezza sociale.Le analisi economiche sono impietose e non contestabili: da quando è entrato in vigore l’euro, il tenore di vita è diminuito nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea – inclusi quelli grandi come Francia, Italia e Spagna – la disoccupazione è aumentata con punte drammatiche per i giovani, mentre i cittadini sono vessati da tassazioni inaccettabili. Risultato: le economie, schiacciate dall’austerity, non crescono più. La crisi finanziaria del 2008 ha dato il colpo di grazia al sistema, che, infatti, da allora non si è più ripreso. Oggi centrodestra e centrosinistra hanno perso credibilità perché i loro leader hanno deluso sistematicamente le aspettative di un vero cambiamento. Non poteva essere altrimenti: la governance europea limita la libertà di manovra dei governi nazionali. Che all’Eliseo sieda Sarkozy o Hollande poco cambia. E allora i francesi ascoltano la Le Pen, che abilmente abbandona l’estremismo del padre e si appropria dei valori della République e del gollismo.Badate bene: a scegliere i movimenti alternativi non sono più gli emarginati ma gli industriali e gli operai, i lavoratori indipendenti e quelli pubblici, i giovani e i pensionati, accomunati dalla paura, dalla precarietà, dall’assenza di una prospettiva. Oggi nell’Unione Europea il piccolo imprenditore, gravato dalla burocrazia e dalle tasse, getta la spugna e il suo operaio, che perde il lavoro, solidarizza con lui ed è spaventato, talvolta disperato perché sa che difficilmente troverà un altro posto. Questo spiega – più di ogni altra considerazione – il successo dei partiti alternativi e di protesta. Biasimarli e tentare di screditarli come populisti non basterà. Fino a quando l’Unione Europea si ostinerà a non correggere alcune evidenti storture, la sensazione di malessere continuerà a crescere con il rischio, niente affatto remoto, che un giorno diventi socialmente esplosiva e incontrollabile.(Marcello Foa, “La protesta cresce, rischiamo una crisi esplosiva e incontrollabile”, dal blog “Il cuore del mondo” su “Il Giornale” del 19 dicembre 2015).Fino a qualche anno fa parevano sbuffi isolati di rabbia: Haider in Austria, Bossi in Italia, Fortuyn in Olanda. Ed erano quasi tutti di destra. Ora non più. Ora un’onda di protesta sempre più alta e sempre più comprensibilmente rabbiosa investe quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, con la significativa eccezione della Germania. E non è più solo di destra, e neanche solo di sinistra; talvolta è semplicemente civica, sempre e comunque fuori dagli schemi. La Spagna, che si reca alle urne, stando ai sondaggi non sfuggirà a questa tendenza. I progressisti di Podemos appaiono in calo ma sono in crescita i centristi di Ciudadanos; in ogni caso i movimenti centristi e alternativi seducono circa un terzo dell’elettorato. Un’enormità. E prima della Spagna c’era stata la Grecia. Oggi lo sappiamo: Tsipras non era un rivoluzionario e nemmeno un innovatore. Più che un leader, un bluff; ma il referendum della scorsa estate – poi tradito – ha rivelato il disagio profondo e trasversale della Grecia, un’autentica disperazione sociale, che non tocca solo le classi più povere ma travolge anche il ceto medio. Quella protesta era di formalmente di sinistra. Ma in Ungheria ha trionfato l’euroscettico Orban, così come in Polonia il partito di Kaczynski, che formalmente sono di destra.
-
Col Padrino al posto di Bush, oggi non saremmo in guerra
«C’è questo fortissimo istinto a rispondere contrattaccando, che elude la razionalità. Tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere, in termini di sapienza e moralità, lo sappiamo già da migliaia di anni. Niente di nuovo. Ma non prendiamo mai questa strada». Parola di Tim Willocks, scrittore, intervistato da Edoardo Rialti per il “Foglio”. L’autore di “Fine ultimo della Creazione”, salutato da James Ellroy come il miglior thriller carcerario di sempre, sostiene che Bush avrebbe fatto bene a comportarsi come il “Padrino”, nel leggendario film di Coppola, che considera «un esempio straordinario». All’indomani dell’11 Settembre, Willocks ricorda che ci pensò. «Quando il consigliori va a dire al padrino che suo figlio è stato massacrato, Brando assorbe questo dolore terribile. E la prima cosa che dice è: “Non voglio indagini, non voglio vendette. Questa guerra finisce qui”». E’ stupefacente, dice Willocks. «Un esempio di grande saggezza politica. E se l’11 Settembre ci fosse stato un leader che avesse avuto quel potere, il carisma di dire “Niente vendetta”, io credo che oggi il mondo, quindici anni dopo, sarebbe un posto completamente diverso. Avessimo avuto un Gandhi, un Martin Luther King, una figura di quella statura, il mondo forse l’avrebbe seguito».Gandhi era un affiliato del network massonico rosacrociano, e Martin Luther King (altro massone progressista) secondo Gioele Magaldi è stato assassinato insieme a Bob Kennedy anche in base a un preciso calcolo: quei due erano il “ticket” perfetto su cui puntava il milieu super-massonico internazionale che aveva tifato per John Kennedy dopo aver manovrato per far eleggere al soglio pontificio il cardinale Angelo Roncalli, il “Papa buono”, nonché l’unico pontefice massone della storia (affiliato a una superloggia in Turchia e poi introdotto, in Francia, in un cenacolo rosacrociano). Da allora, sostiene Magaldi, l’Occidente del welfare e dei diritti sociali ha cominciato a scivolare sul piano inclinato della restaurazione neoliberista e guerrafondaia, fino appunto all’11 Settembre e, oggi, all’Isis. Per una sinistra ricorrenza, scrive Rialti sul “Foglio”, Parigi resta «la grande cartina di tornasole dei conflitti che ci dilaniano: dalla Bastiglia ai nazisti che sfilano vittoriosi, dalla Comune alla strage del Bataclan». Sul nesso inestricabile tra città e violenza, a Parigi e altrove, il “Foglio” ha dialogato con Tim Willocks, che ne “I dodici bambini di Parigi” racconta la prima celebre notte della capitale francese, la strage religiosa di San Bartolomeo, «un labirinto di carne e sangue, di innocenza perduta, follia, e inaspettato, anonimo eroismo».«Se vuoi colpire una città che rappresenta la civiltà, l’illuminismo, Parigi è forse la scelta migliore, e non solo per la Rivoluzione», dice lo scrittore. «Lo Stato islamico è molto specifico al riguardo. Per loro è la grande prostituta, tutto ciò che è empio. E Parigi è anche uno dei luoghi più violenti della storia. E’ una sorta di campo di battaglia». Di fronte alla violenza e alla follia di oggi, e alla nostra ricerca spasmodica di soluzioni, Willocks non ha tutte le risposte, ma ha molte domande, annota Rialti. “Cantami l’ira”, inizia l’Iliade: il primo poema della nostra letteratura inizia con la rabbia di Achille, e termina con le sue lacrime, condivise (inaspettatamente) dal nemico Priamo. «Rabbia e lacrime. Come muoversi dalla rabbia alla compassione, e se è possibile. Siamo forse destinati alla rabbia e alla compassione, per sempre?». Willocks si dichiara «orripilato e stupefatto» da quanto la violenza sia «intrecciata con la civiltà, fin dall’inizio, in tutto il mondo». Secondo l’autore, «non parliamo abbastanza di cosa voglia dire uccidere. Camuffiamo questa realtà con molta retorica e eufemismi».«L’altro aspetto così vero dell’Iliade è la gioia, l’eccitazione, l’attrazione che da sempre la guerra, le battaglie, la violenza hanno esercitato. E quando, 50.000 anni fa, un periodo brevissimo in termini d’evoluzione biologica, eravamo spaventati dai leoni, e i nostri anonimi ‘Achille’ ci hanno difeso, letteralmente, dai leoni, con un bastone o sasso, è stato qualcosa da celebrare, eccome!», continua lo scrittore. «Fondamentalmente non siamo cambiati, da allora. Credo il ruolo della letteratura sia proprio di incarnare tutto questo. E’ il nostro destino, come specie, affrontare queste contraddizioni. Non vediamo molti Achille e Priamo, che sono anche due grandi capi politici, che piangono insieme». Fu già Sant’Agostino a notare che nei grandi miti i fondatori di città sono tutti fratricidi. Caino, Romolo: c’è davvero un nesso inscindibile tra comunità civile e violenza? «Sì, i fondatori di città sono assassini», ammette Willocks. «La fondazione di una città richiede violenza. Una gerarchia di potere, che è essenzialmente ingiusta».Per un intellettuale come Francesco Saba Sardi, la nostra civiltà nasce con un atto di guerra, il primo della storia, per la conquista della terra. Accade per la prima volta nel neolitico, con la scoperta dell’agricoltura: da allora “servono” schiavi, lavoratori agricoli e soldati. E nasce il potere, sotto forma di dominio, che (grazie alla capacità di persuasione esercitata dalla religione, altra invenzione dell’epoca) riesce a imporre ruoli sociali sgradevoli. Ironia della sorta, aggiunge ora Willocks, è che la civiltà stessa richiede il ricorso alla violenza, «perché i contadini non hanno tempo e lusso per fermarsi e pensare alla scienza, alle invenzioni, alla poesia, alla cultura nel suo senso più ampio». Dostoevskij faceva dire al suo terrorista che niente lega due uomini come ammazzare insieme un terzo, osserva Rialti. Siamo uno contro l’altro: è «la perenne seduzione del sacrificio umano: basta che qualcosa ci turbi e spaventi e torniamo subito uomini delle caverne, nemici di chiunque sia fuori della grotta». Dal 2001, poi, la guerra è diventata permanente e planetaria. “La guerra infinita”, la chiamò Giulietto Chiesa. Ma se allora, alla Casa Bianca, ci fosse stato il Padrino, dice Willocks, oggi non saremmo a questo punto.«C’è questo fortissimo istinto a rispondere contrattaccando, che elude la razionalità. Tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere, in termini di sapienza e moralità, lo sappiamo già da migliaia di anni. Niente di nuovo. Ma non prendiamo mai questa strada». Parola di Tim Willocks, scrittore, intervistato da Edoardo Rialti per il “Foglio”. L’autore di “Fine ultimo della Creazione”, salutato da James Ellroy come il miglior thriller carcerario di sempre, sostiene che Bush avrebbe fatto bene a comportarsi come il “Padrino”, nel leggendario film di Coppola, che considera «un esempio straordinario». All’indomani dell’11 Settembre, Willocks ricorda che ci pensò. «Quando il consigliori va a dire al padrino che suo figlio è stato massacrato, Brando assorbe questo dolore terribile. E la prima cosa che dice è: “Non voglio indagini, non voglio vendette. Questa guerra finisce qui”». E’ stupefacente, dice Willocks. «Un esempio di grande saggezza politica. E se l’11 Settembre ci fosse stato un leader che avesse avuto quel potere, il carisma di dire “Niente vendetta”, io credo che oggi il mondo, quindici anni dopo, sarebbe un posto completamente diverso. Avessimo avuto un Gandhi, un Martin Luther King, una figura di quella statura, il mondo forse l’avrebbe seguito».
-
Nino Galloni sindaco di Roma: troppo bello per essere vero?
«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?La “pazza idea” di candidare a Roma l’insigne economista progressista, già alto funzionario governativo – protagonista di una battaglia sotterranea per salvare l’Italia dal disastro del Trattato di Maastricht – proviene dal movimento fondato da Gioele Magaldi, massone e autore del dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che denuncia i misfatti di alcune Ur-Lodges, fra le 36 superlogge segrete ai vertici del potere mondiale, negli ultimi decenni alle prese con la svolta oligarchica che ha imposto la grande crisi alle masse, arricchendo l’élite. Fulcro della grande restaurazione planetaria, il taglio neoliberista dello Stato a vantaggio dei signori del “mercato”: meno spesa pubblica, azzeramento del debito, tassazione alle stelle, crollo del Pil e disoccupazione. Tutto ciò imposto, in Europa, attraverso la scure dell’euro, che Galloni considera un’arma (economica) di distruzione di massa. Tanto era temuto, Galloni, che – ai tempi dell’ultima stagione governativa di Andreotti – spinse il cancelliere Kohl a muoversi, personalmente, perché fosse rimosso. Una battaglia, la sua, per la difesa della sovranità italiana, nella certezza che le modalità di imposizione della moneta unica avrebbero devastato l’economia nazionale, declassandola e deindustrializzandola.Era un piano preciso, ha spiegato Galloni a Claudio Messora, sul blog “Byoblu”: l’euro fu imposto dalla Francia per indebolire la Germania, di cui temeva la riunificazione; in cambio, Berlino pretese (e ottenne) il ridimensionamento del suo concorrente industriale più pericoloso: noi. Questo è il personaggio su cui “Filippo”, “Ste” e “Gnam Gnam” si saranno ormai documentati. Allievo del maggiore economista europeo del dopoguerra, il professor Federico Caffè, e quindi “compagno di banco” di Bruno Amoroso, eminente economista impegnato in Danimarca, e di un certo Mario Draghi, che si laureò con una testi sulla insostenibilità della moneta unica, molto prima di salire sul Britannia per la grande svendita dell’Italia. Riuscirà il Movimento 5 Stelle a prendere in considerazione l’offerta? Galloni collabora col Movimento Roosevelt, che vuole riscrivere le linee-guida della politica (e quindi dell’economia) per aiutare l’Italia a uscire dal disastro. Fine della sudditanza rispetto all’élite finanziaria che manovra Bruxelles? «Ma noi non siamo contro l’euro», dichiarò Gianroberto Casaleggio a Marco Travaglio, giusto alla vigilia delle ultime elezioni europee, segnate dalla squillante affermazione, in tutta Europa, di partiti e movimenti decisi a mettere fine alla catastrofe economica innescata proprio dalla moneta unica, quella che lo stesso Draghi, studente modello, giudicava una follia.«Nino Galloni sindaco di Roma? Magari!», sogna ad occhi aperti Andrea Signini su “Signoraggio.it”, definendo Galloni «grande giurista, nome di punta degli anni Ottanta e Novanta, il cosiddetto “oscuro funzionario” il quale, di contro, tutto è tranne che oscuro, dal curriculum di pregio e dalla profonda conoscenza delle dinamiche dell’economia, della finanza e anche della politica, di cui non ha mai fatto parte se non a richiesta, come professionista interrogato per risolvere i problemi che la politica stessa ha sempre causato». Già ricercatore all’università di Berkeley, tra il 1980 e il 1987 Galloni collaborò strettamente col suo maestro Federico Caffè, economista post-keynesiano, all’università di Roma. In seguito, Galloni ha insegnato economia alla Luiss di Roma, alla Sapienza, alla Cattolica di Milano, negli atenei di Modena e di Napoli. E’ stato direttore generale al ministero del lavoro, ha diretto l’osservatorio sul mercato del lavoro e l’occupazione giovanile, ha lavorato all’Inpdap e all’Ocse, è tra i sindaci dell’Inps e dell’Inail. Ha anche fondato il Centro Studi Monetari, un’associazione per lo studio dei mercati finanziari e delle forme di moneta emettibili senza creare debito pubblico.Galloni punta al ritorno della sovranità finanziaria nazionale e alla netta separazione tra banche d’affari, speculative, e credito pulito al servizio dell’economia reale, com’era prima dell’abolizione del Glass-Steagall Act ad opera di Bill Clinton, che diede la stura definitiva alla roulette finanziaria mondiale, decisa a “pescare” anche nella finanza pubblica. Il dramma risale al 1981, ricorda ancora Galloni, quando Ciampi e Andreatta staccarono il Tesoro da Bankitalia, che fino ad allora era il “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo il paese ad attingere denaro attraverso l’emissione di titoli di Stato. Interessi salatissimi: «Così, di colpo, il debito pubblico italiano raddoppiò». Galloni? «E’ l’uomo giusto al punto giusto», scrive Signini. «Apprezzato da destra a sinistra, dal popolo cosiddetto moderato e quello di nicchia; ma soprattutto ammirato da chi accorre alle sue conferenze; conferenze che tiene in tutta Italia senza mai farsi pagare, ricordiamolo. Nino è così: sobrio nelle scelte, sobrio nel vivere, anche nel vestire. Non giuda Jeep o Ferrari, no. Lo puoi trovare nei consessi internazionali di finanza ed economia e poi il giorno appresso seduto al bar con gli appartenenti di ogni forza politica, di qualsiasi colore e schieramento o a parlare amabilmente con chi lo riconosce e gli chiede consigli e suggerimenti».«Questo è Nino», conclude Signini: Galloni è «l’altro allievo di Federico Caffè, del tutto diverso da Mario Draghi». Con tutta probabilità, «grazie proprio al bagaglio culturale e professionale che ha sviluppato sin dai tempi in cui, dopo essere ritornato dagli Usa per venire ad insegnare nelle università italiane», Nino Galloni «non può che essere colui sul quale scaricare la responsabilità di rifondare Roma», devastata dalle amministrazioni Alemanno e Marino. «Tentare di pescare l’ennesimo nome dal cilindro lercio della politica, sappiatelo, è inutile, oltre che nocivo», assicura Signini: «C’è rimasto solo Galloni». Che ne pensano “Ste”, “Gnam Gnam” e tutti gli altri? E soprattuttto: come la vedono Grillo e Casaleggio? E’ ovvio che una candidatura come quella di Galloni nella capitale rappresenterebbe una rivoluzione copernicana, dopo decenni di politica nazionale affidata a mezze figure prone ai diktat dei “padroni” stranieri, i veri burattinai della “casta” impresentabile contro cui si è scagliato il grillismo prima maniera. La sola candidatura di Galloni, col suo inevitabile contributo culturale, contribuirebbe a scardinare una lunga stagione di menzogne. Mission impossible?«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?
-
Sperando che regga l’accordo segreto tra Obama e Putin
Obama liquiderebbe volentieri Erdogan, ma intanto gongola per l’abbattimento del jet russo: non è una contraddizione, scrive “Megachip”, perché «quel che gli fa piacere e quel che gli serve sono due cose diverse». Con il suo appoggio formale alla Turchia, il presidente Usa spera di prendere diversi piccioni con una fava: «Fa il muso duro con Putin davanti a tutto il mondo, tiene agganciata la polveriera Turchia sperando che non salti in aria, non scarica brutalmente un alleato chiave nella regione (cosa che darebbe un pessimo segnale) e infine tiene a bada, o spera di tenere a bada, i neocon guerrafondai», che probabilmente hanno ispirato «l’atto di guerra irresponsabile turco». Morale: come dice Papa Francesco, la Terza Guerra Mondiale (a rate) è già iniziata. Ci stiamo scivolando dentro. E sul ponte di comando ci sono troppe mezze figure. E’ peggio che nella “crisi dei missili” di Cuba del 1962: all’epoca, Kennedy aveva il pieno controllo del suo esercito, e non era previsto nessun “first strike”, cioè il lancio non provocato di un attacco nucleare, ma solo la ritorsione nucleare. E soprattutto, «la crisi sistemica non era nemmeno iniziata», mentre oggi «sta dirigendosi velocemente verso lo showdown».Ormai, scrive “Piotr” sul newsmagazine fondato da Giulietto Chiesa, è evidente a tutti che «la cosiddetta guerra civile siriana» è in realtà «un attacco sponsorizzato dagli ex partner dell’accordo Sykes-Picot contratto durante la I Guerra Mondiale, cioè Gran Bretagna e Francia, poi istigato ideologicamente, finanziato e armato dall’Arabia Saudita, dal Qatar, dalla Turchia, col concorso attivo di Israele, e condotto da mercenari e volontari jihadisti provenienti da 83 paesi differenti». Altro che “guerra civile”. «Questo attacco – ricorda “Megachip” – fu deciso nel 2007 dall’allora vicepresidente statunitense Dick Cheney, su insistenza dei suoi consiglieri neocon, ed è stato preparato da quella vasta operazione di regime change chiamata “primavera araba”, che ha illuso la sinistra fino a farla vaneggiare, come successe a Rossana Rossanda». Un’operazione che «doveva portare uniformemente i Fratelli Musulmani al governo in Tunisia, Libia, Egitto e Siria, come già era avvenuto per vie democratiche in Turchia (anche se poi il primo ministro Erdogan ha molto poco democraticamente epurato magistratura ed esercito, per obbligo e tradizione repubblicana custodi della laicità dello Stato)».Come testimoniato a più riprese dal generale Wesley Clark, già a capo della Nato in Europa, la Siria – come la Libia e altri paesi dell’area – era già nel mirino del Pentagono fin dal 2001. All’epoca alla Casa Bianca c’era George W. Bush, ma il vero capo era il suo vice, Cheney, esponente di quei neocon che «avevano occupato stabilmente varie importanti funzioni di potere, dopo che il democratico Bill Clinton aveva aperto loro le porte». Se qualcuno non lo avesse ancora capito, continua “Piotr”, il destino della Siria, come quello della Libia, e dei suoi innocenti abitanti, era stato deciso sui ponti di comando degli Stati Uniti un decennio prima della “primavera araba”, che è stata una parte dell’implementazione del piano, preceduta dal famoso discorso di Obama all’Università del Cairo, «osannato anch’esso dalla sinistra in un crescente fervore di servilismo, consapevole o idiota, per l’impero». E chi avvertiva che si stava puntando al caos (tribalizzazione, al-qaidizzazione, flusso incontrollabile di rifugiati) verso uno stato conclamato di guerra mondiale, «veniva sbeffeggiato dagli intellettuali progressisti con un’arroganza che ora illumina impietosamente la loro cialtronaggine».Nel caos ormai è immerso tutto il Mediterraneo, a Nord come a Sud, e l’abbattimento del bombardiere russo da parte della Turchia ha portato concretamente il mondo sull’orlo della Terza Guerra Mondiale, o meglio della sua “fase conclamata”, «perché che questa guerra sia già in corso lo ha affermato anche Papa Francesco, giustamente e non a caso». Guerra che, per “Megachip”, ha una precisa data d’inizio: 11 settembre 2001. «Finora essa si è svolta come avevano “previsto” gli strateghi della Rand Corporation negli anni Novanta del secolo scorso, ovverosia mischiando supertecnologie militari con guerre di carattere tribale e premoderno». Oggi invece la Terza Guerra Mondiale è «sul punto di conclamarsi, così come si conclama una malattia infettiva dopo un periodo d’incubazione». Forse, «all’ultimo momento verranno trovati degli anticorpi», per scongiurare il peggio. Ma è impossibile evitare di vedere la realtà sotto i nostri occhi: «Mai il mondo è stato così vicino al baratro», dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.“Megachip” si sofferma sull’improvvisa visibilità del protagonismo turco, fino a ieri rimasto sottotraccia, sostenendo che l’atto di forza di Ankara – la sfida rivolta a Putin con un’operazione di pirateria aerea – è in realtà un gesto di debolezza, che rivela paura e forse disperazione. «Perché la Turchia ha osato tanto? Sa benissimo che in caso di conflitto nucleare l’Anatolia sarebbe ridotta a un posacenere». Non potendo entrare «nella testa criminale di Erdogan», è possibile avanzare soltanto ipotesi. La prima: «L’Isis tiene in ostaggio gli ex sponsor». Uno di questi è la Francia, «che tentenna e si comporta in modo incoerente (aiuta da una parte e bombarda dall’altra)», e poi ovviamente c’è la Turchia, tramortita dall’intervento militare russo in Siria e preoccupata che l’alleato americano la abbandoni, lasciandole in eredità «l’inaccettabile Kurdistan alle frontiere». Deduzioni verosimili: «Non è impossibile che i capi dell’Isis abbiano fatto capire a Erdogan che, se non reagisce alla Russia, a Istanbul ci potrebbe essere un attacco terroristico come una Parigi al quadrato», considerato che da almeno un anno la città «pullula di jihadisti», con «chissà quante cellule pronte» tra le due rive del Bosforo.Seconda ipotesi: Erdogan è «disperato», perché «da una parte c’è il martello del suo mostro di Frankenstein (in condominio conflittuale coi campioni delle crocifissioni, delle decapitazioni, delle frustate e delle lapidazioni che sono a capo dell’Arabia Saudita, che di fatto, protetti da un accordo ormai cinquantennale con gli Usa, formano un Isis con seggio all’Onu)», e dall’altra c’è «l’incudine degli accordi tra Putin e Obama». Non è un caso, scrive “Megachip”, che Erdoğan abbia deciso di abbattere un aereo russo pochissimi giorni dopo il G20 di Antalya, «dove è evidente che c’è stato un ulteriore accordo tra Obama e la Russia» (non tra l’America e la Russia, «perché la Russia è compatta dietro a Putin, ma gli Usa non lo sono affatto dietro a Obama dato che altri perseguono propri piani, addirittura peggiori e più spaventosi»). È stata dunque questa “disperazione” a suggerire a Erdogan un atto di tale gravità? Formalmente, Obama ha preso le parti della Turchia. Ovvio: se l’avesse scaricata, «come avrebbe reagito il già disperato Fratello Musulmano, che sa benissimo che si è messo una polveriera sotto il culo da solo?».Così, Obama può ancora pensare di controllare la Turchia, almeno un po’, magari con l’aiuto dei militari non epurati da Ergogan, in attesa di capire come sbarazzarsi del leader di Ankara. Schierandosi (solo a parole) contro Putin, Obama spera di tener buoni i “falchi” neocon, evitando peraltro di sacrificare l’avamposto della Nato in Medio Oriente. Ma, se anche quello di Obama è solo teatro, la situazione resta pericolosissima. Molto peggio dello scenario da incubo della crisi di Cuba, quando Usa e Urss arrivarono a un millimetro dalla guerra nucleare. Diversamente da allora, ricorda “Megachip”, oggi c’è il rischio concreto del “first strike”, l’attacco missilistico preventivo, progettato dal Pentagono su mandato di George W. Bush. Obama ha frenato: dal 2010 è tornato «al solo uso del nucleare come deterrente ad attacchi nucleari». Ma cosa accadrà domani?In più, c’è da considerare che Obama – a differenza del Kennedy del 1962 – pare abbia un controllo non completo sulle sue forze armate, «vedi il generale John Allen che paracadutava le armi all’Isis invece di buttargli le bombe». Infine, negli anni ‘60 l’Occidente era in piena, travolgente espansione. Oggi è in crisi, ininterrottamente, dal 2007. E non si vede via d’uscita, da una globalizzazione forsennata e irresponsabile, che ha finanziarizzato l’economia globale e gravemente indebolito Usa ed Europa con la catastrofe occupazionale delle delocalizzazioni, prima ancora che subentrasse il colpo di grazia dell’austerity Ue indotta dal regime monetario dell’euro. C’è un rischio concreto di collasso, anche eventualmente pilotato, per sbarrare la strada all’ascesa storica della Cina. Che fare, nel nostro piccolo? «A parte sperare che i russi continuino a mantenere il sangue freddo che stanno dimostrando, non possiamo fare nulla se non rivendichiamo la neutralità dell’Italia», conclude “Piotr”. «Questo è quanto dobbiamo fare, per noi, per i nostri figli, per il mondo».Obama liquiderebbe volentieri Erdogan, ma intanto gongola per l’abbattimento del jet russo: non è una contraddizione, scrive “Megachip”, perché «quel che gli fa piacere e quel che gli serve sono due cose diverse». Con il suo appoggio formale alla Turchia, il presidente Usa spera di prendere diversi piccioni con una fava: «Fa il muso duro con Putin davanti a tutto il mondo, tiene agganciata la polveriera Turchia sperando che non salti in aria, non scarica brutalmente un alleato chiave nella regione (cosa che darebbe un pessimo segnale) e infine tiene a bada, o spera di tenere a bada, i neocon guerrafondai», che probabilmente hanno ispirato «l’atto di guerra irresponsabile turco». Morale: come dice Papa Francesco, la Terza Guerra Mondiale (a rate) è già iniziata. Ci stiamo scivolando dentro. E sul ponte di comando ci sono troppe mezze figure. E’ peggio che nella “crisi dei missili” di Cuba del 1962: all’epoca, Kennedy aveva il pieno controllo del suo esercito, e non era previsto nessun “first strike”, cioè il lancio non provocato di un attacco nucleare, ma solo la ritorsione nucleare. E soprattutto, «la crisi sistemica non era nemmeno iniziata», mentre oggi «sta dirigendosi velocemente verso lo showdown».
-
Magaldi: dietro al terrore, menti massoniche e 007 traditori
«Le menti e le mani che hanno prima pianificato ed effettuato gli attentati a “Charlie Hebdo” e poi le terribili stragi di venerdì 13 novembre 2015 sono le stesse, identiche. E sono menti e mani che amano particolarmente le simbologie della tradizione esoterica e massonica occidentale… in modo impressionante», afferma Gioele Magaldi, segnalando una sinistra coincidenza storica: «Non ho ancora sentito nessuno, a livello di mainstream mediatico, ricordare che il venerdì 13 ottobre del 1307, proprio in Francia, il re Filippo il Bello ordinò l’arresto dei Templari. Da allora, quella data ha assunto una rilevanza fondamentale in determinati ambienti appunto esoterici e massonici, e persino nella produzione letteraria e filmografica». Autore del bestseller “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, Magaldi ha denunciato già nel 2014 i piani criminali della superloggia “Hathor Pentalpha”, creata dai Bush reclutando anche leader come Blair, Sarkozy ed Erdogan per una sorta di strategia della tensione (mondiale) inaugurata l’11 Settembre con l’attacco alle Torri, che diede il via alla “guerra infinita”.«I tragici fatti di Parigi, sia del 7 gennaio che dello scorso 13 novembre 2015, sono anzitutto opera di coloro che hanno creato a tavolino prima Al Qaeda e poi l’Isis», insiste Magaldi, intervistato da Lorenzo Lamperti per “Affari Italiani”. «Chi ha voluto realizzare la strage di Parigi, facendola compiere proprio un venerdì 13, ha mandato un segnale preciso di natura infra-massonica». Magaldi, già “gran maestro” della loggia Monte Sion e poi leader del Grande Oriente Democratico, si riserva di spiegare in seguito di che “segnale infra-massonico” si tratti e perché, «al lume delle notizie riservate che mi sono pervenute», dice, «sia stato scelto egualmente l’autunno per questo attentato, ma non il mese di ottobre, bensì quello di novembre». Magaldi afferma di annoverare «diversi amici fraterni onesti e scrupolosi, tra i quadri e i dirigenti dei servizi d’intelligence (di diverse nazioni) operanti in Francia e in particolare a Parigi». Gli hanno “suggerito” che «senza una falla grossa come una casa nell’operato degli stessi servizi segreti occidentali e francesi (qualche agente infedele che, evidentemente, ha “collaborato” con i terroristi, tradendo con infamia i propri doveri e la propria dignità di uomo e di servitore dello Stato), quello che è accaduto venerdì 13 novembre non sarebbe mai potuto accadere».Troppo facile, il “lavoro” dei killer: «Ma stiamo scherzando? Terroristi che arrivano indisturbati a pochi passi da dove si muove il presidente della Repubblica e che vanno a fare il più atroce attentato in un locale che avrebbe dovuto essere scientificamente guardato a vista da servizi d’intelligence e sicurezza, in quanto già attenzionato in precedenza per possibili atti di terrorismo e violenza? Senza la connivenza di apparati deviati dell’intelligence militare e civile, tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile». Puntuali, i riflessi politici dopo la strage: il procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Franco Roberti, ha detto che “dobbiamo esser pronti a cedere una parte delle nostre libertà” di comunicazione. Un Patriot Act all’italiana? «Se Franco Roberti si è espresso cosi, il Movimento Roosevelt, entità politica metapartitica da me presieduta, chiederà ufficialmente le sue dimissioni», avverte Magaldi. Dimissioni «per manifesta incompatibilità ideologica con i principi e i fondamenti di quelle istituzioni democratiche e liberali che egli, con le strutture da lui guidate, dovrebbe difendere dalle minacce del terrorismo e della malavita organizzata».Magaldi ricorda che il massone progressista Benjamin Franklin, uno dei massimi padri della nascita della prima Repubblica costituzionale e democratica al mondo, gli Stati Uniti d’America, soleva affermare: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza». E dire che la soluzione, quella vera, sarebbe a portata di mano: «Se solo si volesse (ma non si vuole, perché lo show del terrorismo hollywoodiano a cura dell’Isis fa comodo a molti), si dovrebbe procedere con un’azione militare poderosa, per via aerea ma soprattutto via terra, concertata tra tutte le maggiori potenze almeno nominalmente democratiche, preferibilmente sotto l’egida dell’Onu». Un’azione risoluta, «per spazzare via il cosiddetto Califfato dell’Isis dalla faccia della terra». Se solo si volesse, aggiunge Magaldi, in poco tempo i miliziani dell’Isis sarebbero travolti. «Solo che, per essere credibile, legittimato, giustificabile e ben accetto, al presente come per il futuro, un tale intervento militare, una volta conseguita la vittoria, dovrebbe essere seguito rapidamente e seriamente dalla costruzione di infrastrutture materiali e immateriali, culturali, istituzionali ed economiche».Se si vuole la pacificazione occorre un colossale investimento, quindi, per «trasformare quei territori martoriati medio-orientali (ora dominati dal Califfato) in società libere, democratiche, laiche, con un grande dispendio di risorse per aiutare la popolazione locale». Attenzione: «Non si tratta di fingere di “esportare la democrazia”, come volevano far credere all’opinione pubblica mondiale i farabutti massoni contro-iniziati che, tramite la superloggia sovranazionale Hathor-Pentalpha (si legga il primo volume della serie di “Massoni”, per capire di che si tratti), andarono a mettere a ferro e fuoco l’Iraq nei primi anni ‘2000 e altri territori in tempi successivi». Per Magaldi si tratta di costruirla davvero una vita democratica, libera, laica, pluralista e pacifica in quello che ora è l’habitat totalitario, integralista e ierocratico dell’Isis, ma anche nel resto del Medio Oriente. «E per farlo, occorre che i governi delle maggiori potenze democratiche mondiali collaborino con gli ambienti islamici più laici e moderati dell’area nord-africana e medio-orientale».C’è il rischio che ora, in Europa, prendano sempre più forza i populismi e gli estremismi, come Le Pen in Francia o Salvini in Italia? Falso allarme: «E’ uno spauracchio, questo della possibile avanzata dei movimenti populistici ed estremistici, agitato strumentalmente da coloro che poi, per far fronte a questa eventuale avanzata, propongono governi consociativi che, per loro natura, annullano la normale dialettica democratica tra forze politiche alternative». Governi consociativi come quello di Mario Monti, che poi favoriscono l’approvazione, quasi sempre con scarso dibattito politico-mediatico, di misure legislative contrarie all’interesse del popolo sovrano ma assai utili ad interessi privati sovranazionali e apolidi: «Si ricordi l’approvazione totalitaria e silenziata del funesto Fiscal Compact, ad opera del governo Monti, in Italia, e altri provvedimenti simili presi in tutta Europa». Magaldi non tifa certo per i populismi e gli estremismi, tanto più se di natura neo-nazionalistica, ma osserva che «i gruppi dirigenti di questi movimenti, solitamente, quando vanno al governo, si dimostrano del tutto docili e subalterni a quegli stessi poteri apolidi che di consueto si servono di maggioranze consociative e formalmente “moderate”».Magaldi punta il dito contro la regia occulta una certa massoneria internazionale, ma coi dovuti distinguo: «Non bisogna confondere il carattere cinico e apolide delle élites massoniche neoaristocratiche e reazionarie, cui mi sto riferendo, e che in alcuni loro segmenti sono responsabili dell’atroce strage di Parigi del 13 novembre scorso, dal positivo cosmopolitismo dei gruppi massonici progressisti, per i quali la patria non è la propria nazione, ma ogni luogo dove occorra combattere per la democrazia, la libertà e i valori racchiusi nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata all’Onu il 10 dicembre 1948, grazie al “matrocinio” della libera muratrice Eleanor Roosevelt». Proprio nel nome dei Roosevelt, Eleanor e il marito Franklin Delano, promotore del New Deal che resuscitò l’America dalla Grande Depressione sulla base delle ricette macro-economiche di un altro massone, il grande economista John Maynard Keynes, ha dato vita al suo movimento italiano. Missione: democratizzare la politica, sfidando l’egemonia culturale dell’élite che terremota gli Stati con “armi di distruzione di massa” come l’austerity, basata sul taglio dell’investimento pubblico per dare mano libera all’oligarchia finanziaria. Dietro all’economia c’è un vertice politico occulto, insiste Magaldi, dominato da elementi massonici di stampo neo-feudale. E’ un disegno preciso, che avanza tra macerie e vittime. E va fermato nel solo modo possibile: con la democrazia.«Le menti e le mani che hanno prima pianificato ed effettuato gli attentati a “Charlie Hebdo” e poi le terribili stragi di venerdì 13 novembre 2015 sono le stesse, identiche. E sono menti e mani che amano particolarmente le simbologie della tradizione esoterica e massonica occidentale… in modo impressionante», afferma Gioele Magaldi, segnalando una sinistra coincidenza storica: «Non ho ancora sentito nessuno, a livello di mainstream mediatico, ricordare che il venerdì 13 ottobre del 1307, proprio in Francia, il re Filippo il Bello ordinò l’arresto dei Templari. Da allora, quella data ha assunto una rilevanza fondamentale in determinati ambienti appunto esoterici e massonici, e persino nella produzione letteraria e filmografica». Autore del bestseller “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, Magaldi ha denunciato già nel 2014 i piani criminali della superloggia “Hathor Pentalpha”, creata dai Bush reclutando anche leader come Blair, Sarkozy ed Erdogan per una sorta di strategia della tensione (mondiale) inaugurata l’11 Settembre con l’attacco alle Torri, che diede il via alla “guerra infinita”.
-
Il massacro di Parigi e le rivelazioni-choc di Gioele Magaldi
Poi non dite che non vi avevano avvisato. Anche la nuova strage di Parigi era annunciata, e non solo dai proclami bellicosi dell’Isis. Da almeno un anno, nelle librerie italiane (non sui giornali che avrebbero dovuto recensirlo) fa bella mostra di sé lo sconvolgente libro “Massoni”, di Gioele Magaldi, edito da Chiarelettere. Un saggio deliberamente ignorato dal mainstream, che presenta contenuti scomodi e addirittura devastanti, al punto da costringere a rileggere la storia del ‘900. Alla storiografia ufficiale – l’intreccio di dinamiche socio-economiche di massa – il libro aggiunge l’influenza di una regia occulta. E’ il “convitato di pietra”, il vertice massonico mondiale, spesso evocato ma mai prima “presentato”, con nomi e cognomi. Una struttura di potere marcatamente progressista fino ai primi decenni del dopoguerra, e poi – col doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King – rovinosamente degenerata in una parabola reazionaria, neo-feudale, neo-aristocratica. Dallo storico patto “United Freemasons for Globalization”, la nuova élite ha avuto mano libera fino al Pnac, il piano dei neo-con per il “nuovo secolo americano” su cui costruire il “nuovo ordine mondiale”, quindi l’11 Settembre e la “guerra infinita” (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria) che è sotto i nostri occhi, compreso l’ultimo spaventoso massacro di Parigi. E resta sempre nell’ombra uno dei soggetti-chiave degli ultimi sanguinosi sviluppi: si chiama “Hathor Pentalpha” ed è una delle 36 superlogge internazionali dell’oligarchia mondiale.“Hathor” è l’altro nome della dea egizia Iside, e non è un caso – per Magaldi – che si chiami proprio Isis l’armata di tagliagole del “califfo” Al-Baghdadi, terroristi e miliziani sostenuti da Turchia e Arabia Saudita, appoggiati da settori dell’intelligence Usa e impiegati in diversi teatri, sempre con la medesima missione: destabilizzare gli assetti statali, generare terrore e caos, ingaggiare l’Occidente in una sorta di Terza Guerra Mondiale che ha come obiettivo strategico il depotenziamento della Cina, vero competitor mondiale dell’egemonia del dollaro, e il suo alleato più potente, l’indocile Russia di Putin. Analisi sviluppate in questi anni da decine di osservatori internazionali, ma solo da Magaldi integrate anche con le lenti dell’élite massonica planetaria. Già “gran maestro” della loggia Monte Sion aderente al Grande Oriente d’Italia, Magaldi rivendica orgogliosamente la sua appartenza libero-muratoria e, nel libro, insiste sulla paternità massonica della modernità: «Lo Stato laico, la democrazia e il suffragio universale non li ha portati la cicogna». Rivoluzione Francese, Rivoluzione Americana. Persino la Rivoluzione d’Ottobre: «Prima di far nascere l’Urss, Lenin fondò a Ginevra la superloggia Joseph De Maistre». Inutile stupirsi più di tanto: «E’ comprensibile che il soggetto storico che ha introdotto la modernità poi cerchi anche di pilotarla a suo piacimento».Nei libri di storia, però, di massoneria si accenna, al massimo, tra le pagine dedicate al Risorgimento italiano – essendo massoni Mazzini, Garibaldi e Cavour, anch’essi appartenenti a una corrente impegnata in una lotta secolare contro l’assolutismo monarchico e l’oscurantismo vaticano. Fuoriuscito dal Grande Oriente d’Italia per fondare una sua associazione, il Grande Oriente Democratico, Magaldi è stato affiliato anche a una storica Ur-Lodge progressista anglosassone, la “Thomas Paine”. E ora ha fondato un organismo politico-culturale, il Movimento Roosevelt, che si richiama al lascito dei Roosevelt, entrambi massoni progressisti: il presidente Franklin Delano, fautore del New Deal, e sua moglie Eleanor, promotrice all’Onu della Dichirazione universale dei diritti dell’uomo. Un orizzonte liberal-socialista, nutrito di idee keynesiane, quelle che ispirarono lo storico piano elaborato da George Marshall per far risorgere l’Europa dalle macerie del dopoguerra. Tradotto oggi: fine dell’austerity disposta dall’Ue ed estensione della spesa pubblica espansiva, verso la piena occupazione. Anche qui: si parla spessissimo di Keynes e del Piano Marshall, evitando però di ricordare che l’insigne economista inglese e il famoso generale erano entrambi massoni progressisti. Magaldi rivela che il loro ultimo “discendente”, il celebre sociologo Arthur Schlesinger Jr., elemento di punta della super-massoneria progressista anglosassone, è l’uomo a cui l’Italia deve il fallimento dei tentativi di colpi di Stato rapidamente succedutisi, promossi da elementi della super-massoneria reazionaria.«L’Italia è sempre stato un paese-laboratorio, un campo di battaglia decisivo dove attuare esperimenti democratici oppure autoritari», spiega Magaldi: «Non a caso, in Portogallo la Rivoluzione dei Garofani del 1974 venne fatta scoccare il 25 aprile, anniversario della Liberazione italiana, per rispondere al golpe dei colonnelli in Grecia». Come sempre, anche oggi l’Italia è nel mirino: nel 2011 è stata investita in pieno dalla potenza di fuoco dell’élite tecnocratica europea, dopo la lettera della Bce con cui la Troika disarcionò Berlusconi, firmata da Jean-Claude Trichet e dal “fratello” Mario Draghi, cui rispose il “fratello” Napolitano insediando a Palazzo Chigi il “fratello” Mario Monti. Le informazioni contenute nel suo libro, assicura Magaldi, sono tutte documentate in 5.000 pagine di archivio, che l’autore si è sempre dichiarato pronto a esibire in caso di contestazioni. Ma non ce n’è stato bisogno: “Massoni, la scoperta delle Ur-Lodges” è stato accolto nel modo più comodo, cioè con la congiura del silenzio da parte di tutti, nel mainstream politico-editoriale. Troppe rivelazioni scomode, per troppi personaggi ancora al potere, da Draghi in giù.Silenzio anche dagli storici, presi in contropiede dalla sconcertante rilettura magaldiana del ‘900: il massone Pinochet contro il massone Allende in Cile, il sostegno della massoneria progressista a John Kennedy, lo “scudo massonico” organizzato per tentare di proteggere Bob Kennedy e Martin Luther King, dalle cui uccisioni scaturì una drammatica rottura. Dagli anni ‘70 si affermò l’ala destra, incarnata da leader come Kissinger e Brzezinski, destinati a mettere all’angolo i leader della corrente progressista. Segreti, misteri e contorsioni anche inattese: l’attentato a Reagan promosso dai sostenitori occulti di Bush e l’attentato (speculare e simmetrico) a Papa Wojtyla, orchestrato dall’élite massonica che aveva sostenuto Reagan. La stessa oligarchia del regime di Bruxelles è interamente massonica, sostiene Magaldi, e appartiene alla corrente neo-conservatrice. Per questo oggi siamo arrivati alla recessione strutturale, alla disoccupazione-record, alla depressione storica di un paese come l’Italia. Loro, i neo-aristocratici, hanno colonizzato il pianeta (e l’Europa) col pensiero unico neoliberista: lo Stato deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, rassegati a ridiventare sudditi. Per Magaldi non è solo un attentato alla democrazia, è anche il tradimento della più autentica vocazione massonica.Nel suo saggio, Magaldi rilegge gli eventi epocali che hanno determinato la situazione di oggi, a partire da libri-evento come “La crisi della democrazia” promosso dalla Commissione Trilaterale sempre con lo stesso obiettivo: collocare i propri uomini (Thatcher, Reagan, Kohl, Mitterrand) alla guida dei paesi-chiave, per occupare lo Stato e asservirlo ai diktat delle grandi lobby multinazionali.Nulla di tutto ciò è avvenuto per caso, avverte Magaldi, che nell’esplosiva appendice del suo lavoro editoriale fa dire al massone oligarchico “Frater Kronos” che qualcosa è andato storto, qualcuno è andato oltre il perimetro concordato. Un nome su tutti: quello del “fratello” George Bush senior, che sarebbe “impazzito di rabbia” dopo la bruciante sconfitta inflittagli nel 1980 dai sostenitori di Reagan. Da allora, ancor prima di diventare a sua volta presidente, Bush avrebbe dato vita alla «inquietante, pericolosa e sanguinaria» superloggia denominata “Hathor Pentalpha”, che avrebbe reclutato il gotha neocon del Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, da Cheney a Rumsfeld, nonché fondamentali alleati europei, da Blair a Sarkozy, incluso il turco Erdogan. Missione del clan: destabilizzare il pianeta, anche col terrorismo, a partire dall’11 Settembre.Per questa missione, si legge sempre nel libro di Magaldi, è stato riciclato il “fratello” Osama Bin Laden, arruolato dallo stesso Brzezinski ai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan. Risultato, dopo l’attentato alle Torri: una serie di guerre, in sequenza, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, anche dietro il paravento della “primavera araba”. Ultimo bersaglio, la Russia di Putin. Ma la “geopolitica del caos” si avvale sempre di più della più grottesca creatura dell’intelligence, il fondamentalismo islamico: nel lontano 2009, i militari americani del centro iracheno di detenzione di Camp Bucca si videro recapitare l’ordine di rilascio dell’allora oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, l’attuale “califfo” dell’Isis. Oggi, Al-Baghdadi è l’uomo che minaccia l’Europa e fa strage di innocenti a Parigi, e c’è chi se ne stupisce: politici e giornalisti esibiscono sconcerto e raccapriccio, come se brancolassero nel buio. Eppure, tra le pagine di “Massoni”, era tutto in qualche modo già scritto. Ma non c’è pericolo che le analisi di Magaldi emergano al punto da affacciarsi in prima serata sul mainstrem televisivo, e neppure sulle pagine sempre reticenti della grande stampa.(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Poi non dite che non vi avevano avvisato. Anche la nuova strage di Parigi era annunciata, e non solo dai proclami bellicosi dell’Isis. Da almeno un anno, nelle librerie italiane (non sui giornali che avrebbero dovuto recensirlo) fa bella mostra di sé lo sconvolgente libro “Massoni”, di Gioele Magaldi, edito da Chiarelettere. Un saggio deliberamente ignorato dal mainstream, che presenta contenuti scomodi e addirittura devastanti, al punto da costringere a rileggere la storia del ‘900. Alla storiografia ufficiale – l’intreccio di dinamiche socio-economiche di massa – il libro aggiunge l’influenza di una regia occulta. E’ il “convitato di pietra”, il vertice massonico mondiale, spesso evocato ma mai prima “presentato”, con nomi e cognomi. Una struttura di potere marcatamente progressista fino ai primi decenni del dopoguerra, e poi – col doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King – rovinosamente degenerata in una parabola reazionaria, neo-feudale, neo-aristocratica. Dallo storico patto “United Freemasons for Globalization”, la nuova élite ha avuto mano libera fino al Pnac, il piano dei neo-con per il “nuovo secolo americano” su cui costruire il “nuovo ordine mondiale”, quindi l’11 Settembre e la “guerra infinita” (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria) che è sotto i nostri occhi, compreso l’ultimo spaventoso massacro di Parigi. E resta sempre nell’ombra uno dei soggetti-chiave degli ultimi sanguinosi sviluppi: si chiama “Hathor Pentalpha” ed è una delle 36 superlogge internazionali dell’oligarchia mondiale.
-
Gender a scuola, i bambini e l’orco. Ma la famiglia dov’è?
Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omcidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo.Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar».Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo».Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla».L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile».La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso?Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini».Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)».Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attezione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto».Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio.«Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”.Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare».E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia».Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».
-
Questa sinistra che obbedisce agli atroci macellai tedeschi
«Abbiamo guardato increduli a come un partito socialista dopo l’altro si sia immolato sull’altare dell’unione monetaria, per difendere un progetto che favorisce quelle élites economiche che la sinistra storica chiamava “un branco di banchieri”». Ambrose Evans-Pritchard, notista economico del “Telegraph”, spiega che ormai il velo è caduto, perché la Grecia ha rotto l’incantesimo: «La sinistra è diventata il gendarme delle politiche reazionarie e della disoccupazione di massa generate dall’euro». Se l’Europa non è nient’altro che la “versione cattiva” del Fmi, «che cosa resta del progetto d’integrazione europea? I tedeschi, peraltro, volevano solo la “sottomissione rituale” della Grecia». Punizione a cui, peraltro, la sinistra non si è sottratta: ancora una volta, i leader socialdemocratici sono stati sorpresi a «difendere un regime pro-ciclico di tagli di bilancio, imposto all’Eurozona da un manipolo di reazionari “ordoliberisti”, come ad esempio il ministro delle finanze tedesco».Se la Germania è «una guida disastrosa per l’Europa», come afferma l’economista Philippe Legrain, già redattore di “Foreign Policy”, «per uno strano scherzo del destino, la sinistra ha lasciato che essa stessa diventasse il gendarme di una struttura economica che ha portato a livelli di disoccupazione una volta impensabili per un governo social-democratico, dotato di una propria moneta e di tutti gli strumenti sovrani». La sinistra europea, continua Evans-Pritchard, «ha trovato il modo per giustificare un tasso di disoccupazione giovanile che, nonostante l’emigrazione di massa, è ancora al 42% in Italia, al 49% in Spagna e al 50% in Grecia, e ha accettato la “Lunga Depressione” degli ultimi sei anni, più profonda di quella del 1929-1935. Ha infine docilmente approvato il “Fiscal Compact” dell’Ue, sapendo che esso obbliga i paesi dell’Eurozona a ridurre drasticamente il loro debito pubblico, ogni anno, del 1,5% del Pil in Francia, del 2% in Spagna e del 3,5% in Italia ed in Portogallo, per i prossimi due decenni. Una formula per la depressione permanente, che vieta qualsiasi politica economica di tipo keynesiano», violando anche «i principi dell’economia classica».Questo, continua Evans-Pritchard, «è ciò che la sinistra prima ha concordato e poi difeso, seppur a malincuore, perché non ha osato mettere in discussione, almeno fino ad ora, la sacralità dell’unione monetaria». E così, quello che una volta era il potente “Partito Laburista Olandese”, è ormai ridotto ad una specie di pietosa reliquia del passato. Anche il Pasok è stato letteralmente cancellato, in Grecia, mentre il “Partito Socialista Spagnolo” ha perso la sua ala sinistra in favore del movimento ribelle “Podemos”, da poco vittorioso a Barcellona. Il leader socialista francese François Hollande, infine, raggiunge a stento, nei sondaggi, il 24%, dopo che la classe operaia francese si è spostata in direzione del “Front National”. Owen Jones, sul “Guardian”, scrive giustamente che «i progressisti dovrebbero essere sconvolti dalla rovina della Grecia per mano dell’Unione Europea. E’ giunto il momento di appoggiare la causa degli euroscettici».Gli esponenti della sinistra sono a disagio, continua Jones: «Il loro istinto è quello di contrastare tutto ciò che l’Ukip rappresenta», ma ora «la crudeltà mostrata sia da Bruxelles che da Berlino ha surclassato tutto il resto». Per George Monbiot, «il “tutto va bene” (con l’Ue) è in ritirata, mentre il “tutto va male” avanza come una furia». E un’altra giornalista britannica, Suzanne Moore, si domanda: «Come può la sinistra aver dato il proprio supporto a tutto quello che è stato fatto?». Conclude amaramente il collega Nick Cohen: «L’Unione Europea viene dipinta, non senza fondamento, come un’istituzione crudele, fanatica e stupida». Dibattiti di questo tenore stanno prendendo piede in tutta Europa, conferma Evans-Pritchard, citando l’economista Luigi Zingales, consigliere di Renzi, convertitosi all’euroscetticismo. Il giorno in cui la Grecia ha capitolato ha scritto: «Questo progetto europeo è morto per sempre. Se l’Europa è nient’altro che la versione cattiva del Fmi, che cosa resta del progetto d’integrazione europea?».In Grecia, “Syriza” è stata «semplicemente costretta ad abbandonare le sue promesse elettorali, per mezzo della coercizione finanziaria», scrive Evans-Pritchard. La colpa? «Una responsabilità collettiva dei creditori, delle élites dell’Unione Monetaria, dell’oligarchia greca e infine di un immaturo Alexis Tsipras». Il bail-out (salvataggio esterno) effettuato dalla Troika nel 2010 «aveva lo scopo di salvare l’euro e le banche europee (visto che non c’erano difese contro il contagio), non quello di salvare la Grecia che, al contrario, è stata deliberatamente sacrificata». In più, i paesi creditori (Germania in primis) «non hanno mai riconosciuto la propria colpevolezza», inoltre «non hanno mai tentato di negoziare onestamente con Syriza». Si sono limitati a chidere che i termini del memorandum 2010 fossero applicati alla lettera, «indipendentemente dal fatto che avessero o meno un senso economico», e lo hanno fatto in modo feroce e ipocrita, «nascondendosi dietro a farisaici discorsi sulle regole». Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle finanze, ha ripetuto che i creditori volevano una vera e propria “sottomissione rituale”, «ed è così che gli eventi sono decisamente sembrati ad un gran numero di persone in tutt’Europa».I paesi creditori hanno quindi forzato la situazione «attraverso l’infame trattativa» cui è stato sottoposto Tsipras, «senza peraltro offrire alcuna chiara riduzione del debito, anche se già sapevano che il Fmi riteneva che la Grecia avesse bisogno sia di una moratoria di 30 anni sulle scadenze del debito». La durezza dell’Ue a gida tedesca allarma Simon Tilford, del “Centre for European Reform”: «Quello che trovo preoccupante è che sono così pochi i politici tedeschi che sembrano turbati dallo spettacolo di una Grecia umiliata fino a questo punto. I tedeschi hanno sviluppato un racconto di fantasia riguardo la crisi. Hanno trasformato il paesaggio intorno a loro e pensano che siano essi ad essere le vittime». Secondo Tilford, è devastante l’assenza politica della sinistra: in Italia, Spagna e Francia, la sinistra è da anni aggrappata all’illusione che la Germania avrebbe infine accettato di alleviare l’austerità e di cambiare l’unione monetaria. «Questo pensiero è stato totalmente screditato dagli eventi dello scorso fine settimana. Tutti possono vedere, in effetti, a quali brutali livelli si trovi la disoccupazione. Se le regole dell’Eurozona non possono essere rispettate, prima si va in quarantena e poi si viene buttati fuori».Non dimentichiamo, aggiunge Evans-Pritchard, che la Bce di Mario Draghi «ha portato la Grecia fin quasi al crollo finale, conseguenza del congelamento della liquidità d’emergenza (Ela) per le banche greche, costringendo Syriza a chiudere le porte ai creditori, ad imporre controlli sui capitali e infine a fermare le importazioni». Tutto questo, aggiunge Pritchard, «viola i principi dell’”Unione Bancaria Europea”, che dovrebbero separare i destini delle banche private dai travagli degli Stati sovrani. E’ stata una decisione politica, probabilmente illegale, condita da una forte aggressività tecnica. E’ in ogni caso molto difficile da conciliare con il dovere della Bce, che è quello di sostenere la stabilità finanziaria». In realtà, «sappiamo tutti cosa c’era in gioco». Ovvero: «La Germania e i suoi alleati erano determinati a fare di Syriza un esempio, per scoraggiare gli elettori di qualsiasi altro paese a voler invertire il sistema». Evans-Pritchard pensa che, alla fine, gli oligarchi perderanno il braccio di ferro: i paesi europei riusciranno a ribellarsi. In Spagna, “Podemos” ha accusato le istituzioni dell’Ue e il governo spagnolo di aver commesso un “atto di terrorismo”, in violazione del codice penale spagnolo.Per Costas Lapavitsas, deputato di Syriza, il messaggio saliente degli ultimi cinque mesi è che nessun governo radicale può perseguire delle politiche sovrane, fintanto che è in balia di una banca centrale in grado di tagliare in qualsiasi momento la liquidità: «Adesso è perfettamente chiaro che l’unica via d’uscita è quella di liberarsi dell’unione monetaria». Kevin O’Rourke, economista di Oxford, prevede che il prossimo partito di sinistra che andrà a sfidare l’unione monetaria «non sarà irresponsabile come Syriza, e non contratterà più da una posizione di tale abietta debolezza». La lezione che può essere tratta da questa débacle? Semplice: «Negoziare con la Germania è una perdita di tempo. Ma, se si vuol farlo, si deve essere disposti ad agire con decisione e unilateralmente; si deve disporre di un piano per il raggiungimento di un avanzo primario (se non è già stato raggiunto); si devono avere in tasca le opzioni sia per un duro default unilaterale che per la fuoriuscita dall’euro, ed essere disposti ad usarle al primo segno di fastidio da parte della Bce».Quanto alla trucida Germania, che altro dire? «E’ davvero di così cattivo gusto ricordare che le “Potenze Alleate” decisero di spazzar via la metà delle passività esterne della Germania, nell’ambito dell’accordo sul debito raggiunto a Londra nel febbraio del 1953?». Quell’atto di saggezza politica arrivò a meno di otto anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’occupazione nazista della Grecia, quando le immagini degli orrori erano ancora fresche nella mente di tutti. «La riduzione del debito ha avuto un certo costo per la Gran Bretagna, che era il più grande creditore nel periodo precedente la guerra», spiega Evans-Pritchard. «La riduzione fu convenuta nel rispetto dell’interesse collettivo e della scienza economica, e fu volutamente inquadrata nell’ambito di una “trattativa tra eguali”, per sgomberare la nebbia costituita dai giudizi morali. Il risultato fu il Wirtschaftswunder (miracolo economico) tedesco e gli anni di gloria della ricostruzione post-guerra». Quindi, «qualunque cosa si possa pensare del comportamento della Grecia – che non ha fatto del male a nessuno – non possiamo usare giusto un minimo di buon senso?».«Abbiamo guardato increduli a come un partito socialista dopo l’altro si sia immolato sull’altare dell’unione monetaria, per difendere un progetto che favorisce quelle élites economiche che la sinistra storica chiamava “un branco di banchieri”». Ambrose Evans-Pritchard, notista economico del “Telegraph”, spiega che ormai il velo è caduto, perché la Grecia ha rotto l’incantesimo: «La sinistra è diventata il gendarme delle politiche reazionarie e della disoccupazione di massa generate dall’euro». Se l’Europa non è nient’altro che la “versione cattiva” del Fmi, «che cosa resta del progetto d’integrazione europea? I tedeschi, peraltro, volevano solo la “sottomissione rituale” della Grecia». Punizione a cui, peraltro, la sinistra non si è sottratta: ancora una volta, i leader socialdemocratici sono stati sorpresi a «difendere un regime pro-ciclico di tagli di bilancio, imposto all’Eurozona da un manipolo di reazionari “ordoliberisti”, come ad esempio il ministro delle finanze tedesco».
-
Mosler: salvi col deficit all’8%, ma Berlino vi vuole morti
Le nostre idee sono arrivate a Obama, quando sono stato candidato al Senato in Connecticut, nel 2010, proponendo una riduzione o un’eliminazione del cuneo fiscale. Del resto, la tassazione sulla busta paga è l’imposta più regressiva che abbiamo negli Usa e l’argomento è quindi efficace. Scrissi alcuni articoli e feci alcune apparizioni televisive, e Jamie Galbraith, consigliere di Obama, cominciò a riprendere i nostri contenuti pubblicamente. L’idea suscitò anche l’interesse dell’amministratore delegato della General Electric, Jeffrey Immelt, e poi quello di Troy Nash, un altro degli assistenti di Obama. E così il taglio del cuneo fiscale è diventato legge. Si tratta di un taglio minimo, del 2%, ma importante, anche perché è uno dei pochi provvedimenti bipartisan. Questa misura ha contribuito ad alimentare la crescita negli Stati Uniti, che ha subìto poi un sostanziale rallentamento nel momento in cui il governo ha voluto iniziare a ridurre il deficit pubblico.Nell’area Euro i trattati rendono difficili, se non impossibili gli investimenti e l’ampliamento del welfare. Manca la volontà politica. Ed è un peccato, perché basterebbe decidere di aumentare il vincolo di rapporto col Pil dal 3 per cento all’8. Senza altre variazioni nella struttura delle istituzioni Ue, la disoccupazione diminuirebbe e la crescita potrebbe arrivare anche al 4%. Non è una strada che piace alla Germania, però. La Germania ha un problema del tutto ideologico, persino filosofico. Gli intellettuali progressisti hanno a lungo visto nell’Unione Europea una via maestra per il rifiuto delle politiche regressive di stampo nazionalista. Sfortunatamente chi governa oggi questa istituzione ha sviluppato un’agenda economica fortemente regressiva, di destra. Uscirne tuttavia significa esporsi, appunto, ad un alto rischio di crescita del nazionalismo. La sfida è capire quale fra tutte le possibili strade sia meno “di destra” rispetto alle altre.Restando nell’Eurozona, se vi fosse la volontà politica di fare qualunque cosa di diverso rispetto alle politiche attuali, allora bisognerebbe puntare ad incrementare il deficit. Le istituzioni europee credono che agire sui tassi di interesse migliori l’economia e che le riforme strutturali consentano di aumentare l’occupazione. Non è così. L’euro a due velocità? Ancora una volta, credo manchi la volontà. I politici sono stati trasformati in esattori delle tasse: non hanno nessuna prospettiva economica. E in Italia non hanno nessun interesse, al governo sono totalmente passivi. Qualcuno mi ha chiesto quale politica economica abbia in mente Renzi: ho risposto che non ne ha una! E come lui, però, nessuno, in Europa. Manca la logica. Ad esempio: mettiamo che voi crediate realmente che in Grecia siano tutti pigri e nessuno abbia voglia di lavorare. Anche se voleste punirli, che senso ha creare politiche in cui gli stessi greci sono messi nelle condizioni di non poter più lavorare?Credo che il tasso di cambio dell’euro si rafforzerà molto e la Germania vedrà le esportazioni nette deteriorarsi. Non c’è nulla che siano in grado di fare. Sono impotenti. Sarà una distruzione della società fondata sulla deflazione e l’apprezzamento della valuta. Nei sei mesi scorsi l’euro è sceso temporaneamente, perché le banche centrali mondiali hanno reagito al Quantitative Easing e hanno iniziato a vendere grandi quantità di euro; questo processo però terminerà. Ora che l’euro tornerà a crescere, cosa faranno? Non gli resta nulla.(Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a “Left” per l’intervista “In Germania un problema ideologico, persino filosofico”, pubblicata il 23 maggio 2015 e ripresa dal blog “Vox Populi”)Le nostre idee sono arrivate a Obama, quando sono stato candidato al Senato in Connecticut, nel 2010, proponendo una riduzione o un’eliminazione del cuneo fiscale. Del resto, la tassazione sulla busta paga è l’imposta più regressiva che abbiamo negli Usa e l’argomento è quindi efficace. Scrissi alcuni articoli e feci alcune apparizioni televisive, e Jamie Galbraith, consigliere di Obama, cominciò a riprendere i nostri contenuti pubblicamente. L’idea suscitò anche l’interesse dell’amministratore delegato della General Electric, Jeffrey Immelt, e poi quello di Troy Nash, un altro degli assistenti di Obama. E così il taglio del cuneo fiscale è diventato legge. Si tratta di un taglio minimo, del 2%, ma importante, anche perché è uno dei pochi provvedimenti bipartisan. Questa misura ha contribuito ad alimentare la crescita negli Stati Uniti, che ha subìto poi un sostanziale rallentamento nel momento in cui il governo ha voluto iniziare a ridurre il deficit pubblico.
-
Internazionale democratica, contro il tecno-nazismo dell’Ue
«I nazisti tecnocratici Mario Draghi e Wolfang Schaeuble, con relativo codazzo di servi, politicanti e giornalisti, hanno i giorni contati: l’Europa intera è scossa da un fremito di ribellione che, dalla Spagna alla Polonia, dalla Finlandia alla Grecia, appare oramai inarrestabile». A poco servono le menzogne reiterate, veicolate da un circuito informativo grottesco e screditato, scrive Francesco Maria Toscano: i cittadini hanno deciso di dire basta. «Ricordate i tanti articoli dei soliti giornalai italiani che spiegavano al popolino come l’Italia dovesse imitare il modello spagnolo, terra felice che aveva trovato la via della salvezza a furia di privazioni e sacrifici? Tutte balle. Il sistema politico spagnolo, come ampiamente dimostrato dai risultati elettorali, è letteralmente deflagrato». Il vecchio bipartitismo “popolari contro socialisti” non esiste più, consentendo ad un movimento autenticamente progressista come “Podemos” di divenire in pochissimo tempo il vero dominus della politica iberica. «Alla faccia dei tanti venduti con la penna che continuano a raccontare a pagamento una realtà fantasiosa».La democrazia, aggiunge Toscano sul blog “Il Moralista”, «rigetta l’impianto oligarchico che caratterizza questo mostro di Ue, divenuto oramai dovunque utile bersaglio per coagulare consenso». La slavina non si ferma più, «con buona pace del gotha massonico/nazista assiepato sulle posizioni del Maestro Venerabile della Ur-Lodge “Der Ring”, Wolfang Schaeuble». Non è bastato affidare il comando di un partito di sedicente sinistra come il Psoe spagnolo ad un giovanotto caruccio come Pedro Sanchez per evitare una sonora sconfitta. «Lo stesso destino toccherà a breve anche ai socialisti francesi, pronti ad estinguersi a causa dell’insipienza dei vari Hollande e Valls». Per non parlare del Pd renziano, tramortito dalle regionali dopo un anno di marcia trionfale sull’onda delle europee. «Provare ad occultare i disastri macroeconomici provocati dalle politiche del rigore ricorrendo al giovanilismo di maniera o alla demagogia antisprechi e anticasta è oramai inutile», insiste Toscano, collaboratore di Gioele Magaldi, con cui ha fondato il “Movimento Roosevelt” per contrastare il piano austeritario dell’oligarchia neo-feudale europea.«I cittadini non ci cascano più», aggiunge Toscano. «Tutti hanno capito che, per ripartire, l’Europa deve cambiare radicalmente: la dittatura finanziaria instaurata dalla Bce di Mario Draghi non è più sopportabile e va abbattuta». Certo, «il nazismo tecnocratico non si ritirerà però senza combattere». Così, per realizzare «un nuovo e più compiuto equilibrio in Europa e nel mondo», in grado di garantire una pace sociale duratura, «è indispensabile costruire fin da subito un movimento di Resistenza internazionale cementato dagli ideali illuministici di libertà, uguaglianza e fratellanza». Nel 1792, ricorda Toscano, il Parlamento francese approvò una legge che imponeva il riconoscimento di un sostegno a tutti i popoli della Terra che avessero desiderato liberarsi dall’oppressione esercitata dalle vecchie aristocrazie parassitarie per raggiungere la sospirata libertà. «Mentre i nazisti tecnocratici, coordinati dal Sacro Romano Imperatore Mario Draghi, possono effettivamente contare sul sostegno di una filiera di potere diffusa e cosmopolita, lo stesso non può dirsi per le diverse forze impegnate nell’attuale Resistenza».Per il segretario del “Movimento Roosevelt”, è dunque arrivato il tempo di riannodare i fili di una solidarietà internazionale «che impedisca ai padroni del vapore di derubricare a “vicenda domestica” casi importanti e paradigmatici come quello greco». Il movimento fondato con Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che svela il peso dei circoli massonici occulti internazionali, intende ora porsi sullo scenario globale «come una autentica avanguardia, mastice per la definitiva realizzazione di una struttura di contrasto, pacifica e democratica, pronta ad intervenire come un sol uomo a sostegno delle diverse popolazioni di volta in volta umiliate e colpite dai referenti del nazismo tecnocratico che porta oggi il volto della Troika». Una “Internazionale” nuova di zecca, «depurata da tentazioni totalitarie di marca comunista», coerente nel prospettare un nuovo modello di società «in grado di far coesistere democrazia e benessere diffuso, giustizia sociale e libertà d’impresa, mobilità e piena occupazione». Senza questa nuova “Internazionale” democratica, a parte “Syriza” e “Podemos”, «trionferanno in prospettiva i movimenti di stampo nazionalista, ringalluzziti dalla vittoria di Duda in Polonia». Nuova alleanza, dunque, perché «la dittatura finanziaria di Draghi e Schaeuble è già morta», ma resta ancora da capire «quanto lunga sarà la già iniziata agonia».«I nazisti tecnocratici Mario Draghi e Wolfang Schaeuble, con relativo codazzo di servi, politicanti e giornalisti, hanno i giorni contati: l’Europa intera è scossa da un fremito di ribellione che, dalla Spagna alla Polonia, dalla Finlandia alla Grecia, appare oramai inarrestabile». A poco servono le menzogne reiterate, veicolate da un circuito informativo grottesco e screditato, scrive Francesco Maria Toscano: i cittadini hanno deciso di dire basta. «Ricordate i tanti articoli dei soliti giornalai italiani che spiegavano al popolino come l’Italia dovesse imitare il modello spagnolo, terra felice che aveva trovato la via della salvezza a furia di privazioni e sacrifici? Tutte balle. Il sistema politico spagnolo, come ampiamente dimostrato dai risultati elettorali, è letteralmente deflagrato». Il vecchio bipartitismo “popolari contro socialisti” non esiste più, consentendo ad un movimento autenticamente progressista come “Podemos” di divenire in pochissimo tempo il vero dominus della politica iberica. «Alla faccia dei tanti venduti con la penna che continuano a raccontare a pagamento una realtà fantasiosa».