Archivio del Tag ‘poteri forti’
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Carpeoro: avremo la solita merda, perché votiamo con odio
Nessuno si faccia illusioni: alla fine delle procedure istituzionali di rito, lente e macchinose, al governo ci sarà il solito schifo, fatto di politici “dimezzati” e proni ai diktat dell’élite finanziaria. Detto in francese: «Avremo la solita merda». Motivo? «Abbiamo votato come sempre: contro qualcuno, anziché per qualcosa. Ha vinto l’odio, ancora una volta. Inevitabile, quindi, che il risultato finale sia il nulla, il vuoto assoluto». Gianfranco Carpeoro non ha dubbi: nascerà comunque un governo, perché la “sovragestione” dei poteri forti teme un unico scenario, quello di nuove elezioni. Quale governo? Dipende dalla formula che alla fine prevarrà, dopo aver in ogni caso rottamato Matteo Renzi: l’ex premier «verrà “garrotato” lentamente, in modo che si tolga di mezzo e cessi di ostacolare l’unica soluzione percorribile, cioè quella di un esecutivo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Pd», opportunamente de-renzizzato. La sortita di Emiliano, che tifa per la convergenza verso i grillini? «Una candidatura personale, nel caso nel Pd prevalga la tentazione di un’alleanza aperta coi pentastellati». La discesa in campo di Calenda? Solo una variazione sul tema: «Sarebbe lo scivolo perfetto per riproporre la candidatura di Gentiloni, come capo di un “governo del presidente”, in ogni caso sempre sostenuto dai 5 Stelle e dal Pd senza più Renzi», ridotto al ruolo di semplice senatore e di fatto isolato, anche se a capo di una nutrita pattuglia di parlamentari a lui fedeli.
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Caldarola: perché i poteri forti tifano Di Maio e non Salvini
Il potere oggi punta sui 5 Stelle, perché il movimento fondato da Grillo «è terra di conquista di poteri forti, anche internazionali», a differenza della Lega di Salvini, finora respinto dai circoli di Bruxelles: «Il diniego che viene a Salvini dai poteri che contano nasce innanzitutto per evitare un suo asse con altre formazioni di destra europee, e dal fatto che si sa che il capo della Lega farebbe più o meno ciò che dice». Lo afferma Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. Gioco più facile, secondo Caldarola, con Di Maio e soci: «Una volta arrivato nella stanza dei bottoni, il M5S può schiacciarne diversi. Chi arriverà per primo a dare il suggerimento giusto – che loro cercheranno – potrà influenzarli». Napolitano, Scalfari, il “Corriere”? «Uomini come Napolitano e Scalfari ritengono che il M5S sia una pagina bianca su cui si possa scrivere in libertà, ma è solo un’illusione». Il vero grande dubbio sui 5 Stelle, riassume Ferraù, è che nessuno sa chi prende davvero le decisioni che contano. Puoi appoggiare i grillini in Parlamento e venirti poi a trovare di fronte a una scelta diversa, senza sapere chi l’ha imposta: Grillo, Casaleggio, Di Maio o qualcun altro. La verità, sospetta Caldarola, è che la chiave sia lontana da Roma: i veri “influencer”, capaci di pesare sul vertice pentastellato, siedono nel grande potere finanziario atlantico.E’ questa l’angolazione da cui Caldarola guarda alla parita post-elettorale in corso, a cominciare dallo psicodramma in casa Pd: «Devo riconoscere che il no di Renzi al patto con i 5 Stelle è stato un passaggio molto limpido», premette Caldarola. Il Pd continuerà a esistere? «Difficile dirlo. Un partito che ha meno voti degli altri può essere determinante solo se ha un leader forte e conosciuto, come è stato per Bettino Craxi». Anche se si è costruito una truppa di parlamentari fedeli, «che diminuirà strada facendo», oggi Renzi «è tragicamente azzoppato». Al massimo, il Pd può favorire uno dei due vincitori parziali, Lega o M5S, oppure non farlo (e in questo caso ogni verifica parlamentare andrà a sbattere contro il diniego del Pd). «Nel frattempo però il Partito Democratico può sempre scoppiare, perché le sue contraddizioni sono troppo grandi». C’è un dato su cui, nel Pd, secondo Caldarola nessuno sta riflettendo: «Il marchio si è logorato. Si è identificato non solo con Renzi, ma con tutte le esperienze di governo recenti, da Letta a Monti, che sono state giudicate negative dall’elettorato». Un grande equivoco: un partito teoricamente erede della sinistra, che ha avallato le peggiori politiche neoliberali imposte da Bruxelles. Rimpiazzare Renzi? «Non basta un nuovo leader, occorre ripensare il soggetto e il progetto politico.Si fa avanti l’ex ministro Carlo Calenda: «Ha delle qualità, ma non l’appeal elettorale necessario». Il vicesegretario Maurizio Martina? «Non credo che sia così ambizioso da proporre se stesso». Per Caldarola è più probabile il ritorno al fondatore, Walter Veltroni. «Un’altra strada è che l’assemblea trovi un personaggio capace di garantire più o meno tutte le aree», aggiunge Carladola, ricordando che Renzi controlla un gruppo di parlamentari, ma sa che finirà all’opposizione e gli conviene evitare la mischia. «Potrebbe anche venirgli in mente di fondare un partito, magari in vista del voto anticipato, presentandosi come il campione del no a M5S e a Salvini. Così facendo potrebbe acchiappare voti di centro, ex Pd ed ex Forza Italia». Andrea Orlando ha detto che il 90% dei dirigenti del partito non vuole andare col Movimento 5 Stelle: «E’ vero, la ferita è troppo fresca. Un Pd che facesse l’accordo coi 5 Stelle non si salverebbe», sostiene Caldarola: «Farebbe la fine dei partiti di sinistra eredi del Pci che si sono alleati alla “Rete” di Leoluca Orlando: il Dna populista di quest’ultimo li ha sciolti e assimilati. In ogni caso il Pd sarebbe fuori dalla decisione politica». Oggi, non a caso, i grandi poteri puntano invece sui 5 Stelle: «Tutti i fautori della “governabilità” ad ogni costo, che oggi è riconoscibile nel leitmotiv di politici, industriali, banche e grande stampa, dicono: “Perché non devono tentare? Davvero siamo disposti a lasciare il paese senza governo?”». Se Di Maio resterà in pole position, certo non sarà solo.Il potere oggi punta sui 5 Stelle, perché il movimento fondato da Grillo «è terra di conquista di poteri forti, anche internazionali», a differenza della Lega di Salvini, finora respinto dai circoli di Bruxelles: «Il diniego che viene a Salvini dai poteri che contano nasce innanzitutto per evitare un suo asse con altre formazioni di destra europee, e dal fatto che si sa che il capo della Lega farebbe più o meno ciò che dice». Lo afferma Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. Gioco più facile, secondo Caldarola, con Di Maio e soci: «Una volta arrivato nella stanza dei bottoni, il M5S può schiacciarne diversi. Chi arriverà per primo a dare il suggerimento giusto – che loro cercheranno – potrà influenzarli». Napolitano, Scalfari, il “Corriere”? «Uomini come Napolitano e Scalfari ritengono che il M5S sia una pagina bianca su cui si possa scrivere in libertà, ma è solo un’illusione». Il vero grande dubbio sui 5 Stelle, riassume Ferraù, è che nessuno sa chi prende davvero le decisioni che contano. Puoi appoggiare i grillini in Parlamento e venirti poi a trovare di fronte a una scelta diversa, senza sapere chi l’ha imposta: Grillo, Casaleggio, Di Maio o qualcun altro. La verità, sospetta Caldarola, è che la chiave sia lontana da Roma: i veri “influencer”, capaci di pesare sul vertice pentastellato, siedono nel grande potere finanziario atlantico.
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Formenti: e ora il potere annullerà questa rivolta elettorale
Dopo Trump, la Brexit e il referendum italiano sulla Costituzione, erano arrivate la vittoria di Macron e il recente, travagliato rilancio della “grande coalizione” Cdu-Spd in Germania, alimentando nell’establishment “liberal” l’illusione che la marea populista fosse sul punto di rifluire. Invece no: il risultato delle elezioni del 4 marzo l’onda prosegue e rischia di travolgere «la diga eretta da partiti tradizionali, media e istituzioni nazionali ed europee», scrive Carlo Formenti su “Micromega”. 5 Stelle e Lega triplicano le rispettive rappresentanze parlamentari e i loro voti sommati superano il 50%, «certificando che metà dei cittadini italiani sono euroscettici e non credono più alle narrazioni sulla fine della crisi e sui presunti benefici della globalizzazione». Per i media, siamo allo tsunami populista. Ma che radici sociali ha? Quali sono le differenze fra le sue due anime principali? E perché le sinistre (socialdemocratiche e radicali) stanno affondando nell’insignificanza politica? E poi: perché, malgrado tutto, l’establishment è ancora in grado resistere? Quali scenari si apriranno, se e quando la diga crollerà davvero?
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Il potere vota Di Maio. Scalfari: è il nuovo leader, a sinistra
Per Marco Travaglio, a dare spettacolo è il noto sport nazionale: correre in soccorso dei vincitori. Sempre che i soccorritori, in questo caso, non siano i terminali italiani degli azionisti-ombra dei 5 Stelle, tranquillizzati in anticipo da Luigi Di Maio nei santuari del sommo potere, da Londra a Washington, prima ancora di presentare una lista iper-rassicurante di possibili ministri tecnici, a partire dal neoliberista Fioramonti, il cui curriculum contempla nomi come Rothschild, Rockefeller e Soros. «I poteri forti si riposizionano», titola il “Fatto Quotidiano”. O meglio: forse rendono palese ciò che prima era nascosto, e cioè che il successo firmato Di Maio fosse, fin dall’inizio, il loro Piano-B. Ovvero: non l’imbarazzante avanzata di una forza “antisistema”, ma il prevedibile boom di un’ala “populista” del sistema stesso, adatta a drenare il dissenso sociale di un’Italia in crisi. Da Marchionne a Confindustria, la convergenza su Di Maio si è fatta aperta e spettacolare, quasi quanto quella di Eugenio Scalfari, decano del “quarto potere” italico. Per il fondatore di “Repubblica”, che pochi mesi fa ai 5 Stelle avrebbe preferito persino l’odiato Berlusconi, oggi di Di Maio non è solo il legittimo capo del prossimo ipotetico governo, ma addirittura il leader del nuovo, grande partito unico della sinistra italiana, destinato a inglobare e assorbire lo stesso moribondo Pd. Questione di parole: sostituendo “sinistra” con “potere”, il cerchio si chiude.
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Dopo le elezioni, tutto come prima: l’Italia resta sottomessa
Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordololiberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 25%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».Esponente del Movimento Roosevelt, scrittore, simbologo, avvocato di lungo corso con un passato socialista, Carpeoro ha le idee chiare sul voto: «Centrodestra o 5 Stelle, non cambia niente: non esiste un rischio maggiore, è la stessa cosa. Perché chiunque vince, lo fa in nome di una sovragestione unica, che porta allo stesso tipo di governo», ha detto Carpeoro, a urne ancora aperte. «E’ assolutamente irrilevante, sapere chi vince: se i partiti che vincono sono quelli che vincono per effetto della sovragestione, devono rispondere alla sovragestione». Parole che Carpeoro ha affidato a Fabio Frabetti di “Border Nights”, nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube. «Non si scappa, se fai parte di quello schema. I 5 Stelle non ne facevano parte? Ma poi Di Maio ha fatto un bel viaggio a Londra, un bel viaggio in America… E comunque c’erano già le premesse anche prima, perché non è che Casaleggio fosse una realtà così staccata dal potere. Poi però con Di Maio hanno fatto capire che cosa vogliono fare, no?». Basta vedere l’ipotetico governo presentato in anticipo a Mattarella, con il neoliberista Fioramonti all’economia. «Non è che non pretendano garanzie, quelli a cui hai chiesto aiuto a Londra e in America: impongono il tuo appoggio, la tua la non-ostilità, l’assicurazione che non verrebbe ostacolato il loro progetto». E se vai al governo e poi non ne tieni conto? «Potresti fare la fine di Craxi, o quella di Olof Palme».Per Carpeoro, cha ha lanciato l’idea di promuovere in primavera un convegno sul grande leader svedese, assassinato a Stoccolma nel 1986 mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale dell’Onu, Olof Palme – cui guardavano Craxi, il tedesco Helmut Schmidt e lo stesso Mitterrand – avrebbe cambiato volto all’Europa, impedendo l’instaurarsi del regime Ue (quello che, ancora oggi, sottrae all’Italia la possibilità di qualsiasi alternativa elettorale al dominio dell’oligarchia finanziaria). «Le sue idee sono ancora attuali, perché Olof Palme era avanti di trent’anni», sottolinea Carpeoro. «Aveva contestato agli Usa il fatto di fare guerre sempre a casa degli altri, aveva polemizzano aspramente con l’Urss per l’invasione di Praga, e soprattutto aveva un progetto economico basato su un sistema misto, pubblico-privato, con la compartecipazione dei lavoratori nelle aziende pubbliche e private, sistema che aveva consentito alla Svezia di uscire dalla crisi economica che invece colpiva gli altri paesi. In più era un ecologista, voleva affrancarsi dagli idrocarburi e dalla schiavitù del petrolio, sosteneva già progetti di energia alternativa». E’ stato fermato, colpito alla schiena da un killer invisibile e tuttora ignoto. «Faceva paura, perché avrebbe ostacolato gli interessi della sovragestione: tutta una serie di equilibri politici che su quelle realtà economiche sono fondati hanno rintenuto di farlo ammazzare. Aveva la capacità, le idee e la visione per costruire delle cose diverse».Da un gigante come Olof Palme ai nani dell’attuale politica italiana: Matteo Renzi in fuga dai giornalisti, con il Pd ridotto al 19%. La scissione di D’Alema e Bersani fermatasi sotto il 4%. Berlusconi appena sopra il 13%, dopo aver lanciato l’euro-maggiordomo Tajani, garantendo ai poteri forti europei il rispetto delle regole di ferro, l’austerity che sta devastando l’Italia. Il successo della Lega di Salvini, che sorprassa il Cavaliere e ormai tallona il Pd, è gravemente condizionato proprio dall’alleanza con Forza Italia, prona ai diktat di Bruxelles. Quanto ai 5 Stelle, hanno fatto il pieno nel centro-sud grazie alla promessa del reddito di cittadinanza, ma Di Maio ha già messo le mani avanti presentando il suo ipotetico esecutivo di tecnocrati: «Sembra il governo Monti senza Monti», commenta desolatamente Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt. Cosa accadrà ora? Se lo domandano tutti i giornalisti. Non Carpeoro: a prescindere dal nome del futuro premier e dal colore del suo partito, per gli italiani non cambierà assolutamente niente. Non cambia il programma: rigore, sofferenze, vincoli, sottomissione all’élite finanziaria che si è impadronita dell’Ue. Sono corsi a votare, gli italiani, ma – a quanto pare – è come se non avesse votato nessuno: tutto è esattamente come prima. La nave rischia di affondare, e la rotta (ancora una volta) non sarà decisa da chi siede a Roma.Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordoliberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 27%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».
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Dezzani: il piano è spolpare l’Italia grazie al governo Di Maio
«Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.Il processo di annichilimento della Penisola, avviato nei primi anni ‘90 con Tangentopoli e la destabilizzazione della Somalia, secondo Dezzani ha accelerato a partire dal 2011: austerità, cessione delle imprese strategiche (Telecom, Edison, Unicredit, alimentare e lusso), guerra in Libia e conseguenti flussi migratori incontrollati. Arrivati nel 2018, sta per iniziare l’ultima fase del processo di “demolizione controllata” dell’Italia. «E le imminenti elezioni del 4 marzo, decretando chi dovrà gestire il pericolosissimo aumento generalizzato dei tassi ed il conseguente crollo delle piazze finanziarie, giocano un ruolo cruciale». La legge elettorale difettosa, che impedisce la governabilità? Non è un caso, sostiene Dezzani nel suo blog: «L’ingovernabilità è un valore – scrive – perché obbliga le istituzioni ad adottare, una volta chiuse le urne, soluzioni “impensabili”». Ovvero: «Costringe a sdoganare definitivamente il Movimento 5 Stelle, usandolo come perno attorno cui costruire un governo». Secondo Dezzani, l’opinione che i “poteri forti” premano per una grande coalizione “di centro”, basata su un patto tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, è errata: «Entrambi sono indigesti a chi conta davvero», come «i circoli finanziari rappresentati dal settimanale “The Economist” che, per inciso, sono gli stessi che hanno partorito la Casaleggio srl e il Movimento 5 Stelle».Per Dezzani, la strategia dell’alta finanza non contempla una grande coalizione tra partiti “moderati”, ma «una grande coalizione incentrata sui grillini, la cui forza, si noti, nasce da quelle stesse politiche di austerità imposte dall’alta finanza». Dopo Monti e Letta, Renzi e Gentiloni, ecco il “virus” 5 Stelle, «gonfiato a dismisura dalle politiche dei precedenti esecutivi “europeisti”». Sempre secondo Dezzani, sarebbe illuminante l’atteggiamento del “Corriere della Sera”, che l’analista definisce «storico giornale della borghesia anglofila e “badogliana”». Si parte nel 2011 con l’incondizionato sostegno a Mario Monti, poi si sostiene la linea di austerità, privatizzazioni e ultra-europeismo di Letta, Renzi e Gentiloni, e adesso, quando il Pd è ormai logoro, si vira verso il Movimento 5 Stelle, «preparando così il terreno ad un governo grillino con la benedizione del primo quotidiano d’Italia», svolta incarnata dalla direzione di Luciano Fontana, con accanto un editorialista come Ernesto Galli della Loggia, «principale artefice dello “sdoganamento” del M5S: il movimento non è eversivo, è democratico e incarna la volontà di “palingenesi” del paese». Analogo percorso da La7 di Urbano Cairo, mai anti-grillina fin dall’inizio «essendo nata come tv della Telecom che ha giocato un ruolo chiave nella nascita del M5S».Domanda: «Perché il giornale della borghesia “anglofila” si prodiga per sdoganare i 5 Stelle, nonostante il clamoroso fallimento della giunta Raggi a Roma e di quella Appendino a Torino (che deve le sua nascita al decisivo avvallo degli Agnelli-Elkann)?». Ovvero: «Perché l’establishment liberal lavora per portare i grillini al potere, nonostante la loro manifesta incapacità di governare?». Perché sono deboli e fragili, quindi facilmente manovrabili da chi mira a spolpare definitivamente il paese. E’ la tesi che Dezzani formula, prendendo spunto dal caso-Roma: «Supponiamo che l’esperimento “Raggi” sia ripetuto a scala nazionale, per di più in un contesto macroeconomico sempre più ostile (aumento tassi e recessione economica); quale sarebbe il destino dell’Italia? Come una nave senza comandante in mezzo alla tempesta (dopo anni, peraltro, di incuria e malgoverno), l’Italia sarebbe travolta dai marosi della crisi: caos, saccheggio e default. La lunga stagione di “destrutturazione” del paese, iniziata nel 1992-1993, culminerebbe così in un epico schianto, grazie al M5S (dopotutto, non fu grazie ad Antonio Di Pietro, l’uomo simbolo di Mani Pulite, se Gianroberto Casaleggio si affacciò alla politica?)».E come si arriverebbe, concretamente, a un governo 5 Stelle? «Attraverso il “contratto” proposto da Luigi Di Maio», scrive Dezzani, ricordando che il leader grillino «ha smentito un’alleanza con la sinistra ma, per scongiurare scenari di “caos”, ha parallelamente aperto ad un programma di legislatura con chi è disponibile, da mettere nero su bianco in un contratto. E chi potrebbe essere disponibile a quest’avventura, se non proprio la sinistra?». Conti alla mano: “Liberi e Uguali” (5%) e un Pd al 20-25% «depurato dall’ormai esausto Matteo Renzi», tutto sommato «fornirebbero un numero di parlamentari sufficienti a formare una maggioranza», sommandoli all’ipotetico 25-30% del Movimento 5 Stelle. «Così, le disastrose amministrazioni Raggi e Appendino verrebbero replicate nei dicasteri romani, con il preciso intento di portare l’Italia alla bancarotta e spalancare le porte alla speculazione più selvaggia».Qualcuno potrebbe obiettare: ma non è interesse dell’establishment atlantico preservare la calma sui mercati, spingendo verso un governo “moderato”? Non è l’Italia “too big to fail”? Dezzani ritiene di no: «Dieci anni di liquidità a costo zero hanno creato un’enorme bolla azionaria e obbligazionaria che, alzati i tassi di interesse, cerca soltanto un pretesto per scoppiare: l’Italia del 2018 potrebbe essere la Lehman Brothers del 2008». Inoltre, aggiunge l’analista, «l’oligarchia finanziaria atlantica ha spinto al default negli ultimi 20 anni la Russia, i paesi del sud-est asiatico (1997-1998) e l’Argentina (2001). Non si capisce per quale motivo dovrebbe risparmiare l’Italia che, come ricordano sinistramente molti commentatori, vale ormai soltanto il 2-3% del Pil mondiale. E se il Movimento 5 Stelle sarebbe «il cavallo di Troia per portare il paese alla bancarotta», conclude Dezzani, «le nostre istituzioni massoniche e la borghesia “badogliana”, da sempre alleate col nemico, sono suoi complici».«Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.
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Magaldi: potessimo “votare” per Olof Palme, cioè per l’Italia
Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».Non lasciatevi ingannare dalle apparenze: quello che ci aspetta è solo «una grande palude», sostiene Magaldi, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio”. «Nel mondo che Berlusconi auspicherebbe, cioè con una centralità di Forza Italia dopo il voto del 4 marzo», il presidente del Parlamento Europeo «sarebbe la carta perfetta, perché gli consentirebbe di avere un suo uomo gradito ai salotti e agli organi istituzionali europei». In fondo, Antonio Tajani «è il Gentiloni del centrodestra: non dà troppo disturbo e sarebbe perfetto per non suscitare particolari avversioni da parte di nessuno. E’ percepito come un moderato, senza infamia né lode. Ma per vederlo a Palazzo Chigi dovrebbe vincere il centrodestra, con Forza Italia in vantaggio sulla Lega: condizioni non facilissime da realizzarsi». Di fatto, «Tajani è un candidato ecumenico che può piacere a tanti, come si fa finta che possa piacere Gentiloni». Ma in realtà, dichiara Magaldi, «sono personalità diafane, prive di un reale spessore, non in grado di imprimere una qualche direzione: sono terminali di chi sta loro dietro: lo è stato Gentiloni in rapporto a Renzi, anche se adesso Gentiloni sembra vivere di vita propria».In più, Tajani è ritenuto un valido “maggiordomo”, adatto a difendere il Cavaliere da eventuali colpi provenienti da Bruxelles: «Berlusconi è traumatizzato da quello che accadde nel 2011, cioè dall’intervento di poteri massonici molto forti, che a suo tempo lo hanno defenestrato con le buone e con le cattive». E’ ancora traumatizzato, l’uomo di Arcore, «dalla delegittimazione che poteri forti e fortissimi gli hanno imposto». Secondo Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela il ruolo della supermassoneria sovranazionale nel massimo potere mondiale, «oligarchie massoniche internazionali stanno valutando la possibilità di completare questa rilegittimazione di Berlusconi nel quadro di un governo di neo-solidarietà nazionale. A questo – aggiunge – sono funzionali anche le vicende di violenza politica, gli accenni di scontri tra neofascisti e antifascisti squadristici, che ci ricordano gli anni di piombo». C’è un clima strano, avverte Magaldi: da un lato si sostiene che bisogna «accompagnare la presunta crescita che sarebbe iniziata (ma che non c’è)», e dall’altro, sotto sotto, Pd e Forza Italia si strizzano l’occhio accampando «ragioni di argine rispetto al populismo, che – dicono – potrebbe diventare feroce, sfociando in violenza aperta».Anche per questo, da tempo, lo stesso Berlusconi «cerca di riconquistare una qualche forma di credibilità, o di addirittura di avallare l’idea che sia meglio lui, in fondo, di quei “guastafeste teppistoidi” del Movimento 5 Stelle, che sono i nuovi “barbari” nella neo-narrazione berlusconiana». In realtà non ci sono barbari, sottolinea Magaldi, e Tajani «sta solo facendo il suo compitino». Purtroppo i politici italiani sono talmente ininfluenti che non sono stati capaci nemmeno di assicurare a Milano la briciola dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco: «E’ un’Italia che pesa pochissimo, eppure ha in Tajani un alto rappresentante in sede europea: se non è in grado di fare granché per l’Italia lì, figuriamoci da primo ministro». Ma niente paura: «Non credo che ci saranno le condizioni per cui Tajani possa ricevere l’incarico da Mattarella, né credo che l’incarico sarà offerto a Di Maio». Delusione 5 Stelle: «E’ indice di trasparenza la decisione di presentare in anticipo la lista di ministri in pectore, ma perché reclutare solo tecnici? Professori, magistrati e militari dovrebbero fare il loro mestiere, non i ministri. Non c’era personale politico adeguato? Che la società civile sia meglio della società politica è un’idea antidemocratica, sdoganata da Berlusconi».Per Magaldi, il destino che ci attende è ancora una volta quello delle larghe intese: «Una prospettiva esiziale, per il popolo italiano. Non abbiamo bisogno di ulteriori governicchi come quelli di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, che hanno semplicemente accompagnato la decadenza dell’Italia in nome di presunti obiettivi superiori, guidati dalla mano autorevole degli “illuminati” reggitori di quest’Europa matrigna». Liste elettorali alla mano, «tutto dovrebbe continuare come prima». Cioè malissimo, per l’Italia. «Da qualche decennio c’è chi lavora in modo verminoso, proprio come vermi che rosicchino dall’interno, per rendere le istituzioni democratiche imbelli e anche poco gradite ai cittadini», ribadisce Magaldi. «Tutti capiscono che queste istituzioni ripiegate su se stesse sono in realtà un’élite reazionaria, che ci ha proiettato in un incubo post-democratico. Il modello Palme? Serve anche per arginare questo tumore». Il Movimento Roosevelt ha dato il suo “endorsement” a pochi, selezionati candidati: come Pino Cabras a Paolo Margari (5 Stelle), Simone Orlandini (Lega), Felice Besostri e Chiara Mariotti (“Liberi e Uguali”). «Poi ci sono altri candidati a noi vicini: una volta in Parlamento – dice Magaldi – vigileranno per impedire manovre antidemocratiche». Indicazioni generali di voto, tranne che per i candidati “amici”? «Scheda bianca o nulla, oppure astensionismo». Sperando di poter, domani, “votare” per Olof Palme.Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».
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Brutte notizie: la finanza-killer non teme le elezioni italiane
Dal primo gennaio 2018, la Borsa di Milano ha fatto meglio di quelle dei principali paesi europei (Francia, Germania e Spagna inclusi). E a una settimana dal voto, «il mercato non si è ancora accorto che in Italia ci saranno le elezioni». Oppure «pensa che non siano un problema». Ha ragione? Niente di più facile, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”: il potere finanziario è convinto che dalle elezioni del 4 marzo uscirà l’ennesimo governo “responsabile”, cioè sottomesso all’oligarchia dominante. Certo, «le capacità predittive dei mercati non si sono dimostrate particolarmente spiccate in occasione di tornate elettorali», quindi in realtà «nessuno sa cosa uscirà dalle urne e quali combinazione di partiti sosterrà il prossimo governo». Ma sappiamo però che uno degli scenari possibili è una vittoria dei 5 Stelle – in teoria preoccupante per gli investitori? Non è così, a quanto pare. Anche perché, negli ultimi anni, «le votazioni che hanno disturbato davvero i mercati sono state quelle che hanno messo in discussione l’Unione Europea. Il referendum sulla Brexit e le elezioni francesi con un partito dichiaratamente anti-euro al ballottaggio hanno lasciato il mercato sospeso per mesi. È questa la ragione per cui a nessuno importa delle elezioni italiane: perché né Berlusconi, né il Pd, né il Movimento 5 Stelle sono anti-euro o anti-Europa».Tutto il resto non conta, scrive Annoni, perché la politica economica italiana viaggia sul “pilota automatico” delle decisioni europee. Una crisi del debito italiano? «E’ inconcepibile se l’Unione Europea entra in campo, come ampiamente dimostrato nel 2012 con l’intervento di Draghi». Viceversa, una crisi del debito italiano è il prodotto dell’Unione Europea, «nella misura in cui impone la sua politica, l’austerity, a un governo riottoso», oppure se “produce” un riequilibrio dei suoi rapporti interni a danno di uno dei suoi membri. «L’unica vera variabile che interessa ai mercati – sottolinea Annoni – è se ci sia un governo che, minacciando lo status quo europeo, inneschi la reazione dell’establishment continentale contro l’Italia, o se lo status quo venga minacciato da un governo anti-euro». L’Europa, insiste l’analista, «è in grado di provocare o fermare una crisi italiana in qualunque momento, a prescindere dalla performance economica del nostro paese». Basta poco: per esempio, «imporre un rientro del debito in un contesto economico globale magari difficile». Oppure, «imporre alle banche italiane di liberarsi dei Btp o un qualsiasi altro innesco, dato che l’Italia non ha più sovranità monetaria e bancaria».A far traballare il paese «basta, per esempio, cominciare a dichiarare ai quattro venti che l’Italia è un problema». Sarebbe sufficiente a far capire ai “mercati” l’aria che tira, e quindi «far partire una crisi del debito e poi “risolverla” con l’austerity dopo un bel bagno in Borsa». Oppure «basta dire che l’euro verrà difeso a ogni costo». Quello che è interessante, osserva Annoni, è che «nemico del “mercato” in quanto nemico dell’establishment europeo non è solo chi è contro l’euro, ma anche chi vuole riformare nella sostanza l’Europa, in questo minacciando gli attuali equilibri». Se un governo italiano “europeista” ma coraggioso attaccasse il surplus commerciale tedesco o l’austerity, rivendicasse più investimenti in infrastrutture o denunciasse la catastrofe sociale della disoccupazione greca, «anche in questo caso quello che accadrebbe nella sostanza sarebbe una minaccia per chi oggi controlla l’Europa e incassa i dividendi». E anche in questo caso, aggiunge Annoni, sarebbe ovvio aspettarsi «una reazione per mantenere gli equilibri attuali», che hanno palesemente dei vincitori e dei perdenti, in quest’Europa teoricamente unita e in realtà mai così ferocemente divisa, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Qualsiasi accenno di contestazione alla gestione Ue costerebbe carissimo al nostro paese, in prima battuta: «La reazione dell’establishment europeo passerebbe, inizialmente, per i mercati finanziari contro l’Italia», sostiene Annoni. Ma il mercato finanziario – cioè il vero padrone di qualsuasi decisione importante – è convinto che dalle prossime elezioni italiane non uscirà niente che possa cambiare gli equilibri europei. «Speriamo che sbagli, perché non è un bene per l’Italia», conclude Annoni. «E su questo fronte ci dovrebbero essere sia i populisti anti-euro che gli europeisti che vogliono cambiare l’Europa dando all’Italia, nel processo, un ruolo diverso». Ma difficilmente sbaglia, il “mercato”, se resta così tranquillo di fronte alla scadenza elettorale italiana: probabilmente pensa di conoscere i suoi polli. Non è il referendum sulla Brexit, e nel Belpaese non c’è in giro nessuna Marine Le Pen. I volenterosi che vorrebbero “correggere” l’Unione Europea? Qualche nome, qua e là, ma nelle seconde file. Nulla che impensierisca i gestori della crisi nella quale viene fatta sprofondare l’Italia, dove – non a caso – l’astensionismo sembra apprestarsi a far registrare il suo record storico.Dal primo gennaio 2018, la Borsa di Milano ha fatto meglio di quelle dei principali paesi europei (Francia, Germania e Spagna inclusi). E a una settimana dal voto, «il mercato non si è ancora accorto che in Italia ci saranno le elezioni». Oppure «pensa che non siano un problema». Ha ragione? Niente di più facile, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”: il potere finanziario è convinto che dalle elezioni del 4 marzo uscirà l’ennesimo governo “responsabile”, cioè sottomesso all’oligarchia dominante. Certo, «le capacità predittive dei mercati non si sono dimostrate particolarmente spiccate in occasione di tornate elettorali», quindi in realtà «nessuno sa cosa uscirà dalle urne e quali combinazione di partiti sosterrà il prossimo governo». Ma sappiamo però che uno degli scenari possibili è una vittoria dei 5 Stelle – in teoria preoccupante per gli investitori? Non è così, a quanto pare. Anche perché, negli ultimi anni, «le votazioni che hanno disturbato davvero i mercati sono state quelle che hanno messo in discussione l’Unione Europea. Il referendum sulla Brexit e le elezioni francesi con un partito dichiaratamente anti-euro al ballottaggio hanno lasciato il mercato sospeso per mesi. È questa la ragione per cui a nessuno importa delle elezioni italiane: perché né Berlusconi, né il Pd, né il Movimento 5 Stelle sono anti-euro o anti-Europa».
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Euro e bugie: Grillo ha illuso e tradito gli italiani indignati
Ricerca: “Genealogia di un rincoglionimento”. Definizione di rincoglionimento: “Rendere qualcuno imbecille, incapace di nuocere”. Fenomenologia di un rincoglionimento: nel maggio 2014 Beppe Grillo dichiara: «Il Fiscal Compact è una follia. Noi non abbiamo firmato un cazzo, andiamo in Europa e il Fiscal Compact glielo strappiamo in faccia davanti alla Merkel». Gli italiani si svegliano e s’indignano. Finalmente un politico che dice pane al pane e vino al vino. Nel dicembre 2014, Beppe Grillo specifica: «Riprendiamoci la sovranità monetaria e usciamo dall’incubo del fallimento per default. Per non finire come la Grecia. Fuori dall’euro o default». Gli italiani esultano: c’è vita intelligente nell’Europa deficiente. Nel febbraio 2015, Grillo chiarisce: «Il premier sta eliminando tutte le tutele di legge che ci proteggono dalla colonizzazione dei poteri forti, cedendo completamente la sovranità nazionale agli euroburocrati senza legittimazione». Gli italiani non stanno più nella pelle: ecco un “hombre vertical” che mette i dittatori a novanta gradi. Nel maggio 2015, Beppe Grillo sentenzia: «Di euro si muore».«Il primo paese che uscirà dalla trappola dell’euro dimostrerà che è solo una zavorra che costringe a sacrificare pensioni, diritti dei lavoratori ed economie nazionali al pagamento di interessi ai paesi creditori del Nord Europa, Germania in primis. L’unico loro obiettivo. Fuori dall’euro, quindi, per ritornare a vivere». Gli italiani non credono alle loro orecchie: allora è tutto vero, un leader ci indica la via per scappare dall’eurocrazia. Nel luglio 2015, Beppe Grillo ci va giù duro: «Guy Verhofstadt (il leader dell’Alde) è il politico che più incarna l’eurostatocentrismo, dentro al Parlamento Europeo». L’euforia degli italiani è alle stelle (cinque): mai nessuno aveva osato tanto contro la burokratura comunitaria. Gennaio 2017: Grillo chiede e ottiene dagli iscritti, con votazioni on line, il consenso all’ingresso nel gruppo dell’Alde di Guy Verhofstadt. Gli italiani cominciano ad avvertire un lieve giramento di capo.Nel settembre 2017, a Cernobbio, il candidato premier grillino Di Maio dichiara: «Il referendum sull’euro va usato come peso contrattuale e come via d’uscita nel caso in cui i paesi mediterranei non dovessero essere ascoltati in sede europea, ma noi non siamo contro la Ue». Gli italiani faticano a raccapezzarsi e a mantenere l’equilibrio. Nel gennaio 2018, da Bruno Vespa, Di Maio enuncia: «Io non credo sia più il momento per l’Italia di uscire dall’euro perché l’asse franco-tedesco non è più così forte». Gli italiani sono definitivamente sedati: incapaci di nuocere. A quel punto, passa Di Battista e – alla domanda se i 5 Stelle riusciranno a governare – risponde: «Io non lo so, perché gli italiani li vedo molto rincoglioniti». E a un trenta per cento circa di italiani viene un dubbio amletico: «Se rincoglioniti si diventa, coglioni si nasce?».(Francesco Carraro, “Rincoglioniti si diventa”, da “Scenari Economici” del 12 febbraio 2018).Ricerca: “Genealogia di un rincoglionimento”. Definizione di rincoglionimento: “Rendere qualcuno imbecille, incapace di nuocere”. Fenomenologia di un rincoglionimento: nel maggio 2014 Beppe Grillo dichiara: «Il Fiscal Compact è una follia. Noi non abbiamo firmato un cazzo, andiamo in Europa e il Fiscal Compact glielo strappiamo in faccia davanti alla Merkel». Gli italiani si svegliano e s’indignano. Finalmente un politico che dice pane al pane e vino al vino. Nel dicembre 2014, Beppe Grillo specifica: «Riprendiamoci la sovranità monetaria e usciamo dall’incubo del fallimento per default. Per non finire come la Grecia. Fuori dall’euro o default». Gli italiani esultano: c’è vita intelligente nell’Europa deficiente. Nel febbraio 2015, Grillo chiarisce: «Il premier sta eliminando tutte le tutele di legge che ci proteggono dalla colonizzazione dei poteri forti, cedendo completamente la sovranità nazionale agli euroburocrati senza legittimazione». Gli italiani non stanno più nella pelle: ecco un “hombre vertical” che mette i dittatori a novanta gradi. Nel maggio 2015, Beppe Grillo sentenzia: «Di euro si muore».
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Voto inutile, chiunque vinca: l’Italia non deve svegliarsi
La crisi è sistemica – europea, mondiale – mentre le elezioni restano un fenomeno soltanto atmosferico, stagionale: se piove, si apre l’ombrello in attesa che passi il maltempo (che non passerà). Nulla di importante è alla portata dell’elettore italiano informato e consapevole, rassegnato all’irrilevanza. Chi si candida a governare il paese non ha soluzioni alternative al declino, presentato come squallida normalità. Le liste che invece mettono il dito nella piaga – tantissime, di ogni colore – devono munirsi di telescopio: per avvistare non certo Palazzo Chigi (missione impossibile), ma solo il miraggio di un seggio in Parlamento, da cui eventualmente riproporre, col megafono, la loro denuncia destinata a non essere raccolta da nessuno, né aula né sui grandi media. Chi votare, dunque? E soprattutto: perché? Per quale motivo andare al seggio elettorale, già sapendo che – sondaggi alla mano – neppure la coalizione data in vantaggio, il centrodestra, raccoglie forze stabili e coese? Salvini e Meloni conservano almeno la memoria della loro critica alla gestione Ue, mentre il loro capo Berlusconi – che da un lato propone la Flat Tax – dall’altro rassicura Bruxelles: giura che non toccherà il mortale tetto di spesa del 3%, imposto dai burocrati del rigore, i maggiordomi agli ordini dei grandi poteri economici che hanno sprofondato l’Italia nel disastro della disoccupazione di massa, portandole via milioni di posti di lavoro e 450 milardi di euro in soli tre anni.Stessa musica a casa Pd, dove restano tabù i dogmi di Maastricht che sono all’origine della tragedia, la decadenza strutturale del made in Italy. Idem i 5 Stelle, che non sono corresponsabili della catastrofe ma si stanno attrezzando: propongono un taglio fantascientifico, l’amputazione del 40% del debito pubblico, cioè della spesa strategica per l’economia. Quali sono i paesi, storicamente, con il maggior debito statale? Stati Uniti e Giappone. Il problema è dunque il debito o la moneta in cui è denominato? La moneta, ovvio. Quindi i 5 Stelle cosa contestano, il debito o la moneta? Il debito, purtroppo: nulla deve cambiare. Deve restare in piedi il paradigma, falso, che vuole lo Stato in ginocchio, costretto a privatizzare per fare cassa, taglieggiando i contribuenti. Risparmi erosi, aziende senza crediti, dipendenti senza lavoro, studenti senza futuro, coppie senza figli. Ce lo chiede l’Europa: e noi all’Europa, ancora una volta, rispondiamo che va bene così. Siamo contenti di sprofondare. Felici, ancora una volta, di non poter scegliere – alle urne – nessuna opzione alternativa alla rassegnazione sistemica, alla resa di fronte a uno schema che punisce l’Italia come nazione, come società, come sistema produttivo, come partner europeo colpevole di esistere.L’Italia ha tante colpe, in effetti: è un paese ammirato, invidiato e detestato perché potenzialmente ricchissimo, creativo, ingegnoso, padrone di un giacimento culturale senza pari al mondo, proteso nel cuore strategico del Mediterraneo. Guai se dovesse svegliarsi, il paese che seppe risorgere dalle macerie della guerra per diventare la quarta potenza industriale del pianeta, nonostante i suoi tumori endemici (mafia, corruzione, evasione fiscale). Guai, se l’Italia risvegliata mandasse a stendere Bruxelles e il suo 3%, Francoforte e la sua moneta privata, Berlino e la sua cancelliera privatizzata. Per questo sono sempre così delicate, per l’oligarchia dominante, le elezioni italiane: è fondamentale che l’Italia resti in letargo, in coma farmacologico. Faccia come crede, purché voti Berlusconi, Renzi o Di Maio. Il risultato, per Bruxelles, è già in cassaforte: chiunque prevalga, di quei tre, non impensierirà nessuno dei nemici dell’Italia. Il voto-contro, per chi alle fiabe non crede più? Niente paura: sarà disperso in mille rivoli, nessuno dei quali (dicono i sondaggi) raggiungerà neppure l’anticamera del Parlamento. In più, nessuno dei maggiori candidati avrà i numeri per governare. Due sole ipotesi: larghe intese o nuove elezioni. Nulla che, in ogni caso, riguardi gli italiani stanchi di dormire, e di vedere il loro paese trattato come un malato terminale ingombrante, in parte ancora ricco. Un malato da spolpare fino all’ultimo, da tenere in vita solo per evitare l’imbarazzo del funerale.La crisi è sistemica – europea, mondiale – mentre le elezioni sembrano un fenomeno innocuo e soltanto atmosferico, stagionale: se piove, si apre l’ombrello in attesa che passi il maltempo (che non passerà). Nulla di importante è alla portata dell’elettore italiano consapevole, rassegnato all’irrilevanza. Chi si candida a governare il paese non ha soluzioni alternative al declino, presentato come squallida normalità. Le liste che invece mettono il dito nella piaga – tantissime, di ogni colore – devono munirsi di telescopio: per avvistare non certo Palazzo Chigi (missione impossibile), ma solo il miraggio di un seggio in Parlamento, da cui eventualmente riproporre, col megafono, la loro denuncia fatalmente pletorica, destinata a non essere raccolta da nessuno, né in aula né sui grandi media. Chi votare, dunque? E soprattutto: perché? Per quale motivo trascinarsi fino al seggio elettorale, già sapendo che – sondaggi alla mano – neppure la coalizione data in vantaggio, il centrodestra, raccoglie forze stabili e coese? Salvini e Meloni conservano almeno la memoria della loro critica alla gestione Ue, mentre il loro capo Berlusconi – che da un lato propone la Flat Tax – dall’altro rassicura Bruxelles: giura che non toccherà il mortale tetto di spesa del 3%, cioè la camicia di forza imposta dai burocrati del rigore, i maggiordomi agli ordini dei grandi poteri economici che hanno sprofondato l’Italia nel disastro della disoccupazione di massa, portandole via milioni di posti di lavoro e 450 miliardi di euro in soli tre anni.
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Magaldi: Italia da rifare, ma non con questi politici venduti
«Magari fosse un pericolo per l’establishment, quel damerino di Di Maio», che invece ha tutta l’aria del bravo ragazzo innocuo. Renzi e Berlusconi concentrano su di lui i loro strali? Ovvio: fabbricando un nemico apparente, tentano di accreditarsi come politici autorevoli, in grado di cambiare il paese. Peccato che, «mentre i 5 Stelle al massimo hanno malgovernato Roma», il Pd e il centrodestra hanno a lungo “sgovernato” l’Italia: «Perché mai, in tutti questi anni, non hanno fatto nemmeno una delle strabilianti cose che adesso promettono, in campagna elettorale? Lo spettacolo che offrono è patetico». Ma c’è poco da ridere, avverte Gioele Magaldi a “Colors Radio”: la scontata non-vittoria di nessuno dei tre blocchi maggiori «è esattamente il risultato atteso e auspicato dalla supermassoneria reazionaria, interessata ad avere in Italia l’ennesimo governo debole e precario, sorretto da una maggioranza parlamentare friabile e quindi ancora più manipolabile e sottomesso ai grandi interessi economici sovranazionali, quelli che tengono in scacco l’intera Europa». Il peggiore degli scenari? Una replica del pessimo governo Letta, «creatura di quel “magnifico” oligarca che è stato Giorgio Napolitano». La risposta? «Popolare: di fronte all’inciucio di primavera, gli italiani faranno bene a chiedere nuove elezioni subito, per smascherare questa classe politica giunta al capolinea».
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Magaldi: elezioni-farsa, poi finalmente toccherà agli italiani
Preparatevi all’ultima farsa dei morti viventi: fingono di candidarsi per governare il paese, ben sapendo che non ci proveranno neppure, perché occuparsi dell’Italia significa sfidare Bruxelles. Il loro unico obiettivo? Tentare di salvare la poltrona, col terrore di non riuscirci: la coperta delle larghe intese è troppo stretta, in tanti resteranno al freddo e fatalmente daranno filo da torcere al governicchio che Mattarella proverà comunque a mettere in pista, per tirare a campare ancora un po’. Tradotto: «Queste elezioni saranno senza vincitori e daranno vita a un esecutivo dal respiro corto, un ectoplasma come il governo Letta o quello di Gentiloni». Dopodiché, tempo scaduto: sarà la fine, per questi partiti che oggi promettono di avere ancora un futuro davanti a sé. «E lo sanno, che è l’ultima fermata», perché poi finiranno i residui scampoli di illusione, dalla chimera Renzi al surreale Berlusconi. Tutti a casa, e palla al centro: toccherà finalmente agli italiani, dopo tanto tempo. Ne è convinto Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, osservatore ravvicinato della politica nazionale ed europea. Pronostico: la crisi, sempre più feroce, indurrà la popolazione a scendere in campo direttamente, occupandosi del proprio destino. Obiettivo: un cambio radicale di paradigma. Giù le tasse, fine dell’austerity, stop ai trattati-capestro dell’Ue, recupero della sovranità finanziaria nazionale.Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi offre una visione precisa dello scenario che si va preparando. «Punto primo: nessuno dei tre blocchi vincerà le elezioni, nessuno sfonderà e nemmeno crollerà». In altre parole, si prefigura la peggiore delle prospettive possibili: «Il centrodestra si illude fare mirabilie sull’onda del voto siciliano ma resterà deluso, così come Salvini e la Meloni che, in ossequio all’alleanza elettorale con Berlusconi, si scoprono ogni giorno più moderati». Più in calo il clan renziano del Pd, che però non è ancora pronto a rottamare il leader, «anche solo per una questione di poltrone da mantenere». I 5 Stelle? «E’ vero che molti militanti sono delusi dalle perfomance dei dirigenti, ma intanto sono curiosi di vedere come se la caverà di Maio, che comunque in nessun caso sarà premier». Governo tecnico? Giammai: «Gli italiani si sono “vaccinati” con Monti, hanno imparato che i tecnocrati di quel calibro sono ancora meno trasparenti dei politici: obbediscono a interessi inconfessabili. E Mattarella, che magari non brilla di molte virtù, non ha però la protervia di Napolitano: incaricherà una figura incolore, destinata a durare poco».Nel frattempo, si augura Magaldi, gli italiani apriranno gli occhi: «Per anni hanno votato politici che baravano sistematicamente: si candidavano a rimettere in piedi il paese, sapendo benissimo che invece non avrebbero contato nulla, di fronte ai poteri forti internazionali». Lo stesso Renzi si è limitato a fingere di fare le riforme che Berlusconi aveva solo promesso per vent’anni, e i 5 Stelle vanno alle elezioni senza un programma di governo per l’Italia. Poi ci sono i cespugli, più o meno imbarazzanti, come “Liberi e Uguali”, con Pietro Grasso «intronato da quattro amici al bar». E la Bonino, che ottiene il simbolo da Tabacci per evitare di raccogliere le firme per candidarsi? «Stupisce un simile gesto da una radicale: se fatta bene, proprio la raccolta firme è un’occasione per fare campagna elettorale in modo democratico, presentandosi ai cittadini». Tutti a casa? L’astensionismo sarà alto, le premesse ci sono tutte: nessuno dei concorrenti ha idee spendibili per risollevare le sorti del paese. «Ma restare a guardare non è una soluzione», sostiene Magaldi, che sta lavorando per la nascita di un nuovo soggetto politico, il Pdp (Partito Democratico Progressista), con una prospettiva rivoluzionaria: respingere il paradigma neoliberista del rigore.Finita la farsa elettorale del 4 marzo, dice, sotto la spinta dell’inesorabile crisi economica gli elettori smetteranno di regalare deleghe in bianco a partiti nei quali non hanno più alcuna fiducia. «Si sta avvicinando la fine di un ciclo, questo è certo: niente sarà più come prima. Dopo le elezioni 2018, tutti si accorgeranno che nessuno dei candidati ha gli strumenti per rappresentare degnamente l’Italia, affrontando la crisi in modo adeguato». Gli italiani? «Toccherà a loro decidere: se restare a casa ancora una volta, o partecipare direttamente alla costruzione di un futuro diverso, diametralmente opposto a quello sin qui confezionato dal finto centrosinistra e dal finto centrodestra, entrambi asserviti alle logiche sovranazionali, supermassoniche, che hanno orientato l’Unione Europea: un apparato burocratico “matrigno”, manovrato esclusiamente da interessi privati, industriali e finanziari». Nessuno lo dice apertamente, certo: anche per questo, il voto del 4 marzo sarà davvero una farsa. L’ennesima, l’ultima. Poi, dice Magaldi, qualcosa dovrà per forza succedere: questo paese, prima o poi, dovrà svegliarsi.Preparatevi all’ultima farsa dei morti viventi: fingono di candidarsi per governare il paese, ben sapendo che non ci proveranno neppure, perché occuparsi seriamente dell’Italia significa sfidare Bruxelles. Il loro unico obiettivo? Tentare di salvare la poltrona, col terrore di non riuscirci: la coperta delle larghe intese sarà troppo stretta, in tanti resteranno al freddo e fatalmente daranno filo da torcere all’inciucio, al governicchio che Mattarella proverà comunque a mettere in pista, per tirare a campare ancora un po’. Tradotto: «Queste elezioni saranno senza vincitori e daranno vita a un esecutivo dal respiro corto, un ectoplasma come il governo Letta o quello di Gentiloni». Dopodiché, tempo scaduto: sarà la fine, per questi partiti che oggi promettono di avere ancora un futuro davanti a sé. «E lo sanno, che è l’ultima fermata», perché poi finiranno i residui scampoli di illusione, dalla chimera Renzi al surreale Berlusconi. Tutti a casa, e palla al centro: toccherà finalmente agli italiani, dopo tanto tempo. Ne è convinto Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, osservatore ravvicinato della politica nazionale ed europea. Pronostico: la crisi, sempre più feroce, indurrà la popolazione a scendere in campo direttamente, occupandosi del proprio destino. Obiettivo: un cambio radicale di paradigma. Giù le tasse, fine dell’austerity, stop ai trattati-capestro dell’Ue, recupero della sovranità finanziaria nazionale.