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Usa, elezioni e soldi: chi si compra il futuro presidente
Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?In un’analisi pubblicata da “The AntiMedia” e tradotta da “Come Don Chisciotte”, Anderson denuncia la pratica dilagante del ricorso ai “Super-Pac”, i nuovissimi “comitati di azione politica” costituiti da singoli, aziende e cartelli, con capacità di spesa praticamente illimitata e assolutamente non-trasparente: il candidato non è tenuto a tracciare pubblicamente il denaro ricevuto. «Inutile dire che si tratta di un’elezione in cui la maggior parte dei candidati sono alla ricerca di sostegno da parte dei donatori ricchi invece che dai cittadini che sarebbero chiamati a rappresentare», scrive Anderson. «Ci si sorprenderà nello scoprire chi è stato a donare soldi per il vostro candidato, e come tale contributo possa influenzare le posizioni politiche future». Guida la classifica Jeb Bush, che i sondaggi danno in calo perché “troppo moderato” per gli elettori repubblicani. L’ultimo rampollo della famigerata dinastia presidenziale super-guerrafondaia ha incassato 161 milioni di dollari dalla Golman Sachs, 65 da Neuberger Berman Llc, quasi 44 da Bank of America, 41,5 da Citigroup e quasi 40 da Tenet Healthcare.Secondo i reporter investigativi della Florida, per sostenere Jeb Bush si stanno attivando «signori texani del petrolio, banchieri d’investimento di New York, titolari di aziende sanitarie di Miami e perfino tre ex ambasciatori – due dei quali hanno servito sotto il fratello, l’ex presidente George W. Bush». Totale, 25 contributi da 1 milione di dollari ciascuno. Tre milioni invece sono arrivati da Mike Fernandez, miliardario cubano-americano fondatore di Coral Gables Mbf Healthcare Partners. Poi c’è Hushang Ansary, ambasciatore iraniano negli Stati Uniti dal 1967 al 1969, quindi Richard Kinder, boss della società di oleodotti e gasdotti Kinder Morgan. E Alfred Hoffman, ambasciatore statunitense in Portogallo dal 2005 al 2007, fondatore in Florida della società immobiliare Wci Community. Quindi NextEra Energy, società madre della Florida Power & Light, che fornisce il servizio elettrico a quasi la metà dello Stato. E Julian Robertson Jr., di New York, manager di fondi d’investimento (patrimonio personale di 3,4 miliardi, «ha fatto la sua fortuna investendo in campi da golf e vigneti in Nuova Zelanda»).A parte il corposo sostegno a Jeb, Wall Street pare schierata massicciamente dalla parte di Hillary, finora sempre sostenuta da Citigroup, Goldman Sachs, Dla Piper, Jp Morgan e Morgan Stanley. «Molti dicono che tali alleanze irrevocabilmente la incatenino a suddette istituzioni, rendendola incapace di regnare sopra la corruzione finanziaria di Wall Street», scrive Anderson. Tra gli attuali finanziatori figurano anche Morgan & Morgan, Sullivan & Cromwell, Akin, Gump, Yale University, Latham & Watkins. «E’ anche importante sottolineare che lo studio legale lobbista Akin, Gump, Strauss, Hauer & Feld, che impiega molti dipendenti di Hillary, ha preso le donazioni da due dei più grandi imprenditori delle carceri private, Corrections Corporation of America e Geo Group, con tasse incluse, per un totale di quasi 300.000 dollari». Si chiama “Priority Usa Action” il nuovissimo “Super-Pac” creato per sostenere la Clinton: 25 milioni di dollari in soli tre mesi. I più importanti super-donatori Pac sono George Soros e Steven Spielberg, ma la lista comprende 31 singoli donatori che hanno contribuito più di 200.000 dollari ciascuno. I progressisti contestano alla Clinton il ricorso ai miliardari, ma i sostenitori replicano che non c’è altra strada. Di recente, Hillary ha fatto notizia «abbracciando una tattica per rivelare pubblicamente – cosa che la nuova legge non richiede – i grandi donatori aziendali».Il terzo incomodo, Donald Trump, fa gara a sé: ha ribadito che sarà l’unico finanziatore della sua campagna elettorale e non accetterà donazioni. Secondo “Forbes”, il suo patrimonio ammonta a 4,5 miliardi. Trump assicura che si priverà di 100 milioni per auto-finanziarsi la campagna. Dovrà vedersela innanzitutto col super-finanziato Jeb Bush e gli altri due grandi sfidanti delle primarie, Marco Rubio e Ted Cruz, i cui cognomi ammiccano direttamente all’elettorato “latino”. Sostenuto dai “cubani”, Rubio ha finora raccolto quasi 32 milioni di dollari. Deve ringraziare Goldman Sachs, Steward Health Care, Titan Farms, Florida Cristalli e Oracle. Tra i supporter anche il miliardario Norman Braman e Laura Perlmutter, moglie di Isacco Perlmutter, Ceo di Marvel Entertainment. «La campagna gestita da Rubio è anche dotata di una notevole quantità di “denaro oscuro”», racconta Anderson. «La fonte è una norma su fondi senza scopo di lucro denominata Soluzioni Progettuali Conservatrici, che ha raccolto 15,8 milioni di dollari. Il no-profit, che naturalmente non è tenuto a rivelare i suoi donatori, ha lanciato una massiccia campagna pubblicitaria per attaccare l’accordo coll’Iran del presidente Obama».Altro outsider temibile, anche Ted Cruz ha contestato a Obama l’accordo con l’Iran. In più, si batte per tagliare i fondi a “Planned Parenthood”, i pro-abortisti ufficiali. Tra i suoi sponsor figurano la banca nazionale Woodforest, Morgan Lewis Llp, poi Gibson, Dunn & Crutcher, Pachulski e Stang, la Jennmar Corporation. «La campagna di Ted Cruz ha in realtà quattro “Super-Pac”, tutti finanziati da Robert Mercer, un magnate di Long Island (fondi d’investimento), negazionista del cambiamento climatico», spiega Anderson. «Insieme, hanno raccolto 31 milioni nelle prime quattro settimane della sua campagna». Hanno contribuito la rete politica dei fratelli Koch nonché i miliardari Farris e Dan Wilks, che devono la loro ricchezza al boom del fracking in Texas. Si rivolge invece agli elettori afroamericani il neurochirurgo Ben Carson, l’uomo nuovo dei repubblicani: «Ha sorpreso tutti suggerendo che se George W. Bush avesse iniziato un abbandono del petrolio sulla scia dell’11 Settembre, prendendo l’iniziativa diplomatica piuttosto che quella degli attacchi militari, la nazione poteva essersi evitata una guerra incredibilmente costosa contro il terrore».Con i suoi numeri da sondaggio in aumento, scrive Anderson, molti esperti si chiedono ora se Carson possa essere sfruttato come vicepresidente (di Jeb Bush, ovviamente). Carson è sostenuto da Coca-Cola, West Coast Venture Capital, Trailiner Corp, Ankom Tecnologia, Jea Senior Living. Il “dark money” proviene da “OneVote”, un “Super-Pac” guidato dallo stratega repubblicano Andy Yates, e da un altro cartello, “Run Ben Run”. Recentemente, Carson «ha raddoppiato la retorica anti-musulmana, che sembra aver portato le sue cifre raccolte ancora più in alto, innalzandole a 20 milioni in questo trimestre». Zero trasparenza sui fondi, ma non mancano informazioni indicative: pare che l’84% dei finanziamenti provenga da una folla di micro-donatori, assegni sotto i 500 dollari. Molto differenziato – ed estramamente “etico”, se paragonato agli altri – è il finanziamento di Bernie Sanders, l’unico democratico finora sceso in campo contro la Clinton. Socialista, capace di infiammare i progressisti, è finanziato quasi solo da sindacati, lavoratori, associazioni di categoria. Gli scettici temono che, come Obama, non avrebbe i muscoli necessari a opporsi al vero potere, Wall Street e il complesso militare-industriale.Oltre al libertario indipendente Rand Paul, con appena 3 milioni di dollari in tasca (e quindi ritenuto in procinto di abbandonare la gara), nelle retrovie repubblicane si muovo candidati minori, ancora in corsa, come Chris Christie, data all’1% nei sondaggi eppure forte di un budget di 11 milioni di dollari. Tra i suoi sostenitori figura la Winecup-Gamble, società del Nevada di proprietà dell’ex Ceo di Reebok, Paul Fireman, che ha dato al gruppo un milione di dollari. «Fireman, che vive vicino Boston, prevede un fantasmagorico profitto di 4,6 miliardi dai casinò a Jersey City se gli elettori dello Stato approveranno un emendamento costituzionale per permettere il gioco d’azzardo anche fuori Atlantic City». Altri supporter di Chris Christie sono Stephen Wynn, magnate dei casinò di Las Vegas, Steve Cohen (maganer di hedge funds), l’imperatrice del wrestlig Linda McMahon e la numero uno di Hewlett-Packard, Meg Whitman. Stesso budget (11 milioni) per John Kasich, governatore dell’Ohio, mentre è più povero il portafoglio di Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas (3 milioni), così come quello di Carly Fiorina (1,6 milioni); presidente di Hp ed esponente dell’ultra-destra, la Fiorina è sostenuta dall’ex finanziere d’assalto Tom Perkins nonché da vari campioni della Silicon Valley, come Paul Otellini (già Intel) e Jerry Perenchio (ex Ceo di Univision).«Come potete vedere – conclude Jake Anderson – le elezioni presidenziali 2016 sono, per la maggior parte, una guerra tra donatori aziendali a tutto campo». Secondo l’analista, è importante ricordare che molti di questi “totali” sono già obsoleti, giacchè i team dei candidati possono strategicamente nascondere le quantità donate, grazie alle nuove disposizioni di legge per proteggere la raccolta fondi da qualsiasi legittima curiosità. «Insomma, noi non conosciamo la reale portata del “denaro oscuro”», derivante dal cosiddetto “non profit” e da associazioni imprenditoriali. «Quello che sappiamo è che questa sarà l’elezione più costosa della storia. I fratelli Koch da soli hanno un budget di 889 milioni di dollari. Una volta aggiunto alla spesa prevista dai democratici e dai repubblicani, stiamo parlando di un ticket totale di circa 5 miliardi di dollari».Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?
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Come difendersi dall’albero marcio della finanza-truffa
C’è un piccolo paese dell’entroterra toscano, in cui un’intera comunità di trecento famiglie si è trovata in una notte con i risparmi di una vita totalmente azzerati. E con la drammatica scoperta che quel funzionario di quell’unica banca che incontravano tutti i giorni – che nella comunità locale era uno dei punti di riferimento cui affidarsi – li aveva coinvolti in un giro di investimenti ad alto rischio, finito nel peggiore dei modi. Naturalmente, quel funzionario non era diventato improvvisamente malvagio: stava solo cercando di eseguire al meglio il suo lavoro, essendo, ormai da anni, la sua efficienza contrattualmente misurata in base a quanti prodotti finanziari aveva collocato presso i propri concittadini. Vero è che fino al 2009, quando una banca proponeva ad un cittadino un investimento in obbligazioni subordinate, aveva l’obbligo di comunicare gli scenari probabilistici dello stesso. Ma sono arrivati gli anni della crisi, e il mandato di Bankitalia ad una forte ricapitalizzazione delle banche ha spinto queste ultime, data la fuga dei classici investitori istituzionali, ad inondare i cittadini di prodotti finanziari: ed ecco allora la Consob eliminare prima l’obbligo di comunicazione degli scenari probabilistici, poi, dal 2011, persino la comunicazione facoltativa degli stessi.
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Gli inglesi nell’Ue solo grazie all’imbroglio dell’élite segreta
I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.La Cee negli anni 1960 e 1970 non era in grado di rigenerare nessuna economia possibile. Utilizzò le sue magre risorse per l’agricoltura e la pesca e non disponeva di mezzi e di politiche per poter generare una crescita economica. Quando entrammo nella Cee il nostro tasso di crescita annuale fu un record del 7,4%, quindi per noi l’argomento “economia-paniere” non sta in piedi (l’attuale cancelliere morirebbe, per simili cifre). Quando la crescita arrivò, non fu grazie alla Comunità Europea. Dalle riforme sull’offerta di Ludwig Erhard in Germania Ovest nel 1948 alle privatizzazioni della Thatcher delle industrie nazionalizzate negli anni ‘80, la crescita europea giunse attraverso riforme introdotte dai singoli paesi e replicate in altri. La politica dell’Unione Europea è sempre stata irrilevante o addirittura dannosa (vedi l’euro). Né si può dire che la crescita britannica sia mai stata inferiore di quella Europea. A volte l’ha anche superata. Nel 1950 l’Europa occidentale registrò un tasso di crescita del 3,5%; nel 1960 era del 4,5%. Ma nel 1959, quando Harold Macmillan assunse l’incarico di governo, il reale tasso di crescita annuo del Pil britannico, secondo l’ufficio nazionale di statistica, era quasi del 6%. Ed era sempre intorno al 6% quando de Gaulle pose il veto alla nostra prima domanda di adesione alla Ce nel 1963.E che dire della geopolitica? Quale argomento, alla luce fredda del senno di poi, avrebbe potuto essere così convincente da indurci a farci prendere a calci dai nostri alleati del Commonwealth nella Seconda Guerra Mondiale per voler aderire ad una combinazione economica tra Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia? Quattro di questi paesi non avevano alcun peso internazionale. La Germania era stata occupata e divisa. La Francia, nel frattempo, aveva perso una guerra coloniale in Vietnam e un’altra in Algeria. De Gaulle era giunto al potere per salvare il paese dalla guerra civile. La maggior parte dei realisti sicuramente avranno considerato questi Stati come un gruppo di perdenti. De Gaulle, egli stesso un iper-realista, sottolineò che la Gran Bretagna aveva delle istituzioni politiche democratiche, legami commerciali con tutto il mondo, cibo a buon mercato dai paesi del Commonwealth ed era anche una delle maggiori potenze mondiali. Perché avrebbe voluto entrare nella Cee?La risposta è che Harold Macmillan e i suoi più stretti collaboratori erano parte di una tradizione intellettuale che vedeva la salvezza del mondo in una forma di supergoverno mondiale fondato sul federalismo regionale. Era anche molto vicino a Jean Monnet, che condivideva lo stesso pensiero. Così, Macmillan diventò il rappresentante del movimento federalista europeo nel Gabinetto britannico. In un discorso alla Camera dei Comuni sostenne il progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) prima ancora che fosse annunciato in Europa. In seguito, si adoperò per la conclusione di un accordo di associazione tra Regno Unito e la Ceca, e fu sempre lui a garantire che dopo la Conferenza di Messina, che diede vita alla Cee, ai negoziati di Bruxelles fosse sempre presente un rappresentante britannico. Alla fine degli anni ’50 spinse per l’adesione dell’European Free Trade Association alla Cee. Poi, quando il generale de Gaulle iniziò a cambiare la Cee in qualcosa di meno federale, si affrettò a presentare una vera e propria domanda di adesione britannica, con l’intento di frenare le ambizioni gaulliste. Il suo scopo, in un’alleanza con gli Stati Uniti e i proponenti europei di una ordine mondiale federalista, era di dare un colpo alla emergente alleanza franco-tedesca, vista come un’alleanza tra il nazionalismo francese e quello tedesco.Lo statista francese Jean Monnet, che nel 1956 fu nominato presidente della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa, incontrò più volte – segretamente – Heath e Macmillan, per facilitare l’ingresso britannico nella Cee. Egli, infatti, fu il primo ad essere informato in quali termini avrebbe potuto inquadrarsi un’eventuale entrata britannica nella Comunità Europea. Nonostante il consiglio del Lord Cancelliere, Lord Kilmuir, che l’adesione avrebbe significato la fine della sovranità parlamentare britannica, Macmillan fuorviò deliberatamente la Camera dei Comuni – e praticamente tutti gli altri, da statisti del Commonwealth a colleghi di governo e l’opinione pubblica – dicendo che erano coinvolti solo rapporti commerciali minori. Tentò anche di ingannare de Gaulle, dicendo di essere anti-federalista, oltre che un suo caro amico, e che avrebbe fatto in modo che anche la Francia, come la Gran Bretagna, ricevesse i missili Polaris dagli americani. Ma de Gaulle non la bevve, e pose il veto per la domanda di adesione della Gran Bretagna.Macmillan lasciò a Edward Heath il prosieguo della questione, e Heath, insieme a Douglas Hurd, dispose – secondo documenti di Monnet – che il partito Tory diventasse un membro (segreto) della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa di Monnet. Secondo il primo assistente e biografo di Monnet, François Duchene, più tardi anche i partiti laburista e liberale fecero la stessa cosa. Nel frattempo, il conte di Gosford, uno dei ministri per la politica estera di Macmillan nella Camera dei Lord, informò apertamente la Camera che lo scopo della politica estera del governo era un supergoverno mondiale. La Commissione di Monnet ricevette anche sostegno finanziario dalla Cia e dal Dipartimento di Stato Usa. A quel punto era chiaro che l’establishment anglo-americano fosse intenzionato a creare una federazione di Stati Uniti d’Europa. Ed è così anche oggi. Potenti lobby internazionali sono già al lavoro nel tentativo di dimostrare che qualsiasi ritorno a un governo democratico “indipendente” sarà una sciagura.Alcuni funzionari americani sono già stati allertati per sostenere che un Regno Unito del genere verrebbe escluso da qualsiasi accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e che il mondo ha bisogno del trattato commerciale Ttip, che dipende totalmente dalla sopravvivenza dell’Unione Europea. Fortunatamente, i candidati repubblicani statunitensi stanno diventando sempre più euroscettici, e giornali americani come “The National Interest” stanno pubblicando il caso del Brexit. La coalizione internazionale dietro a Macmillan e Heath questa volta non troverà un quadro altrettanto semplice come allora – soprattutto considerando le evidenti difficoltà dell’Eurozona, il fallimento delle politiche europee di immigrazione e la mancanza di coerenti politiche per la sicurezza europea. E inoltre, la cosa più importante: l’opinione pubblica inglese, burlata già una volta, sarà molto più difficile burlarla una seconda volta.(Alan Sked, “Come un’élite segreta creò l’Unione Europea per costruire un governo mondiale”, dal “Telegraph” del 27 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il professor Alan Sked è uno dei fondatori originari dell’Ukip, il partito indipendentista di Nigel Farage. Docente di storia internazionale alla London School of Economics, sta raccogliendo materiale per un suo libro, che spera di pubblicare presto, sulle esperienze “europee” del Regno Unito).I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.
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Nino Galloni sindaco di Roma: troppo bello per essere vero?
«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?La “pazza idea” di candidare a Roma l’insigne economista progressista, già alto funzionario governativo – protagonista di una battaglia sotterranea per salvare l’Italia dal disastro del Trattato di Maastricht – proviene dal movimento fondato da Gioele Magaldi, massone e autore del dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che denuncia i misfatti di alcune Ur-Lodges, fra le 36 superlogge segrete ai vertici del potere mondiale, negli ultimi decenni alle prese con la svolta oligarchica che ha imposto la grande crisi alle masse, arricchendo l’élite. Fulcro della grande restaurazione planetaria, il taglio neoliberista dello Stato a vantaggio dei signori del “mercato”: meno spesa pubblica, azzeramento del debito, tassazione alle stelle, crollo del Pil e disoccupazione. Tutto ciò imposto, in Europa, attraverso la scure dell’euro, che Galloni considera un’arma (economica) di distruzione di massa. Tanto era temuto, Galloni, che – ai tempi dell’ultima stagione governativa di Andreotti – spinse il cancelliere Kohl a muoversi, personalmente, perché fosse rimosso. Una battaglia, la sua, per la difesa della sovranità italiana, nella certezza che le modalità di imposizione della moneta unica avrebbero devastato l’economia nazionale, declassandola e deindustrializzandola.Era un piano preciso, ha spiegato Galloni a Claudio Messora, sul blog “Byoblu”: l’euro fu imposto dalla Francia per indebolire la Germania, di cui temeva la riunificazione; in cambio, Berlino pretese (e ottenne) il ridimensionamento del suo concorrente industriale più pericoloso: noi. Questo è il personaggio su cui “Filippo”, “Ste” e “Gnam Gnam” si saranno ormai documentati. Allievo del maggiore economista europeo del dopoguerra, il professor Federico Caffè, e quindi “compagno di banco” di Bruno Amoroso, eminente economista impegnato in Danimarca, e di un certo Mario Draghi, che si laureò con una testi sulla insostenibilità della moneta unica, molto prima di salire sul Britannia per la grande svendita dell’Italia. Riuscirà il Movimento 5 Stelle a prendere in considerazione l’offerta? Galloni collabora col Movimento Roosevelt, che vuole riscrivere le linee-guida della politica (e quindi dell’economia) per aiutare l’Italia a uscire dal disastro. Fine della sudditanza rispetto all’élite finanziaria che manovra Bruxelles? «Ma noi non siamo contro l’euro», dichiarò Gianroberto Casaleggio a Marco Travaglio, giusto alla vigilia delle ultime elezioni europee, segnate dalla squillante affermazione, in tutta Europa, di partiti e movimenti decisi a mettere fine alla catastrofe economica innescata proprio dalla moneta unica, quella che lo stesso Draghi, studente modello, giudicava una follia.«Nino Galloni sindaco di Roma? Magari!», sogna ad occhi aperti Andrea Signini su “Signoraggio.it”, definendo Galloni «grande giurista, nome di punta degli anni Ottanta e Novanta, il cosiddetto “oscuro funzionario” il quale, di contro, tutto è tranne che oscuro, dal curriculum di pregio e dalla profonda conoscenza delle dinamiche dell’economia, della finanza e anche della politica, di cui non ha mai fatto parte se non a richiesta, come professionista interrogato per risolvere i problemi che la politica stessa ha sempre causato». Già ricercatore all’università di Berkeley, tra il 1980 e il 1987 Galloni collaborò strettamente col suo maestro Federico Caffè, economista post-keynesiano, all’università di Roma. In seguito, Galloni ha insegnato economia alla Luiss di Roma, alla Sapienza, alla Cattolica di Milano, negli atenei di Modena e di Napoli. E’ stato direttore generale al ministero del lavoro, ha diretto l’osservatorio sul mercato del lavoro e l’occupazione giovanile, ha lavorato all’Inpdap e all’Ocse, è tra i sindaci dell’Inps e dell’Inail. Ha anche fondato il Centro Studi Monetari, un’associazione per lo studio dei mercati finanziari e delle forme di moneta emettibili senza creare debito pubblico.Galloni punta al ritorno della sovranità finanziaria nazionale e alla netta separazione tra banche d’affari, speculative, e credito pulito al servizio dell’economia reale, com’era prima dell’abolizione del Glass-Steagall Act ad opera di Bill Clinton, che diede la stura definitiva alla roulette finanziaria mondiale, decisa a “pescare” anche nella finanza pubblica. Il dramma risale al 1981, ricorda ancora Galloni, quando Ciampi e Andreatta staccarono il Tesoro da Bankitalia, che fino ad allora era il “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo il paese ad attingere denaro attraverso l’emissione di titoli di Stato. Interessi salatissimi: «Così, di colpo, il debito pubblico italiano raddoppiò». Galloni? «E’ l’uomo giusto al punto giusto», scrive Signini. «Apprezzato da destra a sinistra, dal popolo cosiddetto moderato e quello di nicchia; ma soprattutto ammirato da chi accorre alle sue conferenze; conferenze che tiene in tutta Italia senza mai farsi pagare, ricordiamolo. Nino è così: sobrio nelle scelte, sobrio nel vivere, anche nel vestire. Non giuda Jeep o Ferrari, no. Lo puoi trovare nei consessi internazionali di finanza ed economia e poi il giorno appresso seduto al bar con gli appartenenti di ogni forza politica, di qualsiasi colore e schieramento o a parlare amabilmente con chi lo riconosce e gli chiede consigli e suggerimenti».«Questo è Nino», conclude Signini: Galloni è «l’altro allievo di Federico Caffè, del tutto diverso da Mario Draghi». Con tutta probabilità, «grazie proprio al bagaglio culturale e professionale che ha sviluppato sin dai tempi in cui, dopo essere ritornato dagli Usa per venire ad insegnare nelle università italiane», Nino Galloni «non può che essere colui sul quale scaricare la responsabilità di rifondare Roma», devastata dalle amministrazioni Alemanno e Marino. «Tentare di pescare l’ennesimo nome dal cilindro lercio della politica, sappiatelo, è inutile, oltre che nocivo», assicura Signini: «C’è rimasto solo Galloni». Che ne pensano “Ste”, “Gnam Gnam” e tutti gli altri? E soprattuttto: come la vedono Grillo e Casaleggio? E’ ovvio che una candidatura come quella di Galloni nella capitale rappresenterebbe una rivoluzione copernicana, dopo decenni di politica nazionale affidata a mezze figure prone ai diktat dei “padroni” stranieri, i veri burattinai della “casta” impresentabile contro cui si è scagliato il grillismo prima maniera. La sola candidatura di Galloni, col suo inevitabile contributo culturale, contribuirebbe a scardinare una lunga stagione di menzogne. Mission impossible?«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?
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Il giovane Renzi e l’idea (geniale) del Ponte sullo Stretto
Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.«Tre anni fa il futuro premier bocciava il Ponte sullo Stretto, auspicando che quella montagna di denaro pubblico necessaria – 8 miliardi di euro – fosse indirizzata piuttosto a realizzare nuove scuole e a migliorare quelle esistenti», ricordano Fabio Granata, Anna Donati e Annalisa Corrado, esponenti di “Green Italia”, che in un post ripreso da “Il Cambiamento” condannano questa «spericolata inversione a U», augurandosi che l’uscita di Renzi sia solo «la sua ennesima promessa non mantenuta». Gli italiani, del resto, «credevano che quello del Ponte fosse un capitolo chiuso, perché di fronte ad un paese costantemente piegato dal dissesto idrogeologico, con infrastrutture che collassano per il maltempo e situazioni come quelle di Messina senz’acqua potabile, indegne di un paese civile, anche solo parlare di Ponte sullo Stretto è uno schiaffo alla realtà». Già, la realtà: «E’ quella dei cittadini dell’Aquila ancora sfollati, quelli della Liguria che passano da un’alluvione con smottamenti e morti a un piano-casa tutto cemento, o il popolo inquinato di Taranto e di Crotone». Allegria: «Dopo le trivelle, gli inceneritori, le autostrade, mancava solo il Ponte assurto a ‘nuovo simbolo per l’Italia’ per dimostrare che il premier crede che le ricette da boom economico degli anni ‘60 siano ancora attuali, mentre c’è un mondo che va in un’altra direzione».«Di straordinario – ricorda Leandro Janni, presidente siciliano di Italia Nostra – il ponte sullo Stretto di Messina ha solo il tempo e i soldi sprecati per un’opera insostenibile dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico». Il progetto definitivo, elaborato da Eurolink SpA, è considerato talmente lacunoso dalla Commissione di valutazione di impatto ambientale da far avanzare la richiesta, il 10 novembre 2011, di ben 223 integrazioni su tutti gli aspetti nodali (strutturali, trasportistici, economico-finanziari, geologici, idrogeologici, naturalistici, paesaggistici, relativi alle emissioni atmosferiche, ai rumori e alle vibrazioni), a cui Eurolink non è ancora riuscita rispondere esaurientemente. Sconcertante, se si pensa che da oltre 10 anni la cattiva politica – cui ora si associa il “giovane” Renzi – vorrebbe costruire, «in una delle aree a più alto elevato rischio sismico del Mediterraneo, un ponte sospeso, ad unica campata di 3,3 km di lunghezza, sorretto da torri di circa 400 metri di altezza, a doppio impalcato stradale e ferroviario». Oggi il ponte più lungo al mondo, il Minami Bisan-Seto in Giappone, è lungo un terzo di quello progettato per Messina.Si tratta di un’opera che ad oggi verrebbe a costare 8,5 miliardi di euro, continua il “Cambiamento”: oltre mezzo punto di Pil, e senza un piano economico-finanziario che ne dimostri la redditività e l’utilità. Impietoso il dossier dei prestigiosi tecnici italiani ingaggiati dagli ambientalisti per “smontare” il disastroso progetto di Eurolink. Primo problema, il terremoto: viene garantita l’invulnerabilità del manufatto solo per eventi sismici fino a 7,1 Richter, escludendo quindi «in maniera ascientifica» che ci possa essere un sisma di maggiore energia in una zona di rischio molto elevato. Inoltre, nel calcolo dei materiali da scavo viene dimenticato il conteggio di 3,5 milioni di metri cubi di terreno estratto o movimentato. Sos ambiente: non è stata ancora elaborata una valutazione di incidenza credibile sullo Stretto di Messina, area di pregio naturalistico teoricamente a tutela europea. L’ultimo progetto, poi, considera “trascurabili” le modifiche apportate: un incremento di 17 metri dell’altezza delle torri, che arriverebbero a quota 400 metri, per sollevare l’impalcato sino ad 80 metri sul livello del mare. Poi lo spostamento della torre sul lato della Calabria, la variazione del tipo d’acciaio e quindi il peso delle funi e delle strutture portanti, e infine il cambiamento dell’altezza dell’impalcato del viadotto Pantano, lato Sicilia.Non è tutto. «Sono state presentate analisi trasportistiche insufficienti ed elaborati progettuali incompleti – aggiungono gli ambientalisti – da cui emerge che a 25 anni dalla realizzazione dell’opera ponte si registrerebbe un traffico pari a 11,6 milioni di auto all’anno per un’infrastruttura dimensionata per 105 milioni di auto l’anno, con un grado di utilizzo, quindi, dell’11% circa». Mostruoso, super-costoso e super-inutile: bravo Renzi. Non fa che aggiungere malinconia e desolazione l’esame dell’équipe tecnica che ha “fatto le pulci” all’improbabile progetto Eurolink. Tra gli oltre 30 esperti che hanno lavorato con le associazioni ambientaliste, scrive il “Cambiamento”, fra gli specialisti dell’università di Messina troviamo Emilio Di Domenico (oceanografia biologica), Gaetano Gargiulo (botanica), Lucrezia Genovese (Cnr), Salvatore Giacobbe (ecologia). Poi Domenico Gattuso (ingegneria, Reggio Calabria), i geologi Giuseppe Gisotti, Alessandro Guerricchio e Gioacchino Lena.Ci sono tecnici come Piero Polimeni, ingegnere pianificatore, esperto di cooperazione e sviluppo locale; Guido Signorino, professore ordinario del dipartimento economia, statistica e sociologia dell’Università di Messina. E poi Stefano Sylos Labini, ricercatore dell’Enea e geologo come Carlo Tansi (Università della Calabria). Non manca il geologo più famoso d’Italia, il conduttore televisivo Mario Tozzi. E ci sono specialisti come il professor Vincenzo Vacante (agraria, Reggio), l’ingegner Claudio Villari, un urbanista come il professor Alberto Ziparo dell’ateneo di Firenze. «Serve altro?», si domanda “Il Cambiamento”. Sì, certo: tanto per cominciare servirebbe un altro premier, magari regolarmente eletto. E poi un’altra Italia, in cui a nessuno verrebbe in mente di proporre opere demenziali e succulente per il sistema mafioso degli appalti, dalla linea Tav Torino-Lione al suo gemello mediterraneo, l’inaffondabile Ponte sullo Stretto.Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.
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Craig Roberts: schiavi e padroni (di tutto, anche degli Stati)
Una nuova schiavizzazione delle popolazioni occidentali è in atto su diversi livelli. Uno di cui sto parlando da almeno dieci anni è la delocalizzazione del lavoro. Gli Stati Uniti, ad esempio, partecipano sempre meno alla produzione dei beni e dei servizi che finiscono sul loro mercato. Ad un altro livello stiamo esperendo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, della quale Michael Hudson è uno dei maggiori esperti (“Killing the host”). La finanziarizzazione è il processo di rimozione di ogni tipo di presenza pubblica nell’economia e la conversione del surplus economico nel pagamento di interessi al settore finanziario. Questi due fattori privano la gente di prospettive economiche. Una terzo li priva dei diritti politici. Il Tpp e il Ttip eliminano la sovranità politica e spostano il controllo sulle grandi aziende. Questi cosiddetti “partenariati commerciali” non hanno nulla a che fare con il business. Questi accordi negoziati in segreto accordano immunità alle grandi aziende nei confronti delle leggi nazionali dei paesi in cui operano.Questo obiettivo viene raggiunto inquadrando ogni intromissione nei profitti aziendali da parte di leggi esistenti o potenziali come una limitazione agli affari, per la quale le aziende possono intentare causa ai governi “sovrani”. Per esempio il divieto in Francia ed altre nazioni riguardo gli Ogm verrebbe annullato dal Ttip. La democrazia viene semplicemente sostituita dalle regole aziendali. Avrei voluto parlare di più di tutto questo. Comunque altri, come Chris Hedges, stanno facendo un buon lavoro per spiegare la stretta del potere che sta eliminando i governi rappresentativi. Le grandi aziende comprano il potere a basso prezzo. Hanno comprato la Camera dei Rappresentanti negli Usa per meno di 200 milioni di dollari. Questo è quanto è stato dato al Congresso per proseguire con “Fast Track”, che permette al braccio delle corporation, il Rappresentante del Commercio Usa, di negoziare segretamente senza spinta o supervisione da parte del Congresso stesso.In altre parole un agente delle grandi aziende si relaziona con altri suoi simili nelle nazioni che compromettono la “partnership” e questo gruppetto di gente profumatamente prezzolata scrive accordi che soppiantano la legge a favore degli interessi aziendali. Nessuna delle persone coinvolte rappresenta gli interessi delle nazioni o delle loro popolazioni. I governi delle nazioni aderenti alla partnership possono solo votare sì o no all’accordo… e verranno pagati profumatamente per votare nel modo giusto. Una volta che queste partnership sono attive, i governi stessi sono come privatizzati. Legislature, presidenti, primi ministri e giudici non hanno più alcuna ragione di esistere. I tribunali aziendali decidono le leggi e il funzionamento delle corti.È probabile che questa “partnership” avranno conseguenze indesiderate. Per esempio, Russia e Cina non fanno parte degli accordi, così come Iran, Brasile, India e Sud Africa, benchè, separatamente, il governo indiano sembra essere stato comprato dai grandi capitali agricoli statunitensi e sia sulla strada della distruzione del proprio sistema autosufficiente di produzione del cibo. Questa nazioni saranno depositarie della sovranità nazionale e del controllo pubblico, mentre libertà e democrazia saranno estinte in Occidente e presso i suoi vassalli asiatici. Rivoluzioni violente per tutto l’Occidente e la completa eliminazione dell’“un per cento” è un altro scenario possibile. Ad esempio, una volta che la popolazione francese avrà scoperto di aver perso il controllo sulla propria dieta a vantaggio della Monsanto e dell’agribusiness statunitense, i membri del governo francese che hanno condotto il paese verso una prigione alimentare di cibo tossico probabilmente verranno fatti a pezzi per le strade. Eventi di questo tipo sono possibili in Occidente solo se le popolazioni scopriranno di aver totalmente perso il controllo su ogni aspetto della loro vita e che l’unica scelta è tra la rivoluzione o la morte.(Paul Craig Roberts, “La ri-schiavizzazione delle genti occidentali”, da “Counterpunch” del 10 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Una nuova schiavizzazione delle popolazioni occidentali è in atto su diversi livelli. Uno di cui sto parlando da almeno dieci anni è la delocalizzazione del lavoro. Gli Stati Uniti, ad esempio, partecipano sempre meno alla produzione dei beni e dei servizi che finiscono sul loro mercato. Ad un altro livello stiamo esperendo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, della quale Michael Hudson è uno dei maggiori esperti (“Killing the host”). La finanziarizzazione è il processo di rimozione di ogni tipo di presenza pubblica nell’economia e la conversione del surplus economico nel pagamento di interessi al settore finanziario. Questi due fattori privano la gente di prospettive economiche. Una terzo li priva dei diritti politici. Il Tpp e il Ttip eliminano la sovranità politica e spostano il controllo sulle grandi aziende. Questi cosiddetti “partenariati commerciali” non hanno nulla a che fare con il business. Questi accordi negoziati in segreto accordano immunità alle grandi aziende nei confronti delle leggi nazionali dei paesi in cui operano.
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Magaldi: dietro al terrore, menti massoniche e 007 traditori
«Le menti e le mani che hanno prima pianificato ed effettuato gli attentati a “Charlie Hebdo” e poi le terribili stragi di venerdì 13 novembre 2015 sono le stesse, identiche. E sono menti e mani che amano particolarmente le simbologie della tradizione esoterica e massonica occidentale… in modo impressionante», afferma Gioele Magaldi, segnalando una sinistra coincidenza storica: «Non ho ancora sentito nessuno, a livello di mainstream mediatico, ricordare che il venerdì 13 ottobre del 1307, proprio in Francia, il re Filippo il Bello ordinò l’arresto dei Templari. Da allora, quella data ha assunto una rilevanza fondamentale in determinati ambienti appunto esoterici e massonici, e persino nella produzione letteraria e filmografica». Autore del bestseller “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, Magaldi ha denunciato già nel 2014 i piani criminali della superloggia “Hathor Pentalpha”, creata dai Bush reclutando anche leader come Blair, Sarkozy ed Erdogan per una sorta di strategia della tensione (mondiale) inaugurata l’11 Settembre con l’attacco alle Torri, che diede il via alla “guerra infinita”.«I tragici fatti di Parigi, sia del 7 gennaio che dello scorso 13 novembre 2015, sono anzitutto opera di coloro che hanno creato a tavolino prima Al Qaeda e poi l’Isis», insiste Magaldi, intervistato da Lorenzo Lamperti per “Affari Italiani”. «Chi ha voluto realizzare la strage di Parigi, facendola compiere proprio un venerdì 13, ha mandato un segnale preciso di natura infra-massonica». Magaldi, già “gran maestro” della loggia Monte Sion e poi leader del Grande Oriente Democratico, si riserva di spiegare in seguito di che “segnale infra-massonico” si tratti e perché, «al lume delle notizie riservate che mi sono pervenute», dice, «sia stato scelto egualmente l’autunno per questo attentato, ma non il mese di ottobre, bensì quello di novembre». Magaldi afferma di annoverare «diversi amici fraterni onesti e scrupolosi, tra i quadri e i dirigenti dei servizi d’intelligence (di diverse nazioni) operanti in Francia e in particolare a Parigi». Gli hanno “suggerito” che «senza una falla grossa come una casa nell’operato degli stessi servizi segreti occidentali e francesi (qualche agente infedele che, evidentemente, ha “collaborato” con i terroristi, tradendo con infamia i propri doveri e la propria dignità di uomo e di servitore dello Stato), quello che è accaduto venerdì 13 novembre non sarebbe mai potuto accadere».Troppo facile, il “lavoro” dei killer: «Ma stiamo scherzando? Terroristi che arrivano indisturbati a pochi passi da dove si muove il presidente della Repubblica e che vanno a fare il più atroce attentato in un locale che avrebbe dovuto essere scientificamente guardato a vista da servizi d’intelligence e sicurezza, in quanto già attenzionato in precedenza per possibili atti di terrorismo e violenza? Senza la connivenza di apparati deviati dell’intelligence militare e civile, tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile». Puntuali, i riflessi politici dopo la strage: il procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Franco Roberti, ha detto che “dobbiamo esser pronti a cedere una parte delle nostre libertà” di comunicazione. Un Patriot Act all’italiana? «Se Franco Roberti si è espresso cosi, il Movimento Roosevelt, entità politica metapartitica da me presieduta, chiederà ufficialmente le sue dimissioni», avverte Magaldi. Dimissioni «per manifesta incompatibilità ideologica con i principi e i fondamenti di quelle istituzioni democratiche e liberali che egli, con le strutture da lui guidate, dovrebbe difendere dalle minacce del terrorismo e della malavita organizzata».Magaldi ricorda che il massone progressista Benjamin Franklin, uno dei massimi padri della nascita della prima Repubblica costituzionale e democratica al mondo, gli Stati Uniti d’America, soleva affermare: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza». E dire che la soluzione, quella vera, sarebbe a portata di mano: «Se solo si volesse (ma non si vuole, perché lo show del terrorismo hollywoodiano a cura dell’Isis fa comodo a molti), si dovrebbe procedere con un’azione militare poderosa, per via aerea ma soprattutto via terra, concertata tra tutte le maggiori potenze almeno nominalmente democratiche, preferibilmente sotto l’egida dell’Onu». Un’azione risoluta, «per spazzare via il cosiddetto Califfato dell’Isis dalla faccia della terra». Se solo si volesse, aggiunge Magaldi, in poco tempo i miliziani dell’Isis sarebbero travolti. «Solo che, per essere credibile, legittimato, giustificabile e ben accetto, al presente come per il futuro, un tale intervento militare, una volta conseguita la vittoria, dovrebbe essere seguito rapidamente e seriamente dalla costruzione di infrastrutture materiali e immateriali, culturali, istituzionali ed economiche».Se si vuole la pacificazione occorre un colossale investimento, quindi, per «trasformare quei territori martoriati medio-orientali (ora dominati dal Califfato) in società libere, democratiche, laiche, con un grande dispendio di risorse per aiutare la popolazione locale». Attenzione: «Non si tratta di fingere di “esportare la democrazia”, come volevano far credere all’opinione pubblica mondiale i farabutti massoni contro-iniziati che, tramite la superloggia sovranazionale Hathor-Pentalpha (si legga il primo volume della serie di “Massoni”, per capire di che si tratti), andarono a mettere a ferro e fuoco l’Iraq nei primi anni ‘2000 e altri territori in tempi successivi». Per Magaldi si tratta di costruirla davvero una vita democratica, libera, laica, pluralista e pacifica in quello che ora è l’habitat totalitario, integralista e ierocratico dell’Isis, ma anche nel resto del Medio Oriente. «E per farlo, occorre che i governi delle maggiori potenze democratiche mondiali collaborino con gli ambienti islamici più laici e moderati dell’area nord-africana e medio-orientale».C’è il rischio che ora, in Europa, prendano sempre più forza i populismi e gli estremismi, come Le Pen in Francia o Salvini in Italia? Falso allarme: «E’ uno spauracchio, questo della possibile avanzata dei movimenti populistici ed estremistici, agitato strumentalmente da coloro che poi, per far fronte a questa eventuale avanzata, propongono governi consociativi che, per loro natura, annullano la normale dialettica democratica tra forze politiche alternative». Governi consociativi come quello di Mario Monti, che poi favoriscono l’approvazione, quasi sempre con scarso dibattito politico-mediatico, di misure legislative contrarie all’interesse del popolo sovrano ma assai utili ad interessi privati sovranazionali e apolidi: «Si ricordi l’approvazione totalitaria e silenziata del funesto Fiscal Compact, ad opera del governo Monti, in Italia, e altri provvedimenti simili presi in tutta Europa». Magaldi non tifa certo per i populismi e gli estremismi, tanto più se di natura neo-nazionalistica, ma osserva che «i gruppi dirigenti di questi movimenti, solitamente, quando vanno al governo, si dimostrano del tutto docili e subalterni a quegli stessi poteri apolidi che di consueto si servono di maggioranze consociative e formalmente “moderate”».Magaldi punta il dito contro la regia occulta una certa massoneria internazionale, ma coi dovuti distinguo: «Non bisogna confondere il carattere cinico e apolide delle élites massoniche neoaristocratiche e reazionarie, cui mi sto riferendo, e che in alcuni loro segmenti sono responsabili dell’atroce strage di Parigi del 13 novembre scorso, dal positivo cosmopolitismo dei gruppi massonici progressisti, per i quali la patria non è la propria nazione, ma ogni luogo dove occorra combattere per la democrazia, la libertà e i valori racchiusi nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata all’Onu il 10 dicembre 1948, grazie al “matrocinio” della libera muratrice Eleanor Roosevelt». Proprio nel nome dei Roosevelt, Eleanor e il marito Franklin Delano, promotore del New Deal che resuscitò l’America dalla Grande Depressione sulla base delle ricette macro-economiche di un altro massone, il grande economista John Maynard Keynes, ha dato vita al suo movimento italiano. Missione: democratizzare la politica, sfidando l’egemonia culturale dell’élite che terremota gli Stati con “armi di distruzione di massa” come l’austerity, basata sul taglio dell’investimento pubblico per dare mano libera all’oligarchia finanziaria. Dietro all’economia c’è un vertice politico occulto, insiste Magaldi, dominato da elementi massonici di stampo neo-feudale. E’ un disegno preciso, che avanza tra macerie e vittime. E va fermato nel solo modo possibile: con la democrazia.«Le menti e le mani che hanno prima pianificato ed effettuato gli attentati a “Charlie Hebdo” e poi le terribili stragi di venerdì 13 novembre 2015 sono le stesse, identiche. E sono menti e mani che amano particolarmente le simbologie della tradizione esoterica e massonica occidentale… in modo impressionante», afferma Gioele Magaldi, segnalando una sinistra coincidenza storica: «Non ho ancora sentito nessuno, a livello di mainstream mediatico, ricordare che il venerdì 13 ottobre del 1307, proprio in Francia, il re Filippo il Bello ordinò l’arresto dei Templari. Da allora, quella data ha assunto una rilevanza fondamentale in determinati ambienti appunto esoterici e massonici, e persino nella produzione letteraria e filmografica». Autore del bestseller “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, Magaldi ha denunciato già nel 2014 i piani criminali della superloggia “Hathor Pentalpha”, creata dai Bush reclutando anche leader come Blair, Sarkozy ed Erdogan per una sorta di strategia della tensione (mondiale) inaugurata l’11 Settembre con l’attacco alle Torri, che diede il via alla “guerra infinita”.
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Gallino ha smascherato questo regime estremista e bugiardo
Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.Gallino si offese molto per quella mia frase impertinente, anche se, come era suo costume, nel dibattito usò solo analisi sociale e cortesia torinese. Pochi giorni dopo mi arrivò in ufficio un pacco di libri e riviste di sociologia. Era una piccola antologia di testi di Luciano Gallino, accompagnati da una sua lettera molto gentile, ma che nella sostanza mi invitava a documentarmi meglio prima di esprimere giudizi. Aveva ragione. L’intellettuale ed il ricercatore olivettiano è diventato il primo critico in Italia del modello liberista, sia per il lavoro, sia per tutta la società. E questo suo percorso non è nato da una improvvisa folgorazione sulla via di Damasco, ma dal rigore con il quale sin dall’inizio della sua opera si è misurato con la realtà del lavoro, con l’altra faccia della luna.Gallino era uno scienziato sociale che credeva nel processo riformatore. Non uso la parola riformista, perché essa oggi è diventata sinonimo di trasformismo e di politiche liberiste. Luciano Gallino provava un rigetto culturale morale per il riformismo attuale. Lui che era stato formato dalla stagione delle riforme dei primi anni ‘60 e dall’organizzazione del lavoro veramente partecipativa della Olivetti di Ivrea, sentiva sempre di più la necessità di smascherare l’imbroglio politico ed intellettuale di chi oggi adopera quegli stessi termini, riforme e partecipazione, per fare l’esatto contrario. Per questo Gallino aveva sempre più radicalizzato la sua collocazione politica. Non perché avesse cambiato il suo punto di vista riformatore, ma perché non era disposto a farlo assorbire da un sistema di potere che andava nella direzione opposta a ciò che riteneva giusto.Fernando Santi, il leader storico dei socialisti della Cgil, quando il Psi di Nenni si orientò su posizioni che cominciò a criticare come troppo moderate, fu accusato di scivolare verso il massimalismo. Con una fulminate battuta allora il sindacalista rispose: non è vero che io sono diventato un estremista, io sono il riformista di sempre, sono gli altri che mi hanno scavalcato a destra. È una risposta che vale anche per Luciano Gallino. Mentre una generazione di intellettuali e politici di origine comunista, operaista, radicale, si innamorava della flessibilità del lavoro e della globalizzazione e ne diventava apologeta, egli si faceva rigoroso e implacabile contestatore dei “tempi moderni”. Il sociologo olivettiano diventava no global senza cambiare di un millimetro il suo impianto culturale originale. E così ha condotto una dura, infaticabile lotta culturale contro l’egemonia del pensiero unico liberista, un impegno che lo ha collocato controcorrente rispetto al dogmatismo trionfante, ma che ne ha fatto il riferimento culturale di tutte le lotte contro le precarietà e il dominio autoritario del lavoro, contro la diseguaglianza sociale e le privatizzazioni.Con i suoi scritti Gallino faceva lotta di classe, quella lotta di classe che denunciava essere diventata lo strumento dei ricchi contro i poveri, di chi ha il potere contro chi lo subisce. Ma nel suo impegno Gallino manteneva sempre il rigore dello scienziato sociale, le conclusioni giungevano sempre alla fine di rigorose e dimostratissime analisi dei fatti. Per questo erano così fastidiose per un potere che vende senso e ideologia per cancellare i fatti, che vuol convincere che la ripresa economica è dietro l’angolo non perché sia vero, ma perché l’ottimismo economico aumenta i profitti. Gallino entrava sicuramente nella categoria non foltissima dei grandi professori integri, categoria tanto odiata dai giovani arrampicatori renziani formatasi negli spettacoli televisivi. Luciano Gallino era un gufo, saggio, acutissimo, che naturalmente vedeva lontano.Nel suo ultimo libro, che non sapevamo sarebbe stato il suo testamento, Gallino scrive ai suoi nipoti e descrive la Doppia Crisi, economica ed ecologica del capitalismo. È un messaggio assolutamente radicale quello che manda alle nuovissime generazioni. Ha vinto il capitalismo peggiore, quello raccontato nel Tallone di Ferro di Jack London. Non ci son aggiustamenti possibili all’orizzonte, ma bisogna perseguire cambiamenti radicali nel nome dell’eguaglianza sociale, della vita umana e della natura. L’Unione Europea è una dittatura finanziaria che ha distrutto le costituzioni democratiche e lo stato sociale europeo e l’euro è lo strumento del dominio liberista. Gallino è così diventato NoEuro dopo un’analisi concreta della situazione concreta, grazie alla quale ha concluso che giuste riforme sociali possano realizzarsi solo con una profonda rottura del sistema attuale. Già venti anni fa mi ero scusato con Luciano Gallino per quella mia polemica ingiusta nei suoi confronti. Abbiamo poi avuto un lungo impegno comune e solidale, ma ora voglio scusarmi di nuovo e ringraziare il grande scienziato sociale, sempre integro e per questo assolutamente radicale.(Giorgio Cremaschi, “Gallino, uno scienziato sociale rigororo e radicale”, da “Micromega” del 10 novembre 2015).Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.
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Saskia Sassen: è il golpe dei predatori, ci vogliono espellere
La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.Quella di espulsioni va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata. Nei sistemi complessi ci sono invece margini sistemici multipli, e le espulsioni attraversano domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Per come le concepisco io, le espulsioni avvengono nel margine sistemico.Uso il termine “espulsioni” per descrivere una varietà di processi che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari. Tra gli esempi dei processi di espulsione, potrei citare il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slum.Potrei aggiungere le parti della biosfera espulse dal loro spazio vitale a causa delle tecniche estrattive o dell’accaparramento di terre. E insisto sul fatto che il mite linguaggio del “cambiamento climatico” in questo ambito non riesce ad afferrare il fatto che, al livello empirico, esistono vaste distese di terra morta e di acqua morta. Di fronte all’estremo tendiamo a fermarci. È troppo, e troppo sgradevole. Ci mancano i concetti per comprenderlo. Per questo, diventa facilmente il mostruoso. O diviene invisibile, indipendentemente da quanto sia materiale. In “Espulsioni” esamino un ampio raggio di processi che a un certo punto diventano così estremi che il linguaggio familiare del “più” non serve più a spiegarli. Il momento dell’espulsione è il momento in cui una condizione familiare diviene estrema: non si è semplicemente poveri, si è senza casa, affamati, si vive in una baracca. O, per quel che riguarda la terra e l’acqua: come dicevo non è semplicemente degradata, insalubre. É morta, finita.Dovremmo preoccuparci delle “formazioni predatorie”. Sono formazioni complesse, che assemblano una varietà di elementi: élite, capacità sistemiche, mercati, innovazioni tecniche (di mercato e finanziarie) abilitate dai governi. Ci sono per esempio nuovi strumenti legali e contabili, sviluppati nel corso degli anni, che condizionano ciò che oggi ci appare come un contratto legittimo. Ci sono le banche centrali che forniscono quantitative easing: nel caso degli Stati Uniti, 7 bilioni di dollari dei cittadini sono stati messi a disposizione del sistema finanziario internazionale a tassi molto bassi, e poi usati per la speculazione, non per fornire prestiti alle piccole imprese che ne avrebbero disperato bisogno. In questo senso, abbiamo a che fare con zone complesse che assemblano una varietà di elementi, una condizione che eccede il semplice fatto di avere una elite di super-ricchi potenti. Anche se ci liberassimo di tutti i super-ricchi, continueremmo ad avere esiti simili a quelli attuali.Anche i governi sono parte delle formazioni predatorie. Dovremmo archiviare la tesi secondo la quale lo Stato-nazione nel suo complesso è una vittima dei processi di globalizzazione economica. Ed è particolarmente sbagliato quando ci si riferisce al ramo esecutivo dei governi, perché sono i Parlamenti e il ramo legislativo ad aver subito una perdita massiccia di funzioni e potere. Mentre il ramo esecutivo – dunque i presidenti o i primi ministri – hanno ottenuto un particolare, nuovo tipo di potere grazie alla globalizzazione: sono loro a istituire le politiche, ad articolare i trattati commerciali e di investimento che sostengono le corporation. E allo stesso tempo le banche centrali sostengono il sistema finanziario, non i poveri o i piccoli imprenditori.Per lei, la decadenza dell’economia politica del ventesimo secolo inizia negli anni Ottanta del Novecento, benché abbia genealogie spesso più antiche. Alcuni segnali erano evidenti già negli anni Settanta, ma è negli anni Ottanta che l’economia comincia a cambiare rotta, e a restringersi: l’indebolimento dei sindacati, i minori investimenti nelle infrastrutture a beneficio di tutti, incluse quelle per i quartieri e le famiglie meno ricche, l’aumento della concentrazione di potere e ricchezza al vertice, anziché dello sviluppo della classe media. Nel mio libro ho incluso uno schema che mostra come negli anni Ottanta i nostri governi fortemente sviluppati abbiano cominciato a diventare più poveri, mentre nel mondo meno sviluppato, invece di investire nella produzione manifatturiera gli investimenti sono stati dirottati all’estrazione mineraria, al petrolio e ad altri settori primari. Ciò è accaduto per esempio nell’Africa subsahariana, che si era sviluppata negli anni Sessanta e Settanta con il successo dei processi di indipendenza. Questo processo ha prodotto ricchezza per le aziende e per le elite governative corrotte, ma povertà per la popolazione.Questo passaggio da una logica inclusiva a una logica di espulsione segna una vera e propria rottura rispetto alla fase precedente, quella del capitalismo keynesiano del secondo dopoguerra. Negli anni Ottanta c’è stata una rottura radicale, una frattura rispetto al capitalismo keynesiano, la cui logica dominante – nonostante tutti i limiti – era l’inclusione, la riduzione delle tendenze sistemiche alla disuguaglianza, perché il sistema si reggeva sulla produzione e sul consumo di massa, su una logica espansiva dunque. La manifattura di massa, il consumo di massa, la costruzione di case e strade anche per i meno abbienti: tutto ciò è stato ottenuto espandendo lo spazio dell’economia e incorporando le persone nel sistema. Oggi alcuni settori ancora beneficiano di una certa espansione, ma altri settori chiave non ne hanno bisogno, per cui abbiamo una crescita intensa dei profitti totali delle corporation, ma uno spazio economico complessivamente più circoscritto. I profitti delle corporation crescono, ma lo spazio economico si contrae, complessivamente.Il settore del consumo è stato parzialmente distrutto dalla finanziarizzazione dell’economia, che può produrre profitti molto più alti rispetto al settore del consumo. Contestualmente, avviene una ridefinizione de facto dello spazio economico, una contrazione dell’economia, dalla quale viene espulso tutto ciò che (incluse le persone) non è più considerato produttivo secondo i criteri standard. La crescita economica, misurata secondi i criteri convenzionali, è il veleno della nostra epoca. C’è bisogno di economie che rispondano a logiche distributive: più coinvolgono le persone e le realtà territoriali e locali, più le economie ne beneficiano e producono benefici. Oggi avviene il contrario. Ci si libera di tutti i lavoratori sindacalizzati, delle classe media, esclusa dai servizi statali, degli studenti che avrebbero bisogno di università gratuite. La mia tesi è che quando la Germania o il Regno Unito dicono: “la Grecia è il problema, noi siamo a posto”, sbagliano. Le tendenze sono le stesse per tutti questi paesi. La Grecia è soltanto la versione più estrema della stessa tendenza. Nel libro presento un grafico che dimostra in che misura tutte le principali economie dell’Unione Europea, inclusa la Germania, presentino un calo netto, dopo che nel 2008 la crisi è esplosa.La Germania ha un settore manifatturiero forte, che gli ha permesso di recuperare presto. La Grecia ha gli oligarchi che hanno sfruttato il paese, che non pagano le tasse e fondamentalmente non contribuiscono all’economia greca. Le Olimpiadi ne sono l’esempio più evidente. Ma la tendenza è la stessa. La maggior parte degli Stati liberali oggi è in decadenza. Le ragioni sono complesse, e le esamino in dettaglio nel mio libro precedente, “Territorio, autorità, diritti” (Bruno Mondadori, 2008). Le privatizzazioni e la deregolamentazione sono stati fattori cruciali. Un altro fattore è il numero crescente di ricchi e di corporation potenti che pagano sempre meno tasse. La finanziariazzazione dell’economia e il graduale restringimento dei settori economici distributivi come il manifatturiero, è un altro fattore ancora. L’impoverimento delle classi medie, i prezzi più elevati per le case che hanno compromesso la possibilità per i figli di vivere fuori casa, la contrazione del sistema di sostegno sociale organizzato dallo Stato. Sono gli esiti di una logica distorta che ha catturato lo Stato liberale. Agli estremi, gli esiti sono le espulsioni.(Saskia Sassen, estratti dell’intervista “Le nuove logiche del capitalismo predatorio” rilasciata a Giuliano Battiston per “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 4 novembre 2015. Docente di sociologia alla Columbia University di New York, la Sassen è autrice di “Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale”, Il Mulino, 296 pagine, 25 euro).La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.
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Crisi senza fine? La previde vent’anni fa il “profeta” Craxi
Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.Rivelazioni che «spiegano con parole mirate e incisive i fatti degli ultimi anni ed odierni, ancora oggi tristemente e quotidianamente sotto gli occhi del tutto ignari della quasi totalità» del pubblico, che magari vota Renzi e ha di Craxi un pessimo ricordo. Un libro, quello dell’ex leader del Psi, definito (oggi) da diversi giornalisti “profetico”, “sorprendente”, “agghiacciante”, “al limite della preveggenza”. Lo Stato è a pezzi, così come l’idea di nazione? «La pace si organizza con la cooperazione, la collaborazione, il negoziato, e non con la spericolata globalizzazione forzata», scrive Craxi. «Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali». Al contrario, «cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». E attenti: «Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare».Da Mani Pulite, Craxi fu liquidato come “capo di una banda di ladri” per via del finanziamento illecito ai partiti, compreso il suo? «I partiti dipinti come congreghe parassitarie divoratrici del danaro pubblico – scrive l’ex leader socialista – sono una caricatura falsa e spregevole di chi ha della democrazia un’idea tutta sua, fatta di sé, del suo clan, dei suoi interessi e della sua ideologia illiberale. Fa meraviglia, invece, come negli anni più recenti ci siano state grandi ruberie sulle quali nessuno ha indagato. Basti pensare che solo in occasione di una svalutazione della lira, dopo una dissennata difesa del livello di cambio compiuta con uno sperpero di risorse enorme ed assurdo dalle autorità competenti, gruppi finanziari collegati alla finanza internazionale, diversi gruppi, speculando sulla lira, evidentemente sulla base di informazioni certe, che un’indagine tempestiva e penetrante avrebbe potuto facilmente individuare, hanno guadagnato in pochi giorni un numero di miliardi pari alle entrate straordinarie della politica di alcuni anni. Per non dire di tante inchieste finite letteralmente nel nulla».Possibile che sul finanziamento illecito non avesse niente da dichiarare il Pci? «D’Alema ha detto che con la caduta del Muro di Berlino si aprirono le porte ad un nuovo sistema politico», scriveva Craxi. «Noi non abbiamo la memoria corta. Nell’anno della caduta del Muro, nel 1989, venne varata dal Parlamento italiano una amnistia con la quale si cancellavano i reati di finanziamento illegale commessi sino ad allora. La legge venne approvata in tutta fretta e alla chetichella. Non fu neppure richiesta la discussione in aula. Le commissioni, in sede legislativa, evidentemente senza opposizioni o comunque senza opposizioni rumorose, diedero vita, maggioranza e comunisti d’amore e d’accordo, a un vero e proprio colpo di spugna. La caduta del Muro di Berlino aveva posto l’esigenza di un urgente “colpo di spugna”». E’ storia, ormai: «Sul sistema di finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche, in funzione dal dopoguerra e adottato da tutti, anche in violazione della legge sul finanziamento dei partiti entrata in vigore nel 1974, veniva posto un coperchio».“Serviva”, quel coperchio, per legittimare una “nuova” classe dirigente europeista, usa obbedir tacendo. «Il regime avanza inesorabilmente: lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato», scriveva Craxi quasi vent’anni or sono. «La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza». Il regime, continua Craxi, «avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante». A proposito di “sottocultura”, Bellisario ricorda il recentissimo attacco «violento, squallido e di bassissimo profilo» sferrato da Luciana Littizzetto contro il Movimento 5 Stelle nientemeno che dalla tribuna televisiva di Fabio Fazio, sulla Rai (in compenso, all’epoca, dalla televisione di Stato fu cacciato Beppe Grillo, colpevole di mettere alla berlina di socialisti “ladri”: anche di quello si occupava, Craxi, anziché esternare sui pericoli della globalizzazione privatizzatrice in arrivo).«Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici», scrisse più tardi, da Hammamet, il segretario del Psi. «A ciò si aggiunga la presenza sempre più pressante della finanza internazionale, il pericolo della svendita del patrimonio pubblico, mentre peraltro continua la quotidiana, demagogica esaltazione della privatizzazione», che è sempre «presentata come una sorta di liberazione dal male, come un passaggio da una sfera infernale ad una sfera paradisiaca: una falsità che i fatti si sono già incaricati di illustrare, mettendo in luce il contrasto che talvolta si apre non solo con gli interessi del mondo del lavoro ma anche con i più generali interessi della collettività nazionale». Parole sante, col senno del poi? Non si direbbe: la Grande Privatizzazione continua anche ora e più che mai, con Renzi, che mette all’asta persino un modello di impresa pubblica in super-attivo, Poste Italiane.Facile dire che vedeva lungo, Craxi: «La “globalizzazione” non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subìta in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Chissà cos’avrebbe detto, oggi, di fronte agli ultimi orrori, a comiciare dal Ttip, il Trattato Transatlantico Usa-Ue che rade al suolo ogni residua sovranità economica. Per non parlare del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, a certificare la morte clinica dello Stato come garante della comunità nazionale. Ai tempi, quando i Prodi e i Ciampi magnificavano il dorato avvenire promesso da Bruxelles, Craxi scriveva: «I parametri di Maastricht non si compongono di regole divine. Non stanno scritti nella Bibbia. Non sono un’appendice ai dieci comandamenti». E l’andamento di questi anni «non ha corrisposto alle previsioni dei sottoscrittori: la situazione odierna è diversa da quella sperata».Ogni trattato, aggiungeva Craxi, può e deve essere rinegoziato, aggiornato, adattato alle condizioni reali e alle nuove esigenze: «Questa è la regola del buon senso, dell’equilibrio politico, della gestione concreta e pratica della realtà», lontano cioè dall’autismo dogmatico dei tecnocrati e dei loro cantori più o meno prezzolati, distribuiti in ogni paese. «Su di un altro piano stanno i declamatori retorici dell’Europa, il delirio europeistico che non tiene contro della realtà, la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione». La “scelta della crisi”, dunque, da cui la “conseguente disoccupazione”. L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Ed era solo la fine degli anni ‘90. L’Italia non era ancora finita nel girone infernale della Bce: recessione e crollo del Pil, super-tassazione, licenziamenti e fallimenti, erosione dei risparmi, disperazione sociale, rassegnazione al declassamento dell’Italia Così parlava il “profeta” Craxi. Rileggerlo oggi? Scomodo, per troppi personaggi in pista già allora. Uomini che però, anziché ad Hammamet, sono fini alla Bce, al Fondo Monetario e all’Ocse, a Bankitalia, alla Goldman Sachs. E naturalmente a Palazzo Chigi, e al Quirinale.Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.
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Expo, fiasco segreto: affari loro, e indovinate chi pagherà?
L’Expo? Un affarone per tanti, a cominciare da Pd e Compagnia delle Opere. Molto meno per gli italiani, che dovranno pagare per la voragine (oscurata dai media) dei mancati introiti: biglietti venduti a 20 euro e poi a 10 anziché a 30, a una ventina di milioni di visitatori, contro i 29 previsti. La grande kermesse è stata di un terzo al di sotto delle aspettative, accusa Mario Vitiello su “Comune-Info”, sottolineando «le innumerevoli ferite che si devono ancora rimarginare», dopo la maxi-speculazione organizzata alla periferia di Milano. La proprietà delle aree è di Arexpo Spa, la società che ha comperato il milione di metri quadri su cui si è svolto l’evento: «Li ha acquistati da Cabassi, da Fondazione Fiera e da Poste Italiane, pagandoli uno sproposito (grazie ad una speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti), indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro)». E ora? «La gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata deserta, e in molti stanno pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano interessare a tutti ma che nessuno vuole».Expo Spa è la società che ha costruito la maxi-installazione per gestire lo show. I suoi compiti? Organizzare e gestire l’evento, redigere il piano finanziario delle opere essenziali, gestire i finanziamenti pubblici degli enti finanziatori, stipulare i contratti relativi alla gestione operativa dell’evento e acquisirne i proventi. Expo Spa ha realizzato il sito, stipulato i contratti con i paesi ospiti, gestito il management, incassato i proventi di pubblicità e merchandising nonché quelli dei biglietti. «Ad oggi non è chiaro a nessuno quale sia il bilancio definitivo di Expo Spa», scrive Vitiello. «Certo è che erano attesi 29 milioni di visitatori, e forse si arriverà a 20 milioni», nella conta finale. «Il masterplan prevedeva che l’accesso costasse 30-32 euro, mentre fin dal mese di aprile erano sul mercato biglietti a 20 euro, che diventavano 10 euro per le scuole». In più, dal mese di giugno i visitatori serali (comunque contati nel conto complessivo) sono entrati pagando solo 5 euro. «Molti paesi non stanno pagando i creditori, tra cui gli Stati Uniti». Morale: «Si può affermare, senza timore di grosse smentite, che Expo produrrà un importante passivo che dovrà essere ripagato dall’unico soggetto capace di una operazione di questo genere e portata: il ministero dell’economia, cioè lo Stato, tramite Cassa Depositi e Prestiti».Questa voragine, aggiunge Vitiello, avrà sicuramente ripercussioni sul bilancio del Comune di Milano, sull’economia dell’intera regione e, in generale, sul “sistema paese”. «Sul piano politico (e delle politiche) Expo è una specie di buco nero», continua Vitiello. «Tutti si sono improvvisamente scoperti “expottimisti”, a partire ovviamente dal Pd e dalla giunta del sindaco Pisapia, che ha ereditato l’Expo quando ne avrebbe volentieri fatto a meno ma che non ha saputo dire l’unico “no” che avrebbe dato un senso al suo mandato». L’euforia da Expo «è stata venduta con gran dispiegamento di forze», e alla fine il mantra che ripete ossessivamente “Expo è un successo” «si è affermato con modalità orwelliane». Attenzione: «La saldatura tra Comunione e Liberazione e Pd nella gestione di tutta l’area metropolitana è oramai definitiva». Sotto i profilo culturale, poi, l’Expo si è rivelato «esattamente quello che molti avevano sempre temuto: la materializzazione di una specie di Disneyland in versione padana, con una dose rilevante di kitch e una enorme capacità di imporre il pensiero unico dell’”Expo felice”».Non è un caso che il grande evento sia stato accolto dai media col tappeto rosso: «Ha dato una grossa mano il contribuito di (pare) circa 50 milioni elargito da Expo alle maggiori testate e giustificato sotto la voce “comunicazione istituzionale”», scrive Vitiello. Boom turistico? Sì, certo: ma solo per l’Expo, non per Milano. Weekend intasati e code chilometriche, ma soltanto a Rho. A Milano città, «molti ristoratori lamentano un calo delle presenze in centro, molti esercizi commerciali fuori dalle rotte-Expo non hanno registrato alcun incremento di clientela». In compenso, «sul piano della legalità Expo ha avuto il pregio di far emergere il peggio del peggio della corruzione, della connivenza tra settori dello Stato, con manager incaricati di gestire la cosa pubblica, e criminalità organizzata». Soprattutto ha dimostrato, per quanto fosse già chiaro, che «la macchina del “grande evento”, così come è pensata, genera un diffuso agire criminale». Ormai è chiaro: «Non esiste una “grande opera” sana e pulita, le grandi opere per definizione sono un precipitato di criminalità e di connivenza tra impresa, Stato e organizzazioni malavitose, tanto da rendere difficile distinguere i confini tre questi soggetti».Il dopo-Expo? «Per ora assomiglia a qualcosa a metà tra un film con Fantozzi e un film di Fellini», continua Vitiello. «Sicuramente subiremo con violenza la narrazione del successo di Expo, e si userà il numero di visitatori per giustificarlo. Invece i numeri reali del bilancio verranno tenuti nascosti almeno per tutta la campagna elettorale, che si svolgerà nella prossima primavera». L’unico soggetto che ne uscirà bene sarà Ffm, Fondazione Fiera Milano, «che venderà la sua quota in Arexpo allo Stato, incasserà le plusvalenze e non dovrà nemmeno preoccuparsi delle bonifiche, delle dismissioni e di qualsiasi cosa riserverà il dopo-sito». L’area di Expo, infatti, «rischia di rimanere abbandonata a se stessa per i prossimi mesi e forse per i prossimi anni», perché «tutti resteranno fermi in attesa che vengano definiti gli accordi tra i poteri forti», che per l’area milanese in questa fase significano l’intreccio tra Fondazione Fiera, Ferrovie dello Stato (che «sta per trasformare gli ex scali ferroviari in nuove speculazioni edilizie»), Aler (che «procederà con la svendita del patrimonio immobiliare pubblico») e l’università, che «tenterà di diventare l’ennesimo agente del Real Estate».Uno scenario ad elevato rischio di bolla speculativa, insiste Vitiello, perché «a Milano non esiste nessun bisogno reale, cioè capace di suscitare mercato, di nuove edificazioni o di nuovi interventi, che finiranno per moltiplicare i fallimenti di Santa Giulia o di City Life». Infine si devono considerare i progetti infrastrutturali, che trovano nuova forza dallo “Sblocca Italia” e incombono sull’area metropolitana (in particolare sul Parco Sud: trivelle, discariche e stoccaggi di idrocarburi). Questi progetti «confermano la gigantesca menzogna di Expo rispetto al tema dell’esposizione: cibo, filiera corta, alimenti a km zero, agricoltura sostenibile e periurbana», e dimostrano «l’inutilità della Carta di Milano, spacciata come “High Agreement” quando in realtà nessuno sa cosa ci sia scritto e finirà dimenticata». Expo? «E’ stato e sarà un furto alla collettività. È stato realizzato con risorse pubbliche che hanno drenato le casse del Comune, della Regione e domani anche dello Stato». Il maxi-evento, inoltre, «non ha ridistribuito ricchezza». Ha generato «limitatissimi ritorni economici diffusi», mentre ha prodotto «enormi plusvalenze per pochi soggetti, collocati in posizione strategica». Per Vitiello, quella di Milano 2015 «è stata la vittoria della logica emergenziale, violenta e privatistica di concepire l’economia e più in generale i rapporti sociali in questa fase di crisi», dove tutto è stato “blindato” da Fiera e Compagnia delle Opere.L’Expo? Un affarone per tanti, a cominciare da Pd e Compagnia delle Opere. Molto meno per gli italiani, che dovranno pagare per la voragine (oscurata dai media) dei mancati introiti: biglietti venduti a 20 euro e poi a 10 anziché a 30, a una ventina di milioni di visitatori, contro i 29 previsti. La grande kermesse è stata di un terzo al di sotto delle aspettative, accusa Mario Vitiello su “Comune-Info”, sottolineando «le innumerevoli ferite che si devono ancora rimarginare», dopo la maxi-speculazione organizzata alla periferia di Milano. La proprietà delle aree è di Arexpo Spa, la società che ha comperato il milione di metri quadri su cui si è svolto l’evento: «Li ha acquistati da Cabassi, da Fondazione Fiera e da Poste Italiane, pagandoli uno sproposito (grazie ad una speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti), indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro)». E ora? «La gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata deserta, e in molti stanno pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano interessare a tutti ma che nessuno vuole».
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Marino piange, ma dov’era quando il Pd smontava l’Italia?
Pugnalato da 26 congiurati agli ordini di “un solo mandante”, Matteo Renzi. L’enfasi di Ignazio Marino che manifesta orripilato stupore per la sua vile defenestrazione assume toni di carattere lunare: a quale partito credeva di essere iscritto, l’ex sindaco della capitale? Dov’era, il senatore Marino, quando il Pd di Bersani votava senza fiatare la riforma Fornero e l’affondamento dell’Italia ad opera della Troika, per mano di Mario Monti? Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione: Marino dov’era? A Palazzo Madama. Ma forse già pensava a come “cambiare Roma”, novello Che Guevara ma di stretta osservanza europeista e ordoliberista, allineato al mainstream del pensiero unico per il quale la sciagura del paese non è l’Eurozona, come ormai tutti gli economisti riconoscono, ma ovviamente il debito pubblico, che in Italia fa rima con corruzione, mafia ed evasione fiscale, e fino a ieri anche col bieco Cavaliere (caduto in quale, infatti, i problemi del paese si sono tutti magicamente risolti: ripresa alle stelle, disoccupazione a zero, felicità di massa che invade le strade).La Marino-story tiene banco sui giornali e nei talk-show dove si parla di scontrini e Mafia Capitale, congiure del silenzio, il gelo del premier-padrone e la freddezza del Vaticano. La finanza locale perde i pezzi, sotto la scure della legge di stabilità, ma il sindaco-contro pensava comunque di “cambiare Roma” anche senza soldi, il denaro che lo Stato – in avanzo primario per ordine di Bruxelles – rifiuta di trasferire per i servizi, perché il welfare deve dimagrire, la spesa pubblica si deve tagliare, i buchi nelle strade possono diventare crateri senza che nessuno protesti davvero, nessuno indichi la radice del male, la fonte originaria del problema. Anche a questo può servire la Marino-story, condita con sushi e sashimi, traditori e lealisti, rinnegati e irriducibili. Uno come Marco Travaglio, ben lungi dall’avventurarsi in analisi storico-politiche, si limita a una constatazione notarile: il Pd ha impedito a Marino di dimettersi dopo lo scandalo Mafia Capitale e ora l’ha messo in croce per l’inezia di quattro scontrini al ristorante. Dov’è la coerenza? Conclusione: in questa farsa, dove nessuno esce a testa alta, al Nazzareno tocca la parte peggiore.Ma questi sono solo gli spiccioli. Dal 2011, l’anno di Monti, sono fallite centinaia di migliaia di imprese, mille al giorno solo nel 2012 secondo Unioncamere. Pil in picchiata e record storico di senza lavoro, disoccupazione giovanile mai vista prima nella storia della repubblica. Non è stato un incidente, riassume l’economista Nino Galloni: fu la Germania, in cambio della rinuncia al marco e dell’adesione all’euro, a pretendere dalla Francia (dal cui consenso dipendeva la riunificazione tedesca) che la concorrenza industriale del sistema-Italia venisse sabotata e liquidata. Così l’Italia è stata puntualmente declassata e deindustrializzata, con la complicità di Confindustria (meno lavoro, quindi compressione dei salari, fino all’attuale Jobs Act) e il supporto decisivo del centrosinistra privatizzatore (Prodi, Andreatta, D’Alema, Amato). E’ stato proprio il centrosinistra, sindacati compresi, a convincere il paese ad affrontare “sacrifici”, secondo lo schema della “svalutazione interna”, non potendosi più svalutare la moneta. Ignazio Marino, l’aspirante salvatore della capitale, è stato una delle tante comparse del film. Ora parla di tradimento, pensando al suo piccolo scranno in Campidoglio, senza accorgersi che i traditi sono gli italiani, a cui un’intera classe politica – oggi guidata dal Pd – ha semplicemente portato via il paese, svenduto pezzo su pezzo, secondo il piano prestabilito all’estero, molto lontano da Roma.Pugnalato da 26 congiurati agli ordini di “un solo mandante”, Matteo Renzi. L’enfasi di Ignazio Marino che manifesta orripilato stupore per la sua vile defenestrazione assume toni di carattere lunare: a quale partito credeva di essere iscritto, l’ex sindaco della capitale? Dov’era, il senatore Marino, quando il Pd di Bersani votava senza fiatare la riforma Fornero e l’affondamento dell’Italia ad opera della Troika, per mano di Mario Monti? Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione: Marino dov’era? A Palazzo Madama. Ma forse già pensava a come “cambiare Roma”, novello Che Guevara ma di stretta osservanza europeista e ordoliberista, allineato al mainstream del pensiero unico per il quale la sciagura del paese non è l’Eurozona, come ormai tutti gli economisti riconoscono, ma ovviamente il debito pubblico, che in Italia fa rima con corruzione, mafia ed evasione fiscale, e fino a ieri anche col bieco Cavaliere (caduto in quale, infatti, i problemi del paese si sono tutti magicamente risolti: ripresa alle stelle, disoccupazione a zero, felicità di massa che invade le strade).